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31 Gennaio 2011

Pietre d`Italia

LA PIETRA SERENA COME MATERIA DA SCOLPIRE
Donatello, Desiderio e Geri da Settignano


Donatello, particolare dell’Annunciazione Cavalcanti

L’arenaria grigia osservata fino ad ora in forma di elementi architettonici, di colonne monolitiche, paraste, modanature, cornici e conci possenti talvolta, nella Firenze quattrocentesca, viene scelta come materia da plasmare nelle forme sinuose della scultura.
La sua compattezza e omogeneità materica, insieme al caratteristico cromatismo contribuiscono a renderne l’effetto scultoreo particolarmente elegante e delicato, tanto da prestarsi a interessanti sperimentazioni compositive nelle mani esperte di scultori come Donatello, Geri e Desiderio da Settignano. Passando attraverso il tutto tondo, l’alto rilievo e lo “stiacciato”, sono loro a mostrare alla città che sta conoscendo la pietra serena attraverso le rivoluzionarie architetture di Filippo Brunelleschi, come questa possa contenere in sé anche vigorose forme animali, tableau vivant di figure a grandezza naturale, dolci profili di donne e bambini.
In un’epoca artistica dove il marmo e il bronzo possono essere considerati i protagonisti di una scultura capace, ancor prima della pittura, dello stravolgimento artistico rinascimentale, le opere in pietra serena appaiono quasi come esercizi di stile di maestri desiderosi di plasmare anche la materia litica più rappresentativa della propria identità territoriale.

Il Marzocco e l’Annunciazione Cavalcanti di Donatello


Donatello, il Marzocco

L’eccezionale versatilità di Donatello nello sperimentare materiali e tecniche scultoree diversi fa sì che il suo amplissimo repertorio artistico contenga anche due importanti opere in arenaria grigia di Fiesole. Si tratta del Marzocco e dell’Annunciazione Cavalcanti, il primo realizzato tra il 1418 e il 1420 su commissione della Repubblica fiorentina in occasione della visita a Firenze di Papa Martino V, la seconda portata a compimento presumibilmente alla metà degli anni Trenta per l’altare di famiglia che ancora oggi si trova nella Basilica di Santa Croce1.
Nelle mani di Donatello la pietra serena viene quindi lavorata sia a tutto tondo che ad alto, basso e bassissimo rilievo.
Una copia del Marzocco troneggia ancora oggi in Piazza della Signoria; la statua, un leone araldico, seduto, che poggia una zampa su uno scudo con il giglio fiorentino, doveva essere posizionata originariamente sullo scalone del Convento di Santa Maria Novella che collegava il Chiostro Grande agli appartamenti papali. Nel corso dei secoli successivi venne trasferita agli Uffizi, in Piazza della Signoria e al Museo del Bargello, dove si trova tutt’oggi.
Da un blocco di pietra serena Donatello estrae una scultura capace di rinnovare la figura del “marzocco”, il tradizionale animale totemico medievale simbolo del potere popolare che a Firenze prende la forma di leone. L’arenaria grigia dona all’animale una nuova maestosità, vitalità e solenne eleganza attraverso l’espressività del volto e il gesto della zampa rafforzati da un’accentuazione chiaroscurale dovuta a una ancor rara tridimensionalità che trova modo di esprimersi nel movimento diversificato della morbida criniera.
È la pietra serena, al contempo compatta, forte, omogenea e facilmente lavorabile, che permette a Donatello di esprimere le proprie capacità scultoree attraverso il tutto tondo di una forma animale, alla quale riesce a donare un’espressività simile ad alcune delle sue sculture di figure umane2.


Donatello, Annunciazione Cavalcanti

Al tutto tondo Donatello spesso preferisce il rilievo; quello altissimo, affiancato a superfici lavorate in maniera più o meno aggettante, diventa elemento preponderante della gerarchia compositiva che caratterizza l’Annunciazione Cavalcanti di Santa Croce, realizzata in arenaria di Fiesole3.
L’Angelo e la Vergine sono i protagonisti di una scena inserita all’interno di un’edicola classica sorretta da una base poggiata su due mensole e decorata da due stemmi di famiglia accompagnati da una ghirlanda centrale. La cornice è delimitata lateralmente da due pilastri decorati a motivi naturali e coronati da capitelli con mascheroni, ed è chiusa superiormente da una trabeazione modanata e riccamente decorata su cui poggia un timpano curvilineo adornato da quattro putti in terracotta4. L’edicola o, se vogliamo, il tabernacolo, assume la doppia valenza di cornice e palcoscenico per la scena che si svolge al suo interno.
Le due figure, scolpite a grandezza naturale, sembrano quasi fuoriuscire dalla cornice e riescono, attraverso una rappresentazione reale ed espressiva quanto pacata, a dare il senso dell’apparizione angelica e del messaggio sublime in procinto di essere annunciato. La Vergine sembra sorpresa e quasi sul punto di arretrare, l’Angelo la osserva timidamente con la bocca leggermente dischiusa quasi a voler avviare un dialogo reale.
Alle spalle delle due figure, uno sfondo simile a un portale serrato mostra la sua ricca ornamentazione dorata mossa da cornici e girali e modellata, posteriormente alla Vergine, in un trono a forma di lira. Il rilievo dello sfondo è minimo, quasi bidimensionale e per questo capace di far risaltare i protagonisti, in bilico tra la dimensione narrativa dell’opera e quella reale dello spazio al di fuori di essa tanto da riuscire a coinvolgere nella scena lo stesso osservatore.
La semplicità del materiale prescelto, la pietra serena, si contrappone alla ricchezza ornamentale con la quale viene lavorato: il caratteristico colore grigio dell’arenaria si affianca all’oro delle incisioni che ne decorano la superficie. Una ricchezza decorativa sommata all’eleganza del macigno fiesolano che contribuisce a distanziare quest’opera dalla peculiare dinamicità donatelliana per infonderle, invece, una delicata e raffinata dolcezza.

