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5 Novembre 2010

Videointerviste

Intervista a Patricia Urquiola

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Patricia Urquiola (Oviedo, Spagna, 1961) è una delle più brillanti protagoniste del design mondiale. Spagnola di nascita ma milanese di adozione, nel suo lavoro riesce a far convivere efficacemente bellezza e comfort, raffinata sensibilità femminile e sapienza tecnica. Caratteristica del suo lavoro è la vocazione a creare ambienti informali, flessibili, trasformabili, che suggeriscono una sensazione di intimità e invitano a momenti di aggregazione.


Patricia Urquiola

Patricia Urquiola studia alla Faculdad de Arquitectura de Madrid e al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1989 con Achille Castiglioni. Dal 1990 al 1992 è assistente nei corsi tenuti da Achille Castiglioni ed Eugenio Bettinelli sia al Politecnico di Milano che all’ENSCI di Parigi. Dal 1990 al 1996 segue l’Ufficio sviluppo prodotti per De Padova, dove collabora con Vico Magistretti. Nel 1993 apre uno studio associato con M. de Renzio e E. Ramerino, occupandosi di progettazione architettonica, interni, showroom e ristoranti. Dal 1996 al 2000 coordina il “gruppo design” dello studio Lissoni Associati. Nel 2001 fonda un personale atelier di progettazione, dedicandosi soprattutto al design, agli allestimenti e all’architettura.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, Patricia Urquiola presenta il frutto di una ricerca “a quattro mani” svolta con Budri. Il risultato è una rilettura del marmo come un materiale che si piega agevolmente alla metamorfosi e che, nella varietà delle soluzioni figurative e cromatiche, può essere impiegato nel design per la realizzazione di oggetti (tavoli, panche, pareti) dal forte impatto espressivo. La designer spagnola illustra la realizzazione di una parete in marmo ispirata al tema di un “pizzo tridimensionale”, traforato e composto dall’assemblaggio di elementi modulari a formare una gelosia lapidea. Il concept ideativo si fonda da un lato sulla volontà di esplorare le possibilità di re-impiego dell’elemento di scarto come modulo costruttivo basilare del progetto e dall’altro sull’approfondimento del dettaglio, per realizzare forme giocose, piacevoli, intriganti che suggeriscono una nuova strada interpretativa del marmo come materiale scultoreo per eccellenza.

Chiara Testoni

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Patricia Urquiola
Budri

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4 Novembre 2010

News

LINEA II
Tangents, Interlaces, Knots, Labyrinths


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2 Novembre 2010

Pietre d`Italia

FIRENZUOLA E LA “PIETRA FORTE FIORENTINA”
Dall’opera del Sangallo alle cave del Casone, la riscoperta di un’antica risorsa?


Portale in arenaria a Gualiguando, nei pressi di Firenzuola1.

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Contemporaneamente all’avvio dell’utilizzo della pietra serena per la realizzazione pratica dell’assunto teorico brunelleschiano, nelle piccole realtà locali del territorio toscano al di fuori dei confini della città di Firenze, le caratteristiche fisico-meccaniche di questo litotipo vengono messe a frutto per la realizzazione di manufatti di arredo urbano ed edifici in pietra grezza a vista che contribuiscono alla creazione di un linguaggio estetico-architettonico proprio della civiltà rurale. Nel corso dei decenni, la cosiddetta “architettura popolare” in pietra arenaria si precisa in tipologie costruttive e componenti tecnologiche definite e ripetibili2.
Nella seconda metà del Quattrocento la pietra serena trova un suo specifico utilizzo anche nell’architettura militare. Caso emblematico è la città mugellana di Firenzuola che, pur lasciando il primato al territorio fiorentino e alle cave fiesolane, già all’epoca si identifica come uno dei principali centri di estrazione e lavorazione di questo litotipo per avviarsi, attraverso i secoli, a diventarne il principale centro produttivo3.


Foto d’epoca di alcuni scalpellini di Piancaldoli, nei pressi di Firenzuola4.

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È dal 1332, anno della fondazione del nuovo agglomerato urbano, che la pietra fa da protagonista nella definizione della sua identità. Qualità meccaniche, colore e compattezza dell’arenaria di questa zona risultano infatti simili a quella delle cave già da tempo aperte a ridosso della Repubblica fiorentina, tanto da condurre alla scelta di questa pietra come principale materia di costruzione della cinta muraria della città e della sua rocca difensiva.
Costruita per fronteggiare gli Ubaldini, signori di questa zona fin dal Medioevo, e controllare la via di comunicazione tra Firenze e Bologna, Firenzuola necessita di un sistema difensivo strategico. La cinta muraria medievale viene quindi trasformata nel corso del Quattrocento da uno dei più illustri architetti militari dell’epoca, Antonio da Sangallo il Vecchio, progettista e capomastro dell’opera dal 1495 al 1499.
Nella progettazione e ricostruzione delle strutture fortilizie di Firenzuola, il Sangallo vuole utilizzare al meglio gli studi e le esperienze fatte fino ad allora nel campo dell’architettura militare, disciplina in cui, insieme al fratello Giuliano, riesce ad apportare un rinnovamento di fondamentale importanza. Insieme allo studio delle forme perimetrali di cinte murarie e rocche, della loro organizzazione spaziale e delle strutture costruttive, il Sangallo individua i materiali più adatti alle loro diverse parti.
Nella cinta muraria di Firenzuola, i cunicoli e le volte interne vengono quindi rivestiti in laterizio proveniente dalle fornaci locali e la struttura viene costruita con il sistema della “muratura a camicia” utilizzando pietrame proveniente dall’alveo del locale fiume Santerno per il riempimento e pietra serena della migliore qualità e dei dintorni della città per i conci di rivestimento. La struttura muraria della Rocca, ricostruita sul preesistente edificio trecentesco, viene anch’essa edificata con conci di pregiata arenaria formanti uno dei primi esempi di cinta bastionata, con scarpate e baluardi angolari5.


