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22 Novembre 2010

Letture

Architetture di cava
Quarry Architecture

Architetture di cava Quarry Architecture
(a cura di Vincenzo Pavan)
Motta Architettura, Milano 2010
159 pagine
illustrazioni a colori
testo in italiano con traduzione in inglese
30,00 €

Le cave dimesse sono sempre il risultato di un’intensa attività estrattiva che, dopo avere determinato una profonda alterazione nella fisionomia e nella struttura del territorio, spesso si risolve – come afferma il curatore – in una sottrazione di risorse al paesaggio senza che sia stata attuata una coscienziosa restituzione di beni né in termini economici né culturali.
Le cave abbandonate ricordano quindi sempre più spesso i “cadaveri insepolti” di cui parlava Ernesto Nathan Rogers a proposito di architetture trasfigurate dall’abbandono, dal degrado, dall’incuria o da incoscienti operazioni progettuali. Una volta cessata la produzione, di queste “architetture geologiche” restano gli “scheletri”: nel migliore dei casi, rari ed eccezionali, si parla di “archeologia industriale” dotata di una propria fascinazione; nelle eventualità peggiori, più diffuse, restano invece solo ”ferite” inferte alla terra.


Dalhalla, teatro per la musica inserito in una cava dismessa a Rättvik in Svezia

Nel corso degli ultimi decenni, l’interesse del panorama intellettuale nei confronti del recupero di questi “giganti” abbandonati si è moltiplicato. L’aspirazione ad attuare una chirurgia del paesaggio, estranea a devianti operazioni di cicatrizzazione per “anastilosi” che comunque restituirebbero un paesaggio del tutto alterato rispetto a quello originario, ha così motivato molti pregevoli interventi di riqualificazione delle cave dismesse.
Il libro “Architetture di cava” propone un efficace compendio degli scenari progettuali relativi al tema del recupero delle cave illustrando, attraverso un esaustivo supporto testuale e un efficace apparato iconografico, numerose opere di progettisti e artisti in tutto il mondo.
Dagli interventi di land art finalizzati a rifondare nuovi valori semantici in spazi estremi, ai percorsi di ibridazione della ricerca artistica con la progettazione paesaggistica, agli interventi di progettazione architettonica variamente integrati nelle strutture di cava: nella varietà delle condizioni geofisiche, di finalità, di approcci operativi, i diversi interventi mostrano sempre come comune denominatore la volontà di “re-invenzione progettuale” del territorio, sia che si tratti di veicolare in esso nuove valenze di carattere simbolico – figurativo sia che si tratti di concretizzare nuove destinazioni funzionali.
Con una narrazione fluida e gradevole, il testo raccoglie numerose testimonianze progettuali individuate, per chiarezza espositiva, in quattro aree tematiche.
Sono così illustrati interventi di recupero di zone degradate ai margini urbani a seguito di dismissione di zone di cava (Beth Galì, Parc de Migdia a Bacellona,…); di riqualificazione dell’ archeologia industriale (Massimo Carmassi, Museo della Miniera Ravi Marchi nel Parco Minerario di Gavorrano in Toscana; Nella Golanda e Aspassia Kouzoupi, Cave di Dionyssos nel monte Pentelicon in Grecia); di rifunzionalizzazione come luogo di spettacolo (Albert e Anne Plécy, Cathédrale d’Images a Les Baux de Provence; Margareta Dellefors, Erik Ahnborg, cava nel bosco di Rättvik in Svezia,…); di valorizzazione come infrastrutture territoriali (Bernard Lassus, Cave di Crezanne in Francia; Nicholas Grimshaw, Eden Project in Cornovaglia; Norman Foster, Great Glass House in Galles,…).


Cava Arcari in galleria, nei Colli Berici presso Vicenza, utilizzata per spettacoli

[photogallery]archicava_album[/photogallery]

Il libro dischiude uno scenario molto ampio e complesso di problematiche, da quelle di natura paesaggistica, a quella socio-economica, a quella ecologica, chiamando in causa le competenze più disparate – dagli artisti concettuali, agli ingegneri, ai geologi, agli architetti, ai botanici – nelle convinzione che, per una più consapevole ricostruzione del paesaggio, sia necessaria una responsabilità collettiva e un impegno condiviso da parte di tutti gli operatori coinvolti.