La grazia nella scultura lapidea di Desiderio e Geri da Settignano


Desiderio da Settignano, San Giovannino5

La dolcezza e la grazia della scultura in pietra serena son ancora più apprezzabili nelle opere di altri due importanti lapicidi rinascimentali della cerchia donatelliana: i fratelli Desiderio e Geri da Settignano che, intorno alla metà del Quattrocento, portano a termine una serie di rilievi nell’arenaria del proprio paese d’origine.
Sono Firenze e Settignano i luoghi che danno vita all’esperienza professionale di questi due maestri scalpellini; quel Desiderio che il Cicognara ci dice aver raggiunto la perfezione con lo scalpello e suo fratello Geri, cresciuti in uno dei paesi a ridosso delle cave di pietra serena e tradizionalmente più vicini all’arte del lavorare il macigno fiesolano6. Figli e fratelli rispettivamente degli scalpellini Francesco di Bartolo detto Meo di Ferro e Francesco da Settignano, intorno alla metà del secolo s’iscrivono all’Arte dei Maestri di Pietra e Legname avviando una bottega artigiana a Firenze, nei pressi di Ponte Santa Trinita, che nel 1458, a detta del catasto, pare già ben avviata7. La conduzione della bottega, polivalente e conosciuta nella cerchia medicea, come racconta Giorgio Vasari, è nelle mani di Desiderio seppur più giovane del fratello Geri. Quest’ultimo sembra infatti avere un ruolo subordinato al primo, partecipando solo alla realizzazione dei manufatti lapidei e dei lavori di ornato, forse con l’aiuto del padre e del secondo fratello forti della lunga esperienza di scalpellini presso le cave del loro paese. Tuttavia, la definizione di Desiderio da parte di Filarete, che nel suo Trattato di Architettura lo descrive “intagliatore di marmi e di pietre”8, fa supporre che la distribuzione dei lavori in bottega non sia troppo rigida e che quindi anche nelle opere lapidee si possano riconoscere più mani.
Bottega conosciuta per la realizzazione di sculture, rilievi e decorazioni architettoniche in materiali diversi, quella dei due fratelli diventa famosa soprattutto per la lavorazione del marmo e della pietra serena attraverso i quali Geri e Desiderio, allievo e talvolta collaboratore di Donatello, riprendono in maniera magistrale la tecnica dello “stiacciato” riuscendo, rispetto al maestro, a lavorare la pietra con ancor più minuzia e politezza. Se la pietra serena non riesce a riproporre alcuni effetti scultorei del marmo, l’accurata levigatura della sua superficie a scapito della mancanza di rifinitura cui si era soliti lasciarla, contribuiscono al raggiungimento di un dettaglio e di un effetto di luminosità inconsueto.
Leggerezza, delicatezza ed espressività, conferite alla pietra attraverso un uso eccellente e fino ad ora inedito della luce, sono infatti gli elementi che più di tutti caratterizzano le opere di questi due artisti. Un’arte dello scolpire estremamente raffinata, la loro, grazie anche alla scelta dei soggetti che spesso si concentra su bambini, giovani e figure femminili, attraverso i quali delle semplici lastre di arenaria grigia vengono trasformate in capolavori di rara finezza.
Il tema del fanciullo si ripete molte volte e permette a Desiderio di rappresentare un’ampia gamma di espressioni facciali. Ne è un esempio mirabile il San Giovannino che, attribuito inizialmente a Donatello, all’inizio del Novecento si è compreso essere realizzato dallo scultore settignanese probabilmente tra il 1450 e il 14539. L’opera, rappresentante il busto del Santo visto di tre quarti con il volto di profilo circondato da una grande aureola, mostra l’eredità donatelliana sia nella tecnica del rilievo sia nella naturalezza espressiva della figura. Seppure minuscole tracce di colore presenti nei sottosquadra facciano ipotizzare una sua originale policromia, la sensibilità materica e scultorea di Desiderio permette di ammirare la finezza esecutiva e la bellezza della pietra serena nuda. La figura del fanciullo è il risultato di una composizione di piani ad aggetti diversi che vanno dall’alto rilievo – nel busto e nella testa – allo “stiacciato” – nei capelli, nelle sopracciglia e nella pelle di cammello – creando una ricca gradazione chiaroscurale sottolineata dall’accurata definizione dei contorni e degli elementi lineari. Il volto, leggermente rivolto verso il basso, con la bocca socchiusa e gli occhi aperti sembra quasi essere rappresentato in un’espressione di sogno sublime, capace di alleggerire la materia della sua caratteristica pesantezza.


Desiderio da Settignano, Donatello, Luca della Robbia, Portico della Cappella Pazzi, Firenze (foto: Sara Benzi)

L’elemento della leggerezza, affiancato a quello della luminosità avvicinano l’arte di Desiderio e Geri a quella di Luca della Robbia, conosciuto per le sue inconfondibili ceramiche invetriate. Insieme a lui e a Donatello Desiderio, probabilmente tra il 1459 e il 146110, scolpisce i cinquanta medaglioni del fregio lapideo del portico della Cappella Pazzi. Venticinque coppie di teste di fanciulli angelici, in parte policrome e disposte l’una verso l’altra con espressioni gioiose fortemente accentuate e variegate che, anche nella limitatezza delle loro dimensioni, partecipano con grande vivacità alla decorazione del portico.
Ancora una volta il tema del fanciullo, probabilmente incentivato dal fatto che Desiderio ha ben quattro figli, permette all’artista di esercitarsi nella rappresentazione della dolcezza e dell’intensità espressiva e fortemente reale. Un esercizio che i due fratelli eseguono anche nella realizzazione di una serie di rilievi rappresentanti “Madonne col Bambino” due delle quali, riferibili a Geri, risalenti al 1450-1453. La prima è quella conservata presso il Victoria & Albert Museum di Londra, la seconda quella, purtroppo frammentaria, del Museo di Lione.
In entrambe troviamo una tenerezza materna e una delicatezza infantile raramente individuabili nella scultura dell’epoca; i gesti della madre e la naturalezza del Bambino Gesù, allegro e spensierato nella prima opera, addormentato nella seconda, insieme alla sapiente imitazione delle capigliature e dei panneggi sono finemente rappresentati con uno “stiacciato” che muove la superficie lapidea in maniera appena accennata e che possiamo ritrovare anche in altri due rilievi in arenaria grigia con profili di donna: il Ritratto di giovinetta detta Dama Valori, oggi conservata presso l’Institut of Art di Detroit e la Sant’Elena imperatrice conosciuta anche come Santa Cecilia del Toledo Museum of Art, in Ohio.


