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21 Giugno 2010

Pietre d`Italia

L’essenza delle arenarie

La capacità di scelta è una peculiarità del progettista considerando che l’edificio è come un corpo, e, “come tutti gli altri corpi consiste di disegno e materia: il primo elemento è in questo caso opera dell’ingegno, l’altro è prodotto dalla buona natura; l’uno necessita di una mente raziocinante, per l’altro si pone il problema del reperimento e della scelta” (Leon Battista Alberti, 1484).
Usare le pietre naturali significa conoscerne le prestazioni e cogliere le suggestioni che queste offrono; scegliere consapevolmente una pietra comporta la richiesta di specifiche prestazioni e di definiti caratteri formali necessari per ottenere le valenze estetiche desiderate considerando anche che le lavorazioni industriali del materiale implementano ulteriormente la già ampia variabilità naturale del materiale migliorandone, in alcuni casi, le prestazioni.
Il caratteristico aspetto naturalmente neutrale delle arenarie è più facilmente percepibile conoscendo innanzitutto la loro orogenesi per processi di sedimentazione clastica di sabbie a comporre varie tessiture dai colori omogenei.
Risalire all’origine primaria di una roccia permette di comprendere le principali proprietà tecniche che, mediate con la scala e le conoscenze disciplinari, permettono di cogliere il fascino di ogni singolo litotipo calandosi nella dimensione inorganica di una materia che nasce con la terra di cui compone la crosta con continui processi di disgregazione e ricomposizione a formare rocce più o meno preziose, più o meno resistenti, più o meno colorate, più o meno luccicanti, più o meno lavorabili, ecc..
Processi millenari che lasciano il segno nella pietra e che dalla pietra possono arrivare all’architettura attraverso scelte ponderate che partono dal presupposto che non esiste in assoluto un litotipo migliore di un altro. Le pietre sono frammenti di roccia estratti, più o meno superficialmente, dalla crosta terrestre la cui origine primaria è legata a fenomeni di solidificazione del magma interno allo stato fuso; la composizione, la struttura e le caratteristiche dei singoli litotipi dipendono dalle fasi del processo di solidificazione e dai successivi fenomeni di ricomposizione, sedimentazione e metamorfismo che danno origine a specie litoidi con analogie genetiche e prestazionali.

Le arenarie sono pietre derivate dalla sedimentazione di sabbie di varia origine e sono facilmente riconoscibili per l’omogeneità di tessitura in cui si riconoscono i grani, clasti di media dimensione. Tale peculiarità è evidente comparando le arenarie con le altre pietre di origine magmatica o fortemente metamorfosate come ad esempio i graniti composti da granuli grossi e compatti, i marmi ricchi di venature e variamente colorati, i travertini forati in superficie, ecc., e con altre pietre sedimentarie generate da processi bio-chimici come i calcari e le dolomie, composte da granuli grossolani come i conglomerati o molto fini come le pietre argillose.
Il confronto visivo con altri litotipi esalta l’essenza sabbiosa delle arenarie che in epoca classica venivano chiamate “Arenarius” ossia della sabbia. Dal latino deriva il nome italiano “Arenaria” e spagnolo “Arenisca” mentre il nome tedesco “Sandstein” e inglese “Sandstone” rimandano direttamente al loro essere pietre di sabbia.
Dal punto di vista petrografico, nella categoria delle rocce sedimentarie, la dimensione e la forma dei clasti, ossia dei granuli di sabbia, definisce la tipologia di materiale in quanto determinano la tessitura finale del deposito sedimentato; quella stessa tessitura che differenzia le arenarie dalle altre rocce sedimentarie e le arenarie tra di loro.
Identificata la classe delle arenarie risulta quindi importante capire anche come l’ambiente di formazione e le fasi di processo abbiano influito sulla composizione specifica del filone di estrazione. Pensiamo ad una distesa di sabbia ed immaginiamo che diventi solida, il risultato è un blocco di arenaria; è evidente che il blocco assume un aspetto differente a seconda dell’ambiente in cui si è formato (abissale, glaciale, desertico, alluvionale palustre, lacustre o di transizione -litorale marino, deltizio o lagunare-), della composizione della sabbia più o meno ricca di minerali ed ossidi, e per i fattori che sono subentrati in fase deposizionale e di cementazione (temperatura e pressione, moto dell’acqua, ecc.); in pratica ogni arenaria porta scritto nella struttura la propria storia. Ad esempio un’arenaria generata dalla sedimentazione di sabbie formatesi in ambiente abissale successivamente a fenomeni franosi non avrà presenti dei fossili bensì includerà tra i clasti cristalli di calcite luccicanti e frammenti di gusci; diversamente la presenza di materie organiche fossilizzate che richiedono particolari processi di ossigenazione dichiarano la probabile origine da sabbie carbonatiche di ambienti corallini. Nelle arenarie difficilmente si rinvengono fossili più facilmente presenti in pietre sedimentarie clastiche a grana molto fine quali ad esempio le Marne o segni di frattura ed inclusioni caratterizzanti presenti ad esempio nelle Pietre Paesine.
Anche il colore nelle gradazioni naturali del grigio, rosso, giallo dipende prevalentemente dalla composizione degli elementi che costituiscono le pietre che possono assumere sfumature omogenee o pezzate con linee privilegiate di colorazione in dipendenza anche dai fattori ambientali d’origine e di formazione che alternano diversi valori di ossidazione, come ad esempio le arenarie che si formano in ambienti di transizione in un’alternanza di fasi sottomarine e terrestri.