Chiara Testoni

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19 Novembre 2010

Opere di Architettura

Showroom Bulthaup, Milano
John Pawson


L’esterno ed il piano terra dello showroom.

Il matrimonio fra John Pawson e Bulthaup si materializza in un primo showroom a Londra completato nel 2002. In quel caso lo spazio è caratterizzato dalla presenza come di un tunnel, pure finito con paramenti interni in grande parte lapidei, e con tagli di luce soprattutto dall’alto nei punti di giunzione fra solai e superfici verticali. Lungo l’attraversamento del tunnel accadono eventi espositivi allestiti con gli oggetti prodotti dall’azienda. L’attenzione del progetto non sembra, apparentemente, concentrata tanto sui prodotti, quanto sulla creazione di un sistema emozionale da accompagnare alle ritualità dell’acquisto da parte del cliente Bulthaup. In questo senso l’approccio proposto da Pawson ben incarna e rappresenta quanto già descritto nei testi di Vanni Codeluppi e Marco Turinetto richiamati in contributi precedenti riguardanti le tendenze attuali del retail design.
Anche negli spazi dello showroom milanese ritornano alcune citazioni del tunnel di Londra, in particolare al piano terra con i suoi tagli di luce pur innestati dalle ampie finestrature verticali su strada, ed al piano inferiore con alcune sole porzioni di queste nicchie per le apparecchiature d’illuminazione, come fossero attraversamenti di luce naturale proveniente dall’alto.
Le occasioni progettuali nell’ambito del retail design non sono nuove per John Pawson; ricordiamo particolarmente i punti vendita di Calvin Klein in sedi internazionali (a New York, Parigi, Seoul e Tokyo), poi dei gruppi m&s, b&b Italia, jigsaw, e cannelle cake in locations londinesi. Nei casi degli interventi per Calvin Klein e per Bulthaup pare di riscontrare una speciale empatia fra linguaggio del brand e linguaggio dell’architetto, pur senza essere questa una condizione necessaria ed obbligata per la buona riuscita dell’architettura. Lo è invece in grado maggiore ad esempio la consapevolezza delle parole, per così dire, del proprio linguaggio progettuale, ed in tal senso risulta interessante il libro Minimum, pubblicato nel 1996, in cui Pawson indaga a tutto tondo il concetto di semplicità: particolarmente nell’arte, nell’architettura e nel disegno, in un ventaglio ampio di contesti storici e culturali. Del resto l’esperienza formativa stessa dell’architetto inglese è internazionale e per certi versi non convenzionale: dopo le prime fasi entro l’azienda tessile di famiglia, ha insegnato la lingua inglese per alcuni anni all’Università del Commercio di Nagoya in Giappone, dove ha incontrato più direttamente l’architettura, solo allora infine orientandosi ai corsi londinesi della Architectural Association.


Due scatti fotografici della scala in pietra.