Rocca di Firenzuola (foto dell’Arch. Luca Bertuzzi)

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È quindi la pietra serena il materiale lapideo scelto dallo stesso Sangallo per tutti i paramenti esterni delle sue fortificazioni, per quelle parti delle strutture, quindi, maggiormente esposte agli attacchi esterni e bisognosi, di conseguenza, di forte resistenza e lunga durata.
Sangallo riesce a individuare i filari migliori delle cave aperte all’epoca, dando garanzia di difesa all’allora città di Firenzuola grazie a un materiale altresì capace di rappresentarne l’identità territoriale.
Se il secondo conflitto mondiale provoca la pressoché totale distruzione dell’opera sangallesca con i bombardamenti del 12 settembre 1944, la ricostruzione, avvenuta in fasi successive, diventa l’occasione per valorizzare e dare nuova vita alle testimonianze storiche della città e alle risorse del territorio ad essa limitrofo.
La Rocca viene quindi ricostruita rispettandone l’originaria conformazione e utilizzando la più pregiata pietra arenaria locale. L’edificio e le mura adiacenti vengono restaurate e condotte allo stato attuale a partire dal 1998 sotto la direzione dell’architetto Giorgio Carli e in seguito a un accurato lavoro di scavo archeologico grazie al quale vengono portati alla luce parte degli antichi bastioni.


Scavi archeologici effettuati presso la Rocca di Firenzuola6

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Tali ritrovamenti, insieme alla crescente consapevolezza della comunità dell’importanza del proprio patrimonio storico e culturale, inducono all’allestimento di un vero e proprio “Museo della pietra serena” nei sotterranei della Rocca, all’interno della quale vengono accolti anche gli ambienti del Municipio cittadino. L’allestimento museale, facente parte del Museo Diffuso del Mugello-Alto Mugello e della Val di Sieve e posizionato in un ambiente già dotato di un importante valore storico, documenta le tecniche di estrazione e di lavorazione della pietra serena attraverso l’esposizione di manufatti, utensili e opere d’arte locali7.

All’interno di questo processo di ricostruzione e insieme di rinascita economica e culturale, risalta in maniera preponderante la crescente importanza che la filiera produttiva legata alla pietra serena acquisisce a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Le cave, posizionate nei monti ad est di Piancaldoli e nelle vallate dei torrenti Santerno (affluente del Reno) e Rovigo (affluente del Santerno), rappresentano oggi la principale fonte di estrazione di questa materia pregiata.
Attualmente, i siti estrattivi del Casone risaltano in maniera particolare. È qui che quella formazione geologica conosciuta come marnoso-arenacea per la sua alternanza di pietra arenaria e sostanza argillosa si distingue per le molteplici stratificazioni di pietra serena dalle caratteristiche altamente pregiate. E’ il filare numero 21, in particolare, la fonte di quell’arenaria denominata “Pietra Forte Fiorentina” che si eleva a pietra serena per eccellenza, a punto di forza dell’azienda garante della qualità dei suoi prodotti.
Osservandone attentamente il colore e la compattezza e analizzandone le caratteristiche chimico-fisiche, veniamo stupiti dalla vicinanza a quella pietra serena scelta alla fine del Quattrocento da Antonio da Sangallo il Vecchio. Il filare dal quale sono stati ricavati i conci di pietra per il rivestimento delle mura e per l’edificazione della Rocca attigua potrebbe quindi essere collegato a questa stratificazione che, è possibile ipotizzare, sta forse riportando alla luce quella pietra già riconosciuta per il suo particolare pregio più di cinquecento anni fa.


Le cave del Casone (foto: Sara Benzi)

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Risulta di particolare importanza, quindi, soffermarci sull’ipotesi di un legame, quantomeno qualitativo, tra il filare individuato da Antonio da Sangallo il Vecchio e il filare 21 della Pietra Forte Fiorentina del Casone. Un legame che, ancora una volta, conferma il significato della salvaguardia della tradizione legata all’uso delle risorse naturali del territorio, inscindibilmente collegata con il suo rispetto da parte dell’uomo.

