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19 Ottobre 2009

Videointerviste

Alberto Campo Baeza e La Idea Construída

[videointervista]15_piba_campo_baeza.swf[/videointervista]

Già utilizzato da Alberto Campo Baeza come titolo di una sua recente raccolta di saggi, “La Idea Construída” è il nome dello spazio espositivo Pibamarmi, concepito dall’architetto spagnolo per l’edizione Marmomacc 2009. Il padiglione prende corpo a partire da due ispirazioni concettuali/temi progettuali fondanti: la composizione di un antiquarium archeologico e la valorizzazione della relazione pietra/luce attraverso un apporto luminoso dinamico e mutevole. Nella videointervista qui pubblicata, realizzata durante le giornate della fiera veronese, Campo Baeza descrive la sua opera che presenta all’esterno i pezzi di design Pibamarmi disposti in una galleria a muro, come reperti di una collezione di antichità accostati a calchi di sculture classiche ed ellenistiche prestati per l’occasione dall’Accademia di Belle Arti di Firenze; all’interno la struttura si offre invece ai visitatori come uno spazio vuoto, per la sosta e la meditazione, immerso nella penombra e segnato dal passaggio lento di fasci luminosi sulla superficie naturale del marmo di Carrara.

BIOGRAFIA ALBERTO CAMPO BAEZA
È nato a Valladolid ma ha “visto la luce” a Cadice, città di fondazione fenicio-romana nota come la più antica città dell’Occidente. Architetto e professore ordinario di Progettazione dal 1986, è stato direttore del Dipartimento di Progettazione della Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Madrid. Ha tenuto conferenze e corsi in numerose istituzioni culturali e formative a Boston, Buenos Aires, Chicago, Dublino, Ferrara, Firenze, Lisbona, Londra, Losanna, Lubiana, Milano, Monaco, Napoli, New York, Philadelphia, Roma, Stoccolma, Strasburgo, Tallin, Tolosa, Venezia, Weimar, Zurigo.
La sua opera è stata premiata più volte con prestigiosi riconoscimenti internazionali ed è stata oggetto di mostre monografiche nelle principali città spagnole come anche a Chicago, Francoforte, Londra, Lubiana, New York, Parigi, Sofia, Vicenza. Tra le sue realizzazioni si ricordano la Scuola a San Fermin (1985), la Casa Turegano a Madrid (1988), la Casa Gaspar a Zahora (1992), la Scuola Drago a Cadice (1992), il Centro di Innovazione Tecnologica Inca a Maiorca (1998), la Casa de Blas a Madrid (2000), la Sede della Caja De Ahorros a Granada (2001), gli Uffici del Servizio Sanitario ad Almeria (2002), la Casa Guerrero a Zahora (2005), l’Asilo Benetton a Treviso (2007). Suoi progetti di particolare rilievo come il Museo della Memoria Andalusa e una Piazza Attrezzata a Cadice sono attualmente in corso di realizzazione.
Alberto Campo Baeza è autore di numerosi contributi critici sull’opera di Mies va der Rohe, Tadao Ando e Lluis Barragan e di importanti scritti teorici di architettura, pubblicati a partire dal 1978 e selezionati nella sua recente raccolta di saggi intitolata “La Idea Construida” (2006). Nonostante l’intensa attività teorica e progettuale, Campo Baeza ha raccolto nella sua biblioteca personale più libri di poesia che di architettura; egli inoltre non possiede l’automobile, né il telefonino, né la televisione e neppure l’orologio, ma vive ugualmente felice.

a cura di Davide Turrini

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Alberto Campo Baeza
Pibamarmi

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18 Ottobre 2009

Eventi Flash

I nostri orribili meravigliosi clienti

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Vai alla videointervista Michele De Lucchi, un architetto per l’industria

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16 Ottobre 2009

Eventi Flash

RETAIL DESIGN

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LABORATORIO DI METODOLOGIE PER DEFINIZIONE DI PROGETTO
CORSO DI LAUREA IN INDUSTRIAL DESIGN AA. 2009-2010
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI FERRARA

Gruppo docente
prof. Alfonso Acocella
prof. Jacopo Piccione
prof. Andreas Sicklinger
arch. Angelo Argentesi
arch. Veronica Dal Buono
arch. Davide Turrini
arch. Valeria Zacchei

Il Design retail è il tema
«Le merci, dal momento in cui sono uscite dall’ambito della produzione artigianale e soprattutto a partire dalla Rivoluzione Industriale della metà dell’Ottocento, hanno evidenziato di essere soggette a un processo di progressiva “spettacolarizzazione”. Cioè a un processo di trasfigurazione dei caratteri puramente funzionali che consente loro di assumere dei precisi significati simbolici e culturali e soprattutto una seducente “aura”.
Per potersi spettacolarizzare, le merci hanno sviluppato la loro capacità di sucitare sorpresa presso gli individui. Hanno inoltre amplificato la loro natura di oggetti visibili, la loro particolare forma di comunicazione che procede per ostensione. Ma hanno, soprattutto, dovuto utilizzare le possibilità offerte da particolari luoghi, che hanno funzionato per essere dei veri e propri palcoscenici teatrali. È noto come lo spettacolo abbia sempre avuto bisogno di specifici luoghi per potersi esprimere: la commedia ha il teatro, la partita di calcio lo stadio, ecc. Anche lo spettacolo offerto dalle merci, pertanto è legato a luoghi precisi.(…)
Non è inopportuno, allora, chiedersi quali siano i rapporti che le merci intrattengono con le più importanti realtà di tipo spaziale che consentono loro di esercitare un ruolo spettacolare e comunicativo: i luoghi del consumo. (…) Luoghi intesi secondo un’accezione molto ampia, che va dalla bottega artigiana, al negozio, ai passages – le anticipatrici gallerie commerciali sviluppatesi a Parigi nel corso dell’Ottocento -, ai grandi magazzini e alle esposizioni universali, sino a quelle odierne “cattedrali del consumo” che sono rappresentate dai grandi centri commerciali. Per concludere con luoghi che in passato non avevano molto a che vedere con la cultura del consumo, ma che progressivamente sono stati pervasi da quest’ultima: alberghi, ristoranti, aereoporti, cinema, musei, parchi a tema ecc. »

Vanni Codeluppi, “La vetrinizzazione della società” p. 1 in Lo spettacolo delle merci, Milano, RCS, 2000, pp. 242.

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15 Ottobre 2009

Eventi Flash

SIC. Sostenibilità, l’Innovazione più Creativa.

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SIC. Sostenibilità, l’Innovazione più Creativa.
Idee e pratiche esemplari per costruire il futuro.

Il 21 e il 22 ottobre, a Milano, si parlerà di sostenibilità in maniera diversa: guardando alla qualità del progetto e ai valori del Made in Italy

Si può progettare il futuro delle nostre città, coniugando le esigenze di sviluppo sostenibile con la qualità e i valori del Made in Italy? come cambia, quindi, il rapporto tra committente e architetto? Cosa è e cosa sarà lo stile sostenibile?