La colorazione è la caratteristica delle arenarie più facilmente osservabile e dipende:
dall’effetto complessivo dei colori dei clasti e del materiale che eventualmente li riveste (ossido di ferro, carbone organico, ecc.);
dal colore del legante che unisce i clasti;
dalla quantità di grani più piccoli che riempiono gli spazi tra i clasti (a parità di composizione i grani fini sono molto più scuri).
Ad esempio il colore rosso delle arenarie può dipendere dal materiale di origine quali le terre rosse continentali oppure dall’accumulo di sedimenti in condizioni ossidanti; analogamente la presenza di ossidi di ferro quali la brumite, il solfuro di ferro, la pirite, ecc., accentua le colorazioni rossastre generando in alcuni casi linee privilegiate tendenti al blu, mentre la presenza di carbone organico scurisce omogeneamente l’impasto.
Infine i processi di sedimentazione differenziati arricchiscono di effetti particolari le arenarie disegnando linee e fasce sinuose; tali discontinuità possono però costituire delle possibili superfici di frattura analogamente a quanto accade in presenza di venature bianche originatesi in seguito a fenomeni carbonatici di deposizione.
La stratificazione, se evidente, crea affascinanti disegni orditi secondo depositi incrociati quando sono riscontrate in sedimenti depositati su pendii oppure gradati se i granuli più grandi e pesanti si sono disposti prima di quelli leggeri; stilotiti sono invece quelle linee sinuose che si formano dopo la sedimentazione con ulteriori processi di sedimentazione.
Le arenarie sono sabbie di pietra dure e durevoli, reperibili e facilmente lavorabili e, se correttamente selezionate, lavorate e assemblate in soluzioni tecniche adeguate possono essere un ottimo materiale da rivestimento anche in ambienti aggressivi.
Solo quando la sedimentazione è avvenuta in modo incoerente unendo piani di materiali differenti le arenarie perdono la loro caratteristica resistenza sfaldandosi; quando l’arenaria si rompe la superficie di rottura ha un aspetto granulare in quanto si spezza solo il cemento mentre i clasti rimangono intatti tanto da sembrare quasi un materiale ricomposto industriale.
In questo senso si attribuisce alle arenarie anche la definizione di pietra neutra omogenea chiamata dai francesi “Gres” con lo stesso nome con cui vengono indicate le terrecotte; si tratta però di una omogeneità che accomuna i diversi litotipi di arenaria tra loro differenti per componenti, struttura e tessitura.
Le arenarie sono molteplici e come i prodotti industriali sono disponibili con diverse composizioni, forme e finiture a seconda delle esigenze del progetto; in questo senso le arenarie possono essere considerate un prodotto flessibile la cui conformità è garantita dalle produzioni fin dalle prime fasi di estrazione.
La qualità delle arenarie, come già evidenziato, non dipende solo dalla natura ma anche dalle lavorazioni effettuate, mentre la qualità dell’elemento tecnico in arenaria dipende dalla corretta valutazione delle prestazioni del materiale e dalle tecnologie di posa adottate che devono rispettare i vincoli determinati dal materiale stesso.

Dalla ricerca sviluppata nell’ambito della convenzione di ricerca “Manuale multimediale per la progettazione di sistemi in pietra arenaria” dell’azienda Il Casone con il Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell’Università degli Studi di Udine (Christina Conti, ricercatore in Tecnologia dell’architettura dell’Università degli Studi di Udine, responsabile scientifico)

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19 Giugno 2010

Post-it

Il design della ceramica in Italia 1850 – 2000

Il denso testo di Elena Dellapiana, architetto e ricercatrice presso il Politecnico di Torino, è un esplicativo viaggio attraverso 150 di storia del design ceramico in Italia, esplorato con sguardo meticoloso attraverso gli scenari culturali, economici e produttivi che hanno determinato la nascita e la diffusione della tradizione “made in Italy”.

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18 Giugno 2010

Opere di Architettura

Azahar Headquarters a Castellòn, Spagna
Carlos Ferrater e Nùria Ayala


Gli Azahar HQ ed il paesaggio montano immediatamente alle loro spalle.

Solo il colore distingue l’architettura dal paesaggio, ma gli Azahar Headquarters sono un pezzo vero di montagna, di roccia affiorante a pochi passi dalle vette più alte dei Monti Universali.
È difficile stabilire, nella storia dell’architettura, quando realmente nasca la strategia progettuale dell’inserimento nel paesaggio perseguito per forma e volumi, a ricercare un livello d’integrazione di tipo persino simbiotico, ma certamente la Spagna offre una tradizione recente e forte in questo senso, di cui è un esempio, calzante per l’allusione ai profili montani, pur diverso nei tratti e nella riuscita, la stazione ferroviaria di Basilea ad opera di Cruz y Ortiz del 1997.
Fra le molte opere di Carlos Ferrater, a prima vista le ricerche proposte dall’architetto al Parco della scienza a Granada ed alla Casa per un fotografo a Tarragona paiono felicemente ritornare, per comporsi a nuova sintesi nel progetto di Castellòn. La pianta e gli alzati plasmati in base agli andamenti del terreno, ricondotti a geometrie note e proposti secondo cromie che sinceramente dichiarano la mano dell’uomo, conducono agli Azahar HQ, introducendoli. L’ampliamento del giardino botanico di Barcellona è invece il magistrale banco di prova per misurarsi con le sistemazioni esterne, con i caratteri più intimi dei percorsi nella natura e con la gestione delle forme organiche nelle diverse fasi di progetto.
Il richiamo visivo immediato alla skyline dell’intorno più prossimo, anziché possibili allusioni più sottili e poste sul solo piano grafico o concettuale, fanno trapelare il modo giocoso, per così dire, d’approccio all’atto creativo, il divertimento e lo stimolo compositivo continuo, suscitati da ogni occasione di progetto all’architetto. Complici risultano la ricchezza di panorami ancora incontaminati e soprattutto le quantità di luce implementate dai riflessi dei diversi mari, di cui è capace la penisola iberica. Luce naturale, color bianco e giaciture organiche di setti ed orizzontamenti sono quindi gli ingredienti del progetto. Il modo in cui ai raggi solari è concesso d’entrare da squarci, o da fenditure, o da ampie vetrate improvvise, oppure ancora da accessi nascosti e ritmati, rende le realizzazioni uniche in ogni momento del giorno.


Uno scatto fotografico dell’ampio spazio distributivo interno.