Geri da Settignano, Madonna di Lione11

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Se la pietra serena viene utilizzata da Desiderio e Geri da Settignano anche in altre tipologie di opere come quella degli emblemi araldici fra i quali l’esempio più conosciuto è senza dubbio lo Stemma Martelli, eseguito dalla bottega dei due fratelli nel 1455 circa su disegno di Donatello, la rappresentazione a rilievo di figure umane rimane il modello più affine a questa materia.
L’utilizzo raffinato della luce da parte dei due scultori riesce a esaltarne le caratteristiche, l’omogeneità estrema, il colore unico, la compattezza, tanto da renderla valida alternativa al candido splendore del marmo.

di Sara Benzi

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Note
1 Per un approfondimento sul tema, tra le innumerevoli opere dedicate a Donatello si veda: R. C. Wirtz, Donatello: 1386-1466, Colonia, Könemann, 2000; C. Avery, Donatello, catalogo completo, Cantini, Firenze, 1991.
2 All’interno del repertorio donatelliano queste possono essere individuate nel San Marco di Orsanmichele o nei Profeti, “pensieroso” e “imberbe”, del Campanile di Giotto.
3 L’opera è collocata nella navata destra della Basilica di Santa Croce, dove si trovava la tomba della famiglia Cavalcanti e rappresenta, oggi, una delle poche opere di Donatello ad avere mantenuto la sua collocazione originaria.
4 Questi, ritrovati alla fine dell’Ottocento da Luigi del Moro, architetto di Santa Croce, sono stati restaurati, reintegrati e riposizionati sopra il timpano all’inizio del Novecento.
5 Immagine tratta da: M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi, N. Penny, a cura di, op. cit., 2007, p. 185.
6 Da Settignano provengono anche Bernardo e Antonio Rossellino, Luca Fancelli e l’intagliatore Giovanni di Bertino, esecutore del portale marmoreo di Santa Maria Novella.
6 Geri s’iscrive all’Arte nel 1447, Francesco nel 1451, Desiderio nel 1457.
7 Cfr. M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi, N. Penny, a cura di, Desiderio da Settignano: la scoperta della grazia nella scultura del Rinascimento, Milano, 5 Continents; Parigi, Musee du Louvre Editions, 2007. Catalogo della Mostra tenuta a Parigi, Firenze e Washington nel 2006-2007, p. 29.
8 L’opera, collocata originariamente nella Badia a Settimo, nel 1783 viene spostata all’Ospedale degli Innocenti e solo sei anni dopo alla Galleria degli Uffizi per poi, nel 1873, essere trasferita al Museo del 9 Bargello dove si trova tutt’oggi. L’attuale cornice in legno dorato ha sostituito la più semplice cornice ottocentesca documentata in una foto del 1920 (Archivio Fotografico del Museo del Bargello).
Nel 2006 è stata soggetta ad un accurato restauro.
Per un approfondimento sull’opera si veda: M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi, N. Penny, a cura di, op. cit., 2007, pp. 184-187.
10 Questa data è stata individuata recentemente sulla cupoletta del portico; cfr. M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi, N. Penny, a cura di, op. cit., 2007, p. 33.
11 Immagine tratta da: M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi, N. Penny, a cura di, op. cit., 2007, p. 208.

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29 Gennaio 2011

Videointerviste

Intervista a Philippe Nigro

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Philippe Nigro (Nizza, Francia, 1975) ha studiato arti applicate presso “La Martinière” di Lione e la DSAA Industrial Design e Interior Design – école Boulle di Parigi. Ancora studente, ha realizzato con G. Gardet il giardino “Ailleurs” premiato al concorso di Chaumont sur Loire e la lampada Flac, premio Habitat. Dal 1999 è designer free lance e collaboratore dello studio De Lucchi a Milano per cui segue numerosi progetti di design di prodotto, arredamento, illuminazione, architettura d’interni, eventi, scenografia. Tra i numerosi committenti, si annoverano alcune delle società più note nel campo del design, tra cui Olivetti, Poltrona Frau, Artemide, Alias, Caimi, Interni, Feg, Listone Giordano.
Affascinato dalle potenzialità del design incastrato e “assemblato”, ha progettato soluzioni d’arredamento versatili e funzionali concepite per adattarsi alle esigenze in continua trasformazione del vivere contemporaneo.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, Nigro illustra per Petra (Regione Puglia) la sua particolare chiave di lettura dell’uso pietra applicato al mondo del design. La sinergia che si è sviluppata tra il giovane designer e la ditta ha portato ad approfondire diversi aspetti inerenti l’ interpretazione delle potenzialità figurative del materiale e delle tecniche di lavorazione ad esso correlate, dal concept ideativo alla fase realizzativa. Dopo un’attenta “frequentazione” delle cave e dei processi produttivi, Nigro evidenzia la necessità di uno sforzo, quando si lavora con la pietra, per discostarsi il meno possibile dall’idea originaria nel corso del processo esecutivo.
Il tavolo presentato a Marmomacc si fa interprete di uno stretto dualismo tra la superficie finita frutto di un’accurata lavorazione e quella grezza derivante dallo spacco del materiale.

di Chiara Testoni

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Philippe Nigro
Petra

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28 Gennaio 2011

News

Fashion on Paper

Fashion on Paper 2011
Festival di editoria indipendente

Roma, anche quest’anno il Tempio di Adriano apre le sue porte a Fashion on Paper, il festival di editoria indipendente proposto nella sua terza edizione all’interno dell’appuntamento invernale della città capitolina con Altaroma. L’evento, previsto per il week-end del 29 e 30 gennaio, è ideato e organizzato da Maria Luisa Frisa, storica dell’arte, direttore del nuovo Corso di Laurea in “Design della Moda” presso la Facoltà di Design e Arti di Venezia (IUAV).
Due giorni di dibattiti, incontri, installazioni, performance artistiche e musicali promosse dai principali fashion editor mondiali, che lavorano su carta o sul web, coinvolgeranno la capitale in un importante momento di confronto e di aggiornamento su quello che sta offrendo la cultura contemporanea legata alla moda, all’arte e al design.
Fashion on Paper si propone come immancabile momento d’incontro tra le storiche case di moda e le nuove realtà internazionali. Nuove riviste e blog indipendenti come FBF, A Shaded View On Fashion, A blog, Cura Magazine, Made WS, ma anche Grey, The End, Innovation Valley, Nero, Traum Novelle, Madews, Frizzifrizzi, Stationmag, Encens, Dapper Dan, Closeupandprivate trovano qui un’importante opportunità di promozione all’interno di una stimolante kermesse che si sviluppa attorno a contaminazioni sempre diverse tra il mondo delle passerelle e quello dei laboratori artistici e di design.
E quest’ultimo, il “design”, si mostra in questa occasione nella veste di strumento progettuale per il prodotto di moda e per lo strumento attraverso il quale questo viene presentato, pubblicizzato, comunicato, studiato. Un progetto complesso che intercetta forme materiche e attori diversi presenti in contesti come quello che sta per prendere forma a Roma, divenuti ormai immancabili stimoli per lo sviluppo di tutto ciò che chiamiamo ARTE.
… buon week-end a tutti.