Se ne parlerà il 21 e 22 ottobre a Milano, nell’ambito del ciclo di conferenze “SIC. Sostenibilità, l’Innovazione più Creativa. Idee e pratiche esemplari per costruire il futuro”, iniziativa promossa da Atelieritaliano che, dopo la partecipazione all’ultimo Salone del Mobile, (in cui ha inaugurato un laboratorio di idee sul tema Made in Italy e sostenibilità) continua il proprio impegno nel promuovere una nuova cultura del progettare, in cui innovazione significa innanzitutto qualità. La tappa milanese di SIC è la seconda, dopo 4 giornate veronesi che Atelieritaliano ha organizzato quest’anno durante Abitare il Tempo.
Come spiega Roberto Bianconi, amministratore delegato di Atelieritaliano e ideatore del convegno, “SIC, con un pizzico di ironia, riprende il latino dichiarando il proprio intento: SIC significa Così, e mette in luce la necessità dell’esperienza e dell’esempio per trovare lo slancio e la creatività nel fare. Senza dimenticare, inoltre, che l’evoluzione stessa della cultura si basa sulla conoscenza e sulla nuova interpretazione di quello che fanno gli altri”. Casi esemplari, dunque, da conoscere per mettere in moto anche un processo di innovazione che punta meno all’esibizionismo e più ai risultati.
Il 21 e 22 ottobre, quindi, SIC ospiterà studiosi e professionisti che con il coraggio di idee ed esperienze innovative propongono nuovi modi di pensare il futuro: da Francesco Morace, sociologo opinionista del Sole 24 Ore e fondatore di Future Concept Lab, a Philippe Daverio, intellettuale straordinario che ha costruito un nuovo modo di interpretare e divulgare la Storia dell’Arte; da Luca Molinari, brillante architetto e curatore di progetti di ricerca per la sostenibilità dell’architettura in Italia, a Raffaele Pugliese, docente di Composizione architettonica e urbana, che coordina un laboratorio di progettazione per valorizzare i Navigli in vista dell’Expo; da Angelo Micheli, docente IUAV, nonché collaboratore dello Studio De Lucchi e ideatore di un una nuova abitazione in legno che dialoga con la tradizione del lusso italiano, a Cesare Feiffer, docente di restauro all’università Roma Tre, nonché direttore della rivista Recupero e Conservazione.
Gli incontri si terranno presso la sede milanese di Atelieritaliano, in Ripa di Porta Ticinese 73, alle ore 18.00

Programma
Mercoledì 21 ottobre, ore 18.00

LA CITTA’ E IL FUTURO. IL PROGETTO COME STRUMENTO DI CONDIVISIONE
Philippe Daverio, critico d’arte
Angelo Micheli, architetto, studio aMDL
Raffaele Pugliese, docente di Composizione Architettonica e Urbana, Politecnico di Milano

Giovedì, 22 ottobre, ore 18.00
LO STILE SOSTENIBILE
Luca Molinari, architetto, editor sezione architettura per Skira
Francesco Morace, sociologo
Cesare Feiffer, docente di Restauro, Università degli Studi Roma Tre, direttore della rivista Recupero e Conservazione

Un’iniziativa di:
Atelieritaliano. Lo stile dell’innovazione nel contract.

Atelieritaliano è una società specializzata nel contract per progetti d’architettura e design. L’unione tra capacità artigianali e progettualità innovativa distingue Atelieritaliano come una delle migliori realtà del settore. I servizi offerti, dagli interventi più circoscritti ai progetti di contract, sono tutti in linea con il criterio della massima qualità e personalizzazione.
Oltre che sul proprio laboratorio, Atelieritaliano può contare infatti sulla collaborazione di numerosi artigiani d’eccezione e su una grande esperienza nella ricerca applicata ai materiali e alle loro tecniche di lavorazione. Tra i laboratori di ricerca sperimentali attivati fin dal 2002, anno di nascita della società, sono da sottolineare quelli dedicati a legno, pietra, metallo, e i più recenti organizzati per il recupero contemporaneo di antiche tecniche artigianali: mosaico, terrazzo alla veneziana, intarsio ligneo. Infine, il laboratorio interdisciplinare Wine & Design, che dal 2006 raccoglie idee e progetti su gusto, design e buongusto, coinvolgendo architetti, designer e filosofi in un dibattito sul rinnovamento della cultura del progetto.
Con “Senza Confini”, il progetto sperimentale per una nuova casa in legno, Atelieritaliano ha inaugurato durante il Fuori Salone 2009, una nuova linea di ricerca che ambisce alla contaminazione tra lusso e sostenibilità.

Soci fondatori: Albertini, BS Quarrysar Group, Contec Ingegneria, Menotti Specchia, Mk Style, Performance In Lighting, Stone Italiana, Zanini Porte
www.atelieritaliano.it

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14 Ottobre 2009

Design litico

Il design litico di Angelo Mangiarotti

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Variazioni (1966-71), vasi in marmo di Angelo Mangiarotti per Skipper, Henraux, Pedretti. (foto Davide Turrini)

L’attenzione sul design dell’oggetto in pietra appare oggi indebolita, in modo particolare nel nostro Paese dove invece è stata estremamente significativi dal secondo dopoguerra fino a tutti gli anni ’80 del secolo scorso, allorquando alcuni importanti progettisti si sono impegnati nell’ideazione di prodotti dall’alto valore formale e funzionale, connotati da una capacità espressiva contemporanea declinata attraverso processi tecnologici innovativi, nel più rigoroso rispetto delle caratteristiche della materia litica.
Emblematica di questa situazione è stata l’esperienza culturale e operativa di Officina, nata in Italia, a Pietrasanta, ma sviluppatasi in una prospettiva di contatti internazionali in cui si sono intrecciate le storie personali di Erminio Cidonio – a capo della sede apuo-versiliese della multinazionale dei lapidei Henraux per tutti gli anni ’60 del Novecento e guru di una breve ma intensa stagione di sintesi tra creatività e spirito imprenditoriale – con quella di critici militanti come Pier Carlo Santini, di galleristi orientati tra Roma e New York come Carla Panicali titolare della Marlborough ed, infine, con quella di designer e artisti del calibro di Arnaldo e Giò Pomodoro, Gastone Novelli, Alicia Penalba, Angelo Mangiarotti. A tale cantiere d’arte, con l’obiettivo di rinnovare e riqualificare l’oggetti in marmo, vengono invitati a lavorare artisti di ogni tendenza, che operano nella più ampia libertà, utilizzando forme estremamente complesse e processi tecnologici inabituali. La mostra collettiva Forme 67, che si tiene nel 1967 a Pietrasanta, è il risultato di tale attività e raccoglie prototipi di oggetti d’uso di Gino Casentino, Lorenzo Guerrini, Franco Libertucci, Francois Stahli, oltre che di Pomodoro, Novelli, Mangiarotti e della Penalba.
Nel fertile contesto che si delinea a partire dalle sperimentazioni di Officina prendono avvio singoli percorsi progettuali, come quelli di Mario Bellini, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Enzo Mari, Renato Polidori e Tobia Scarpa, che portano a consistenti risultati in termini di innovazione formale e tecnologica del prodotto e che ancora oggi rappresentano un riferimento metodologico e operativo vivo e attuale per eventuali ricerche presenti e future sul design dell’oggetto litico. Tra tutti questi percorsi quello di Angelo Mangiarotti è di particolare rilevanza per la quantità e la qualità dei progetti approdati ad un effettivo instradamento verso le linee produttive.

