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13 Gennaio 2011

PostScriptum

Nient’altro che materia e spazio.
Architetture litiche di Aires Mateus & Associados

English version


Padiglione Pibamarmi all’edizione Marmomacc 2010. (Ph. Peppe Maisto).

Nell’opera dei fratelli Mateus si legge «il desiderio di trasformare lo spazio in cosa concreta; il vuoto diviene materia prima dell’architettura»1. Con queste parole Gonçalo Byrne, descrive un dato primario della poetica architettonica di Manuel e Francisco Aires Mateus, suoi allievi che dal 1988 lavorano autonomamente, riuniti in uno studio associato. La formazione nell’ambiente della cultura architettonica portoghese contemporanea, contrassegnata da importanti personalità come quelle di Byrne, Siza, Tavora, e Souto de Moura non ha impedito ai Mateus di elaborare uno stile caratterizzato fin dagli esordi da un’evidente riconoscibilità, frutto di un’incessante e rigorosa ricerca sullo spazio – come sottolineato dalle parole di Byrne in apertura – e sulla materia.
Le opere dei due architetti di Lisbona sono così caratterizzate da forme scultoree che si stagliano pure e conchiuse in se stesse, accessibili soltanto attraverso rari tagli netti o sottili fessure. Il principio generatore di tali architetture è quello della continuità di superficie, di una piena omogeneità di stesure materiche che si estendono piatte, o si ripiegano, a creare corpi solidi, chiaramente leggibili come volumi di accentuata tridimensionalità o come semplici setti murari, sempre costruiti per comunicare un carattere di permanenza. Con grande frequenza le stesure parietali sono lapidee e sono realizzate in forma di rivestimenti pseudoisodomi, reiteratamente stratificati in senso orizzontale, a tratti interrotti da vuoti sensibilmente ombreggiati che accentuano il carattere geometrico della tessitura litica, che per i Mateus è pura stilizzazione contemporanea di una stereotomia muraria antica, salda e possente.


Centro culturale a Sines, 2001-05. (Ph. Daniel Malhao).

«Per me il muro di pietra è una delle più alte declinazioni architettoniche della materia, è ideale per definire e conchiudere lo spazio delle mie opere, che vedo come “contenitori di vita” destinati a durare. Voglio rapportarmi con la continuità della Storia e la pietra mi permette di farlo poiché resiste al trascorrere del tempo; stratificata nel dispositivo murario essa esprime un’idea di permanenza che mi sembra essenziale per la realizzazione di edifici significativi per dimensioni e destinazioni funzionali in rapporto alla città»2.
È Manuel Aires Mateus, in una recente intervista, ad assegnare con queste parole un primato alla muralità litica, tema che con il fratello egli ha rielaborato più volte in realizzazioni complesse, pensate per trovare un rapporto di commisurazione con il contesto, affermando sì la loro presenza ma in una relazione dialogica con un intorno materiale precostituito o, piuttosto, con una certa “idea materica” di città. È il caso del Centro Culturale di Sines, vicino ad un antico castello, e del Rettorato dell’Università di Lisbona, calato nell’ampio tessuto della capitale illuminista. Entrambe gli edifici dimostrano che per i Mateus la materia è un elemento fondamentale di lavoro e, declinata dal punto di vista costruttivo, essa risulta imprescindibile per poter distinguere l’opera dall’intorno urbano o dal territorio aperto e, allo stesso tempo, per far sì che l’architettura inneschi una qualche forma di rapporto con il contesto.


Rettorato dell’Università di Lisbona, 1998-99. (Ph. Daniel Malhao).

Il Centro Culturale di Sines, il Rettorato di Lisbona, come anche i recentissimi edifici Laguna Furnas nelle Azzorre, rappresentano gli esiti più alti di quella ricerca condotta sul tema del valore plastico-volumetrico della materia e, al contempo, sulla spazialità interna vista come entità autonoma capace di condensare qualità ambivalenti ma non necessariamente contraddittorie: nel cuore delle architetture degli Aires Mateus si aprono infatti vani articolati e complessi, orizzontali o verticalizzati, unidirezionali o animati da più assialità di sviluppo centrifugo o centripeto.
Oltre il limite, dietro alle pareti che definiscono all’esterno l’edificio, viene rivelata così una spazialità ricca e seducente, delimitata da piani pavimentali e da soffitti su quote diverse, rischiarata da molteplici fonti di luce. «Si tratta di una ricerca “diretta, ossessiva, regolata”, che concentra la propria attenzione sul disegno del vuoto e sulla possibilità di rendere monumentale lo spazio interno lavorando sull’invenzione di luoghi inattesi e sulla difficoltà di percepirne le dimensioni reali»3.
Ecco allora lo spazio, che unitamente alla materia va a comporre il binomio di elementi primari complementari, bastanti da soli ad alimentare il lavorio progettuale degli architetti. Se le opere di Manuel e Francisco non dimostrano la predilezione per una tipologia spaziale precisa, evidenziano invece una cura insistita per la chiarezza degli spazi, che vengono disegnati compiutamente dall’inizio alla fine; da quelli di maggiore rilievo a quelli più piccoli e residuali, essi sono studiati nelle dimensioni e nella morfologia in totale libertà creativa rispetto alle condizioni esterne e alla necessità di denunciare in facciata l’assetto della scansione interna dell’opera.


Edifici Laguna Furnas nelle Azzorre, 2008-10. (Ph. Fernando e Sergio Guerra).

Emblematici in proposito sono gli edifici Laguna Furnas; si tratta di una serie di piccole costruzioni funzionali e di percorsi attrezzati per la fruizione turistica di una laguna termale incastonata in un habitat naturale di straordinario valore, dove l’orografia rocciosa e la vegetazione hanno una forza formidabile. La pietra vulcanica locale, impiegata dai Mateus per comporre tessiture rettificate e omogenee con cui rivestire i muri e le coperture degli edifici, ha conferito alle architetture l’aspetto di monoliti primigeni che ben presto, con la patina di alcune stagioni, sembreranno perdersi nella continuità del paesaggio. Ricercare una costruzione essenziale e sommessa, non ha significa imboccare scorciatoie nel processo progettuale tecnologico: tutta la materia litica è stata disegnata, ogni elemento costruttivo è stato studiato fin nei dettagli più minuti, come ad esempio le parti angolari o di bordo dei rivestimenti, o i cambi di quota e di pendenza delle stesure pavimentali esterne. Gli spazi interni ancora una volta assumono una sostanziale autonomia, sono interamente foderati di legno naturale e, al contrario del volto esteriore dell’opera, sono autoriali, tonali, perfettamente distinguibili.