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Fashiononpaper
Programma dell’evento

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24 Gennaio 2011

Videointerviste

Intervista a Riccardo Blumer

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Riccardo Blumer (Bergamo, 1959) compie i suoi studi di architettura al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1982. Dal 1983 al 1988 lavora presso lo studio di Mario Botta a Lugano dove si occupa di progetti, mostre e pubblicazioni. Nel 1988 apre il suo studio professionale a Casciago (Varese). La sua attività spazia dal design, agli allestimenti per mostre (Triennale di Milano, Palazzo Ducale Genova), alla progettazione di arredi privati e pubblici (Teatro alla Scala di Milano), alla progettazione architettonica (soprattutto di uffici). L’intensa attività professionale è da sempre accompagnata ad un solido impegno in campo culturale e didattico. Nel 1994 e nel 1996 è membro della giuria internazionale all’Ecole Superieure d’Arts Graphiques et d’Architecture Interieure di Parigi; nel 1998 collabora con la Domus Academy e con l’Istituto Europeo di Design di Milano; nel 1995-96 collabora come segretario del Comitato Scientifico che sovrintende alla nascita dell’ Accademia di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana, dove oggi insegna.
Blumer ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio “Design Preis Schweiz” (1997), il “Compasso d’Oro” (1998), il premio “Catas” (1999), l’ “Observeur du Design” (2000) e ancora il premio “Catas” con M. Borghi (2007). Alcune sue opere di design sono parte della collezione permanente del Metropolitan Museum of Art di New York, del Centre George Pompidou di Parigi, della Triennale di Milano e sono esposte stabilmente anche al Centro di Arte Contemporanea di Cavalese (Trento) e al Museè d’Arts Dècoratifs di Parigi.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, Blumer ha illustrato la sua personale “didattica del costruire” attraverso la realizzazione, per il Consorzio Marmisti Bresciani, di oggetti in pietra dall’alto potere evocativo. Per Blumer, la possibilità di confrontarsi concretamente con la realtà valicando i limiti della teoria è essenziale per intraprendere la professione, e dunque indispensabile nell’attività didattica. L’oggetto a piccola scala consente di esplorare la dimensione dell’opera finita. Così, il gruppo di lavoro dell’Università di Mendrisio ha concentrato la propria attenzione sul tema delle “edicole” come oggetti con forte valenza urbana e sociale, che custodiscono un “simbolo”. Le edicole in marmo botticino sono concepite come “contenitori” che proteggono, che lasciano filtrare lo sguardo all’interno senza rivelare pienamente alla vista l’oggetto custodito. Sono oggetti “misteriosi”, che evocano le suggestioni dell’”arte interstiziale” e che propongono un’interpretazione della pietra, per sua natura così vincolata alla gravità e alla capacità di resistenza alla sola compressione, all’insegna di una sorprendente “leggerezza”.

di Chiara Testoni

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Riccardo Blumer
Consorzio Marmisti Bresciani

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20 Gennaio 2011

Design litico

Le nuove collezioni Lithos Design:
rivestimento, spazio, parete.


Un’ambientazione del modello Onda della nuova collezione Muri di Pietra.

Porsi al confronto con il tema dei rivestimenti parietali in ambito lapideo, o addirittura con quello delle pareti nella loro complessa interezza, è intento affatto banale per chi lo affronti con la consapevolezza del portato storico-tecnico sotteso ai due campi. Consci di questa premessa – ne è riprova l’eccellenza degli esiti – i progettisti di Lithos Design hanno recentemente aggiornato il ventaglio di possibilità già esperite sulla pietra nelle loro prime collezioni, ampliando ora la ricerca ed i risultati da essa conseguiti, dal mondo commerciale del puro rivestimento lapideo ad alcune sue importanti evoluzioni spaziali, sino a distaccare definitivamente la materia litica dal supporto murario per renderla finalmente autonoma, essa stessa parete, con applicazioni adatte ad esempio agli ambienti della casa o del commercio.
Storicamente il muro naturale in opera isodoma s’è lasciato ibridare per i motivi dell’avanzamento tecnico, dello sviluppo di talune tecnologie, delle ragioni economiche e della reperibilità del materiale. Ora come allora le logiche di cantiere e di industrializzazione dell’edilizia fanno sì che ciò che definiamo muro nei suoi diversi spessori sia costruito in svariate maniere dettate sia dal requisito tecnico, sia e soprattutto da valutazioni di praticità e sveltezza realizzative. Ne consegue una necessità di rivestimento, non solo per migliore finitura, ma anche, nei casi migliori, per la volontà di suggerire continuità spaziale oltre che superficiale fra ambienti diversi. Da ciò la pietra non discende inevitabilmente quale soluzione unica ed esclusiva, ma al confronto con molti altri materiali quali l’intonaco, o più recentemente i metalli, essa può essere certamente preferita per le maggiori resistenze agli agenti ed all’usura, come pure per le doti inerziali di rilascio del calore anche artificialmente prodotto, o più in generale per i molteplici contenuti sensoriali ed espressivi afferenti il mondo naturale in essa evidenti.
Nella storia del rivestimento lapideo il ruolo di protagonista interpretato dall’opus sectile ha determinato nel tempo commistioni varie con la pittura, dal primo alla seconda, ed anche di rimando dalla seconda al primo. L’affinamento della tecnica per la messa in opera dei decori lapidei alle pareti costruite ha guidato ai primi casi di applicazione mediante inserti metallici, con ammorsature quale migliore elemento di tenuta fra i conci e le lastre.