Il minimalismo di John Pawson, per così dire misticamente orientale, entra in showroom Bulthaup di Milano dal suo ingresso principale e da lì s’irradia sulle superfici pavimentali – in arenarie grigie ben squadrate, di grande formato – tramite le sottili linee di fuga tracciate in tonalità più chiara fra le lastre posate a terra. Nel reticolo della base pavimentale primariamente e degli alzati poi, si materializzano i mobili essenziali ed i gradini della scala, quindi i rivestimenti dei servizi. Entro questa logica, il desk antistante l’ingresso è come ottenuto per estrusione dal basso entro i moduli del calpestio. La scala è come un’incisione precisa della materia a determinare scavi lineari perfetti; la scelta della pietra per la caratterizzazione della scala e del suo vano è dunque anche l’allusione ad un intaglio millimetrico, quasi chirurgico, operato nel vero suolo. Più di tutto, forse, la geometria dell’intero collegamento verticale risulta severamente controllata; l’unica variabile pare essere la componente di luce naturale ed artificiale, in grado di esaltare i volumi netti e di arricchire la tavolozza cromatica: ora secondo le tonalità accese delle parti più esposte, ora secondo le tonalità cupe delle parti ombratili, ma attenendosi unicamente alle scale del grigio. Si giunge così ad un ulteriore piano in cui si conferma la continuità materica del calpestio, vero filo conduttore del percorso di visita. Le arenarie sono qui declinate anche in posa verticale, nei servizi e negli interni di un hammam, a testimoniare la convivenza già ovvia in natura fra pietra ed ambienti umidi, come pure ad ingaggiare accostamenti sempre felici con i materiali naturali quali i metalli, l’acqua ed il legno. L’ambiente bagno ricostruito qui è un esercizio monomaterico in cui anche lo specchio gioca a riprodurre il paramento lapideo delle partizioni verticali. Il lavabo scolpito nell’unico blocco perviene a rese superficiali, visive e tattili, come di velluto. La pietra riveste e nasconde gli sportelli necessari alle apparecchiature a corredo, quindi le porte. Riguadagnato il piano d’ingresso, seguendo la luce naturale, ci voltiamo a rimirare lo spazio dall’esterno, dove l’applicazione di lastre a parete offre l’elegante fondale scuro al logo aziendale ed un contrappunto solido alle trasparenze delle vetrine. L’intera installazione è opera di Arc studio. I materiali di pavimenti e rivestimenti lapidei sono de Il Casone, le fotografie di Giovanni De Sandre.


Due scorci di dettaglio degli ambienti per l’igiene del corpo.

[photogallery]bulthaup_album[/photogallery]

di Alberto Ferraresi

Vai alla citazione di Vanni Codeluppi
Vai alla citazione di Marco Turinetto
Vai al sito di John Pawson
Vai al sito di Bulthaup
Vai al sito di Arc Studio
Vai al sito Casone
Vai al sito di Giovanni De Sandre

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19 Novembre 2010

Post-it

Brick award 2010

Sempre più frequentemente opere a stampa documentano il termine di competizioni internazionali, registrandone i risultati e divulgando le argomentazioni del premio e della giuria. Il volume Brick award 2010 edito da Callwey si distingue inserendo una presentazione di progetti, pur selezionati fra i candidati all’omonimo premio, all’interno di un percorso d’indagine il cui filo conduttore sono i contenuti e non la competizione fra i progetti stessi.

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18 Novembre 2010

Post-it

Cantiere Nervi

CANTIERE NERVI
La costruzione di un’identità

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17 Novembre 2010

Post-it

Smart Materials in Architecture, Interior Architecture and Design

Per guidarci nel panorama eterogeneo dei materiali intelligenti offre un buon aiuto il libro “smart materials”, che accompagna il lettore partendo da informazioni di base e procedendo man mano a livelli maggiori di complessità, legati agli aspetti multidisciplinari in gioco.
L’impiego degli smart materials in Architettura è un tema dinamico e innovativo in cui si fondono ricerca, sperimentazione e uso: gli smart materials, con le loro caratteristiche di reversibilità, rispondono a stimoli quali la luce, la temperatura e il campo elettrico, cambiando forma, colore, viscosità e così via.

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15 Novembre 2010

Videointerviste

Intervista a Thomas Sandell

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Thomas Sandell (Jacobstad, Finlandia, 1959) è senza dubbio una delle figure di maggiore rilievo della nuova generazione di designers svedesi. Trasferitosi in Svezia, dove si laurea nel 1981 all’Istituto Reale di Tecnologia di Stoccolma, nel 1995 fonda con Ulf Sandberg il suo studio dal nome SandellSandberg.
Lo studio, che si occupa di interior design, progettazione di arredi e architettura, opera in coerenza con la cultura nord – europea profondamente permeata dal rispetto per la natura e da un profondo impegno in termini di eco – sostenibilità, riscontrabili nella scelta dei materiali (legno, laterizio,…) e di soluzioni tecnologiche sostenibili.