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Dettaglio di un tavolo Eros. (foto Davide Turrini)

Sin dagli esordi negli anni ’50, l’attività di Mangiarotti è contrassegnata da una particolare attenzione ai materiali e al problema della produzione industriale: ripercorrendo l’ampio catalogo di realizzazioni del progettista milanese nell’ambito dell’architettura, del design come anche della ricerca scultorea, emerge con evidenza un filo conduttore secondo cui la soluzione dei problemi funzionali, ergonomici e strutturali parte inevitabilmente dalla analisi di un dato formale e delle proprietà intrinseche della materia; Mangiarotti «arriva al design di prodotto attraverso l’architettura, più in particolare attraverso la prefabbricazione industriale e le tecniche di montaggio a secco, risolvendo i problemi di statica mediante l’ingegnerizzazione. L’oggetto principale del suo interesse è infatti l’industrializzazione: dalle tecniche dei vari sistemi di assemblaggio egli fa nascere moduli e giunti applicabili sia all’architettura che al design, specie al design destinato all’architettura d’interni […]. La sua logica di progetto trae fondamento dalla funzione e dall’uso dell’oggetto finale, la cui forma tuttavia non è il puro e semplice risultato di un razionalismo ortodosso, il frutto dell’uso razionale del materiale giusto e delle relative tecniche di costruzione. La logica mangiarottiana è molto più complessa e tiene conto anche di altri fattori, come la composizione fisica dei materiali, la quale influenza la forma che verrà alla luce. […] Un’altra caratteristica da ricordare è la capacità di Mangiarotti di esaltare l’aspetto sensuale degli oggetti attraverso la giusta scelta dei materiali, sostenuta da una sensibilità formale, intuitiva e fortemente espressiva che situa i suoi lavori, in egual misura, nell’ambito della razionalità e in quello della soggettività. Una delle qualità che fanno di lui un designer attuale è il suo dono di saper stare al passo con le tecniche più avanzate in uso nel campo della cultura materiale, lavorando per esempio sul taglio della pietra con l’ausilio di macchine a controllo numerico. Dalla sua capacità di applicare a un settore le conoscenze acquisite in un altro settore nasce una pratica trasversale che si estende a tutti i campi nei quali egli opera: ambiente, architettura, architettura d’interni, design di prodotto, arte»1.

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Disegno di Angelo Mangiarotti per il lavabo in marmo Lito 3

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Le opere di Mangiarotti diventano così di volta in volta, nei vari settori applicativi, modelli di riferimento per i loro aspetti di razionalità concettuale, di modularità assemblativa, di essenzialità e originalità formale. Per stare alla produzione in cui egli impiega i materiali litici nei vasi in marmo Variazioni (1971) il progettista si limita a schizzare la forma irregolare dell’impianto e affida alla capacità espressiva della fresatura artigianale l’interpretazione dell’oggetto solido finito. Le serie dei tavoli modulari Eros (1971), Incas (1978) e Asolo (1981), realizzate rispettivamente in marmo, pietra serena e granito, rappresentano l’apice della ricerca sui mobili con incastri a gravità, perfettamente calibrati alla scelta del litotipo impiegato che suggerisce particolari soluzioni, lavorazioni e finiture. Così Eros, il cui nome allude al giunto maschio-femmina, è una serie di tavoli dove i piani appoggiano su gambe tornite dalla sezione tronco-conica, in punti di giunzione ad asola aperta la cui forma è il risultato della logica elisione di quelle parti che non sopporterebbero la pressione dell’incastro. Nella serie Incas il disegno dell’incastro “asseconda la richiesta” della pietra serena di lavorazioni più semplici fatte di tagli lineari e spigoli retti; l’assemblaggio del piano con gli elementi di sostegno avviene poi, sempre per gravità, secondo un elementare schema trilitico. Asolo indaga infine le elevate caratteristiche di resistenza fisico-meccanica del granito in un design minimale a cui il progettista perviene attraverso un’approfondita conoscenza della materia impiegata; in questo caso infatti i tavoli presentano ripiani con due sole “asole” in cui si innestano due lastre/montanti dello stesso spessore; il bloccaggio del piano è determinato dalla forma trapezoidale dei montanti, l’inclinazione di questi ultimi aumenta inoltre la stabilità dell’insieme configurato come la pura enunciazione di un meccanismo statico-geometrico.

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Clizia, seduta in marmo di Angelo Mangiarotti. (foto Davide Turrini)

Nella seduta per esterni Clizia (1990) il progettista esplora poi le potenzialità delle lavorazioni con macchine a controllo numerico: da un unico blocco di marmo, attraverso sagomatori a filo CNC che consentono tagli precisi e complessi di pezzi special moulded, è possibile ottenere elementi di seduta dove il profilo superiore coincide con quello inferiore, riducendo scarti, costi e tempi di produzione. Le più avanzate tecnologie di taglio della pietra stanno alla base anche della concezione di una consistente serie di sculture realizzate da Mangiarotti nel corso di oltre vent’anni di ricerca e sperimentazione su corpi litici che sono riguardabili al contempo come opere scultoree astratte e come prototipi di pezzi di design, progettati razionalmente ed eseguiti grazie ad processi industriali. La scultura Cono-Cielo (1987), realizzata per il nuovo ingresso della Fiera di Marina di Carrara, è costituita dalla sovrapposizione di elementi tronco-conici di dimensioni decrescenti ricavati da un unico blocco di marmo delle dimensioni di 250x250x100 cm; la composizione è montata semplicemente sovrapponendo gli elementi i cui spessori e le cui inclinazioni vanno a diminuire verso l’alto e tendendo un cavo di compressione tra la base e il vertice della struttura. Anche le sculture Presenze, La Galleria e Il Percorso, tutte realizzate alla fine degli anni ’90 per Marina di Carrara, sono ottenute per scomposizione di un unico blocco marmoreo in più parti attraverso tagli liberi effettuati con macchine programmate a controllo numerico. La perfezione, la continuità e la fluidità dei tagli permettono di ottenere profili coincidenti tra masse contigue, contrapposizioni di corpi plastici, aggetti e arretramenti, effetti particolari di luce/ombra e vuoto/pieno.