Il prezioso sfondo realizzato con elementi della collezione Luxury.

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Le nuove collezioni di Lithos Design presentate nelle occasioni dello scorso Marmomacc spaziano con curiosità critica e felicemente indagativa entro questi mondi, ad esempio offrendo supporto agli inserti pittorici nella collezione Luxury ovvero celando gli innesti metallici fra i conci della collezione Muri di Pietra. Con la disciplina ed il rigore a cui la produzione industriale ci richiama oggi, le singole lastre delle diverse collezioni parlano un comune linguaggio dimensionale ed applicativo, così da essere intercambiabili ed offrirsi ai molteplici desideri estetico-funzionali del fruitore degli spazi.
In una fase storica, l’attuale, in cui al materiale lapideo è spesso richiesto d’assottigliarsi e contemporaneamente superarsi nelle prestazioni, il tema della profondità – lo spessore della lastra insieme alle sue possibilità espressive – assume rilevanza speciale. Ad esaltarla sono ad esempio particolari soluzioni d’angolo, o talune scelte di fuga fra gli elementi, l’opportunità di eseguire incisioni e rilievi superficiali, ovvero la privazione di un concio che conceda di traguardare oltre la barriera. A tutti questi modi si aggiunge ora quello di ricercare nello spessore del materiale non solo l’ispirazione espressiva, ma anche concretamente lo spazio per alloggiare componenti tecnici ed impiantistici, quali ad esempio quelli per corpi illuminanti, a loro volta capaci di esaltare il trattamento superficiale dei conci lapidei con fasci di luce radenti sul materiale; è quanto accade nella collezione Pietre Incise Curve Luce. A fronte della perfetta riuscita, risulta forse ovvio, ma doveroso, l’accento posto sulla molto maggiore difficoltà tecnica e realizzativa al raggiungimento dell’obiettivo con il materiale lapideo, rispetto a quanto recentemente compiuto anche con altri materiali frutto di varie miscele ed impasti plasmabili, con i quali si sia cercato analogo risultato.
Ulteriori note d’encomio sono dovute alla sapiente integrazione di apporti artigianali tradizionali nazionali, come ad esempio per le integrazioni pittoriche di talune collezioni, al coerente impegno non solo scultoreo di Raffaello Galiotto, alla maestria nell’impiego delle strumentazioni di progetto e di realizzazione tridimensionale dei manufatti mediante sistemi a controllo numerico. Alla sostenibilità della proposta risulta inoltre fondamentale ed assai apprezzato l’importante lavoro di ricerca svolto a determinare la forma e la dimensione del prodotto, pure in funzione del contenimento e dell’ampio riutilizzo del materiale naturale di scarto.


La luce radente esalta la superfici della collezione Pietre Incise Curve Luce.

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di Alberto Ferraresi

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Vai al sito di Raffaello Galiotto

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18 Gennaio 2011

Post-it

Il cibo e i sensi

Nella rivista Ventiquattro di ottobre si poteva leggere un articolo sul futuro del cibo:
“Per un nuovo snack, per esempio, l’idea iniziale può venire dai dipendenti dell’azienda che intende produrlo (spesso si fanno sondaggi in fabbrica) o anche dal pubblico. Esistono infatti agenzie specializzate che chiedono ai consumatori di cosa avrebbero voglia. (…) Come per un sugo o un wurstel, si parte dall’aspetto del packaging e del contenuto. Si modificano foto e snack già in commercio – l’Image Lab di Kraft, cuore pulsante del suo reparto di R&D, si spinge oltre e “photoshoppa” gli oggetti più vari trasformandoli in dolci digitali – poi se ne sottopongono le immagini al giudizio dei consumatori. Sarà una barretta particolarmente spessa? Da mordere sugli angoli o larga come un solo boccone? Con una striscia colorata in superficie? Per gli snack virtuali che passano questo primo esame studiano i costi di fabbricazione, stoccaggio e distribuzione, e si elaborano ricette con il supporto di psicologi della percezione, sound designer specializzati in cibo, artisti, nutrizionisti, economisti, chimici, pubblicitari e infine cuochi.

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18 Gennaio 2011

Opere Murarie

La costruzione muraria. Muro/Spazio*

English version


Tavola illustrativa dell’opera muraria a conci squadrati dal “Trattato terico pratico dell’arte di edificare” di Giovanni Rondelet

In una fase storica remota (tanto lontana da renderne inprecisata l’esatta “profondità” temporale e le stesse coordinate geografiche) un’architettura stabile, duratura, protettiva si impone in seno all’ambiente naturale inospitale, in un certo senso “perfezionandolo” ai fini di una sua “abitabilità” in funzione di bisogni corporei e di aspirazioni simboliche intellettive dell’uomo. Protagonista di questa rivoluzione silenziosa è il muro, posto a separare uno spazio interno (reso abitabile in forma di microcosmo) da uno spazio esterno (l’ambiente sconfinato e infinito della natura); in questo processo di “delimitazione” e di “strutturazione” dell’ambiente fisico il muro si erge come recinto di separazione dei due mondi.
Non ha senso evidenziare – come numerosi autori hanno fatto – che già in origine la natura con i suoi corrugamenti geologici ha offerto configurazioni concave e convesse (monti e vallate, speroni e caverne) capaci di individuare diverse e peculiari accezioni “spaziali” rispetto al piano orizzontale della superficie terrestre. La peculiarità di uno spazio interno, architettonicamente inteso, contrapposto ad uno esterno atmosfericamente condizionato, presuppone l’esistenza di una condizione oppositiva e netta tra volume stereometrico e vuoto, molto lontana dalla topologia delle corrugazioni geologiche che mettono in campo la sola coppia oppositiva convesso/concavo.
Lo stesso vale per il muro. Benché allo stato potenziale l’immagine del “muro naturale”, quale parete rocciosa stagliata sul suolo, sia stata sempre presente nel paesaggio terrestre costituendo un evidente suggerimento (soprattutto attraverso la evidente stratificazione geologica di alcune rocce), l’azione cosciente ed intenzionalizzata alla definizione architettonica dell’archetipo murario necessiterà – da parte dell’uomo – di atti di profonda determinazione per la selezione e l’adattamento delle materie provenienti dalla natura.