Padiglione Pibamarmi all’edizione Marmomacc 2010. (Ph. Peppe Maisto).

[photogallery]mateus_piba_album[/photogallery]

La ricerca di una muralità litica continua, che si erge a delimitare un sistema complesso di spazi, è stata ribadita dai Mateus nel recente progetto per “Un Tempio per gli Dei di Pietra”, padiglione espositivo Pibamarmi realizzato a Verona in occasione della 45° edizione di Marmomacc. L’allestimento si è configurato come un blocco di pietra compatto e rettificato, tagliato da quattro fenditure di accesso agli spazi interni pensati come un insieme articolato di cavità concentriche. Ha preso corpo in questo modo una concatenazione di spazi riservati e gerarchici, separati da setti murari e pensati per proteggere e rivelare allo stesso tempo i monoliti delle collezioni di design Pibamarmi, che vivono un rapporto d’elezione con l’elemento liquido.

Nelle pareti la materia litica, levigata e monocromatica, si è stratifica in dispositivi che distillano le geometrie di remote opere murarie; negli elementi di design modellati nello stesso litotipo essa si è condensata in forme scultoree essenziali, incluse in spazi intimi e inusuali, serrati e profondi, spesso accessibili soltanto alla vista.
Nonostante la qualità di temporaneità insita nel tema progettuale, il padiglione appare come una ulteriore conferma della forte tensione dei Mateus verso una disciplina architettonica contrassegnata dal valore della permanenza, poiché accanto ai dati materiali tangibili, anche le idee costruttive e spaziali – se espresse compiutamente e con forza – sono destinate a durare, almeno nella memoria. A confortare tale giudizio sono ancora una volta le parole recenti di Manuel Aires Mateus: «Un padiglione espositivo non è un tema da rifiutare in quanto effimero, anzi, più di un edificio completo, dotato di fondazioni e coperture, può rappresentare un’occasione per esprimere idee architettoniche importanti, che si possono imprimere con forza nella memoria del visitatore. Questo è stato il mio pensiero quando ho ricevuto l’incarico per realizzare il padiglione Pibamarmi; mi sono detto che il “tempo del padiglione” era in effetti circoscritto a pochi giorni ma il “tempo dell’idea del padiglione” poteva essere lunghissimo. Ecco allora che ho disegnato un’opera sì temporanea ma fortemente architettonica; credo che nella dimensione minima di questo allestimento la materia e lo spazio, i miei unici elementi di lavoro, si esprimano in modo estremamente intenso»4.

di Davide Turrini

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Aires Mateus & Associados
Pibamarmi

Note
1 Gonçalo Sousa Byrne, “Un rudere ricostruito”, p. 30, in Manuel e Francisco Aires Mateus. Casa isolata ad Alenquer, Casabella n. 700, 2002, pp. 30-37.
2 Davide Turrini, “Intervista a Manuel Aires Mateus. Verona, 30 settembre 2010”, in Manuel Aires Mateus. Un tempio per gli Dei di pietra, Melfi, Librìa, in corso di pubblicazione.
3 Carlo Palazzolo, “Monumentalità a sorpresa”, p. 15, in Manuel e Francisco Aires Mateus. Rettorato della Universidade Nova a Lisbona, Casabella n. 710, 2003, pp. 14-21.
4 Davide Turrini, “Intervista a Manuel Aires Mateus. Verona, 30 settembre 2010”, op. cit.

Bibliografia di riferimento:
Gabriele Lelli, “Rettorato della Universidade Nova, Lisbona”, pp. 454-457, in Alfonso Acocella, L’architettura di pietra. Antichi e nuovi magisteri costruttivi, Lucca-Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 623.
Delfim Sardo, Diogo Seixas Lopes, Emílio Tuñon, Aires Mateus: arquitectura, catalogo della mostra, Lisbona, Almedina/Fundação Centro Cultural de Belém, 2005, s. pp.
Alice Perugini, “Aires Mateus. 3 progetti”, Casabella n. 743, 2006, pp. 82-97; con un saggio di Alberto Ferlenga, Lievi masse, pp. 82-83.
Carlotta Tonon, “Gita al faro. Francisco e Manuel Aires Mateus, Museo del Faro a Santa Marta”, Casabella n. 763, 2008, pp. 61-69.
Laura Bossi, “Residential and retail building in Moura, Portugal”, Domus n. 926, 2009, pp. 100-104.
Aires Mateus Monografia, Darco Magazine n. 7, 2009, pp. 221.
Francesco Cacciatore, Abitare il limite: dodici case di Aires Mateus & Associados, Siracusa, Lettera Ventidue, 2009, pp. 141.

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13 Gennaio 2011

English

Nothing but materials and space.
Stone architectures by Aires Mateus & Associados

Versione italiana


Pibamarmi pavilion at 2010 Marmomacc. (Ph. Peppe Maisto).

The work of the Mateus brothers can be read as “the desire to transform space in something physical, the void becoming raw material for architecture”.1
Goncalo Byrne describes with these words Manuel and Francisco Aires Mateus, his students who have worked autonomously in their own studio since 1988. Having grown up in the milieu of the Portuguese contemporary architectural culture marked by Byrne, Siza, Tavora and Souto de Moura didn’t prevent the Mateus to develop an extremely recognizable style since their beginnings, result of a continuous and rigorous research on space – as underlined by Byrne’s quotation above – and materials.
Sculpture-like shapes that stand pure and enclosed in themselves, accessible only through few net and subtle cuts, characterize the works by the two architects from Lisboa. The concept generating these architectures is the surface continuity, a full homogeneity in the use of materials that develop flat surfaces or are bound to create solids clearly readable as highly three-dimensional volumes or as simple walls; the principal aim of these architectures is to convey an idea of durability.
Very often their walls are made of stone in the form of pseudo-isodomic coverings horizontally stratified, sometimes interrupted by highly shadowed openings that underline the geometric character of the stone texture, it being for the Mateus pure contemporary stylization of the ancient solid and massive wall stereotomy.


Sines cultural centre, 2001-05. (Ph. Daniel Malhao).