Thomas Sandell

Nell’ambito di Marmomacc 2010, in collaborazione con Marsotto, Sandell affronta con interesse e curiosità il tema della pietra, un materiale non tradizionalmente consolidato nei paesi scandinavi dove invece il principale protagonista in ambito progettuale è il legno. La possibilità di fare convivere e dialogare due materiali così profondamente diversi ma dalle grandi potenzialità espressive è dunque intesa come una sfida particolarmente stimolante. Il designer propone la sua idea di casa: un involucro semplice, protettivo, con tetto a doppia falda, caratterizzato da pareti verticali e inclinate in lastre levigate in pietra, su cui vengono inseriti piccoli tasselli circolari di altro materiale lapideo. Il designer rappresenta nel padiglione il suo “piccolo sogno per il futuro” che, nella realtà, si configurerebbe come un involucro di eleganza quasi “archetipica”, con pareti in pietra, un fronte in legno e uno vetrato e, all’interno, una sedia, un caminetto e una bella vista sul paesaggio esterno.

Chiara Testoni

Vai a
Sandell
Marsotto

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15 Novembre 2010

Post-it

Intervista a Kengo Kuma su CCCloud. Della collaborazione fra azienda, interpreti del design discourse, Istituzioni

Siamo da qualche decennio, oramai, immersi in un’epoca di cambiamenti veloci e profondi.
Sempre più le aziende industriali per restare competitive sono chiamate ad essere flessibili, a modificarsi, ad evolversi con ritmi che non hanno precedenti nella storia economica moderna.

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13 Novembre 2010

Post-it

Il dizionario del brand

Il design non è solo prodotto ma è anche e soprattutto processo: con queste parole l’autore, Gionata Pistoni, rileva la profonda complessità che si nasconde dietro alla produzione industriale e che ha che fare non solo con la seppure indispensabile intuizione creativa del designer ma anche con una congerie di fattori e sinergie ben più composita e articolata di quanto esteriormente possa apparire, a opera “finita”.

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11 Novembre 2010

Marmi Antichi

Granito della Colonna


Roma, sagrestia della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Altare con colonne in Granito della Colonna.

C’è un materiale antico, un “granito”, che ha colpito l’immaginario collettivo, specialmente dei credenti di religione cristiana. Di questo materiale si sa poco, essendo stato poco utilizzato rispetto ai “classici” materiali storici. Non si sa come fosse chiamato nell’antica Roma, ma i marmorari italiani l’hanno denominato Granito della Colonna o della Flagellazione poiché la colonna realizzata con quel materiale, ora conservata nella chiesa di Santa Prassede a Roma, sarebbe quella della flagellazione del Cristo. Sufficiente. Poco importa che le dimensioni dell’elemento costruttivo, meno di un metro, fossero maggiormente compatibili con quelle di un trapezoforo: la colonna è comunque divenuta una delle più venerate reliquie del nostro tempo, e il “granito” con cui è realizzata è tra i più preziosi.

Descrizione macroscopica
Il Granito della Colonna è un materiale cristallino eterogeneo per il colore e per la grana, prevalentemente scuro con chiazze chiare. Esso è policromatico, essendo costituito da individui femici di colore nero rettangolari, aciculari, più o meno addensati, dispersi in una massa di fondo costituita da minerali bigio chiari, bianchi, localmente rosati. Prevalentemente esso si presenta scuro con rare chiazze chiare. I minerali scuri hanno dimensioni variabili da sub centimetriche a pluri centimetriche, tanto da poter essere definito litotipo “pegmatoide”. La roccia ha aspetto compatto, massiccio, e sano.

Descrizione microscopica
Si tratta di una roccia olocristallina faneritica a grana medio grossolana, poiché i minerali costituenti possono raggiungere anche dimensioni pluricentimetriche, con tessitura inequigranulare. I cristalli hanno forma variabile, sia euedrale e sia subedrale per quanto riguarda i minerali femici di colore scuro, mentre, specialmente per quanto riguarda i minerali costituenti la massa di fondo, essi sono prevalentemente anedrali, privi cioè di forma caratteristica tipica dell’individuo cristallino. Dal punto di vista dimensionale i cristalli sono molto eterogenei, essendo presenti sia individui pluri centimetrici scuri e sia cristalli micrometrici. I fenocristalli scuri sono immersi in una massa di fondo costituita da individui che hanno dimensioni massime pari a 3 mm.
La roccia è in fase di alterazione e deformazione come si può notare dalla presenza di strutture coronitiche e di individui fratturati, mentre i bordi tra le fasi mineralogiche si presentano prevalentemente lobati o frangiati.