All’interno degli Azahar Headquarters i pavimenti, superfici di contatto col suolo, sono invece in pietra grigia, come a dire: roccia su roccia. L’edificio, con certa sorpresa per l’osservatore esterno a cui appare come una struttura più compatta, presenta uno sviluppo planimetrico ad “ H ”, con corpi di fabbrica distesi principalmente secondo la giacitura est-ovest, che concedono al cielo ed agli elementi naturali di penetrare ed avvicinarsi fino al suo cuore, al centro dell’intervento costruito.
In una di queste due insenature artificiali il terreno è completamente acquisito agli usi dell’uomo, pavimentandolo. Ne riesce una sorta di piccola piazza, piacevole spazio riabilitativo a cui affacciarsi fra le superfici del lavoro, in cui la posa del calpestio prevede la geometria precisa ed ordinata del lastrico entro un perimetro di segno organico. Le lastre sono rettangolari, a correre secondo la giacitura nord-sud, con sormonto fra loro in mezzeria nel susseguirsi dei corsi; alcune si dotano di inserti luminosi al centro, individuate con alternanza regolare entro l’univoco disegno.
All’interno, al coperto, il tappeto lapideo prosegue la trama dell’esterno, ma senza inserti luminosi, poiché la scenografia della luce è in questo caso orchestrata dosando gli accessi del solo irraggiamento naturale, e caratterizzandoli ricercando effetti di nascondimento e di sorpresa. Il piano orizzontale di camminamento, sul quale liberamente si dispongono le partizioni verticali, è grigio e omogeneo. Per maggior contrasto emergono le nervature bianche dei piani inclinati di copertura e gli scatti verticali di scale e rivestimenti di parete.
Nell’altra delle due insenature, planimetricamente simmetrica alla prima, la natura preserva il suo spazio, salvo una bordura di camminamento. In questo marciapiede antistante gli spazi di lavoro, la posa è ortogonale alla giacitura delle vetrate perimetrali.
L’intervento si caratterizza per lo sviluppo di spazi privati sia all’aperto sia al coperto. I volumi costruiti scavano un piano entro terra, per poi distribuirsi al livello di campagna e, in piccola parte, anche al piano primo. All’interno Il Casone ha fornito lastre di pietra serena levigata in 2 cm di spessore, all’esterno in 3 cm di spessore lastre sabbiate di arenaria extraforte.


La piazzetta esterna ed il suo calpestio lapideo.

[photogallery]azahar_album[/photogallery]

di Alberto Ferraresi

Vai al sito di Azahar Group
Vai al sito di Carlos Ferrater
Vai al sito del Casone

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15 Giugno 2010

Pietre Artificiali

Convegno AEL. Le videointerviste ai protagonisti.

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Il Convegno “Architettura Energia e Laterizio” si è svolto con successo a Ferrara lo scorso aprile; gremito il Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, la residenza patrizia recentemente restaurata e adibita a nuova sede della Facoltà di Architettura. La giornata congressuale ha costituito l’occasione per dibattere su un tema profondamente attuale: come i sistemi edilizi in laterizio, tipici dello stile costruttivo italiano, dimostrano la loro capacità di dare risposte adeguate ed affidabili alle richieste di un’architettura contemporanea di qualità, duratura, confortevole, energeticamente sostenibile e strutturalmente sicura.
Gli ospiti relatori della mattinata, gli architetti Massimo Carmassi, Antonio Monestiroli e Marlies Rohmer, hanno coinvolto l’uditorio guidando il pubblico attraverso tre distinti percorsi narrativi illustrati tra le loro architetture, dalla nostra penisola all’Olanda della continua ricerca: tre percorsi professionali, linguaggi e stili costruttivi differenti e al contempo complementari, a mostrare le potenzialità di una materia, il laterizio, per quanto ancor legato all’immaginario tradizionale, oggetto nel terzo millennio di oggettive sperimentazioni e aggiornamenti tecnologici.
Il programma del pomeriggio ha previsto gli interventi di Norbert Lantschner per l’Agenzia Casa Clima di Bolzano, di Roberto Pagani del Politecnico di Torino, di Gian Michele Calvi dell’Università di Pavia, di Andrea Campioli del Politecnico di Milano e di Andrea Rinaldi dell’Università di Ferrara. Il tema generale pomeridiano ha indagato la relazione fra laterizio ed energia, nel senso dei contributi prestazionali del materiale rispetto gli indirizzi più recenti della normativa e della ricerca.
Il pubblico, composto da studenti, operatori del settore, docenti e liberi professionisti, ha seguito con attenzione e partecipato attivamente.
Attraverso le videointerviste proposte si è sviluppato il dialogo con il mondo della progettazione, interrogando le tre figure rappresentative dell’evento mattutino, con quello della produzione, rappresentato dall’Ingegner Di Cesare dell’ANDIL (Associazione Nazionale Degli Industriali dei Laterizi), quello delle istituzioni, Alfio Todini Sindaco di Marsciano sede del Museo Dinamico del Laterizio e delle Terrecotte, e la realtà universitaria promotrice dell’inziativa, nelle figura del Prof. Alfonso Acocella.


Il pubblico presente al symposio. (ph. Enrico Geminiani)

Profili intervistati

Alfonso Acocella
Professore ordinario di Tecnologia dell’architettura presso l’Università di Ferrara.
È Vicepresidente di SITdA (Società Italiana della Tecnologia dell’Architettura). È presidente del Comitato scientifico del Museo dinamico del laterizio e delle terrecotte di Marsciano per il quale ha curato, nel 2006, la Mostra “Rossoitaliano”. È responsabile del settore Architettura della rivista Costruire in Laterizio dell’ANDIL. è responsabile del Laboratorio di ricerca Material Design della Facoltà di Architettura di Ferrara. Parallelamente a contributi di natura saggistica, editorialistica o d’occasione, su riviste nazionali ed internazionali, ha pubblicato numerose monografie e manuali di architettura tra cui alcuni fondamentali sulla tecnologia del laterizio e della pietra. Si ricordano: Architettura italiana contemporanea (1984); L’architettura del mattone faccia a vista (1989); L’architettura dei Luoghi (1992); Tetti in laterizio (1994); Involucri in cotto (2000). L’architettura di pietra (2004), Stone Architecture (2006), Rossoitialiano (2006); Travertino di Siena (2010, in corso di stampa).