«Le materie prime – precisa Dom Hans van der Laan – dalle quali si ricava uno spazio delimitato da pareti robuste sono la massa illimitata della terra e lo spazio illimitato che la sovrasta. Bisogna dunque ricavare dalla terra la massa limitata dei muri, grazie ai quali una porzione limitata di spazio sarà sottratta allo spazio naturale.
Va da sé che il muro destinato a racchiudere uno spazio non può uscire tutto d’un pezzo dalla massa terrestre. La forma chiusa, introversa dei materiali che preleviamo dalla terra – blocchi di pietra, pezzi di legno, zolle di argilla – non origina immediatamente quell’altra forma chiusa che è propria di uno spazio interno.
A questo scopo bisognerà necessariamente assemblare alcuni pezzi di questo o quel materiale. I dolmen a galleria costituiscono un esempio di questo procedimento primitivo di formazione di spazi con un numero minimo di elementi».1


Castello di Eurialo a Siracusa (Ph. Alfonso Acocella)

Il muro, dunque, nasce come “sommatoria”, come “aggregato”, di materie disponibili in natura. Se però tronchi, rami, arbusti, canne, hanno costituito risorse facilmente disponibili per il rifugio rudimentale dell’uomo dando vita alla capanna, terra e pietra – con maggiore intenzionalità ed avanzamento tecnologico – alimenteranno il concetto di muro quale struttura verticale solida e impenetrabile al vento, alla pioggia, ai rumori, agli animali, agli stessi uomini.
I materiali di cui si serve la tecnica esecutiva in pietra per dar vita ad uno spazio architettonico vengono “raccolti” sulla crosta terrestre (o “prelevati”, mediante separazione forzata dalla stratificazione geologica) per poi essere, in qualche modo, riassemblati – lungo le fasi dell’atto costruttivo – in insiemi artificiali “efficaci” sotto il profilo statico.
Le pietre, di qualsiasi genere e forma, disposte l’una accanto all’altra, l’una sopra l’altra, nei vari modi aggregativi esprimono sin dalle origini l’esistenza di una mente creativa ed ordinatrice; al pari dell’arte della tessitura, l’arte muraria attiva una sintassi combinatoria e compositiva. Così, a seconda dei materiali litoidi disponibili e delle intenzionalità architettoniche, il mondo delle origini ci restituisce dispositivi costruttivi diversificati dell’opera muraria. Tali metodiche mettono in luce l’irregolarità o la più precisa stereometria di lavorazione della pietra e della pratica muraria, l’evoluzione dei suoi contenuti tecnologici.
Fra i muri primordiali sicuramente possiamo inscrivere quelli in elementi litici “informi” ottenuti dalla raccolta o dalla produzione per distacco in cava di pietre disponibili nelle prossimità del luogo di costruzione. Si tratta in questo caso di pietre grezze, spigolose, smussate o anche levigate dagli agenti naturali: massi, scapoli, ciottoli di fiume; le forme e le dimensioni di tali elementi litici saranno sempre in funzione dei limiti imposti dalla natura, dalle condizioni petrografiche di “sfaldamento” degli strati più esterni alla crosta terrestre.
Le murature con materiale informe possono essere state all’origine del gusto dell’opera muraria a “bugnato rustico”; si tratta in questi casi di un trattamento della materia alimentato dalla forza seducente delle valenze libere della pietra – quale roccia nel suo farsi costitutivo, geologico – quasi che il disegno del muro si formi nel seno di una materia resistente e refrattaria alla forza modellante dell’ordine geometrico.
Diversa intonazione architettonica assumerà, invece, l’opera muraria poligonale con le sue pietre perfettamente “incastonate” a secco, formando un piano di facciata sostanzialmente complanare e un disegno dei giunti a “rete” che è simile, figurativamente, ai cretti della terra bruciata dal sole. Per le murature regolari serviranno, allo scopo, blocchi di pietra pareggiati su tutte le facce assecondando un disegno e un taglio prestabiliti in relazione ad un progetto della materia definito in partenza. In questa ipotesi di lavoro la pietra è prelevata dal seno stesso della terra in grandi blocchi al fine di essere, poi, suddivisa in conci; le ricomposizioni in elevazione dei muri sembrano riproporre, nei corsi sovrapposti, le stratificazioni orizzontali delle rocce sedimentarie.


Mura urbiche di Alatri (Ph. Alfonso Acocella)

L’introduzione della malta, quale contributo innovativo dell’età ellenistica offerto dai territori che si distendono intorno al golfo “greco-sannitico” di Napoli, arricchirà l’opera muraria di nuove potenzialità tecniche e temi figurativi. La malta, riguardabile quale entità materica integrativa della compagine muraria, si proporrà come maglia continua ed avvolgente entro cui saranno “imprigionate” le pietre, anche quelle più informi ed irregolari: è questa l’invenzione che porta alla nascita e al grande successo dell’opus incertum romano. Al primitivo principio di gravità, tipico delle murature arcaiche a secco, si somma quello di una resistenza per coesione; alla presenza “discontinua” delle pietre si sovrappone il disegno continuo della maglia dei giunti compartecipe figurativamente alla definizione dell’opera muraria. In questa diversa restituzione del muro – soprattutto quando lo spessore dei giunti è significativo – la pietra è sfondo, mentre la rete dei giunti avanza in primo piano.
Sulle specifiche modalità di produrre muri di pietra, ritorneremo più analiticamente nel prosieguo della trattazione; qui ci interessa restare fermi, ancora, sul tema spaziale dell’architettura muraria.
La definizione dell’atto che porta, attraverso azioni di “prelievo” o di “enucleazione” rispetto all’ambiente naturale, alla creazione dello spazio architettonico ha origine fondamentalmente dalle necessità dell’uomo a strutturare un ambito “confinato”, confortevole ed autorappresentativo della propria esistenza.