Dall’alto: microscopio a luce polarizzata, s.s., 20I, N//, tra i plagioclasi anortitici a struttura pecilitica si notano microcristalli sia come basali di anfiboli (rombici) sia a sviluppo fibroso, la loro identificazione è difficile a causa delle ridotte dimensioni, ma l’anfibolo fibroso è verosimilmente actinolitico; microscopio a luce polarizzata, s.s., 2I, NX, in grigio i plagioclasi che diffrattometricamente risultano essere anortite sodica.

[photogallery]granito_colonna_album1[/photogallery]

I costituenti fondamentali della roccia sono Feldspati ed Anfiboli.

Feldspati: sono generalmente in fase di alterazione anche spinta (saussuritizzazione), per il qual motivo non sono ben definibili e determinabili compositivamente, anche perché presentano, ampiamente diffuse, strutture di smistamento che interessano la maggior parte degli individui. Da analisi diffrattometrica si è determinato che sono principalmente costituiti da anortite sodica. Spesso presentano tessitura pecilitica poiché racchiudono individui cristallini di dimensioni micrometriche costituiti da anfiboli di neoformazione, epidoti e prodotti di alterazione non definibili a causa delle loro ridotte dimensioni.
Anfiboli: di due generazioni, sono presenti sia come fenocristalli costituiti da Orneblende che microscopicamente sono di colore verde, con forma prevalentemente euedrale e subedrale. Esse sono più o meno intensamente fratturate e deformate e con strutture coronitiche variamente sviluppate, nel qual caso presentano aspetto frangiato.
è verosimilmente presente anche una tipologia di anfiboli di neoformazione, probabile Actinolite come fase legata ad un processo metamorfico blando sovrimposto alla roccia, compatibile anche con la presenza di Clorite ed Epidoti. Tale Actinolite costituisce per parte le strutture coronitiche delle Orneblende, dove si rinviene assieme alla Clorite, e come microcristalli fibrosi nelle aree di maggior alterazione tra le orneblende.
I costituenti minori sono:
Clorite sia di alterazione o di trasformazione metamorfica sovrimposta alle varie fasi cristalline orneblenditiche e sia con strutture fibrose raggiate, poste tra i vari individui anfibolitici; Epidoti di tipo Epidoto ss., riconoscibile per i colori di interferenza anomali, verosimilmente legato al metamorfismo sovrimposto al materiale; rara Ilmenite diffusa tra le fasi cristalline; Apatite in microcristalli; Calcite e Muscovite di alterazione, rari Zirconi, Titanite e Quarzo. Ci sono inoltre prodotti di alterazione di varie tipologie non definibili a causa delle loro esigue dimensioni.

La roccia può essere definita GABBRO DIORITE (Pegmatitica) in fase di metamorfismo.

Analisi diffrattometrica ai raggi X


Clikka sull’immagine per ingrandirla

Scarica l’analisi completa

L’analisi diffrattometrica del Granito Colonna è stata gentilmente eseguita da PANalytical

Provenienza e geologia
Il Granito della Colonna o della Flagellazione, proviene dalla parte settentrionale del Deserto Orientale egiziano. La sua cava, che si trova nel massiccio del Gebel Dokhan (“Monte Fumante”), è ubicata in prossimità dello Wadi Umm Shegilat. Ha coordinate N 26.9434 E 33.2500, e si trova a nord ovest rispetto alle cave di Tonalite del Mons Claudianus e a sud ovest rispetto quelle della Porfirite Imperiale dei Mons Porphyrites.
Tale area, anticamente di pertinenza della regione della Tebaide, è stata principalmente sfruttata durante il periodo Greco-Romano. Un’area desertica, rocciosa, dove erano impiegati schiavi o condannati senza lunghe aspettative di sopravvivenza (Klein 1988). Dario Del Bufalo, nelle sue Nutulae Thebaicae pubblicate nel Catalogo della mostra tenuta a Roma alla fine del 2002 (I Marmi colorati della Roma Imperiale), descrive tale sito come una cava a cielo aperto, con fronte verticale e piano estrattivo superiore con un dislivello di circa 40 metri rispetto il piazzale sottostante dove il materiale veniva lavorato. Si presume che i blocchi fossero fatti scivolare direttamente fino al piazzale poiché non ci sono tracce di rampe di accesso al piano estrattivo superiore. Le operazioni di cava, guidate dal machinarius, l’ingegnere della cava, erano effettuate per mezzo di cunei sfruttando la struttura geomeccanica della roccia stessa.