“According to me, the stone wall is one of the most distinct architectural variation of materials, it’s perfect to define and delimit the space of my works, that I interpret as “life holders” destined to last for long time. I want to work in continuity with History and stone allows me to do that, since it is able to resist the flowing of time; stratified in the wall settings, it expresses an idea of durability that seems to me essential for the creation of buildings that are significant for their dimensions or functional aims in relation to the city environment.”2
In a recent interview, Manuel Aires Mateus gave with these words the preeminence to stone walls, a theme re-elaborated several times with his brother in complex constructions thought to find a relation of contextualization, affirming their presence in a dialogue with the surrounding already-built or rather with a certain “material idea” of the city. It’s the case of the Sines Cultural Centre, next to an ancient castle, and of the Lisboa University Head Office, immersed in the ample texture of the rational capital town. Both these buildings demonstrate that for the Mateus the material is a core element in their work and, modulated from the point of view of construction, it’s fundamental in discerning the building from the urban environment or from the open territory, and at the same time in making architecture someway interact with the context.


Lisboa University Head Office, 1998-99. (Ph. Daniel Malhao).

Sines Cultural Centre, the Lisboa Head Office, and more recent Laguna Furnas buildings in the Azores represent the most important result of this research on the plastic-volumetric value of the material, and, at the same time, on the configuration of the interior space seen as an independent entity able to summarize ambivalent but not necessarily contradictory qualities: at the centre of their architecture, the Aires Mateus open articulated rooms that can be horizontal or vertical, mono-directional or animated by various centripetal or centrifugal axes.
Beyond this limit, behind the walls defining the building from the outside, a rich and fascinating spatial configuration is unveiled, delimited by floors and roofs on different heights, illuminated by different light sources. “It’s a “direct, obsessive, constant” research that focuses on the design of the void and on the possibility of making the interior space monumental, working on the invention of unexpected places and on the difficulty in perceiving its real dimensions.”3
Here is space then, that together with materials constitutes the two primary and complementary elements alimenting alone the projecting work of the architects. The works by Manuel and Francisco don’t seem to privilege a particular space typology, but underline instead a persistent care for the clearness of the spaces, completely designed step by step; both the major aspect and the littlest details are studied in dimensions and morphology with total creative freedom, careless about the exterior conditions and the need to express the interior articulation of the work on the façade.


Laguna Furnas buildings in the Azores, 2008-10. (Ph. Fernando e Sergio Guerra).

Typical of this approach are the Laguna Furnas buildings, a series of little functional constructions and of equipped leisure paths for tourism activities in a thermal lagoon set in a high-value natural habitat, where the rock orography and the vegetation have an extraordinary impact. The local volcanic stone, used by the Mateus to compose the homogenous rectified textures that cover the walls and the buildings, gave to the architectures the aspect of primeval monoliths that very soon will seem to merge with the surrounding landscape thanks to the patina accumulated season after season.
Looking for an essential and restrained building doesn’t mean taking a short cut in the technological projecting process: all the stone material was carefully designed, each constructive element – as, for instance, the corner parts, the roofing edges, the height variations, or the exterior floorings – was studied in the tiniest detail. The interior spaces get once again a substantial independence, completely covered with natural wood and, contrary to the external aspect of the work, are authorial, tonal, perfectly distinguished.


Pibamarmi pavilion at the 2010 Marmomacc (Ph. Peppe Maisto).

[photogallery]mateus_piba_album[/photogallery]

The search for a continuous stone wall covering delimitating a complex system of rooms, has been reasserted by the Mateus in their recent project for “A Temple for the Stone Gods”, the exhibit pavilion by Pibamarmi created for the 45th edition of Marmomacc in Verona. The setting was configured as a compact and rectified stone block, cut by four openings that granted the access to the interior spaces thought as a complex system of concentric cavities. In this way a concatenation of reserved and hierarchical rooms took form, being divided by partition walls and conceived to protect and at the same time reveal the monoliths of the Pibamarmi design collection that live a privileged relationship with the liquid element.

On the walls the smoothed and monochromatic stone material is stratified in devices that stylize the geometries of ancient masonry works; in the design elements, the same stone type is condensed in sculpture-like shapes, included in intimate, deep and unusual spaces, accessible only with the sight.
In spite of the temporary function of the project theme, the pavilion appears as a further confirmation of the strong tension of the Mateus toward an architectural discipline signed by the value of permanence, because, together with the physical materials, constructive and spatial ideas – if expressed fully and strongly – can be destined to last for long time, at least in our memory. The following Manuel Aires Mateus’ words confirm this judgement: “An exhibit pavilion isn’t a theme to refuse because it’s ephemeral, it can rather be a more interesting occasion than a complete building with foundations and roofing, to express important architectural ideas that can powerfully impress in the mind of the visitor. This was my consideration when I got the assignment to create Pibamarmi’s pavilion; I said to myself that the “time of the pavilion” was in fact limited to few days, but the “time of the pavilion idea” could last much longer. Then I designed a temporary but highly architectonic work; I believe that, in the minimal dimension of the setting, space and material, the only instruments of my work, intensely express their potentialities.”4

by Davide Turrini

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Aires Mateus & Associados
Pibamarmi

Notes
1 Gonçalo Sousa Byrne, “Un rudere ricostruito”, p. 30, in Manuel e Francisco Aires Mateus. Casa isolata ad Alenquer, Casabella n. 700, 2002, pp. 30-37.
2 Davide Turrini, “Intervista a Manuel Aires Mateus. Verona, 30 settembre 2010”, in Manuel Aires Mateus. Un tempio per gli Dei di pietra, Melfi, Librìa, in corso di pubblicazione.
3 Carlo Palazzolo, “Monumentalità a sorpresa”, p. 15, in Manuel e Francisco Aires Mateus. Rettorato della Universidade Nova a Lisbona, Casabella n. 710, 2003, pp. 14-21.
4 Davide Turrini, “Intervista a Manuel Aires Mateus. Verona, 30 settembre 2010”, op. cit.

Bibliography:
Gabriele Lelli, “Rettorato della Universidade Nova, Lisbona”, pp. 454-457, in Alfonso Acocella, L’architettura di pietra. Antichi e nuovi magisteri costruttivi, Lucca-Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 623.
Delfim Sardo, Diogo Seixas Lopes, Emílio Tuñon, Aires Mateus: arquitectura, catalogo della mostra, Lisbona, Almedina/Fundação Centro Cultural de Belém, 2005, s. pp.
Alice Perugini, “Aires Mateus. 3 progetti”, Casabella n. 743, 2006, pp. 82-97; con un saggio di Alberto Ferlenga, Lievi masse, pp. 82-83.
Carlotta Tonon, “Gita al faro. Francisco e Manuel Aires Mateus, Museo del Faro a Santa Marta”, Casabella n. 763, 2008, pp. 61-69.
Laura Bossi, “Residential and retail building in Moura, Portugal”, Domus n. 926, 2009, pp. 100-104.
Aires Mateus Monografia, Darco Magazine n. 7, 2009, pp. 221.
Francesco Cacciatore, Abitare il limite: dodici case di Aires Mateus & Associados, Siracusa, Lettera Ventidue, 2009, pp. 141.