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Sculture Variazioni (1996), ideate da Angelo Mangiarotti e realizzate in marmo con macchine a controllo numerico. (foto Davide Turrini)

La produzione scultorea di Mangiarotti è fatta quindi di oggetti ripetibili, assemblabili, che danno ancora una volta soluzioni a problemi strutturali, di incastro e di montaggio; i riferimenti alle forme pure di Arp e Brancusi sono chiari, come palese è il confronto che il progettista milanese cerca con le sperimentazioni di Max Bill, tuttavia le sculture mangiarottiane «non postulano equilibri preconcetti, bensì rivelano la ricerca di relazioni dinamiche, nella tensione tra energia, materia e spazio, nella dualità e interazione di interno ed esterno e di pieno e vuoto, in una condizione sempre attiva che non rinuncia alla razionalità della nostra cultura, ma ne nega l’assiomatica non verificabilità»2.

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Il tavolo litico Incas in mostra nel cortile della Casa del Mantegna a Mantova. (foto Davide Turrini)

L’opera di Mangiarotti alla Casa del Mantegna
Il 12 settembre scorso, nella Casa del Mantegna a Mantova, in concomitanza con il Festivaletteratura, si è aperta una mostra antologica dedicata all’opera dell’architetto e designer milanese. Attraverso 80 progetti l’allestimento ripercorre l’intera carriera di uno dei grandi maestri del progetto italiano del Novecento, ancora attivo ai giorni nostri, a quasi novant’anni. In mostra numerosi materiali originali provenienti dall’Archivio – Fondazione Angelo Mangiarotti di Milano, come gli emozionanti disegni a mano libera, i tanti modelli di studio, molte fotografie originali, oltre a diversi oggetti e alcune sculture.
Due le sezioni tematiche, corrispondenti ai due piani della Casa del Mantegna:
Al piano terreno, la sezione “Progetto come Scultura”. Angelo Mangiarotti, che negli ultimi vent’anni ha molto prodotto nel territorio puro della scultura, ha in realtà da sempre mostrato un approccio al progetto di architettura e di design libero e rigoroso insieme, fluido e matematico al contempo.
Al primo piano, la sezione “Progetto come Costruzione”, che indaga la particolare caratteristica di Mangiarotti – architetto di formazione ma ingegnere nell’anima – di immaginare sistemi costruttivi che permettano sviluppi infiniti e liberi delle architetture progettate. Accanto ai sistemi costruttivi prefabbricati (per i quali Mangiarotti è famoso in tutto il mondo), dai primi anni Sessanta (Facep del 1964 e U70 Isocell del 1969) fino alle ultime ipotesi di grandi strutture elaborate in anni recenti (S99 del 1999 e Monolite del 2000), non mancano i progetti di architetture d’eccezione, come la Chiesa Mater Misericordiae a Baranzate (1957) e il Padiglione per Esposizioni alla Fiera del Mare di Genova (1963).

Sede della mostra: Casa del Mantegna, Via Acerbi 47, Mantova
Durata: 12 settembre – 8 novembre 2009
Orario: dalle 10.00 alle 13,00 e dalle 15.00 alle 18.00 (lunedì chiuso)
Ingresso: Euro 5,00
Telefono: 0376360506
Catalogo: a cura di Beppe Finessi, Corraini Edizioni, Euro 24,00
Vai a: www.casadelmantegna.it

di Davide Turrini

Note
1 Francois Burkhardt, “Sul design” p. 220, in Beppe Finessi, Su Mangiarotti. Architettura Design Scultura, Milano, Abitare Segesta, 2002, pp. 240.
2 Luciano Caramel, “Sulla scultura” p. 238, in Beppe Finessi, op. cit.

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12 Ottobre 2009

Marmi Antichi

Porfido Verde Antico

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Roma, Museo Nazionale Romano. Tarsia in pietre dure e pasta vitrea con sfondo in Porfido Verde Antico.

«Non omnia autem in lapicidinis gignuntur, sed multa et sub terra sparsa, preziosissimi quidam generis, sicut Lacedemonium viride cunctisque hilarius».
(Plinio, N.H., 36, 11)

Così Plinio nella sua Naturalis Historia parlava di un materiale unico per storia ed aspetto, e famoso tanto che di lui si parlò come dello smeraldo di Laconia (come viene citato da Teofrasto), o Pietra di Laconia (Lucano), o krokeatis lithos, come viene ancor oggi denominato in Grecia. Pausania, scrittore latino, lo identificava molto probabilmente col nome di marmo Taigeto (dal nome del monte più alto presente nell’area estrattiva). O ancora, esso è conosciuto anche con i sinonimi romani di lapis lacedaemonius, di lacedaemonium (marmor) viride, nella Storia Naturale di Plinio (Plinio, N.H., 36, 55), ma anche semplicemente lacedaemonium nell’editto di Diocleziano dove viene citato come uno dei lapidei più costosi (ben 250 denari).
I romani lo chiamavano verde di Sparta, i bizantini marmo piganusio cioè di colore simile alla ruta. Forse è di età Medioevale la sua denominazione “Serpentino” poiché secondo i marmorari italiani la sua colorazione e la sua tessitura ricordava vagamente quella della pelle di alcuni serpenti. E ancora serpentino della stella, porfido verde antico, porfido verde di Grecia, poiché “Marmora non habent singularia nomina, sed vel ex coloribus qui eis insident, vel ex regionibus, in quibus nascuntur, nominantur marmor “ (Agricola, 1546).
Sicuramente questo materiale – come riporta il Lazzarini nel suo Poikiloi Lithoi, Versiculores Maculae: i Marmi colorati della Grecia Antica – colpì la fantasia di poeti e scrittori con la sua poliedricità; una pietra unica, di colore verde tendenzialmente scuro, ma anche giallo – verde, viola bruniccio. Porfirico per la presenza di individui cristallini verde chiaro o smeraldo di dimensioni variabili da millimetrici a centimetrici che talora tendono ad associarsi in glomeruli dall’aspetto stellato.
Quando pensiamo al porfido verde antico, quindi, dobbiamo rapportarci a tante pietre di aspetto differente, sfaccettature molteplici di un unico materiale, geneticamente frutto di un metamorfismo che si è sovrimposto al materiale magmatico originario, e che si è estrinsecato in maniera più o meno eterogenea ed evidente in aree differenti “sed vel ex coloribus qui eis insident, vel ex regionibus, in quibus nascuntur“che ha dato luogo ad una grande varietà di materiali tra loro simili ma mai uguali. Molte infatti sono le varietà incontrate sui mercati, tutte uniche e ben riconoscibili anche se chiaramente membri di una unica famiglia di cui mantengono un imprimatur inconfondibile: dall’olotipo, al Porfido Vitelli, a quello verde antico risato, alla varietà bruno –violacea, a quello agatato a quello bruno e a quello bruciato, pare falso storico ottenibile per riscaldamento del porfido verde.
È un materiale sicuramente affascinante e di gran carattere che grazie alla sua genesi particolare e alla non facile reperibilità non ha mai inflazionato il mercato, ammantandosi nei secoli di sempre nuovi e più profondi significati simbolici. E se inizialmente veniva usato per simboleggiare i popoli “barbari” che abitavano le aree da dove proveniva, per traslazione concettuale ha finito per rappresentare l’imperatore che li aveva sottomessi, il suo potere, la sua grandezza: quello che è accaduto per tutti i materiali lapidei di particolare bellezza cromatica provenienti dai confini dell’impero che venivano scelti a rappresentare solamente l’imperatore ed i membri della sua famiglia.