Ubicazione delle antiche cave di Granito della Colonna nell’East Desert egiziano.

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Come Del Bufalo spiega nella sua descrizione, il Granito della Colonna doveva essere così prezioso da essere uno dei pochi materiali lapidei, se non l’unico che già in cava era segato su almeno un lato del blocco per permettere un “collaudo” a chi era preposto alla scelta dei blocchi vista la rilevante differenza cromatica tra le parti esterne dei blocchi e il materiale sano sotto la parte corticale cromaticamente alterata. Tale segagione era effettuata usando segoni di ferro con sabbia ed il bene più prezioso che possa esserci in un deserto: l’acqua. Se a questo aggiungiamo la distanza della zona estrattiva dal Nilo e le scarse dimensioni dei blocchi estraibili possiamo, di fatto, ipotizzare che tale materiale fosse considerato, all’epoca, di gran pregio. è ancora Del Bufalo a riferire dell’esistenza di una seconda e più piccola cava posta a 400 metri più a nord di quella di epoca romana. Tale cava, molto piccola, è adesso rinaturalizzata e difficilmente distinguibile, tanto da far ipotizzare allo studioso che si tratti di una cava di epoca predinastica dalla quale provengono piccoli vasi e balsamari.
Gli attrezzi utilizzati per l’attività estrattiva erano a quel tempo, molto probabilmente, strumenti a percussione ricavati da pietre dure quali ad esempio dioriti o graniti provenienti dalle aree circostanti, mentre per i processi di lucidatura si utilizzavano mole realizzate con frammenti di arenaria silicizzata.
La strada che questo litotipo doveva seguire prima di arrivare a destinazione era sicuramente lunga e assai poco comoda, e forse per parte sfruttava quella già esistente che dai Mons Porphyrites arrivava al Nilo dove i blocchi, generalmente già sbozzati, erano imbarcati e trasportati via nave ad Alessandria, porto di partenza per il resto del mondo.
Dal punto di vista geologico, l’area di provenienza di questa gabbro-diorite fa parte del Basamento Precambrico che rappresenta l’area Nord Occidentale dello scudo Arabo-Nubiano, il quale a sua volta è parte della cintura orogenica Pan-Africana formatasi dalla fine del Proterozoico (600-700 milioni di anni).
In questa zona affiora la successione vulcano-sedimentaria tardo Neoproterozoica nella quale rientrano le rocce vulcaniche di Dokhan (620-650 milioni di anni) di cui il Granito della Colonna fa parte. Nel loro affioramento tali rocce vulcaniche sono associate sia a molasse sedimentarie, ma anche a granitoidi che costituiscono oltre il 40% del basamento complesso dell’Eastern Desert e che si sono intrusi in epoche differenti in una ampia variabilità di formazioni rocciose che hanno contribuito a modificarne la composizione chimica.
I granitoidi egiziani calc-alkalini più vecchi, che comprendono masse plutoniche intrusive tonalitiche e granodioritiche, sono stati definiti sin orogenetici giacché considerati coevi all’orogenesi locale, mentre quelli più giovani, costituiti da porfirite rosa e da graniti rossi, sono stati datati come post orogenici.
Entrambi comunque sono considerati il prodotto di condizioni di subduzione all’interno di margini continentali attivi, del cui processo il Mar Rosso è il risultato più rilevante.


Aspetto di un campione di Granito della Colonna levigato e lucidato.