Sara Benzi

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Comune di Firenzuola

Note
1 Foto tratta da: Giorgio Carli, La pietra di Firenzuola – Cultura manuale e architettura popolare, Giorgi e Gambi Editori, Firenze, 1989, p. 93.
2Per un approfondimento sul tema si veda: Ferdinando Morozzi, Delle case dei contadini, trattato architettonico, Firenze, 1770; Renato Biasutti, La casa rurale nella Toscana, Zanichelli, Bologna, 1938; Mario Coluccini, Tecnologia, costruzioni edili, meccanica e lavorazione della pietra, Ticci, Siena, 1965; Giorgio Carli, La pietra di Firenzuola – Cultura manuale e architettura popolare, Giorgi e Gambi Editori, Firenze, 1989.
3 Cfr. Aldo Burresi et al., La pietra di Firenzuola nell’alto Mugello: aspetti geologico-ambientali ed economico-aziendali di un settore in sviluppo, MCS, Firenze, 1981.
4 Cfr. Giorgio Carli, Firenzuola, la fortificazione ad opera di Antonio Da Sangallo il Vecchio: considerazioni sulla struttura urbana della nuova fondazione fiorentina, Stabilimento grafico commerciale, Firenze, 1981.
5 Foto tratta da: Carli, op. cit., 1989, p. 35.
6 Per un approfondimento sul tema si veda: AA. VV., Il Museo della Pietra Serena di Firenzuola, Polistampa, Firenze, 2002.
7 Foto tratta da: AA. VV., Il Museo della Pietra Serena di Firenzuola, Polistampa, Firenze, 2002, p. 20.

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30 Ottobre 2010

Post-it

CCCloud Casalgrande Ceramic Cloud

L’apertura di una nuova arteria stradale a valle del distretto ceramico di Sassuolo-Casalgrande ha indotto Casalgrande Padana a realizzare una nuova ‘porta’ di accesso all’azienda, ridefinendo nello stesso tempo un nuovo sistema di relazioni tra l’area industriale, il sito ed il nascente museo aziendale della ceramica. Kuma propone un ‘muro’ di ceramica di grandi dimensioni, un monumento che marca la topografia territoriale. Prendendo a prestito una metafora linguistica potremmo dire che l’opera di Kuma svolge un’azione pragmatica in rapporto all’uso: semantica in rapporto al valore simbolico; sintattica in rapporto al sistema di relazioni che stabilisce con l’ambiente

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30 Ottobre 2010

Post-it

Quali cose siamo

Dopo aver risposto alla domanda Che cos’è il design italiano? con l’omonimo catalogo e il successivo Serie fuori Serie, il Triennale Design Museum di Milano presenta il nuovo volume dal titolo Quali cose siamo, che provocatoriamente ripropone, e tenta di risolvere, il quesito che muove il progetto della stessa mostra, quest’anno ospite alla Triennale milanese e in seguito itinerante in tutto il mondo.

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30 Ottobre 2010

Post-it

CCCloud di Kengo Kuma, l’evento inaugurale.

Il 2 ottobre scorso i riflettori della cultura architettonica internazionale erano puntati sul piccolo centro industriale di Casalgrande, in provincia di Reggio Emilia, sede dell’azienda ceramica “Casalgrande Padana”. L’intensa attività di ricerca nei campi dell’innovazione tecnologica e artistica fanno della Casalgrande Padana una realtà leader nel settore in ambito internazionale, nonché uno dei simboli produttivi più radicati nel distretto economico emiliano anche grazie allo “storico” impegno socio-culturale espletato dall’azienda nel territorio comunale.
Il 50° compleanno dell’azienda è stato celebrato come una festa collettiva, in cui la Casalgrande Padana ha condiviso la sua storia con la comunità e ha colto l’occasione per consegnare alla città la prima opera italiana del celebre architetto giapponese Kengo Kuma, “Casalgrande Ceramic Cloud”, vero e proprio “manifesto” urbano situato in una rotatoria di circa 30 metri di raggio all’ingresso della strada Pedemontana.

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29 Ottobre 2010

Videointerviste

Intervista a Manuel Aires Mateus
a cura di Davide Turrini

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Manuel Aires Mateus nasce a Lisbona nel 1963 dove si laurea alla Facultad de Arquitectura de la Universidade Tecnica nel 1986. Inizia la collaborazione con l’architetto Gonçalo Byrne dal 1983, esperienza che si rivelerà fondamentale per la sua formazione professionale. Nel 1988 fonda con il fratello Francisco lo studio Aires Mateus & Associados. Gli incarichi pubblici e privati, i numerosissimi premi e i concorsi internazionali vinti, le opere pubblicate sulle riviste di tutto il mondo, delineano i fratelli Aires Mateus quali figure centrali della nuova architettura europea contraddistinte da una ricerca rigorosa e da una cura straordinaria nella qualità delle opere. La formazione nell’ambiente culturale portoghese contrassegnato da personalità di peso internazionale come Tavora, Siza, Souto de Moura e Byrne non ha loro impedito di elaborare uno stile personale caratterizzato fin dall’inizio da una evidente riconoscibilità. L’architettura di Aires Mateus, solo superficialmente riconducibile al minimalismo internazionale, si basa su una ricerca dello spazio e della materia che, pur riconoscendo nella massa la sua principale ragione d’essere, mira ad eliminare la gravità per affermare piuttosto la leggerezza attraverso una sua sostanziale smaterializzazione.
Tra le opere più significative realizzate dallo studio figurano numerose case private, tra cui Casa ad Alenquer (2001), Casa en el litoral de Alentejo (2003) e Casa Brejos de Azeitão (2003), e opere pubbliche, tra le quali la Residencia de estudiantes de la Universidade de Coimbra (1999), il Rectorado de la Universidade Nova (2001), il Museo de Arquitectura (2006) e Edifícios de Escritórios a Lisboa (2008), il Centro Cultural de Sines (2000), il Museo del Faro a Cascais (2003), le librerie Almedina (2000-2002).?Dal 1997 Manuel Aires Mateus è professore cattedratico all’Università di Lisbona, tra il 2002 e il 2005 è stato inoltre Visiting Professor alla Graduate School of Design di Harvard.
Dal 2001 è professore presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio.