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Aspetto tal quale del materiale visto allo stereomicroscopio a 7 ingrandimenti.

Descrizione macroscopica
È un materiale cristallino costituito da una massa di fondo criptocristallina di colore verde scuro all’interno della quale sono presenti individui di colore verde chiaro da millimetrici a centimetrici. Tali individui si presentano talora in associazioni glomeroporfiriche a generare covoni a stella. Sono presenti rare venature di colore verde, serrate.
Non si notano porosità superficiali, mentre solo localmente il materiale mostra una leggera variazione cromatica che risulta essere vagamente tendente al giallastro.

Descrizione microscopica
Litotipo ipocristallino, cioè costituito sia da cristalli e sia da vetro, afanitico poiché la massa di fondo non è riconoscibile ad occhio nudo, criptocristallino, nel cui interno sono immersi fenocristalli caratterizzati da grana grossolana in quanto possono raggiungere anche dimensioni centimetriche.
I costituenti della roccia sono:
Feldspati sia presenti come fenocristalli e sia dispersi nella massa di fondo. I fenocristalli dispersi nella massa di fondo sono caratterizzati da forme euedrali con spigoli prevalentemente arrotondati o sub-arrotondati. Si presentano geminati, fratturati, localmente con aspetto cribroso, talora associati in tessiture sferulitiche e/o variolitiche, a generare covoni a stella. Essi sono particolarmente alterati e con aspetto diffusamente terroso che spesso maschera le loro tipiche geminazioni. Localmente sono caratterizzati da plaghe di clorite, ma ai forti ingrandimenti si apprezza anche la presenza di una diffusa microgranulazione, probabilmente sempre di natura cloritica, che vi conferisce una colorazione verde. Alcuni individui presentano locali strutture coronitiche che, ai massimi ingrandimenti, sembrano essere caratterizzate da strutture bollose in fase di ricristallizzazione.
Talora essi sono attraversati da fratture che non si presentano mai beanti ma che sono ricementate prevalentemente da epidoto di tipo pistacite ed in minima parte da quarzo e da microcristalli allungati, aciculari microscopicamente non definibili. I feldspati sono verosimilmente presenti anche nella massa di fondo, riconoscibili solo per il loro aspetto prismatico allungato, anche se su di essi non è effettuabile alcuna indagine microscopica. L’analisi diffrattometrica effettuata sul materiale a conferma della loro composizione, definisce come essi siano costituiti prevalentemente da plagioclasi con feldspati in netto subordine. Sia l’analisi diffrattometrica e sia la determinazione del contenuto in Anortite sui geminati Albite, conferma una composizione Albite/Oligoclasio.
Clorite: è presente sia in plaghe all’interno di amigdale nella massa di fondo, ma anche sulle superfici degli individui feldspatici, e come minute microgranulazioni sia nella massa di fondo e sia nei feldspati a cui conferiscono una tenue colorazione verdina.
Epidoto: è presente in ammassi di colore verde pistacchio (Pistacite), prevalentemente come individui di ricristallizzazione all’interno delle fratture.
Quarzo: raro, prevalentemente come prodotto di ricristallizzazione (calcedonio) di alcune bolle vetrose.
Ematite: come microgranulazione di colore rossastra presente nella massa di fondo
Diffrattometricamente si è verificata anche la presenza di tracce di Pumpellyte.
La massa di fondo, difficilmente analizzabile anche ai massimi ingrandimenti, è costituita da una diffusa granulazione di minerali opachi che presentano localmente una colorazione rossastra. Si notano inoltre individui presumibilmente feldspatici e minute granulazioni verdi probabilmente associabili a Clorite, Pistacite e Pumpellyte. Nella massa di fondo sono inoltre presenti amigdale internamente ricristallizzate e strutture bollose.

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Dall’alto: microscopio a luce polarizzata, s.s., 2I, N incrociati, feldspati dall’aspetto alterato e con spigoli sub arrotondati; microscopio a luce polarizzata, s.s., 10I, N//, feldspati immersi in una massa di fondo localmente sferulitica, non definibile microscopicamente, ed una porosità cloritizzata.

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La caratteristica della roccia lascia ipotizzare si tratti di un materiale magmatico di composizione Basaltico/Andesitico, anche se la composizione mineralogica a Pumpellyte, Clorite ed Epidoto lascia chiaramente intendere come il materiale sia sottoscorso ad un evento metamorfico. La roccia quindi può essere definita META DIABASE di composizione Basaltico-Andesitico.

Analisi difrattometrica del materiale tal quale

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Legenda (*)
••• fase prevalente (40-100%)
•• fase rilevante (10-40%)
• fase subordinata (5-10%)
tr fase in tracce (1-5 %)
— fase assente (<1 %) (?) fase probabile (*) Indicazioni puramente orientative a causa delle numerose varietà e tipologie di materiale presenti in natura.

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Roma, chiesa di San Cesareo in Palatio. Altare con grande rota in Porfido Verde Antico.