Massimo Carmassi
Professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana allo IUAV di Venezia. Dal 1974 al 1990 ha fondato e diretto l’Ufficio Progetti del Comune di Pisa. La sua attività professionale si è concentrata sull’architettura, sulla progettazione urbana e sul restauro architettonico, utilizzando il laterizio come materiale d’elezione. Tra le sue più importanti realizzazioni si ricordano l’ampliamento del cimitero di Arezzo, l’insediamento universitario di Parma, i restauri del foro annonario di Senigallia e del Palazzo Ducale di Guastalla. Ha ricevuto la medaglia d’oro Heinrich Tessenow, è accademico di San Luca, membro della Bauakademie di Berlino ed Honorary Fellow dell’American Institut of Architects.

Antonio Monestiroli

Laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1965 con Franco Albini, dal 1968 al 1972 è stato assistente di Aldo Rossi. È professore ordinario di Composizione architettonica presso il politecnico milanese. Ha cominciato l’attività professionale insieme a Paolo Rizzatto partecipando a concorsi nazionali e internazionali tra i quali la sistemazione di Piazza Fontana a Milano, il nuovo ponte dell’Accademia a Venezia, la sistemazione per Les Halles a Parigi. Dal 2003 ha fondato lo studio Monestiroli Associati. Tra le sue principali realizzazioni d’architettura si ricordano l’ampliamento del cimitero di Voghera, la stazione ferroviaria di Pioltello e due torri residenziali a Brescia. È autore di numerosi saggi di teoria della progettazione architettonica.

Marlies Rohmer
Laureata in architettura all’Università di Delft, fonda lo studio di progettazione Marlies Rohmer nel 1986, dando avvio ad una fertile stagione di progetti e realizzazioni caratterizzate da un utilizzo del laterizio del tutto originale e innovativo. Firmando principalmente opere di architettura scolastica, direzionale e residenziale focalizza la sua attenzione anche sui temi della sostenibilità. Ha tenuto conferenze presso prestigiose istituzioni culturali in Olanda, Germania, Spagna, Portogallo e Cina, e ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui si ricordano il BB Golden Green Award di Utrecht nel 2009 e lo School Building Prize per la migliore scuola elementare sostenibile nel 2008.

Gianfranco Di Cesare
Laureato in ingegneria meccanica con specializzazione in termotecnica, dal 1974 è Dirigente responsabile delle attività tecniche, promozione e ricerca, presso l’Associazione degli Industriali dei Laterizi (ANDIL). Per l’Andil è responsabile operativo e amministrativo delle diverse Sezioni Merceologiche promuovendo ricerche finalizzate all’evoluzione e divulgazione della conoscenza tecnica. Esperto all’interno di Gruppi di Lavoro UNI per la produzione e revisione di normative nazionali, rappresentante nazionale all’interno di Commissioni Europee in ambito CEN per la stesura di normative di prodotto e di progettazione.
È componente del Comitato Tecnico della TBE (Federazione Europea del Produttori di Laterizi) e Consigliere dell’ICMQ (Organismo di certificazione aziendale).
È direttore Responsabile delle riviste edite dall’Associazione: “Costruire in Laterizio” e “L’Industria dei Laterizi”.

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Andil
Wienerberger
Museo Dinamico del Laterizio
Naturalia Bau

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14 Giugno 2010

Letture

“CyberStone. Innovazioni digitali sulla pietra”

cyberstone

“CyberStone. Innovazioni digitali sulla pietra”
Christian R. Pongratz, Maria Rita Perbellini
Edilstampa, Roma 2009
86 pagine, illustrazioni a colori,
prezzo: 14,00 €
testo in italiano

Durabilità, solida fisicità, pregio estetico: la pietra è da sempre interpretata come uno dei materiali “principi” dell’architettura. Dalla iconica monumentalità dei tempi greci e romani al dinamismo del barocco borrominiano, dal rigore razionalista alla vibrante poetica wrightiana, molteplici sono state nel corso della storia le sue modalità espressive.
Al di là dell’indiscusso valore figurativo, tuttavia, il carattere tettonico della pietra è spesso banalmente associato a un giudizio di staticità e rigidità costruttiva, quasi che per natura costitutiva il materiale – sottoposto a intrinseci limiti di resistenza e compressione – non possa esplorare percorsi di sperimentazione tecnologica e debba dunque rimanere “congelato” in un sistema codificato di forme e tecniche esecutive non modificabili. Questo preconcetto pare oggi giustificato sia dalla sempre minore disponibilità di maestranze qualificate, sia dalla cogente richiesta da parte del mercato di forme sempre meno standardizzate.
Il Testo “Cyberstone”, degli architetti di formazione europea ma di adozione statunitense Pongratz e Perbellini, con prefazione del Prof. Arch. Antonino Saggio, si propone appunto di sovvertire il pregiudizio della “vita litica apparente”, come definita dagli autori, per sondare le valenze semantiche della pietra all’interno dell’universo ideativo e tecnologico contemporaneo, permeato dalla sempre più esplosiva presenza dei sistemi informatizzati di progettazione e produzione in ambito architettonico.
La sfida è dimostrare come, attraverso le potenzialità del design digitale, la pietra possa svincolarsi dalle tecniche costruttive tradizionali e aprirsi all’ innovazione, scoprendo inconsuete possibilità performative in termini tattili, estetici e strutturali, non solo per quanto concerne l’uso di elementi modulari assemblabili ma anche nell’ambito di grandi superfici continue: come già attuato per altri materiali da costruzione compositi (legno, vetro, metallo, laterizio, e anche pietra, come dimostra il lavoro degli svizzeri Gramazio & Kohler, ideatori del muro “programmato”, frutto di un processo concettuale interamente robotizzato), la pietra si apre così a una nuova “vitalità metamorfica”, funzionale non solo a indagare nuovi percorsi compositivi ma anche a schiudere in futuro possibilità economicamente strategiche nel mondo produttivo.
L’illuminante testo, corredato di un esaustivo apparato iconografico e da puntuali riferimenti bibliografici, affronta in cinque capitoli le possibili declinazioni dell’impiego della pietra nel panorama architettonico contemporaneo, esplicitate dalle molteplici esperienze delle più grandi firme del nostro tempo che, al di là delle interpretazioni personali, tendono univocamente a spingere l’uso del materiale lapideo oltre nuove frontiere espressive.
Il primo capitolo, “Sostanza antica e sensibilità contemporanea”, introduce le premesse e gli obiettivi che motivano una nuova “intraprendenza” della ricerca nell’ambito del settore lapideo; il secondo, “Innovazione litica”, illustra la sensibilità progettuale contemporanea nell’uso della pietra (Zumthor, Botta, Eisenmann, Hollein, UNStudio, Gramazio e Kohler,…); il terzo, “Surface design”, esamina il tema espressivo della “pixellizzazione” delle superfici come nuova ricerca linguistica (Wandel Höfer Lorch + Hirsch, Slade Architecture, Pongratz & Perbellini,…); il quarto, “Superfici modulate”, analizza le possibilità litiche di superfici vibranti, concepite attraverso sistemi informatici ispirati alla frattalità (Lab Architecture, Gustafson Porter, Pongratz & Perbellini,…); il quinto, “In Profondità o con leggerezza”, esalta la complessità del materiale litico, ora ispirato a una solida gravità (Antòn Garcìa Abril) ora a una sorprendente leggerezza (Piano) e sottigliezza (Kuma, Studio Gang).