Stand di Manuel Aires Mateus per Pibamarmi. Marmomacc 2010

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27 Ottobre 2010

Scultura

TUSCIAELECTA ARTE CONTEMPORANEA NEL CHIANTI

Alan Sonfist
Birth by Spear

A cura di Arabella Natalini

Inaugurazione: sabato 2 ottobre 2010, ore 11.30
Oliveta antistante l’Antica Fornace Poggi Ugo
Via Imprunetana 16 (per Tavarnuzze)
Impruneta

Tusciaelecta. Arte contemporanea nel Chianti è lieta di annunciare l’inaugurazione di Birth by Spear, la nuova opera permanente appositamente ideata da Alan Sonfist per il Comune di Impruneta che quest’anno ha deciso di privilegiare come spazi espositivi quelli adiacenti alle antiche fornaci di terracotta.

Il noto artista americano, da sempre interessato al rapporto con l’ambiente nel senso più ampio del termine, ha scelto un’oliveta preesistente situata nei pressi dell’antica fornace Poggi come sede, e fonte d’ispirazione del suo ultimo intervento.
Il punto di partenza del progetto è costituito dall’interesse dell’artista verso l’evoluzione dell’ulivo, una storia molto ricca che attraversa tutto il mediterraneo e che risulta di particolare rilevanza nel nostro contesto paesaggistico.
E’ stata così realizzata un’installazione ambientale che si configura come una grande foglia d’ulivo (lunga circa 30 metri) delimitata da un tracciato in cotto; al suo interno sono stati piantati alcuni alberi, arbusti e cespugli appartenenti all’antica famiglia delle piante che storicamente accompagnano la crescita dell’olivo, e che diverranno elemento costitutivo di questo paesaggio antico e testimonianza dell’evoluzione mitologica e botanica di quest’albero.
Ma l’interesse dell’artista è rivolto a una spazialità che sia anche evocativa di memorie storiche o mitologiche. Dal cuore della foglia si staglia quindi una lunga lancia (in acciaio), simbolo della nascita dell’olivo a rievocare l’antica mitologia greca e romana secondo le quali Minerva, la dea romana, e Atena, la dea greca, rappresentano le “madri” dell’olivo. La lancia quindi segna lo spazio costituendo un’evocazione delle credenze antiche mentre l’opera nel suo complesso si costituirà sia come monumentale segno visivo del tempo, sia come luogo di conoscenza della storia botanica autoctona per il pubblico internazionale e per la comunità locale.

Alan Sonfist
Nato a New York nel 1946. Vive e lavora a New York.
Alan Sonfist è un artista interessato al rapporto con l’ambiente nel senso più ampio, ed in particolare alla creazione di una spazialità che sia evocativa di memorie mitiche o mitologiche.
Nel 1965 realizza Time Landscape TM, la prima “foresta urbana” a New York, sponsorizzata da enti pubblici e privati, una ricostruzione di una selva pre-coloniale all’interno di una metropoli contemporanea, acquistando immediatamente fama internazionale. In seguito, per il suo uso innovativo degli spazi urbani, Sonfist ha ricevuto l’acclamazione della critica, divenendo un importante punto di riferimento per la teorizzazione e la progettazione paesaggistica.
Oggi l’artista continua a farsi promotore di un’“arte ambientale ecologica”, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica al cambiamento climatico globale.
Ha ricevuto riconoscimenti e sovvenzioni da organizzazioni private e governative, tra cui il National Endowment for the Arts, la Fondazione Graham per l’Arte e l’Architettura, la Chase Manhattan Bank Foundation, e la Information Agency.
Sue opere sono presenti nelle collezioni di importanti istituzioni tra cui il Metropolitan Museum of Art, il Dallas Museum of Art, il Princeton University Museum, il Museo of Modern Art – New York, il Whitney Museum e il Museum Ludwig di Aachen, in Germania.
Tra le sue numerose mostre personali ricordiamo The Autobiography of Alan Sonfist al Boston Museum of Fine Arts, Alan Sonfist Landscapes presso lo Smithsonian American Art Museum, Trees presso l’High Museum di Atlanta, GA, e Trinity River Project presso il Dallas Museum of Fine Arts.



TUSCIAELECTA. Arte contemporanea nel Chianti
è una manifestazione d’arte pubblica volta a produrre un modello di ridefinizione del paesaggio, e degli insediamenti urbani, attraverso l’inserimento di opere d’arte contemporanea nel Chianti con l’intento di costituire un rapporto significativo tra opere d’arte, appositamente realizzate, e contesto ospitante.
Dal 1996 ad oggi la manifestazione ha ospitato più di cinquanta artisti, invitandoli a soggiornare nelle cittadine coinvolte e a progettare opere che intervenissero nel territorio. I lavori, eterogenei per processualità, progettualità e poetica, si trovano a travalicare la sfera prettamente estetica per inoltrarsi nella dimensione sociale, non solo con la loro presenza nei luoghi, ma anche attraverso lo scambio con il pubblico e con le energie produttive locali.
A partire dal biennio 2005/2006 Tusciaelecta ha avviato un percorso di graduale ridefinizione dei propri obbiettivi. Nella convinzione che sia necessario favorire una crescente interazione tra le opere e i contesti ospitanti, la rassegna ha iniziato a presentare un numero più ristretto di artisti e a concentrarsi sempre più sulla realizzazione di opere site specific permanenti.
Tusciaelecta è promossa dai comuni di Greve in Chianti, Barberino Val d’Elsa, Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti, Impruneta, Radda in Chianti, San Casciano Val di Pesa, Tavarnelle Val di Pesa e Firenze.