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10 Gennaio 2011

Videointerviste

Intervista a Giovanni Vragnaz

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Giovanni Vragnaz (Cividale del Friuli, Udine, 1953), affianca da anni all’attività professionale un intenso impegno in campo didattico e culturale, sia in Italia che all’estero. Laureato con Vittorio Gregotti, ha collaborato, oltre che con lo stesso, anche con Leonardo Benevolo e Gino Valle. E’ stato professore a contratto presso la facoltà di Architettura di Trieste e lo IUAV. Particolare attenzione è rivolta nel suo lavoro ai temi della progettazione delle aree dimesse e dei piccoli centri urbani, soprattutto per quanto concerne gli aspetti della sostenibilità sociale e ambientale.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, Vragnaz in collaborazione con Mod-Lang ha proposto per Iaconcig un’efficace e personale interpretazione della pietra come materiale dal forte fascino evocativo.
Per Vragnaz, la progettazione di un padiglione implica una riflessione sull’intrinseco paradosso tra il concetto di durata proprio dell’architettura e quello di temporaneità correlato all’allestimento. All’architettura si riconosce il valore aggiunto di “interconnessione generazionale”, grazie alla sua capacità di permanere nell’incessante scorrere del tempo. Lo stand espositivo – da sempre un tema di grande stimolo progettuale, come dimostrato nella storia dell’architettura da Aalto, a Gropius, a Persico – fornisce un’interessante opportunità per sperimentare, in tempi rapidi d’ideazione e realizzazione, nuove possibilità espressive e per veicolare valori e concetti che permarranno al di là dell’evento circoscritto.
In questo caso la pietra interpreta il tema di Marmomacc “Irregolare – Eccezionale” introducendo nella modularità regolare di una griglia predefinita la deviazione dalla norma, rappresentata da assemblaggi liberi di elementi dalla stessa sezione di 50 x 25 cm. La notevole qualità artigianale che caratterizza l’allestimento sottintende l’esigenza, secondo Vragnaz, di riscoprire il valore della manualità come “terapia collettiva per tornare alla concretezza delle cose”.

di Chiara Testoni

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Iaconcig

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5 Gennaio 2011

Appunti di viaggio

Murzuq


Dune nel deserto del Murzuq

Ho sentito persone lamentarsi perché in pieno deserto le guide non ancora attrezzate alle soglie del futuro hanno servito “pepsi calde”; ho sentito di donne europee cercare nei loro viaggi africani e desertici l’approccio gioioso con il sesso esotico assieme alle guide locali che, vi assicuro, mai primi nei loro approcci, non sono disponibili con le clienti europee, al punto da dar l’impressione di non vederle; ho visto persone letteralmente illuminarsi alla vista delle dune, quando, finalmente, hanno potuto percorrerle in lungo e in largo con le loro moto, con i loro fuoristrada, alla ricerca della libertà assoluta (no, il silenzio no, perché loro di solito sono molto rumorosi), rincorrendo un divertimento più grande, più bello, più elevato e molto più affascinante, impegnativo e fantastico di quello di Disneyland; ho visto persone millantare il loro “machismo” per queste loro avventure, “così estreme, impegnative e pericolose” (?), e guardarti fisso negli occhi con sguardo testosteronico, quasi a sottolineare “eh sì, sono un mito, grande, forte, quasi un eroe…”.


Dune giallo aranciate

Ah la psiche umana …valla a capire! Io comunque con questo viaggio sono entrata in crisi. Perché viaggio? Perché mollo tutte le comodità per partire e ritrovarmi a dormire in una tenda senza la possibilità di un bagno e di una doccia per giorni e giorni? In un viaggio itinerante lungo posti scomodi (estremi?) lontani da alberghi, comfort, negozi (e voi certo sapete quanto questi siano importanti per una donna!). Perché non amo parlare dei miei viaggi se non in forma anonima? (sì, io ve ne parlo, ma voi non mi vedete mentre scrivo queste cose, né io vi identifico in un volto). Perché alcune notti mi sveglio con il desiderio di parlare di un luogo, mentre di altri …?
Il Murzuq è un deserto situato a sud delle Libia, nel Fezzan. È un’imponente distesa di dune al confine con Algeria e Niger, dai fantastici e rassicuranti colori rosa, arancio, pesca e giallino con leggere pennellate nere, bianche, verdine ma, a dispetto di questa eterea e fantastica tavolozza, è il più arido deserto al mondo. Un’area di 450×400 km nel cui interno non si trovano né pozzi, né sorgenti, ma solo imponenti dorsali di dune (afrath), alte fino a 200 metri, o enormi dune a struttura piramidale (ghurda). Tra il loro sinuoso dipanarsi si aprono gassi e hamadat, aree pianeggianti di sabbia compatta dove pochi mezzi – prevalentemente legati alle attività petrolifere – possono muoversi agevolmente salvo poi, improvvisamente, trovare la pista bloccata dall’imprevedibile e capriccioso andamento sinuoso delle dune che vanno quindi, con difficoltà, superate. Sempre in agguato, specialmente nei catini, tra una cresta e l’altra il fech-fech, le insidiose sabbie mobili, sottilissime, inconsistenti – quasi talco al tatto – per le quali l’imperativo è: 1. imparare a riconoscerle dal colore e dalla tessitura superficiale; 2. allontanarsene quanto prima, per non trovarsi irrimediabilmente infossati, il che significa dover spalare ed usare scale e verricelli per uscirne.


Dune: la momentanea perfezione dell’essere

E così mentre tutto attorno a 360° si vede solo il rosa aranciato intenso della sabbia, dall’alto delle dune, giù in basso, si vedono alcune spianate argillose (sebkhe) con abbondanti sedimenti bianchi giallastri, talora striati di nero;e quando ti fermi, magari per il campo notturno, questi antichi laghi prosciugati si aprono e ti risucchiano in un altro mondo, lontano migliaia di anni. Molto spesso, per terra, specialmente lungo i bordi di questi bacini, frammenti di vita passata: pezzi di uova di struzzo, macine, lisciatoi, e, anche se più raramente, frecce in selce, asce in pietra, strumenti bifacciali la cui età può andare, secondo alcuni studiosi, dagli 8-10.000 fino ai 300.000 anni. Antichi utensili litici che come sirene incantatrici ti paralizzano in una ricerca spasmodica (una piccola freccia, almeno una piccola freccia …).