Storia e impieghi del materiale

Conosciuto come “Granito della Colonna”, in realtà esso ha del granito solo il nome improprio poiché, come abbiamo visto, petrograficamente è un materiale molto più basico, caratterizzato cioè da basso tenore in Quarzo, e da Orneblende che in virtù delle dimensioni raggiunte permettono di aggettivare il suo nome scientifico con il termine “Pegmatitico”.
è un materiale che si presenta resistente, compatto e duro, macroscopicamente differente in funzione della concentrazione dei cristalli anfibolici scuri.
Il “Granito della Colonna”, talora archeologicamente definito “diorite bianca e nera”, come già ricordato non ha un suo nome romano. Da quando è stato importato a Roma sotto la dinastia giulio-claudia (I sec. d.C.) ne è seguito un uso abbastanza frequente. Esso è stato utilizzato in lastre per la realizzazione di pavimentazioni, da ricordare ad esempio una lastra oblunga del pavimento della chiesa di S. Niccolò da Tolentino, indicata già dal Murray nel 1894. Sono state segnalate anche svariate colonne; ad esempio quella del Ciborio dell’altare maggiore di San Saba e le due eccezionali colonne alte circa 3 metri nella Sagrestia della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, entrambe a Roma. Il materiale è stato utilizzato anche per la realizzazione di trapezofori, cioè sostegni di tavoli con sagome sia semplici sia più elaborate come a forma di zampe di grossi felini o altro, consuetudine questa che risale al tempo dei fenici; sembra che uno di questi trapezofori, poco più alto di sessanta centimetri gli provenga il nome, e cioè da quello portato a Roma nel 1223 dal Cardinale Giovanni Colonna di ritorno dalla Terra Santa, ora posizionato nella chiesa di Santa Prassede dove, tra un tripudio di materiali lapidei di epoche e colori differenti esso spicca come reliquia venerata come la colonna alla quale fu legato Gesù Cristo durante la flagellazione.
Questo materiale è stato quindi utilizzato sia come elemento portante e sia nella realizzazione di piccola statuaria, ma, come accadde alla maggior parte dei materiali antichi, anch’esso subì il fenomeno del riutilizzo, in rivestimenti e stesure pavimentali.

di Anna Maria Ferrari

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8 Novembre 2010

Videointerviste

Intervista a Luca Scacchetti

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Luca Scacchetti (Milano, 1952) si laurea alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nel 1975. Nel 1978 fonda a Milano lo Studio Scacchetti che si occupa di progettazione architettonica, design, urbanistica: in ambito architettonico, lo studio ha realizzato numerosi interventi di edifici pubblici e privati, sia in Italia sia all’estero; in ambito di design, collabora con numerose e importanti aziende italiane ed europee nel campo del mobile, dell’illuminazione e dell’oggettistica.
Dal 1976 Scacchetti svolge con continuità anche una intensa attività in ambito didattico e culturale: ha insegnato presso il Dipartimento di Architettura dell’Istituto Europeo di Design a Milano, presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e presso il Politecnico di Milano. In campo di ricerca teorica, si è occupato della trasformazione del linguaggio architettonico milanese tra le due guerre, del carattere dell’architettura rurale in Lombardia, dei rapporti tra modernità e tradizione e della metodologia della progettazione.


Luca Scacchetti

Nell’ambito di Marmomacc 2010, Scacchetti ha ideato per Finstone uno stand dal forte carattere espressivo e simbolico. Il marmo trasmette i valori di una tradizione classica che dalla romanità si è evoluta fino ad oggi e di un potere testimoniale che racconta la storia della terra con le sue stratificazioni, in un processo che dura da milioni di anni. La possibilità di impiego della pietra in chiave ecologica è oggi più che mai importante: così, il materiale può essere utilizzato oltre che per le sue qualità figurative anche per la sua inerzia, per l’isolamento e la coibentazione.
Il padiglione ideato da Scacchetti propone una riflessione sul tema della monomatericità. Un unico materiale viene impiegato con diversi trattamenti superficiali, a significare la straordinaria capacità della pietra di interagire con la luce a seconda della lavorazione, dando vita a soluzioni figurative anche molto diversificate.

Chiara Testoni

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