Con il Contributo di Regione Toscana, Ente Cassa di Risparmio di Firenze, associazione Fornaci Storiche di Impruneta.

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25 Ottobre 2010

Opere Murarie

Maschere di pietra*


Pantheon. Scorci della Rotonda con la cupola cassettonata e l’oculus sommitale aperto verso il cielo.

«L’architettura occidentale – citando una sintetica e personale visione interpretativa di Tadao Ando – ha impiegato massicce murature in pietra per separare gli spazi interni dagli esterni; le finestre ritagliate in muratura così spesse da apparire come veri gesti di rifiuto del mondo esterno, erano di piccole dimensioni e possedevano forme severe. Queste aperture ancora più che consentire alla luce di entrare brillavano intensamente sostituendosi così alla luce stessa; esprimevano, probabilmente l’aspirazione alla luce di uomini condannati a vivere nell’oscurità. Un brillante raggio di luce attraversando quella oscurità poteva suonare come una invocazione e le finestre erano concepite non per il piacere di vedere, ma semplicemente per consentire l’ingresso alla luce nella forma più diretta. Una luce, questa, che perforando l’interno dell’architettura produceva spazi di solida e risoluta configurazione. Le aperture realizzate con simile severità segmentavano il movimento della luce con precisione e lo spazio era modellato, quasi in maniera scultorea, da linee luminose che spezzavano l’oscurità e la cui configurazione mutava in ogni momento.»1
Ci siamo più volte interrogati sulla natura di queste “massicce murature di pietra” dell’architettura occidentale evocate dal maestro giapponese.
L’essere massiccio delle murature, secondo noi, non ha voluto dire sempre evidenza (affermazione) strutturale, nè impiego di un solo tipo di materiale litico.
Dell’ambivalenza d’uso della pietra in architettura sospesa fra stuttura e rivestimento, fra modi costruttivi e “maschere” architettoniche vorremo mettere a fuoco il momento delle origini connesso all’esperienza romana in cui, per la prima volta, si afferma in forma matura la concezione dell’ordine murario.


Roma. Foro di Traiano: ricostruzione dei portici affacciati sulla piazza.

La massima espressione di una tecnica muraria di tipo stratigrafico, con un’esaltazione dei valori di superficie e di rivestimento parietale, è legata proprio all’esperienza romana sulla quale hanno dato contributi interpretativi fondamentali (fra Otto e Novecento) personaggi di primo piano della cultura artistica ed architettonica europea quali Semper, Bötticher, Riegl, Choisy, Meurer, Bettini ed altri.
Nell’architettura romana, salvo alcuni manufatti architettonici particolari (quali gli edifici di culto più importanti, i “templi”), non esiste una corrispondenza diretta, esplicita, fra la struttura portante e la facies parietale, interna o esterna, a vista.
La verità strutturale per cui un edificio romano sta in piedi, assolvendo al suo ruolo statico, è molto diversa da quella che, in genere, appare a prima vista; dando questa particolare risoluzione al problema della costruzione gli architetti romani si allontanarono da quanto aveva espresso sin allora l’architettura greca.
Anticipazioni si registrano nel mondo ellenistico.
La maggiore carica innovativa della tecnica costruttiva ellenistica fa sì che — sia pur a fronte dell’abitudine prevalente alla struttura muraria massiva ed omogenea secondo la “maniera greca” — già prima delle esperienze romane la concezione di una costruzione muraria “composita”, “stratigrafica”, con uso contestuale di materiali diversi, trovi i suoi primi, anche se limitati, esperimenti applicativi.
Recependo tali innovazioni, in ambito romano il muro — ovvero quella parte della costruzione compresa fra il piano di spiccato e il piano di appoggio delle coperture — è riguardabile come struttura composita e specializzata fatta di molteplici materiali, di strati a funzioni diversificate, organizzati e gerarchizzati dall’interno verso l’esterno.
In genere è dato un nucleo murario portante centrale a cui si sovrappone una serie di strati che “ingrossano” lo spessore dell’ossatura muraria (sia verso l’interno che l’esterno) utilizzando cocciopesti, intonaci di calce, intonaci colorati con pitture ad affresco, encausti, stucchi, rivestimenti lapidei a spessore e, dall’epoca imperiale, anche lastre sottili di marmi policromi, mosaici in pasta vitrea, laterizi a vista.