Dune, o “Della libertà assoluta”

I sebkha sono i testimoni dei laghi che nel paleolitico impreziosivano l’antica savana del Murzuq, dove la vita, prima di essere spazzata via per lasciar posto all’attuare deserto, cresceva rigogliosa in un lussureggiante mondo verde con animali di tutti i tipi. E qui, cristallizzato in un apparente eterno presente, un passato importante. Tracce di una vita nuova, la “nostra”, in crescita ed evoluzione, dove la pietra era lo strumento più importante e la sua lavorazione è andata via via evolvendosi lasciando testimonianze di una umanità genialmente folle. E scovarle è una emozione unica. Non vi nascondo che quando ho trovato la prima ascia in pietra l’emozione è stata così forte che ho pianto. Quanti sentimenti ha smosso quell’oggetto: chissà chi l’aveva fabbricato, chissà perché aveva scelto proprio quella pietra: sapeva che sarebbe andata bene? E come faceva a saperlo? Oppure semplicemente gli piaceva il colore? Come e con chi viveva quel nostro antenato? Cosa pensava del suo mondo? Quali erano i suoi Dei? I suoi sogni? I suoi desideri? Era felice? Ed io sono felice? Ed in quel momento, accarezzando quell’ascia per me più preziosa del più prezioso gioiello presente su qualsiasi mercato, ho capito. Ho capito che per me viaggiare è ricerca. Voglia di capire e vedere quanto più posso del mondo, e specialmente di quello più lontano da me, per cercare di comprendere, finalmente, me stessa.

di Anna Maria Ferrari

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27 Dicembre 2010

Post-it

LA CUCINA dall’Italia a Colonia i nuovi mobili design in quercia rossa americana

Il modo di cucinare italiano si presenterà a Colonia in gennaio con un’installazione disegnata dall’architetto Matteo Thun, entusiasta sostenitore dell’uso del legno. All’ingresso della fiera Living Kitchen (hall 4.1, stand C019), che si svolge in concomitanza del salone del mobile Imm a Colonia dal 18 al 23 gennaio, si troverà “La Cucina”, l’interpretazione data da Matteo Thun alla cucina del futuro.

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27 Dicembre 2010

Videointerviste

Intervista a Aldo Cibic

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Aldo Cibic (Schio, Vicenza, 1955), designer, architetto, raffinato intellettuale e attento osservatore delle dinamiche sociali contemporanee, è una figura difficile da “costringere” in una singola etichetta professionale. A qualsiasi scala progettuale si esprima, il suo lavoro è comunque sempre teso a indagare l’”identità emotiva” dell’opera, ovvero quella strana “alchimia” che riesce a suscitare una suggestione, che genera senso di appartenenza e che innesca nuovi stimoli comunicativi e forme di socialità.

Dopo essersi trasferito a Milano nel 1977, Aldo Cibic ha collaborato con Ettore Sottsass, divenendo nel 1981 uno dei designers e fondatori del gruppo Memphis. Lo studio Cibic&Partners, fondato a Milano nel 1989 e guidato da quattro soci (Aldo Cibic, Luigi Marchetti, Chuck Felton, Antonella Spiezio), è una realtà multidisciplinare che da oltre vent’anni opera in tutto il mondo, spaziando dalla progettazione architettonica, al disegno di interni, al design, all’allestimento.
Lo spazio che Cibic ha concepito nell’ambito di Marmomacc 2010 per rappresentare lo “spirito” di Grassi Pietre è caratterizzato dall’unitarietà del materiale, la pietra vicentina, utilizzata sia nelle superfici verticali sia orizzontali. Il contenitore “neutrale” avvolge uno spazio interno particolarmente evocativo, ispirato al rituale del bagno giapponese. Viene così ideata una vasca, come elemento simbolico per eccellenza, a cui si affiancano ulteriori elementi di suggestione: il verde, costituito dalla siepe e dall’albero, introduce l’elemento “vivente” a contrappeso della monumentalità della pietra; la forma organica in pietra, una sorta di chaise-longue che evoca l’immagine di un dinosauro, inserisce l’elemento “irregolare” all’interno dello spazio “regolamentato”, in coerenza con il tema ispiratore dell’evento di quest’anno.

di Chiara Testoni

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Cibic&Partners
Grassi Pietre

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20 Dicembre 2010

Letture

Markus Wespi, Jérôme de Meuron

Markus Wespi, Jérôme de Meuron
(a cura di Alberto Caruso)
Librìa, Melfi 2006
96 pagine
Illustrazioni a colori
Prezzo: 14,00 €
Testo in italiano/inglese

Un piccolo ma gradevolissimo libro quello che Alberto Caruso dedica all’opera di Markus Wespi e Jérôme de Meuron, progettisti svizzeri di grande talento non ancora pienamente conosciuti oltre i confini elvetici.
Ripercorrendo puntualmente – secondo un criterio cronologico – circa un decennio di attività dello studio, l’autore ne mette in evidenza il processo di progressiva maturazione culminato nell’intervento ex novo della casa a Brione (2005), davvero un unicum nel panorama architettonico internazionale.


Casa a Brione

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Prevalentemente concentrata sul tema dell’”abitare”, l’opera di Wespi e de Meuron si propone di riconquistare allo spazio domestico quella qualità “sensoriale” – rintracciabile nei valori del “silenzio”, della “dilatazione” temporale e del rapporto con la natura – che sembra perduta nella frenesia del mondo contemporaneo. Attraverso la riduzione dei segni esterni, lo spazio domestico viene potentemente proiettato in una dimensione privata, afasica, in cui solo viste direzionate sul paesaggio creano un intimo legame percettivo con la natura circostante: esternamente, le finestre si riducono, la superficie viene deprivata di qualsiasi dettaglio ma internamente si scopre un universo che, nella raffinata semplicità degli spazi permeati da vibranti giochi di luci, genera inaspettate e intense suggestioni.


Casa a Flawil

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Le case di Wespi e de Meuron sono uno schietto manifesto di architettura ecocompatibile empaticamente integrata con il territorio. Per quanto tesa a ridurre drasticamente il confine tra “natura” e “artificio”, la loro architettura rinuncia tuttavia a qualsiasi atteggiamento mimetico rispetto al paesaggio e rivendica il valore “tettonico” del costruito, declinato attraverso forme essenziali e rigorose e tramite l’utilizzo di materiali di forte impatto “materico”, intimamente legati all’identità costruttiva dei luoghi. Vengono così impiegati il legno (Flawil, 2000), il cotto (Gondo, 2001) e soprattutto la pietra (progetto di cappella, 2003, casa a Scaiano, 2004, Brissago, 2004, Brione, 2005), che i due architetti esaltano con grande raffinatezza sia nel campo della ristrutturazione che nella costruzione ex novo, come un materiale naturalmente espressivo e dalle infinite potenzialità figurative a seconda della tessitura, del colore, della grado di scabrezza delle superfici.