Kengo Kuma, Origami di pietra, 2004 – in progress

Nella nostra convulsa epoca, molti dunque sono gli stimoli e le suggestioni per una sempre più coraggiosa crescita intellettuale.
La rivoluzione informatica è, del nostro tempo, forse il fenomeno socio – culturale più determinante: tuttavia, per quanto potente, lo strumento digitale è, si, motore “necessario” per attivare una ricerca tecnologicamente rivoluzionaria ma non “sufficiente”. E’ la curiosità intellettuale di molti operatori, già attivi in questo ambito di mutua interazione tra processo creativo ed elaborazione informatica, che spinge l’ingegno oltre le “colonne d’Ercole” del consueto e del conformato modo di operare.
Perché, come dice in prefazione Prof. Saggio, “il materiale in quanto tale è inerte. Esso vive solo quando è proiezione di un desiderio progettuale”.

Chiara Testoni

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14 Giugno 2010

Post-it

“Architecture is a Language”. La lezione di Daniel Libeskind

L'”avventura intellettuale di un architetto”– così definendo il suo mestiere – l’ha narrata in una lezione di straordinario effetto Daniel Libeskind in persona, rivelando al pubblico presente presso l’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Ferrara, più di quattrocento tra studenti, professionisti, autorità, ed entusiasti conoscitori della cifra indiscussa del personaggio, le radici del suo stile architettonico così unico e penetrante.

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10 Giugno 2010

Post-it

Evoluzione dei materiali e Smart materials

“Vengono definiti intelligenti, in inglese smart, quei materiali in grado di reagire con l’ambiente e di rispondere ai cambiamenti che in esso avvengono modificando una o più delle loro proprietà (meccaniche, ottiche, elettriche, magnetiche, chimiche o termiche)”.

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10 Giugno 2010

Opere di Architettura

Tre piazze a Trieste
Bernard Huet, Ceschia e Mentil architetti associati, Boris Podrecca


Tre scatti fotografici panoramici della piazza monumentale.

Piazza Unità d’Italia
Tra le caratteristiche più proprie della piazza storica europea, quella d’essere spazio pubblico volumetricamente racchiuso e contestualmente scoperto, trova in Piazza Unità d’Italia a Trieste caso esemplare. Il parallelepipedo proteso in direzione del mare è definito per tre lati dall’architettura monumentale, per il quarto dall’orizzonte increspato da bora, quinto e superiore è il cielo, sesto e conclusivo il tappeto pavimentale. Bernard Huet con Ceschia e Mentil architetti associati, intesse infatti colombino e pietra aurisina entro un disegno chiaro e controllato, replicando nell’immagine complessiva del calpestio l’omogeneità planare e cromatica dell’affaccio superiore al cielo. Gli oltre quindicimila mq di posa si affidano ad elementi di dimensione e lavorazione tradizionale, cercando la riuscita dell’intervento nell’integrazione austera e priva di cadute di tono.
La pietra arenaria de Il Casone, a tutela del pedone in caso di gelo o d’eventi atmosferici eccezionali, presenta qui finitura lavorata, fiammata e spuntata. Alcune lastre riservano una costa liscia sul bordo a facilitare la raccolta delle acque metoriche. La pietra aurisina, solitamente bocciardata, è invece utilizzata principalmente per dare corpo alle sedute d’arredo urbano; anche caratterizza gli inserti pavimentali in cui sono alloggiati vari punti luminosi. Questi partecipano con punte di colore blu al quadro visuale che si compone dal crepuscolo in avanti. Anche partecipano con regola certa al disegno pavimentale complessivo, ottenendo ruolo chiave nel definire ritmo preciso all’acquisizione dello spazio. Appunto venendo al disegno pavimentale d’insieme, esso si suddivide in due campi principali entro l’unica pianta trapezia, a restringere il fuoco visivo verso mare: il primo e principale è a sua volta suddiviso da direttrici geometriche centrali, a partire dalla fontana monumentale ed indirizzandosi alla mezzeria dei piloni verso mare; il secondo più a ridosso dell’acqua, enfatizza i due ingressi dei palazzi d’angolo sul golfo.
Sui due lati lunghi dello spazio aperto, in virtù della riduzione d’ampiezza fra le quinte che si fronteggiano, è prevista al bordo specifica soluzione pavimentale con coppia di lastre d’uguale dimensione di volta in volta da ridefinire.


Uno scorcio di piazza Verdi.