Roma. Foro di Traiano: ricostruzione dell’interno della biblioteca

L’ossatura muraria, in forma di solido resistente e di sostegno alla copertura, è, in genere, obliterata; gli strati superficiali di rivestimento in continuità materica e coloristica, delimitano e definiscono lo spazio “azzerando” ogni evidenza della struttura portante.
La struttura muraria portante risulta, generalmente, tripartita, ovvero composta da tre strati materici: due cortine all’esterno e un nucleo interno, di più rilevante spessore, in calcestruzzo.
Nella composizione del nucleo centrale fa da protagonista l’opus caementicium, un materiale destinato a rivoluzionare i sistemi di costruzione dell’architettura antica e a promuovere una grandiosa “architettura spaziale” in cui un ruolo essenziale è svolto dalla malta di calce (materia) quale elemento aggregante rispetto ai “rottami” (caementa) di pietra o di laterizio cotto che costituiscono l’ossatura del calcestruzzo stesso allettati a mano nella malta molto fluida da maestranze non necessariamente qualificate (come quelle preposte alla realizzazione dei paramenti murari).
Privo di cortine, l’opus caementicium è comunemente impiegato unicamente in fondazione; in spiccato, invece, è utilizzato sempre come nucleo interno, in abbinamento con casseforme-cortine molte variegate per tipologia, morfologia e dimensioni dei materiali costitutivi. Tali cortine risultano generalmente formate da elementi — sia nel caso di utilizzo di pietre naturali che di prodotti “artificiali”, quali i laterizi cotti — con una morfologica a “cuneo” (rigorosa nell‘opus reticolatum e nell’opus testaceum, meno definita ma sempre presente nell’opus incertum e nell‘opus vittatum). Questa particolare morfologia a “bietta” è finalizzata ad ottenere — verso l’interno — la compenetrazione degli eterogenei materiali costitutivi (nucleo-paramenti) e — verso l’esterno — una parete completamente pareggiata e complanare idonea ad accogliere qualsiasi altro strato di rivestimento superficiale da lasciare a vista.
Fra le fonti antiche Vitruvio, nel secondo capitolo del De Architectura, precisa con una certa cura le caratteristiche delle diverse tipologie di opus romani esplicitando la peculiarità della nuova concezione costruttiva romana a base essenzialmente concretizia e confrontandola con la tradizione greca e il tardo aggiornamento ellenistico che introduce — come già accennato — murature miste ad emplecton, preludio degli sviluppi romani delle murature composite.
Rimane da esplicitare il motivo per cui i romani dissimularono a tal punto l’ossatura muraria portante (rifiutando ogni apporto estetico dell’elemento strutturale), eleggendo, invece, il rivestimento a vero protagonista dell’immagine architettonica.
Siamo di fronte, indubbiamente, alla maturazione di una sensibilità alla forma architettonica diversa da quella derivante dalla concezione trilitica greca o peristilia ellenistica. L’obliterazione delle membrature costruttive si accompagna, in genere, nell’architettura romana, a un occultamento della loro tettonicità, della loro gerarchizzazione e differenziazione strutturale, sfruttando soluzioni di “ricoprimento” delle murature verticali e delle ampie ed avvolgenti volte, veri dispositivi innovativi della concezione architettonica romana.


Ricostruzione assonometrica di un edificio termale romano tratto dal Voyage d’Italie di Eugéne Viollet-Le-Duc

«Nell’arte romana — evidenzia con grande acutezza Sergio Bettini — le volte e le cupole hanno la funzione figurativa fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere quell’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate anche tutte le forme particolari. È questa totalità spaziale, appunto che determina il significato propriamente architettonico degli edifici romani, e costituisce il punto di partenza per l’esatta comprensione delle forme particolari che in essa vengono assorbite; non sono le forme singolarmente prese o un accostamento di forme singole. Già dagli inizi, dalla stessa adozione della tecnica cementizia, l’accento dell’architettura romana è posta, non sull’elemento, alla maniera greca, ma sul legamento, cioè sull’unità complessiva della fabbrica.» 2

Gli esempi dell’illusionismo strutturale rintracciabili nell’architettura romana sono molteplici (anche in complessi dove sicuramente non esistevano limitazioni economiche o di competenze tecniche); fra tutti possiamo citare il caso particolarmente significativo delle piattabande in mattoni foderate con lastre di marmo a simulazione di grandi architravi monolitici sia nel Cortile dei pilastri dorici che nel Teatro marittimo della “Villa tiburtina” a Tivoli dell’imperatore Adriano.
In fondo le “finte architetture” da rivestimento, con pitture dipinte, placcature marmoree, mosaici, stucchi ecc., perseguono tutte la medesima finalità; gettare sulla parete una “veste” che trasmetta una qualità estetica superiore a quanto sarebbe stato possibile per altra via.
Non dissimilmente riteniamo che nella maggior parte delle architetture contemporanee in pietra si continua ad operare attraverso la tecnica (e i linguaggi architettonici conseguenti) del ricoprimento, del rivestimento, della “maschera litica” simulacro ed evocazione, allo stesso tempo, della mitica struttura monolitica delle civiltà costruttive mediterranee preromane.

Alfonso Acocella

Note
* L’articolo è apparso in forma originaria nella rivista And n. 18, 2010, pp. 43-48. Si ringrazia il direttore Paolo Di Nardo per la concessione alla rieditazione.
1 Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1990 (ed or. 1978), pp. 147
2 Tadao Ando, “Luce” (1993) in Tadao Ando, Milano, Electa, 1994, pp. 521.

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22 Ottobre 2010

Eventi

Progettare la cava. Recupero delle cave di pietra e costruzione del paesaggio.
Marmomacc, 1 ottobre 2010


Quest’anno Marmomacc ha riservato ai convegni ed ai momenti di studio uno spazio importante dentro al cuore della fiera.