Provenienza e geologia
Il Porfido Verde Antico, anche detto Porfido Verde di Grecia, o Serpentino è, tra i marmi antichi, uno dei più famosi. Esso proviene dal Peloponneso e precisamente dal distretto di Krokea in prossimità della collina Psephì ubicata tra i villaggi di Stefanià e Krokea medesima.
L’uso della parola “proviene” è stata una scelta mirata e dovuta, in quanto il Porfido Verde Antico è uno dei pochi materiali che, come altre due tipologie di ofiti egiziane ed il Porfido Verde di Spagna (*), non viene “cavato” bensì viene “raccolto” sotto forma di piccoli blocchetti con dimensioni generalmente minori di un metro, come ci informava Pausania: “Nella Laconia v’è un villaggio chiamato Crocee presso il quale è una cava di pietra. Questa non forma una roccia continua e le pietre che se ne cavano ricordano quelle trasportate dai fiumi”.(*)
Questa condizione di affioramento è legata al fatto che il materiale si presenta come una intrusione magmatica all’interno di scisti macchiettati che appartengono ai terreni della zona di Gavrovo Tripolis, sovrascorsi su quelli ionici, frequentemente attraversati da filoni magmatici (serie vulcano sedimentaria) di chimismo prevalentemente andesitico e di età stimata attorno al tardo Permiano-rias inferiore.
Il Porfido Verde Antico, quindi, si presenta come un filone con uno sviluppo di circa 1 km inizialmente costituito da una lava porfirica nerastra che ha avuto locali condizioni di raffreddamento variabili – il che avrebbe favorito il differente sviluppo dimensionale dei fenocristalli di plagioclasio – e che ha successivamente subito una serie di locali condizioni di alterazione e metamorfismo più o meno spinte che ne hanno provocato la trasformazione in metadiabase di colore verde. Il fatto che questo metamorfismo avesse avuto effetti differenti lungo lo sviluppo del dicco già di per sé strutturalmente variabile per dimensioni ed aspetti dei fenocristalli, ne ha giustificato l’ampia varietà di tipologie rinvenibili: con massa di fondo verde scura e fenocristalli di forme differenti ( da rettangolari a quadrati ad aciculari, a stella), di colore biancastro, verde chiaro ma anche violacei; con fenocristalli centimetrici, ma anche solo millimetrici, o molto radi ed isolati (porfido verde prato o risato); con la presenza di noduletti di calcedonio, di corniole o agate (porfido agatato); o ancora la varietà pavonazza, con cristalli verde chiari in una massa di fondo violacea.
Una grandissima varietà di materiali, quindi, sempre di splendido effetto e di elevatissime caratteristiche fisico meccaniche, in quanto il metamorfismo sovrimposto ha provocato una sensibile riduzione della porosità superficiale del materiale e, forse, anche l’aumento delle sue caratteristiche meccaniche tanto che la sua resistenza alla compressione nelle facies verdi ha un range di variabilità tra 184 e 250 MPa. Un materiale di difficile lavorabilità sia per la sua durezza intrinseca, già in epoca minoica esso veniva lavorato con smeriglio proveniente dall’isola di Naxos, e sia per il fatto che è “raccolto” sempre in dimensioni ridotte (blocchetti minori di 1 metro) e quindi idoneo alla realizzazione di piccoli lavori non molto elaborati.

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Carta geotettonica della Grecia.

Storia e impieghi del materiale
Tra i “marmi antichi”, il Porfido Verde Antico è sicuramente uno di quelli di più antico uso, risalendo all’età minoica e micenea (seconda metà del II millennio a.C.), anche se non mancano tracce di impiego, seppur considerato casuale, precedenti a questo intervallo di tempo. Al periodo Miceneo ha fatto seguito una fase di declino durante l’età greca, e se non c’è evidenza del suo utilizzo nel periodo Classico nonostante fosse sicuramente conosciuto in quanto citato da Teofrasto, fu senz’altro riscoperto dai romani nella tarda età repubblicana, specialmente sotto Augusto – che si gloriò di aver trovato Roma edificata con mattoni e di averla lasciata con splendidi marmi – durante il cui regno raggiunse tutto l’impero. Molto amato e popolare nell’Italia del Rinascimento al punto di essere anche riprodotto ed imitato in pannelli e dipinti, basti citare quello di Pietro della Francesca ad Arezzo e a Borgo San Sepolcro e quello di Andrea del Castagno nel refettorio di S. Apollonia in Firenze.
La storia del Porfido Verde Antico si dipana in un arco di tempo molto lungo, al punto da giustificarne la presenza e l’uso in gran parte dell’area mediterranea, anche in regioni apparentemente defilate ed anomale rispetto le rotte del suo trasporto e della sua commercializzazione, fino ad arrivare in Britannia, nella Gallia, nella penisola Iberica, nel Nord Africa, in Asia Minore e nel Vicino Oriente. Durissimo in fase di lavorazione e di limitato approvvigionamento – come visto – esso era usato con difficoltà e quasi esclusivamente per realizzare oggetti di piccole dimensioni. Del periodo minoico e miceneo, per esempio, sono sigilli, prevalentemente recuperati a Creta e nel Peloponneso con vari soggetti animali, umani e di tauromachia; piatti; calici; piccoli vasi per lo più rituali; vaghi di collane.
Dopo la stasi nel periodo greco, il Porfido Verde Antico venne nuovamente utilizzato in epoca romana dove visse fasi alterne di fortuna: inizialmente usato con grande sfarzo come portavoce simbolico del potere imperiale assieme ad altri materiali delle regioni sottomesse più lontane, successivamente abiurato quale sfarzosa espressione, sempre assieme agli altri lapidei preziosi, di una borghesia molle e dedita al lusso sfrenato, priva di carattere. L’uso del materiale, durante tutto il periodo spaziò comunque nelle forme di decorazione di chiese e ville. Esso fu utilizzato in lastrine per la realizzazione di pavimenti in opus sectile; crustae per pareti, in tessere musive. In pratica non c’era città dell’impero dove esso non fosse presente anche se in minima quantità. Raramente esso veniva utilizzato per realizzare manufatti con valenza strutturale. I pezzi maggiori possono essere considerate le due colonne tortili alte poco più di 2 metri presenti nel battistero di San Giovanni Battista e quella, riportata dal Lazzarini, all’antiquario del Foro Romano. Oppure i rari capitelli, come i due nella chiesa di S. Saba a Roma, i due presenti nella Cappella di San Giovanni Battista del Battistero Lateranense, due nel Cortile Ottagono dei musei vaticani e due a Ravenna nella cappella “delle reliquie” di S. Apollinare Nuovo. (Lazzarini Poikiloi Lithoi….)
Ed il suo uso è proseguito anche in epoca bizantina con la realizzazione di rotae, lastre e colonnine, non si sa se di cava, di magazzini imperiali o se di riuso, mentre nel Medioevo ad un calo di utilizzo generalizzato dei materiali lapidei, si associa la costruzione di sparute opere in cui i marmi, serpentino compreso, sono presenti con un tripudio di colore di bellezza inaudita, basti pensare al Duomo di Aquisgrana e alla Basilica di San Marco in costruzione dal IX secolo.

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L’aspetto più tipico del Porfido verde antico e una varietà di porfido con fondo verde scuro e macchie verdi chiare e violette.