Piazza Verdi
In continuità con la piazza fronte mare si applicano lastre di colombino fiammato ed aurisina bocciardata in spessore 8 cm. L’allettamento è su sabbia per 5 cm, su cls per ulteriori 20 in profondità, infine inerti e detriti di cava per poco meno di 30 cm.
Piazza Verdi riquadra una sorta di scacchiera, le cui direttrici principali sono appunto in aurisina, le campiture risultano in colombino bulinato posato a correre con sormonto in mezzeria. Viene enfatizzata la campitura centrale di piazza con triplice segno in aurisina al bordo. Ai lati sopraggiungono percorsi, particolarmente la via del Teatro, in arenaria fiammata. Arrivando in Piazza della Borsa, le riquadrature a calpestio assumono significati ulteriori, traendo origine geometrica nel centro della presenza monumentale antistante la Borsa, mentre giacitura secondo assi cardinali. Poco distante sul lato sud-est dello spazio pubblico s’innesta un breve tratto di geometria pressoché trapezia, alloggiante alternativamente panchine d’arredo ed essenze arboree con inghisaggi squadrati.
Un lavoro minuzioso di scavo della lastra aurisina permette di generare specifici conci deputati alla raccolta delle acque meteoriche, con caditoie a lama alle estremità. La loro collocazione all’interno delle piazze e particolarmente a segnare con linea retta la direzione dei percorsi, aiuta nettamente l’orientamento e la lettura dello spazio.


Una fotografia generale ed una di dettaglio di Piazza Vittorio Veneto.

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Piazza Vittorio Veneto
E’ sufficiente lo scarto contenuto di 3 cm nella posa dei conci, anche quale fondale all’acqua, per incontrare una sensibilità progettuale sottile, capace con gesti lievi di risultati fortemente emozionali. Boris Podrecca firma a Trieste un progetto di personalità. Il dimensionamento specifico prescritto al taglio delle arenarie impiegate è segno della connessione stretta fra idea e preesistenze, come pure del materiale che si declina secondo le tensioni del luogo e del progetto, a suggellare la vocazione d’ogni opera d’architettura e d’ogni spazio, ad essere unico e irripetibile. Fiammatura, presenza d’acqua, scelte cromatiche e minima intromissione di vena lapidea introducono valori di percezione di superficie: esaltano il gioco di riflessi all’irraggiamento naturale ed ai tagli artificiali radenti. L’autorimessa sotterranea è solo marginalmente percepita nelle occasioni di risalita limitate ai vertici del rettangolo di base.
Il disegno complessivo riconosce la dimensione prevalente della geometria di partenza, contenuta fra le vie Milano e Galitti; cadenza il ritmo d’acquisizione del centro con linee regolari ortogonali larghe 36 cm circa, ad inquadrare lastricati posati a correre; esalta gerarchicamente il fulcro monumentale sia mediante la dimensione crescente dei conci, sia innalzando in grado il ruolo del giunto fra di essi. Le fughe infatti si materializzano divenendo tessere litiche del casellario di base larghe 15 cm (approssimando al numero intero per semplicità), mentre gli elementi monolitici di 54 x 75 cm sono ingigantiti entro campiture omogenee, ottenute per accostamento di quattro lastre identiche fino alla dimensione complessiva di 85 x 185 cm. Aggiunge tensione nervosa la scelta chiaroscurale bicroma, sempre crescente a ridosso della vasca monumentale. Il progetto pavimentale stende infine il tappeto lapideo fra i due ingressi signorili dei palazzi prospettanti su piazza per tutta la dimensione del suo lato maggiore, tappeto su cui la presenza scultorea centrale è idealmente poggiata.

di Alberto Ferraresi

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7 Giugno 2010

Opere di Architettura

Sede del Consiglio di Castiglia e León a Zamora
di Alberto Campo Baeza


Prospettiva progettuale sullo sfondo della cattedrale di Zamora.

La nuova sede del Consiglio di Castiglia e León, firmata da Alberto Campo Baeza, sta sorgendo nel centro storico di Zamora, nelle immediate vicinanze della cattedrale e della chiesa romanica di Santa Maria La Nueva. Un alto muro, costruito con la stessa pietra locale con cui sono stati edificati i monumenti cittadini, segue l’andamento del lotto a formare un giardino segreto; al centro dello spazio verde, popolato di alberi e piante aromatiche, sorge un corpo di fabbrica trasparente dove trovano posto le sale riunioni e gli uffici per le attività del Consiglio.


Il muro, il giardino e la scatola vitrea in uno schizzo di Alberto Campo Baeza.

Il muro spesso e possente costituisce un segno forte, perfettamente commisurato in altezza alla dimensione del tessuto urbano circostante e delle essenze del giardino; nella cortina continua la pietra si stratifica in placche serrate di grande formato che solo in pochi punti lasciano spazio ai varchi di accesso e a studiate aperture tagliate per consentire dall’interno il traguardo visivo sui monumenti vicini.


Il muro di pietra nel contesto del centro storico.

Il corpo trasparente delle sale e degli uffici è circoscritto da un involucro di vetro a doppia pelle, dotato di parasoli tessili estensibili e capace di una regolazione attiva dei flussi di calore in base ai cicli stagionali; così sia in inverno che in estate il sottile e leggero volume cristallino consente di percepire nella sua totalità l’amichevole vicinanza del verde, e di interagire con esso in un rapporto osmotico che diventa massimo nella fruizione del giardino all’aperto e di alcune terrazze poste in copertura.


Vista dall’interno di un ufficio in uno schizzo di Alberto Campo Baeza.

La grande capacità di Campo Baeza di calibrare gli interventi contemporanei nella città storica con pochi segni nitidi e decisivi è ribadita in questo edificio, dove il tema dell’hortus conclusus – già declinato in numerose ville e nel centro BIT di Maiorca – trova un’ulteriore icastica espressione, resa più che mai vibrante dalla materica presenza della pietra accostata per contrasto all’evanescente scatola vitrea custodita all’interno.

di Davide Turrini

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4 Giugno 2010

Pietre d`Italia

L’ARCHITETTURA RINASCIMENTALE IN PIETRA SERENA A FIRENZE
Filippo Brunelleschi e l’innovazione dei materiali