Quello delle cave è per la pietra il tema del rapporto fra la materia prima e la natura che la genera, è invece per l’uomo il tema della volontà di disporre d’entrambi nella consapevolezza dell’irreversibilità dell’azione di scavo. Le sfaccettature al riguardo sono davvero molteplici. Marmomacc ha dedicato a questo tema nell’edizione di quest’anno, con il coordinamento di Vincenzo Pavan, un’intera giornata di studi rivolti a tre principali filoni d’indagine: le scelte di gestione del territorio naturale operate dalle regioni, le possibilità di riuso degli ambiti di cava, gli indirizzi di ricerca seguiti dalle principali università italiane.
Dopo i saluti del dott. Giovanni Sacripante responsabile della Direzione Mercato di Veronafiere, Calogero Montalbano della Facoltà di Architettura di Bari ha guidato la prima sessione dei lavori, dal titolo La cava sostenibile: l’esperienza italiana.
La scissione fra politica, normativa ed operatività nel campo delle cave giunge ad un significativo momento nodale quando la coltivazione di cava perviene al termine del suo ciclo vitale. Le Regioni italiane propongono approcci assai differenti, pur entro alcune linee guida comuni.
Il dott. Erardo Garro, esperto di Geologia ed Attività Estrattive della Regione Veneto ha richiamato le proprie direttive regionali, che prevedono veri ripristini sui siti estrattivi, armonici e coerenti con i caratteri ambientali, tali da permettere il riuso delle aree e da garantire la riacquisizione dei terreni da parte della natura, senza segni in alcun modo visibili della mano dell’uomo. Sono pertanto interventi che, come ci ricorda: “se sono fatti bene non si vedono”.
L’ing. Francesco Sciannameo, Direttore alle Politiche per l’Ambiente della Regione Puglia, ha segnalato il problema dei lasciti normativi del passato, che ha principalmente regolamentato l’estrazione, ma non altrettanto bene il ripristino.
In Puglia vi sono oltre 460 cave in esercizio e circa 2000 abbandonate. Di concerto con il Politecnico di Bari sono stati condotti vari studi su come poter riutilizzare le aree dismesse, auspicando fattivamente soluzioni capaci di far convergere pubblico e privato in società miste finalizzate ai risultati comuni di soddisfazione d’entrambi. Gli studi condotti hanno portato all’individuazione di modelli-guida per il ripristino delle cave esistenti. È stato pure istituito un osservatorio economico, con lo scopo di indagare e determinare equilibri fra il numero di cave necessarie ed il numero di quelle esistenti ed attive. Propositivamente l’ing. Sciannameo ha avanzato l’ipotesi di una “tariffa sullo scavato” da ridestinare ai cavatori ed ai Comuni con l’obbligo della finalizzazione alle opere di ripristino, di adeguamento a norma, di messa in sicurezza dei luoghi.


Un momento dell’apertura dei lavori del convegno.

L’arch. Alessandro Rafanelli, Funzionario del Settore Infrastrutture di Trasporto e Cave della Regione Toscana ha presentato la situazione della sua regione, imperniata su un assetto normativo specifico del 1998. In Toscana sono attualmente attive circa 400 cave, tra cui anche alcune importanti cave di prestito, cave temporanee necessarie per la realizzazione di opere pubbliche, ed in questo caso relative principalmente alla costruzione di grandi infrastrutture viarie. A differenza del caso della regione Veneto, l’orientamento volge ai recuperi ambientali delle cave dismesse, ammettendone anche la trasformazione alla volta di una nuova destinazione d’uso, anziché ai ripristini. In chiusura d’intervento l’arch. Rafanelli ha avanzato due interessanti proposte: quella dell’istituzione di organi di coordinamento nazionale per le attività di cava, così da non ammettere troppo grandi diversità d’approccio da parte dei decisori pubblici, e l’estensione del marchio doc ai prodotti di cava, così da regolamentarne la qualità elevandola a standard minimi condivisi.
La dott.ssa Paola Botta, Direttore del Servizio Attività Estrattive della Regione Sardegna ha presentato lo stato dell’arte nell’isola, in cui è a tutt’oggi in vigore una legge del 1989. Il Servizio delle attività estrattive è un organo regionale specifico articolato in 4 settori a seconda dei tipi di cava e miniera. Anche in Sardegna si prevedono ripristini ambientali. Le cave attualmente attive sono 384, i ripristini eseguiti 246, ma esistono 350 cave abbandonate risalenti ad attività precedenti il 1989 e dunque estranee agli obblighi di recupero, per le quali non esistono indirizzi specifici. La regione ha stanziato e sta ancora stanziando molti fondi a sostegno delle riqualificazioni possibili. Nell’ambito dei ripristini vengono mostrati alcuni casi emblematici. Un primo esempio si trova nei pressi di Luras, nel nord Sardegna: si è proceduto ad un ricoprimento delle aree cavate, poi a piantumazione e perfino acidazione delle superfici lapidee di spacco per accelerare l’ossidazione dei massi ad ottenere un colore della pietra più scuro e rassomigliante ai materiali non cavati. Il secondo esempio si colloca a ridosso della monumentale basilica di Saccargia: si tratta di una cava con fronte di 50 m, davanti alla quale è stato eseguito un imponente terrazzamento per circa 30 m d’altezza e sono stati infine collocati alberi ad alto fusto.
Il dott. Alessandro Tomasi, Dirigente del Servizio Minerario della Provincia Autonoma di Trento ha delineato i contorni della vigente legge provinciale in materia, risalente agli anni ’80 e particolarmente concentrata sulle realtà estrattive del porfido. La norma prevede soli piani di ripristino, da delinearsi già nel progetto di cava. Esistono comunque sul territorio anche casi di riuso mediante trasformazione delle aree: la differenza è data principalmente dal fatto che gli interventi di ripristino possano o meno realizzarsi contestualmente all’attività di cava. In questo secondo caso infatti le risorse relative al ripristino accantonate mediante le polizze fidejussorie di legge, vengono orientate su altre aree: si parla dunque di ripristini contestuali nel primo caso od in alternativa di ripristini compensativi.