Casa a Morcote

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Un testo agevole ed esaustivo, corredato da un apparato grafico e iconografico ben articolato, che suggerisce il profilarsi di un percorso di ricerca, da parte del giovane studio, ancora in fieri e ricco di interessanti future sperimentazioni.

Chiara Testoni


Casa di pietra di Scaiano

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17 Dicembre 2010

Pietre d`Italia

Chiostri e loggiati rinascimentali in pietra serena


Secondo Chiostro del complesso di Santa Croce, Firenze

Tornando alla città di Firenze e all’utilizzo della pietra serena nella composizione di determinate tipologie architettoniche, sviluppatesi nel corso dell’epoca rinascimentale e perpetuate fino almeno al tardo Rinascimento, sembra interessante soffermare l’attenzione su alcuni di quei chiostri, logge e portici che tanto fascino ancora effondono nell’agglomerato urbano contemporaneo.
Accomunati dall’essere il risultato dell’accostamento di volte sostenute da colonne o pilastri, questi spazi aperti verso l’esterno hanno derivazione antica.
Il chiostro può essere inteso come la riproposizione dell’atrium delle ville romane e compare inizialmente come luogo deputato alla meditazione in edifici utilizzati dai monaci benedettini, precedenti quindi all’anno Mille. La loggia all’aperto, rielaborazione di un settore del chiostro in forma di unico portico sviluppato in lunghezza, è invece una delle rappresentazioni tangibili del cambiamento socio-politico che coinvolge Firenze a partire dall’inizio del Trecento. Deambulatorio centrale al monastero, quindi, sul quale si affacciano gli ambienti più importanti del complesso come la chiesa, la sala capitolare, il dormitorio e il refettorio, o spazio urbano di aggregazione, luogo deputato a feste e ricevimenti mondani, se non a funerali, proposto alla cittadinanza da parte del nuovo regime comunale.
Il sistema urbano caratterizzato da strade strette e case-torri pressoché prive di finestre, tipico delle consorterie medievali, a partire dal Trecento comincia ad aprirsi verso il mondo esterno. Piazze e vie di comunicazione si allargano e diventano luogo d’incontro e di vita all’aperto; in particolare, la loggia intesa come nuovo spazio della socializzazione – isolato e, soprattutto dal Quattrocento, appendice esterna dell’edificio in forma di portico – va a compensare la mancanza di sale di adunanza nei palazzi pubblici e l’utilizzo di chiese per le riunioni comunitarie1.


Chiostro Verde, complesso di Santa Maria Novella, Firenze

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Dal chiostro conventuale al cortile di palazzo
L’utilizzo di pilastri o colonne sorreggenti archi e volte fa sì che in queste tipologie architettoniche la presenza della pietra, affiancata dal laterizio e dalla muratura intonacata, sia particolarmente consistente.
Nei chiostri medievali la pietra forte risulta ancora preminente rispetto all’arenaria di Fiesole. Lo dimostrano i due chiostri del complesso di Santa Maria Novella: il Chiostro Verde, edificato tra il 1332 e il 1350, e il più tardo Chiostro Grande, risalente al periodo compreso tra il 1340 e il 1360. Tuttavia, se il primo è ritmato da una serie di archi a tutto sesto sorretti da possenti pilastri in pietra forte a sezione ottagonale2, il secondo è composto da cinquantasei arcate affiancate in due ordini sovrapposti che danno spazio, in quello superiore, alla pietra serena. Colonne di pietra serena affusolate e sviluppate in altezza – soprattutto in rapporto al piano inferiore – sorreggono infatti gli archi a tutto sesto direttamente tagliati nella superficie muraria, intonacata. Si comincia a intravedere quel rapporto tra il grigio-azzurro della pietra e il bianco dell’intonaco che sarà protagonista dell’architettura brunelleschiana di alcuni decenni dopo.


Chiostro degli Aranci, Badia Fiorentina, Firenze

I due ordini del Chiostro degli Aranci nella Badia Fiorentina, costruito tra il 1432 e il 1438 su progetto di Bernardo Rossellino3, prediligono l’utilizzo della pietra serena per entrambe le serie di colonne, a differenza di ciò che abbiamo osservato nel Chiostro Grande di Santa Maria Novella. Le quinte di questo spazio presentano un vero e proprio scheletro strutturale lapideo, forse in risposta alla lezione brunelleschiana: le colonne monolitiche ioniche, di altezza fortemente ridotta in corrispondenza del piano superiore poggiano, a piano terra, su una seduta in pietra e al primo piano su un davanzale dello stesso materiale. I due ordini di colonne e la cornice superiore del piano di copertura sono uniti virtualmente da paraste lisce, in pietra, applicate sulla muratura intonacata e attraversate perpendicolarmente da una cornice marcapiano aggettante. Ogni facciata è quindi tripartita da fasce verticali che dalla seduta, posta come base della struttura, arriva fino al limite superiore della quinta suddividendola in settori, aperti verso l’interno dell’edificio da ampie arcate ribassate prive di cornice.
Una serie di chiostri progettati e costruiti negli anni Cinquanta del Quattrocento presentano caratteristiche compositive simili. La pietra serena è ormai utilizzata in maniera univoca per la realizzazione di doppi ordini di colonne su cui poggiano archi a tutto sesto o architravi. È interessante osservare in maniera parallela il Secondo Chiostro del complesso di Santa Croce, il Chiostro dei Canonici della Chiesa di San Lorenzo, il primo e il secondo Chiostro del Convento del Carmine e quello del complesso delle Oblate, oggi divenuto ingresso al Museo di Firenze Com’Era.