Base di lesena in pietra serena. Cappella Pazzi, Firenze, piazza Santa Croce

Abbiamo già avuto modo di soffermare la nostra attenzione sul legame formatosi nel corso dei secoli tra l’utilizzo della pietra serena, gli scenari del paesaggio toscano – inteso sia come ambiente naturale che antropizzato – e i manufatti e simboli della sua storia e del suo capoluogo. Se infatti il rosso del mattone colora i vicoli di città di impianto medievale come Lucca e Siena, il grigio-azzurro della pietra serena movimenta le quinte rinascimentali delle strade di Firenze e ne arricchisce di sublime eleganza l’arredo urbano, i cortili e gli spazi interni.
Sappiamo che la pietra detta “serena” si distingue per le sue qualità fin dal VI secolo a.C.; Dante la ricorda nella Divina Commedia citando, “[ …] quello ingrato popolo maligno/che discese di Fiesole ab antico,/ e tiene ancor del monte e del Macigno”1, ma è nel corso del Rinascimento che, indubbiamente, il suo utilizzo subisce un massiccio incremento.
Dall’inizio del Quattrocento, la crescita esponenziale che, a Firenze, coinvolge investimenti pubblici e privati, se affiancata alla rivoluzione culturale in atto e al conseguente affermarsi dei nuovi principi dell’architettura, chiarisce le motivazioni dell’improvviso incremento della richiesta di pietra da costruzione.
Ma se le risorse naturali del territorio offrono all’architetto la scelta tra litotipi diversi, il primato della pietra serena sulla pietraforte, la più utilizzata in epoca medievale, si deve al genio rivoluzionario del Rinascimento, Filippo Brunelleschi. È lui che per primo riconosce nella pietra delle colline fiesolane e dei dintorni del masso della Gonfolina la materia capace di dare forma alla propria teoria architettonica e che, di conseguenza, ne promuove l’utilizzo incondizionato.

Ossature di pietra serena

Colore, consistenza e caratteristiche meccaniche la rendono, agli occhi del maestro, la materia perfetta per la reinterpretazione dei principi dell’architettura antica, proposta attraverso la costruzione di strutture portanti formate da elementi architettonici o simulate per mezzo di articolate composizioni decorative in pietra. L’ossatura grigia è il nuovo ordine architettonico; questa guida il disegno dell’opera grazie alla sua giustapposizione a campiture in intonaco bianco o, talvolta e meno frequentemente, in pietraforte.


Portico dell’Ospedale di Santa Maria degli Innocenti. Firenze (foto: Sara Benzi)

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Il colore della pietra risalta sul bianco creando una bicromia a impatto visivo e concettuale fino ad ora inedita. Elementi architettonici in pietra serena o in muratura dipinta di grigio a simularne la natura litica, campiture intonacate di bianco o formate da conci di pietraforte diventano quindi i componenti principali del linguaggio brunelleschiano, reiterato secondo chiavi di lettura diverse nel corso dei secoli successivi2.
Brunelleschi rende la pietra serena l’elemento caratterizzante della nuova architettura. Lo stesso Vasari scrive:

Quella ch’eglino chiamano pietra serena, è quella sorte che trae in azzurrino, ovvero tinta di bigio; della quale n’è ad Arezzo cave in più luoghi, a Cortona, a Volterra e per tutti gli Appennini; e nei monti di Fiesole è bellissima, per esservisi cavato saldezze grandissime di pietre, come veggiamo in tutti gli edificj che sono in Firenze fatti da Filippo di Ser Brunellesco, il quale fece cavare tutte le pietre di S. Lorenzo e di Santo Spirito, ed altre infinite che sono in ogni edificio per quella città. Questa sorta di pietra è bellissima da vedere.3

L’uniformità e compattezza della pietra serena riduce al minimo l’impatto della componente materica, contribuendo al perseguimento di quell’ideale umanistico volto all’approssimazione dell’opera d’arte al modello archetipo concepito secondo l’idealizzazione platonica.


Sacrestia Vecchia di San Lorenzo. Firenze, piazza San Lorenzo

La matericità dell’opera architettonica, protagonista della costruzione medievale in pietraforte, perde la propria posizione di preminenza con la pietra serena delle fabbriche rinascimentali che tende invece alla totale astrazione. Le possenti colonne monolitiche in pietra serena trasformano la forza tettonica della costruzione in eleganza e nettezza formale.
La pietra serena offre inoltre all’architetto e al costruttore di inizio Quattrocento la possibilità di riproporre la maestosità dell’architettura classica. Gli antichi monoliti in marmo o in granito vengono adesso tagliati e modellati in questa materia che, a differenza della pietraforte, consente la cavatura di pezzi di grandissime dimensioni grazie alla quale prendono vita colonne monolitiche alte fino a sette metri e mezzo.4


Chiesa di San Lorenzo. Firenze, piazza San Lorenzo

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Se le parti della costruzione eseguite in muratura intonacata permettono la riduzione dei costi di manodopera e materia prima, la lavorazione delle membrature litiche avviene attraverso un impegno economico considerevole.5 Brunelleschi ne segue lo sviluppo fino al minimo dettaglio, la scelta delle maestranze è accurata e rivolta ai cantieri fiorentini di fine Trecento dove la materia lapidea era spesso lavorata a straforo come nell’esempio più evidente e rimarchevole delle arcate di Orsanmichele.
Il linguaggio architettonico brunelleschiano guida la costruzione di quelli che diverranno i simboli dell’architettura del Rinascimento fiorentino. Pietra serena e intonaco bianco sono elementi primari in opere come la Sacrestia Vecchia e la chiesa di San Lorenzo, il loggiato dell’Ospedale degli Innocenti, la chiesa di Santo Spirito, la Cappella Pazzi e la stessa cupola del Duomo di Santa Maria del Fiore.