Nella Golanda ha presentato il proprio lavoro nelle cave di Dionyssos.

È intervenuta infine Raffaella Grassi, Presidente dell’Albo Cavatori Veneto, portando anche il punto di vista degli operatori privati del settore. Riconosciuto come indubbio l’impatto visivo molto evidente dell’attività di cava, è pur vera l’esistenza anche di altri impatti molto forti in altri settori, pur meno visivamente evidenti e di conseguenza normalmente taciuti. L’Associazione ha dunque organizzato un press tour, un percorso di visita nelle molte aree di cava recuperate dedicato specificamente ai giornalisti, con la finalità della divulgazione e della riabilitazione dell’operato dei cavatori agli occhi della comunità.
Un vivo dibattito si è quindi particolarmente soffermato sul tema del reimpiego dei limi e dei fanghi di scarto, poi sulla congruità degli accantonamenti economici finalizzati ai ripristini rispetto ai costi effettivi dei ripristini stessi.
Vincenzo Pavan, della Facoltà di Architettura di Ferrara, ha condotto la seconda sessione del convegno: La reinvenzione del paesaggio – Architetture di cava in Europa. Sono intervenuti: la scultrice francese Laetitia Sauleau Lara a presentare quanto realizzato nelle Cave di S’Hostal a Minorca in Spagna, la progettista greca Nella Golanda per presentare il lavoro condotto nelle Cave di Dionyssos presso il Monte Pentelicon in Grecia, quindi gli architetti spagnoli Eduardo De Miguel Arbonés e José Marìa Urzelai Fernàndez a mostrare l’integrazione paesaggistica della linea del tram ad Alicante presso la zona di cava della Serra Grossa in Spagna.
Demandiamo ad una imminente recensione i contenuti di questi e di altri progetti esemplari contenuti in una pubblicazione specifica curata dallo stesso Vincenzo Pavan e presentata in occasione dell’omonima mostra Architetture di cava.
Con soddisfazione ritroviamo all’interno della pubblicazione un progetto di cui ci siamo occupati per Architetturadipietra.it alcuni anni fa: il progetto per la trasformazione ed il recupero delle cave di Fantiano in Puglia. Nella stessa regione avevamo indagato anche il progetto per la realizzazione di un parco sportivo all’interno delle cave del Faraone a Massafra. In Sardegna abbiamo invece mostrato l’eccellente intervento Il parco dei suoni a Riola Sardo ed il progetto per il piazzale Rocce Rosse ad Arbatax. Abbiamo infine proposto la presentazione del progetto vincitore del concorso per una cittadella dell’ecologia entro le cave di Santomera nella Murcia spagnola.


L’accesso dell’area dedicata alle fasi di studio: il “Forum del marmo”.

Massimiliano Caviasca del Politecnico di Milano ha guidato la terza ed ultima sessione del convegno incentrata sul mondo universitario, La ricerca di nuovi percorsi, nella convinzione che una progettazione specifica possa portare anche per i temi dei recuperi di cava a risultati specifici e migliori.
La prof.ssa Marina Molon ha illustrato i corsi dedicati dal Politecnico di Milano al mondo lapideo: il Master biennale di II livello incentrato sulla progettazione in pietra ed il corso di Progettazione architettonica 4 rivolto al progetto di spazi pubblici ed orientato quest’anno al progetto entro un’area di cava. Ha infine mostrato una tesi di laurea svolta su un’area di cava a Rezzato.
Il prof. Claudio Lamanna dell’Università degli Studi di Trento si è occupato e si occupa di progetto del paesaggio per i luoghi rifiutati, come si sono chiamate le aree di cava inattive. L’indagine ha ancor più portato all’evidenza la diversità fra le molteplici realtà di cava e la loro ricchezza in termini paesaggistici.
La prof.ssa Battaino ha spiegato come all’Università di Udine ci si stia occupando della rigenerazione dello spazio cavato: nel friulano esiste infatti un’attenzione molto marcata anche da parte dei cavatori particolarmente per le cave di ghiaia. Con attenzione specifica a queste si sta allora conducendo una ricerca sulle possibilità che il gradone di scavo possa risultare idoneo ad applicazioni agricole, alla volta di “nuove ecologie” da esperire.
Il prof. Domenico Potenza ha mostrato una tesi di laurea condotta all’Università di Pescara; il progetto ha portato un centro culturale all’interno di un’area di cava. Poi con gli stessi studenti ha affrontato una recente esperienza di concorso sulle aree estrattive della provincia di Modena.
Il prof. Claudio D’Amato del Politecnico di Bari ha concluso i lavori indicando nell’architettura del paesaggio la strada maestra per la riqualificazione delle aree di cava e nello studio delle tecniche storiche della progettazione lapidea la base solida per la formazione di nuovi progettisti.

di Alberto Ferraresi

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Vai al progetto nelle cave di Fantiano
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