Nei secoli XI e XII il Porfido Verde Antico come i marmi antichi in genere, iniziano a vivere un periodo di seconda giovinezza che continuerà anche nei secoli futuri.
La sua bassa disponibilità sul mercato, imputabile più che altro ad una effettiva difficoltà di reperimento e di lavorazione oltre alla truce regola di spolia marmorei cui sono sottoscorse la maggior parte delle opere architettoniche specialmente nel Mediterraneo, ha fatto sì che queste ultime fossero molto spesso rielaborate e riadattate, magari ridotte in patere, lastre, specchiature per decori di chiese e ville.
La tipicità giacimentologica del Porfido Verde Antico, unita alla sua durezza, ne ha fortemente vincolato l’utilizzo nei secoli, ma non per questo ne ha limitato l’uso, finendo per ammantarsi come abbiamo visto, di una rilevante valenza simbolica. A ragion veduta se, come ci diceva Pausania medesimo,”Queste (pietre) sono, è vero, difficili da lavorare, ma una volta lavorate e pulite, possono fungere da degno ornamento dei templi degli dei”(*).
* Gnoli, R., 1988, Marmora Romana. 2° ed. (1° ed 1977) Roma,
pp. 142-143.

di Anna Maria Ferrari

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Bibliografia
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8 Ottobre 2009

English

The arcade and squares of Porcia, Pordenone (1991 – 1999)
Umberto Trame*

Versione italiana

A long arcade, playing the role of counterpoint to the bell-tower of the church of Our Lady of the Assumption, is the architectural construct with which Umberto Trame arranges the space along the Pilgrim’s Way (Via dei Pellegrini) in Porcia.
The delightful portico, arranged in three different sections, begins near the “calle” (a narrow street) of the town walls, where the water from a fountain, in the words of the architect, “has an eminently symbolic meaning. The water pours out from eight spouts, eight being a number in Christian symbology that represents regeneration, that is, the transition towards a new condition, the entrance to a new town”1. It then extends along the massive crenellated stone wall, supported by the same wall together with tall stone Doric-Tuscan columns, measured according to Vignola’s paradigms in keeping with local tradition. The arcade departs from the wall at a certain point and runs towards the square, and the columns (made from stone from the Roman quarry at Auresina) change in size, and are now somewhat concealed as they support a gallery accessible via a stone staircase fixed to the octagonal wall. This raised area was perhaps designed to provide the best view of the town square and the castle, and at the same time to constitute a diaphragm by means of which the square was separated from the public road.

A Polonceau truss roof in steel and timber guarantees the continuity of the various sections that make up the arcade, thus joining the town-wall “calle” with the square.
The square comprises the residual area lying between the church apse, the bell-tower, the houses, the stone wall and the Pilgrim’s Way; designed to amalgamate the fragmented urban fabric, it highlights the hierarchy of the buildings and creates a series of itineraries for visitors to the town.
The compositional layout of the corner where the stone staircase meets the arcade provides easy access to the gallery. All of the elements comprising this part of the project (the fountain, the colonnade, the porch and the stairs) are embraced by the crenellated wall and the rhythm of the pavement composition; their position at ground level influences the white and grey design of the pavement in Aurisina quarry stone and trachyte.

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Once again, as in other projects of his, Trame has aimed to establish a direct relationship with the place’s natural resources and traditional building techniques, by using local materials and by emphasising the historical characteristics of the place, such as the solid, crenellated stone wall, the robust colonnade, the steel struts, and the design of the catenary arches supporting the roof of the arcade above the balcony.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Umberto Trame, “Loggia e piazza a Porcia, Pordenone”, Casabella no. 656, 1998, pp.26-29.

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8 Ottobre 2009

Opere di Architettura

Loggia e piazze a Porcia (1991-1999) di Umberto Trame*

English version

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Prospettiva dello spazio porticato

Un lungo loggiato, contrappunto orizzontale al campanile della chiesa di Santa Maria Assunta, è la tipologia architettonica con cui Umberto Trame organizza lo spazio lungo la via dei Pellegrini a Porcia.
Il suggestivo porticato, articolato in tre diversi episodi, si apre in prossimità della calle delle mura dove l’acqua di una fontana – scrive il progettista – “ha un valore eminentemente simbolico. L’acqua sgorga da otto cannelle, un numero che nella simbologia cristiana significa la rigenerazione, il passaggio ad una nuova condizione, l’ingresso nella nuova città”;1 poi si sviluppa, addossato alla possente muratura merlata in sasso, da questa sostenuto e da alte colonne in pietra d’ordine dorico-tuscanico, misurate secondo il Vignola, nel rispetto della tradizione più diffusa in quest’area. Il loggiato abbandona il muro per entrare nella piazza, le colonne in pietra della cava romana d’Aurisina cambiano di taglia e di proporzioni e si dispongono appaiate, a sorreggere un ballatoio accessibile per mezzo di una scala in pietra addossata al muro ortogonale. Questo spazio rialzato permette, forse, quella pratica narcisistica vissuta in ogni bella città; la nuova piazza mette a disposizione del passante un luogo privilegiato per elevarsi sul suolo e fruire l’ambiente urbano attraverso il filtro del distacco; un belvedere sulla piazza e sul castello, contemporaneamente un diaframma per separare la piazza dalla via pubblica.

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Sezione costruttiva principale (in alzato e pianta) della loggia

Una copertura a capriate Polonceau, in acciaio e legno, stabilisce la continuità dei diversi episodi formali del loggiato, formalizzando un dispositivo in grado di portare nella piazza la calle delle mura.
La piazza nasce come programma di organizzazione dello spazio residuale compreso tra l’abside della chiesa, il campanile, le abitazioni, la muratura in sasso e la via dei Pellegrini; con l’intenzione di recuperare il tessuto urbano frammentato, sottolinea la gerarchia degli edifici e definisce un ordine dei percorsi per accompagnare ogni visitatore alla conoscenza della città.
La soluzione compositiva dell’angolo in cui la scala in pietra incrocia il loggiato, risolve la salita al ballatoio. Tutti gli elementi del progetto (la fontana, il colonnato, la pensilina e la scala) trovano sostegno nell’abbraccio della muratura merlata e il ritmo della composizione nella tessitura pavimentale; il loro insediamento a terra influenza il disegno bianco e grigio della pavimentazione in pietra della cava romana d’Aurisina e in trachite.

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Scorcio del colonnato.

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Anche in questa occasione, come in altri suoi progetti, Trame ricerca un rapporto diretto con il luogo, con i suoi valori naturali e con i caratteri del costruito, attraverso l’uso di materiali locali e nella forza evocativa di sottolineati riferimenti alla condizione storica del luogo, quali il solido muro merlato in sasso, il robusto colonnato, i puntoni in profili d’acciaio il disegno delle catenarie che sorreggono la copertura del loggiato sopra il ballatoio.