Particolare del Chiostro del complesso delle Oblate, attuale ingresso del Museo di Firenze Com’era, Firenze

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In ognuno di questi le quinte che guardano verso la corte centrale sono divise in due piani sovrapposti scanditi da una cornice marcapiano in materiale litico: a piano terra solide colonne di pietra serena sorreggono archi a tutto sesto; al piano superiore sulle colonne, di dimensione ridotte rispetto a quelle sottostanti, poggiano architravi lignee4.
Lievi tratti ornamentali presenti nel mirabile Secondo Chiostro di Santa Croce ne distinguono il carattere rispetto alla rigorosa mancanza di decorazioni degli esempi proposti. Attribuito alternativamente a Filippo Brunelleschi o a Bernardo Rossellino, questo ambiente presenta una struttura simile a quella già descritta arricchita, tuttavia, dalle cornici lapidee degli archi e dai tondi in rilievo posizionati al centro dei pennacchi5.

A partire dal Quattrocento, e in particolar modo dai suoi decenni centrali, pensando al termine “chiostro” nella sua accezione più ampia di “cortile” – in riferimento quindi all’architettura civile – è possibile affermare che il valore compositivo e rappresentativo di questo spazio raggiunga un’importanza ancora maggiore rispetto agli esempi citati fino a questo momento6.
Tra gli innumerevoli modelli fiorentini che potremmo osservare, il cortile di Palazzo Medici-Riccardi e quello più tardo di Palazzo Strozzi risultano sufficienti a confermare questa ipotesi oltre che a dimostrare ancora una volta come la pietra forte venga, anche in questi ambienti, soppiantata dalla più tenera e omogenea pietra serena. La destinazione civile dei palazzi contribuisce alla diversificazione delle quinte del cortile rispetto a quelle dei chiostri conventuali; tuttavia l’apparente scheletro strutturale è ancora una volta formato da conci di pietra serena7 e segue le aperture attraverso una serie di cornici lapidee che evidenziano i diversi piani del palazzo, che si curvano lungo gli archi a tutto sesto sostenuti da colonne al piano terra, che circondano le finestre al piano nobile e che si modellano in architrave sostenuto da esili colonnine al piano secondo.


Cortile di Palazzo Strozzi, Firenze

Dal portico dell’Ospedale degli innocenti al loggiato della Galleria degli Uffizi
Dal Quattrocento, l’edificazione di chiostri conventuali e di cortili di palazzo riprende talvolta alcuni modelli legati a una tipologia di edificio pubblico introdotta a Firenze a partire dalla metà del secolo precedente, la loggia, un portico isolato o addossato a un edificio nato per ospitare cerimonie pubbliche o per riparare i bisognosi8.
L’architettura fiorentina del Quattrocento sviluppa questa tipologia architettonica in forma di estensione dell’edificio, di filtro verso il suo interno e di sua apertura verso l’esterno, utilizzando come materiale principale ancora una volta la pietra serena e la muratura intonacata9.
Il modello più importante di loggiato quattrocentesco costruito a Firenze attraverso la composizione di possenti conci di pietra serena e colonne monolitiche poggianti su un basamento lapideo è senza alcun dubbio quello che introduce all’Ospedale degli Innocenti. Filippo Brunelleschi, attraverso la realizzazione di quest’opera concretizza quei principi del Rinascimento dai quali, quasi centocinquant’anni dopo, Giorgio Vasari si discosterà per la progettazione del loggiato degli Uffizi.
Iniziato a costruire nel 1419, l’Ospedale degli Innocenti si affaccia su piazza Santissima Annunziata fiancheggiando la chiesa omonima e fronteggiando, a partire dal 1516, il Loggiato dei Serviti, realizzato su disegno di Antonio da Sangallo e Baccio d’Agnolo con l’intento di creare un edificio speculare rispetto al capolavoro brunelleschiano10.


Particolare del loggiato dell’Ospedale degli Innocenti, Firenze

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Il modulo utilizzato dall’architetto come base compositiva dei suoi progetti è proposto anche per la realizzazione di questo portico, formato dall’accostamento di nove campate quadrate per una lunghezza di circa settantun metri. Le campate sono coperte con volte a vela che poggiano su peducci in corrispondenza del muro perimetrale dell’edificio e su colonne corinzie sul lato prospiciente la piazza e si aprono verso l’esterno con una successione di archi a tutto sesto accompagnati da una serie di “occhi” in ceramica invetriata circondati da cornici in pietra serena. Agli archi si sovrappone un’architrave lapidea e una seconda cornice sulla quale poggia un ordine di finestre timpanate.
Anche in questo caso la pietra serena disegna l’intera struttura del loggiato, posta in dialogo con l’intonaco delle superfici murarie e con la pietra forte della sostruzione, che Brunelleschi sceglie per il rivestimento della scalinata di accesso al piano rialzato, come a voler differenziare il basamento dall’edificio che vi si appoggia. La pietra è accuratamente scelta dal maestro nella cava di Trassinaia, sulla collina di Vincigliata, la sua lavorazione curata da due scalpellini provenienti dal cantiere di Orsanmichele, Betto d’Antonio e Albizo di Piero, particolarmente esperti nell’esecuzione di nervature lapidee. I due artigiani sbozzano le colonne in cava per poi rifinirle in cantiere11; queste vengono sollevate verticalmente da un “chastello” di legno, una macchina “alzacolonne” dotata di un carrello per lo scorrimento del fusto e di un sistema a vite per il suo sollevamento12.
Colonne, archi, “occhi” e architrave dell’Ospedale definiscono un’ossatura essenziale e forte, costruita con pietra serena, in risalto cromatico e plastico sui settori murari intonacati a calce bianca, capace di esercitare un fascino duraturo su pittori e architetti delle generazioni successive che cercheranno di esaltarla al punto di immaginarla, come fa Domenico di Bartolo, liberata dai residuali settori murari13 nell’affresco La limosina della chorticiela, dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, dipinto tra il 1440 e il 144414.


Particolare del loggiato dell’Ospedale degli Innocenti, Firenze

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Nel 1560, a distanza di più di un secolo, Firenze assiste alla costruzione di un nuovo grande loggiato di pietra serena che si avvia, anch’esso, a divenire uno dei simboli della città, è il portico della Galleria degli Uffizi.
Giorgio Vasari, incaricato da Cosimo I de’ Medici della costruzione di un edificio dedicato alle magistrature fiorentine, progetta un edificio ad U nell’area situata tra il Palazzo della Signoria e il fiume Arno. Al piano terra, i due lati lunghi si aprono verso la piazza centrale con un ampio loggiato formato dalla ripetizione di una campata di base delimitata da possenti pilastri con nicchie contenenti statue e suddivisa in tre intercolumni da due colonne monolitiche sormontate da un’architrave modanata. Le campate si susseguono senza soluzione di continuità per aprirsi in serliana in corrispondenza del lato corto; i piedritti poggiano su una base leggermente rialzata e sostengono una volta a botte cassettonata. Per la sua costruzione Vasari sceglie l’ordine dorico che modella in conci di arenaria di eccellente qualità proveniente dal Fossato del Mulinaccio, presso San Martino a Mensola15.
Vasari decide di discostarsi dal modello brunelleschiano che vede l’esclusivo utilizzo della campata quadrata e la presenza, al piano terra, di colonne in pietra serena sostenenti archi sottolineati da ghiere dello stesso materiale. Il loggiato diventa un’articolata successione di pilastri e colonne su cui poggia un architrave interrotto solo in corrispondenza del grande arco che si apre verso il fiume e la collina retrostante.