Cave scelte
Solo una minima parte della pietra utilizzata in questi cantieri arriva, via fiume, dalle cave della Gonfolina e dei dintorni di Signa,6 ma i siti estrattivi scelti dal maestro sono quelli dei dintorni di Fiesole. Due, in particolare, sono le cave che vengono nominate nei documenti contabili dei cantieri brunelleschiani: Trassinaia e Vincigliata, di proprietà della famiglia Alessandri.7 Ma anche la “cava delle colonne”, situata nei pressi del fiume Mensola, offre a Brunelleschi e, successivamente, ad altri grandi artisti come Michelangelo, la possibilità di lavorare pietra di altissima qualità per le chiese di San Lorenzo e Santo Spirito.8
Il materiale scelto viene estratto e tagliato in cava in grandi blocchi che, nella maggior parte dei casi, vengono lavorati sul posto prima del trasporto in cantiere, dove vengono solo rifiniti e montati tramite macchinari e tecniche costruttive nuove che contribuiscono ad una vera e propria rivoluzione nel campo dell’edilizia.
Nel corso del Quattrocento, l’organizzazione del lavoro nelle cave di pietra subisce una tale evoluzione da divenire addirittura oggetto di rappresentazione in sfondi di opere d’arte a tema sia religioso che civile. All’interno dell’ampio repertorio di tele e affreschi realizzati da Andrea Mantegna, notiamo ad esempio come sullo sfondo della Madonna delle cave, del Cristo su un sarcofago e dell’Incontro di Lodovico Gonzaga e suo figlio siano raffigurati scalpellini in cava intenti a lavorare blocchi di pietra.


Madonna della cave, particolare. Andrea Mantegna, 1488-1490, Firenze, Galleria degli Uffizi

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È all’interno di questi siti estrattivi , oltre che nelle botteghe degli scalpellini, che prendono forma le cornici, gli archi, le colonne, i capitelli che, in una giustapposizione di geometrie perfette, articolano ritmicamente i nuovi spazi rinascimentali.

Inserti di pietra serena nella cupola di Santa Maria del Fiore
Se su alcuni degli edifici simbolo dell’opera brunelleschiana ci soffermeremo in seguito, è interessante notare la presenza di inserti in pietra serena anche nella cupola di Santa Maria del Fiore. Il ruolo primario assunto dal macigno di Fiesole nella composizione del disegno architettonico delle altre opere del maestro cede il posto, in questo caso, a una funzione prettamente statica. Oltre che per i pavimenti degli anelli di chiusura della cupola, la pietra serena è infatti inserita all’interno della muratura in pietra forte alla base della calotta e rinforzata con elementi in ferro, al fine di formare catene di contenimento degli sforzi di trazione che vi si formano.9


Elementi in pietra serena alla base della cupola di Santa Maria del Fiore. Firenze, piazza del Duomo (foto: Sara Benzi)

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Caratteristiche estetiche e meccaniche di questa pietra inducono quindi Filippo Brunelleschi, nel corso di tutta la sua carriera di architetto, a riservarle una posizione di preminenza. Non è quindi difficile affermare che, grazie all’opera del maestro del Rinascimento, questa risorsa territoriale comincia a essere valorizzata a tal punto da divenire uno dei materiali-simbolo del paesaggio toscano.

di Sara Benzi

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OperaDuomo

Note
1 Inferno, XV, 51-54.
2 Per un approfondimento sul tema si veda: Roberto Gargiani, Princìpi e costruzione nell’architettura italiana del Quattrocento, Laterza, Bari, 2003, pp. 23-47
3 Giorgio Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano, 1807, vol. 1, p. 236.
4 Come è possibile constatare nella chiesa di San Lorenzo
5 La studiosa Giuseppina Carla Romby sostiene che il nuovo linguaggio architettonico utilizzato da Brunelleschi sia stato dettato da un’imminente necessità di riduzione dei costi; cfr.: Giuseppina Carla Romby, Per costruire ai tempi di Brunelleschi – modi, norme e consuetudini del quattrocento fiorentino, CLUSF, Firenze, 1979.
6 Parte delle colonne della Chiesa di San Lorenzo provengono da queste cave. Nel 1448 sei fusti monolitici vengono trasportati lungo il corso dell’Arno con una barca costruita appositamente.
7 Gli Alessandri, proprietari di vasti terreni delle colline fiesolane, affittavano frequentemente le loro cave a scalpellini o committenti che ne volessero fare uso. Chi possedeva le cave preferiva infatti affittarle o venderle in quanto, fino al Rinascimento inoltrato, queste non rappresentavano una risorsa fruttuosa, per l’abbondanza di materiale sul territorio toscano e la necessità di grande quantità di manodopera altamente specializzata. Al contrario, il committente preferiva acquistare o prendere in affitto la cava in maniera tale che questa divenisse una parte integrante del cantiere.
Nel corso della prima metà del Quattrocento il mercato della pietra serena subisce un notevole ed improvviso sviluppo attraverso un commercio molto variegato: venivano venduti conci di grandezza diversa, più o meno lavorati. Talvolta erano gli stessi scalpellini ad acquistare le cave riuscendo così a controllare l’intero processo produttivo, altre volte questi facevano da intermediari fra il cavatore e il cliente.
Per un approfondimento sul tema si veda: Richard A. Goldthwaite, “La pietra”, in La costruzione della Firenze Rinascimentale, Società editrice Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 298-329.
8 Agli inizi del Novecento questa cava è stata trasformata in un piccolo lago facendovi affluire l’acqua del fiume Mensola. Per un approfondimento sul temasi veda: Lodovico Edlmann, “Sulla pietra del Fossato”, in Bollettino della Società Geologica Italiana, LXIX, 1950, pp. 89-93.
9 Il biografo di Brunelleschi, Antonio Manetti, scrive che nella Cupola “sonvi molte pietre e delle nascose negli angoli, che non appariscono a nessuna evidenza e in quelle che appariscono in parte di macigni lunghi, che quando e’ ne parlava agli scalpellini, a nessuno modo lo potevano intendere […]” (cfr. Roberto Corazzi, Giuseppe Conti, Stefania Marini, Cupola di Santa Maria del Fiore. Tra ipotesi e realtà: studi e ricerche per un’indagine avanzata, Pitagora, Bologna, 2005, pp. 6ss).
L’utilizzo di questa pietra nel cantiere della cupola è testimoniato dai documenti concernenti la sua costruzione -avvenuta tra il 1417 e il 1436 – che permettono di conoscere in maniera dettagliata il numero e le misure dei componenti lapidei dell’opera, oltre che la loro provenienza, corrispondente in maniera pressoché esclusiva con la cava di Trassinaia. Questi documenti, appartenenti agli archivi dell’Opera del Duomo, sono stati digitalizzati e resi disponibili in linea con il nome “Gli anni della Cupola”, al link: www.operaduomo.firenze.it/cupola.

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