Alfonso Acocella

Note
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Umberto TRAME: “Loggia e piazza a Porcia, Pordenone”, Casabella n.656, 1998, pp.26-29

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8 Ottobre 2009

Eventi Flash

PREMIO NARDI 2009 – sistemi costruttivi innovativi

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Il Dipartimento BEST del Politecnico di Milano organizza l’edizione 2009 del Premio Nardi, un premio per tesi di laurea magistrale rivolto a tutti i laureati delle facoltà di Architettura e Ingegneria d’Italia e d’Europa.
Il Premio Nardi, istituito nel 2004, è rivolto per questa edizione a tesi (discusse tra ottobre 2006 e ottobre 2009) che abbiano dato un contributo originale sul tema dei “Sistemi costruttivi innovativi” con una tesi progettuale oppure con una tesi di cultura tecnologica della progettazione.
Il premio, istituito in collaborazione con lo studio CityEdge Italian Partner di Daniel Libeskind e con il contributo di Metra SpA, consiste in tre premi:
– Primo premio: stage presso lo studio CityEdge Italian Partner di Daniel Libeskind con sede a Milano, della durata di 6 mesi + 3000 euro.
– Secondo premio: 2000 euro
– Terzo premio: 1000 euro

La domanda di partecipazione dovrà essere inviata, unitamente alla tesi del candidato, al Direttore del Dipartimento BEST entro il 31ottobre 2009.
La cerimonia di premiazione si terrà il 3 dicembre 2009 alla presenza dello studio Libeskind, che terrà una lecture sui suoi ultimi progetti e in quell?occasione sarà allestita una mostra presso il Politecnico di Milano con i migliori lavori pervenuti.

Maggiori informazioni all’apposita pagina del sito Polimi

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5 Ottobre 2009

Opere di Architettura

Piazza Castello a Castel Rozzone, Bergamo
Gualtiero Oberti e Attilio Stocchi

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Una veduta a volo d’uccello della piazza.

Galaverna
Le scorribande sanguinarie dei Rozzone nel bergamasco si sono scontrate – e concluse – con la dura offensiva attuata dai Visconti, persa malamente dai locali nel 1386. Lance ed alabarde dei cavalieri sono oggi come trattenute sul campo di battaglia, a futura memoria. La prima asta conficcata con forza nel terreno ha mandato in frantumi lo strato ghiacciato superficiale, appunto la galaverna del mattino, scatenando la reazione a catena che ha segnato ed increspato il calpestio. É accaduto contemporaneamente lo stesso con le altre 42 lance, alte 8 metri, che si contano sull’area. Come le traiettorie su di un biliardo, la frattura al suolo è allora rimbalzata via via contro le bordure dello spazio pubblico, tracciando secche, inedite geometrie lineari sul rettangolo di base. Il piano di piazza Castello a Castel Rozzone non è del resto perfettamente orizzontale: questa sorta di nastro o tessuto pieghettato risale occasionalmente e costituisce un bacino d’acqua lungo circa 15 metri, quasi un abbeveratoio per i cavalli sfiniti dalla contesa. Del resto i colpi inferti dai soldati a cavallo, con le loro lance, al terreno, sono stati tali da produrre lievi ribassamenti – dunque anche compluvi – piccoli crateri e smottamenti, che ancor più lasciano traccia dell’animosità della battaglia.
Le gesta della famiglia di fazione ghibellina, rimasta nei nomi dei luoghi, unitamente al repertorio visivo delle medievali cronache pittoriche d’eventi bellici a firma di Paolo Uccello, hanno costituito per Oberti e Stocchi pretesto di progetto. A completare questa sorta di figura retorica (pretesto-contesto) di cui s’avvalgono i due progettisti specialmente nelle occasioni pubbliche (si veda l’intervento alla piazza Cardinale Angelo Maj a Schilpario), il contesto è costituito questa volta da un intorno senza edifici di particolari qualità, dalla condizione climatica e dalla posizione geografica cui si legano le gelate mattutine, e forse anche dalla direzione indicata dall’amministrazione locale in favore di sistemi di piazze. Sono, queste, ottenute nell’unico campo visivo, tramite i 43 crateri verso cui le pendenze convergono, stimolando in modo naturale l’avvicinarsi e l’incontrarsi delle persone in punti predeterminati. Anche risultano utili le disposizioni delle aste conficcate al suolo: non solo perché sono capaci, raffittendosi, di delineare ambiti fisicamente individuati entro l’unica piazza, ma anche perché costituiscono supporto per conci orizzontali sospesi, su cui i passanti possono sedere e scambiare parole, avvolti dalle atmosfere del proprio passato.

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Una delle tre rappresentazioni della “Battaglia di San Romano”, di Paolo Uccello.

Al suolo ogni elemento è lapideo, sia le lastre, sia i compluvi realizzati su disegno per la raccolta dell’acqua meteorica a ridosso dei pali metallici. Questi ultimi, unitamente ad alcuni corpi illuminanti bassi ma sempre a sviluppo verticale, si distinguono anche per colore, oltre al materiale, dal grigio uniforme della pietra arenaria extradura prescelta per i camminamenti e le sedute.
Nei compluvi i progettisti accoppiano due semicirconferenze litiche, di frequente le forano decisamente al centro per alloggiare i pali metallici, poi più discretamente all’intorno per cedere l’acqua al sottosuolo. Il profilo perimetrale curvilineo, come ha ben insegnato l’inviluppo geometrico della Domus Aurea a tutt’altra scala, assorbe le irregolarità singolari dei tracciati e le spezzate secondo cui si organizza tutt’intorno la posa dei conci pavimentali, giungenti ai compluvi stessi. L’aver prescelto i pali, e con essi i compluvi, quali elementi generatori della geometria di posa e delle pendenze del calpestio, strategicamente facilita infatti la strada dell’acqua al raggiungimento dei punti di raccolta secondo le fughe lasciate ampie fra i conci; dunque le fughe larghe non assecondano solamente le dilatazioni termiche dei materiali. L’ideale strato gelivo infranto dalle alabarde della battaglia determina un manto di 2900 elementi lapidei, ciascuno realizzato a disegno. Ogni lastra è unica.
Le panche risultano sospese dal suolo e costituite da un blocco di figura semplice, di spessore generoso. La vasca d’acqua è anche, esternamente, opera lapidea fornita su disegno, con una bordura in sommità definita da un leggero effetto chiaroscurale, ottenuto sottraendo precisamente materia, secondo un taglio orizzontale continuo.
Alle estremità della piazza, sui due lati corti del rettangolo di base, il piano increspato di Oberti e Stocchi incontra due percorsi carrabili sempre pavimentati in pietra. La continuità materica s’accompagna ad una differenza sostanziale di posa: a correre, più tradizionale, caratterizzata da pezzature più tipiche, di forma regolare allungata. L’incontro fra le due soluzioni avviene sul filo della precisa geometria di base, punteggiata anche al suo limite dalle circonferenze di compluvio.

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La maquette dell’intervento ed uno scorcio dello spazio pubblico.

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I materiali lapidei sono estratti e forniti da Il Casone di Firenzuola; sono infine lavorati e posati da Trapattoni marmi di Mariano di Dalmine (Bg).

di Alberto Ferraresi

(Vai al sito di Attilio Stocchi)
(Vai al post su piazza Cardinale Angelo Maj)
(Vai al sito Casone)
(Vai al sito di Trapattoni marmi)

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