È la pietra serena, invece, a rimanere componente costante dell’architettura fiorentina, capace di modellarsi secondo i cambiamenti stilistici e compositivi delle diverse epoche. La sua bellezza, la sua eleganza, il suo colore rimangono a comporre la città in trasformazione e a caratterizzarne l’aspetto divenendo, attraverso i secoli, uno dei principali elementi identitari di Firenze che ancora oggi la rendono unica in tutto il mondo.

di Sara Benzi

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NOTE
1 Cfr. P. Bargellini, La Loggia dei Rucellai, Firenze, Giovacchini, 1964?
2 Progettato probabilmente da Jacopo Talenti e affrescato “a terra verde” – da cui il nome del chiostro – nel corso del Quattrocento da Paolo Uccello, presenta gli archi e i costoloni delle volte dipinti in bicromia in occasione del restauro del 1859. A imitazione dei motivi presenti all’interno della chiesa.
3 Il chiostro viene restaurato nel 1921 da Giuseppe Castellucci.
4 Gli intercolumni sono tamponati nel primo chiostro del Convento del Carmine.
5 Un’altra serie di chiostri fiorentini che suscitano un certo interesse sono i tre del complesso di Santa Maria degli Angeli: il Chiostro Grande, il Chiostro dei Morti e quello degli Angeli. L’ultimo citato, risalente alla fine del Duecento e fortemente rimaneggiato tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, è costituito da cinque arcate nei lati lunghi e tre nei lati corti, cui si sovrappone una loggia architravata.
Cfr. Divo Savelli, Rita Nencioni, Il chiostro degli Angeli – Storia dell’antico monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli a Firenze, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 58, 59
6 Cfr. G. C. Romby, Per costruire ai tempi di Brunelleschi – modi, norme e consuetudini del quattrocento fiorentino, CLUSF, Cooperativa Editrice Universitaria Firenze, 1979.
7 La pietra serena è affiancata a una superficie lavorata a sgraffito nel cortile di Palazzo Medici-Riccardi e ad una superficie bianca intonacata in Palazzo Strozzi.
8 La Loggia del Bigallo e la Loggia dei Lanzi, costruite nel corso della seconda metà del secolo, rappresentano in parte il momento di passaggio dall’architettura medievale a quella rinascimentale; vi è infatti, nella loro composizione, un’originale commistione di decorazioni goticheggianti, archi a sesto acuto e archi a tutto sesto in marmo o pietra forte.
9 In alcuni casi viene ancora utilizzata la pietra forte; lo possiamo constatare nell’attuale sala d’angolo terrena di Palazzo Medici Riccardi (1450ca.-1517), nata originariamente come loggia e ricavata dal suo tamponamento avvenuto nel secondo decennio del Cinquecento, e nella Loggia Rucellai (1463-1466).
Gli esempi di loggia isolata risalgono alla seconda metà del Trecento e al periodo successivo alla metà del Cinquecento. Nel secondo caso, come dimostrano la Loggia del Mercato Nuovo e la Loggia del Pesce, le logge vengono tuttavia costruite per scopi commerciali e non più socio-politici. A partire dal Cinquecento, infatti, molte logge fiorentine vengono distrutte o murate dato che tutti i palazzi signorili sono ormai provvisti di ampi saloni interni dove la nobiltà sorta con il Granducato tende a raccogliersi. Le logge, un tempo gremite di cittadinanza, rimangono gradualmente inutilizzate; alcune come quella dei Lanzi divengono quindi luogo per l’esposizione di statue (cfr. P. Bargellini, op. cit., 1964?).
10 Brunelleschi è in cantiere fino al 1427 circa quando subentra Francesco della Luna, che sembra si occupi del secondo piano, eseguito dopo il 1435.
11 Cfr. R. Gargiani, Princìpi e costruzione nell’architettura italiana del Quattrocento, Laterza, Bari, 2003, p. 23-25.
Le colonne monolitiche arrivano in cantiere già sbozzate, a p. 34 dello stesso libro Gargiani scrive: “Nel 1420 Betto d’Antonio è pagato per “disgrossare” la prima “cholonna e basa e capitello alla chava”; la colonna viene quindi “tondata” dallo stesso Betto servendosi di un traguardo di legno: “uno chastagnuolo per la tondezza della cholonna”. Le colonne vengono modellate sulla base di “II modani di noce et d’albero” eseguiti da Brunelleschi (cfr. in Gargiani, op. cit., nota 44, p. 620).
12 L’”alzacolonne” è una delle macchine più innovative del cantiere edile quattrocentesco. Per un approfondimento sul tema si veda: R. Gargiani, op. cit., nota 62, p. 621)
13 R. Gargiani, op. cit., 2003, p. 25.
14 Dopo la partenza dal cantiere di Brunelleschi, avvenuta nel 1427, questo viene affidato a Francesco della Luna, accusato più volte di alcuni errori nella prosecuzione dell’opera, nella quale coinvolge, nel 1430 circa, gli scalpellini Lorenzo di Matteo, detto Marocho, e Nanni di Donato.
15 La cava è di proprietà di Maddalena Gaddi degli Alessandri.

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16 Dicembre 2010

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Form Matters. Questioni di forma

Il volume Form Matters. Questioni di forma, uscito in occasione dell’omonima mostra in corso agli Arsenali Medicei di Pisa, si presenta, fin dall’iniziale nota editoriale a firma dell’architetto Rik Nys, non solo come un catalogo espositivo, ma anche come una sorta di antologia dell’attività ultraventennale di David Chipperfield e del suo studio.

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14 Dicembre 2010

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Progetti di giovani architetti italiani

Il volume edito da UTET Scienze Tecniche nell’ambito della nuova linea editoriale GiArch si propone di presentare e promuovere alcune opere progettate e realizzate da architetti italiani under40, raccolte attraverso un bando di autocandidatura aperto a tutti i giovani professionisti e selezionate da una commissione di alto profilo intellettuale a livello internazionale.

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