«Lo spazio naturale – afferma Dom Hans van der Laan – si dispiega sulla terra ed è interamente orientato sulla sua superficie. Il suo dato primordiale consiste nella contrapposizione fra la massa terrestre, sotto, e lo spazio aereo, sopra, che si ricongiungono sulla superficie della terra. Per leggi di gravità, tutti gli esseri materiali sono integrati in questo universo spaziale e conducono la loro esistenza “incollati”, per così dire, alla terra. Grazie alla sua intelligenza e alla sua postura eretta, l’uomo si è affrancato da questo universo: può infatti rapportare a se stesso la porzione di spazio di cui ha bisogno per muoversi e per spostarsi. Al centro dell’orientamento verticale dello spazio rispetto al suolo, egli ha coscienza di un orientamento orizzontale rispetto a se stesso, cioè di uno spazio attorno a lui, nel cuore dello spazio al di sopra della terra. I due spazi che abbiamo definito – il nostro spazio d’esperienza, caratterizzato da un orientamento orizzontale, e lo spazio naturale, a orientamento verticale – sono dunque contrapposti, ed è da questo originario antagonismo che nasce l’architettura. Essa ha inizio nel momento in cui aggiungiamo alla superficie orizzontale della terra dei muri che si innalzano in verticale».2

La ricerca di uno spazio quantitativamente sufficiente e poi, progressivamente dilatato, intenzionalizzato in funzione delle concezioni di vita e delle visioni estetiche sarà una condizione permanente della vicenda umana che non ha finito di esercitare – neppure oggigiorno – le proprie influenze sul corso dell’architettura.
Nei paesaggi rocciosi dove si sono formate caverne in epoche remote già appare una forma embrionale di spazialità “protoarchitettonica”, corrispondente alla massa litica erosa naturalmente o sottratta per azione umana di trasformazione. E’ da evidenziare, comunque, come questi ambienti ipogei, benchè assumano spesso forza e suggestione per estensione e conformazione dello scavo, modifichino appena la superficie terrestre che sta loro intorno. Tali entità spaziali si presentano come cavità che possono essere anche abitate ma mai caratterizzate da una loro autonomia rispetto al paesaggio naturale terrestre; non si tratta mai, in altri termini, di ambienti formati dall’uomo. Il vero spazio architettonico non nasce dall’incisione della crosta terrestre bensì dalla definizione ponderata, intenzionalizzata, di ambiti spaziali enucleati, ritagliati dalla più vasta e sconfinata superficie terrestre dispiegando, come mezzi di “configurazione”, muri che si ricongiungono a formare volumi stereometrici massivi, dati in continuità di materiale innalzato artificialmente sul suolo naturale.
Per introdurre il concetto di spazio autenticamente architettonico abbiamo fatto riferimento alla figura del muro e, poi, del volume stereometrico. Vorremmo, infatti, evidenziare come un solo muro libero, disposto linearmente sulla scena della superficie terrestre, pur promuovendo una separazione in qualche modo significativa, lascia intatta l’illimitata estensione naturale di partenza. Tale assetto assetto insediativo del muro produce per il suo ambito di pertinenza (ovvero per tutto il tratto lungo il quale si eleva sul suolo) unicamente una suddivisione della superficie naturale all’aperto che, risultando solo parzialmente limitata dall’elevazione della massa del muro, continua ad essere libera, indifferenziata, illimitata in tutte le altre direzioni. Ciascuno degli ambiti naturali, al di qua e al di là del muro, conserva la sua originaria condizione; la superficie terrestre estensiva, geografica, non è scomparsa ma solo interrotta. Non siamo ancora in presenza della “formalizzazione” ed “enucleazione” di uno spazio esistenziale.
Per isolare uno spazio architettonico dall’immensurabile superficie terrestre è necessario “piegare”, “curvare” il muro o quantomeno elevare una coppia parallela di pareti posizionate in modo tale che la loro topologia insediativa produca un vero “blocco” spaziale. In tutti questi casi, grazie al dispiegamento inclusivo muri avvolgenti – così come si presenteranno dalle origini della civiltà architettonica i recinti sacri egiziani, le mura urbiche delle cittadelle micenee o quelle dei tèmenos dei santuari greci – si “materializza” un intervallo di superficie terrestre interclusa fra evidenti e massive pareti verticali di pietra: è la nascita del vero spazio architettonico. Sullo scenario naturalistico di fondo si insedia la costruzione muraria volumetricamente incisiva che porta in sè – al pari di uno scrigno – la definizione dello spazio architettonico dotato di un carattere e di un valore molto particolare.


Porta urbica di Alatri (Ph. Alfonso Acocella)

Archetipi/Attualità. L’analisi delle differenze più evidenti e generali, unita ad un approfondimento delle caratteristiche che contraddistinguono la costruzione stereotomica rispetto a quella tettonica, sono stati posti alla base dello svolgimento di questo capitolo. L’avvio della trattazione ha selezionato un “fuoco” centrale all’interno della civiltà occidentale costituito da quell’orizzonte lontanissimo rappresentato dal mondo miceneo le cui fortezze e tombe stupiscono, per quella presenza stabile ed eterna, entro cui i muri di pietra hanno assunto il valore di una profonda e permanente trasformazione del suolo naturale.
L’indagine degli archetipi murari occupa una parte considerevole dell’intero capitolo sui Muri di pietra. Il senso di tale digressione non vuol essere un nostalgico tributo al passato o una “ritirata” nel mondo delle origini, lontano dai contrasti, dalle incertezze del presente, quanto piuttosto una volontà di tornare alle fonti, per fare molti passi indietro ed interrogarsi sulle cose prima di portarsi all’oggi.
La disamina delle murature degli Antichi – per quanto ci è stato concesso dai tempi di un’opera fortemente condizionata nel suo svolgimento dal suo variegato ed estensivo orizzonte tematico – pur attenta al rigore scientifico e storico, all’acquisizione delle conoscenze recenti messe a disposizione dalla ricerca archeologica, volutamente vuol essere, più che un lavoro “filologico”, un atto interpretativo, fortemente “soggettivo” e strumentale alla cultura progettuale del presente. Lo svolgimento tematico incentrato sull’Antico, particolarmente, c’interessa per l’esplicita ipotesi “operativa” sottesa.
Rispetto agli archetipi murari in pietra, perfezionati e codificati attraverso fasi storiche assai lunghe, vorremmo instaurare – come i grandi architetti d’ogni epoca ci hanno sempre insegnato – una relazione attiva, critica che, spingendosi oltre il puro atto contemplativo ed erudito, ci permetta di coglierne la loro sempre latente pregnanza concettuale e il valore di attualità. Acquista significato, in questa ipotesi di lavoro, ritrovare allora le anticipazioni fondative, interrogarsi e confrontarsi con le raffinatezze espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto, delineare le condizioni operative del presente attraverso la “profondità” di ciò che lo ha reso possibile. E’ la ricerca dei primordi, dei momenti originari di intensa creatività dove l’archetipo assume un’importanza fondamentale, disvelando l’essenza della costruzione, della forma.
In questa direzione l’Antico può diventare, concretamente, fonte di suggestione e d’insegnamento anche per il progetto contemporaneo. E’ quanto sembra indicarci Carlo Truppi:

«La concezione dell’architettura come attività progressiva, porta a ritenere, che la sostanza tematica, attraverso continue modificazioni, permane inalterata. Acquista un senso, quindi, ritrovare le anticipazioni, risalire alle derivazioni, agli strati embrionali: delineare, in sostanza, la profondità del presente, ciò che “archeologicamente” lo ha reso possibile. Essa (l’archeologia) vuole mettere in luce la regolarità della pratica costruttiva, l’evoluzione dei suoi contenuti, le modalità attraverso le quali le idee sono apparse, le procedure si sono costituite, le esperienze si riflettono in altre esperienze, le tendenze si formano, svaniscono e si formano di nuovo».3


Cimitero a Parabita di Alessandro Anselmi e Paola Chiatante (Ph. Alfonso Acocella)

Attraverso le codificazioni di ambito mediterraneo connesse alla civiltà ellenica vorremmo evidenziare la rigogliosità, la ricchezza delle forme legate alla concezione stereotomica dell’architettura occidentale dove – nei secoli – accanto alle immagini di partenza se ne sono aggiunte molte altre.
All’idea dell’archetipo murario associamo il valore sovrastorico di tema architettonico permanente, stabile, mai più cancellabile nell’esperieza costruttiva dell’uomo ma solo “rinnovabile” attraverso un incessante e sempre diverso lavoro di “riscrittura” portato sulla materia litica, sui modi di ricomposizione in corpi volumetrici posti quali generatori di “temporalizzate” concezioni spaziali.
In linea generale la costruzione muraria di pietra delle origini, differentemente dai muri di argilla o da quelli a concrezione della tradizione romana, può essere riguardata come una forma di tessitura nella quale si rende testimonianza di tutte le diverse configurazioni in cui può presentarsi la materia lapidea e di tutti i modi possibili di connessione per la realizzazione di una struttura continua nel piano verticale. Ci sarà un momento in cui le pareti di pietra s’incurveranno per diventare archi e volte, si distenderanno in “orizzontale” a formare solai e pavimenti realizzati con gli stessi materiali; ma questa è una storia esterna al capitolo sui Muri di pietra, i suoi svolgimenti saranno ripresi, comunque, nel prosieguo del nostro lavoro.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

1 Dom Hans van der Laan, Lo spazio architettonico (ed. or. L’espace architectonique, 1989) p.162, in Alberto Ferlenga e Paola Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 201.
2 Dom Hans van der Laan, Lo spazio architettonico (ed. or. L’espace architectonique, 1989) p.163, in Alberto Ferlenga e Paola Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 201.
3 Carlo Truppi, “Il fattore tempo” p.78, in Continuità e mutamento, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 215.

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18 Gennaio 2011

English

The construction of walls. Walls/Space*

Versione italiana


Plate of a square ashlar wall taken from the book “Trattato teorico pratico dell’arte di edificare” by Giovanni Rondelet

During a certain period in the very distant past (so distant as to make it difficult to define the exact temporal identity and geographical coordinates thereof), a stable form of long-lasting, protective architecture emerged from within a largely inhospitable natural environment, which in a certain way “perfected” that environment for “residential” purposes, based on the bodily needs and symbolic, intellectual aspirations of Man. The principal part in this silent revolution was played by the wall, designed to separate an interior space (a liveable microcosm) from the outside (the boundless natural world); in this process of “delimitating” and “structuring” the physical environment, the wall emerged as the boundary between the two separate worlds.
There is no point in underling the fact – as many scholars do – that nature already possessed its own geologically-formed concave and convex arrangements (hills and valleys, spurs and caves) capable of delineating diverse “spatial” possibilities other than the horizontal plane of the Earth’s surface. The particular nature of an architecturally-conceived interior space, separate from the atmospherically-conditioned external environment, presupposes the clear opposition of stereometric volume and emptiness very different from the type represented by the geological uplifting of the Earth’s surface, which merely creates the opposition of convex and concave.
The same can be said of the wall. Although the suggestive image of the “natural wall”, consisting of a rock face projecting from the ground, has always been present in the Earth’s landscape, the deliberate action of creating the archetypal manmade wall required a determined act of will, given the need to select and adapt the materials furnished by nature. Dom Hans van der Laan claims that:

The primary datum of the wall-separated space is the unlimited mass of the earth with the limitless space above it; so the limited mass of the walls must also be drawn from the earth in order to withdraw a limited piece of space from the space of nature. However, clearly the wall that encloses the space cannot be got from the earth-be it a block of stone, a piece of wood or a lump of clay-cannot produce the enclosed form of interior space directly; for this at least a few pieces of material need to be joined together. Dolmens and other megalithic monuments are examples of such primitive space-formation by means of a minimal number of pieces.


Euryalus Castle in Siracuse

Thus the wall first emerged as the “sum” or “aggregate” of naturally available materials. However, while tree trunks, branches, bushes and bulrushes constituted readily available materials for the construction of Man’s earliest rudimentary shelter – the hut – earth and stone were soon to be employed, with a little more technological input, to advance the concept of the wall as a vertical, solid, windproof, rainproof, soundproof structure capable of protecting those inside from the intrusion of wild animals and, indeed, of other people.
The materials used in building the latter variety of shelter were “gathered” from the Earth’s crust (or prised away from the various geological strata) to then be re-assembled into artificial units deemed “effective” in terms of their static characteristics.
Stones of all kinds, arranged side by side, one on top of the other, combined in a variety of manners, have always expressed the existence of a creative, ordered mind; like weaving, stone masonry involves the language of combination and composition. Depending on the stone available and the architectural purpose in question, the primitive world offers a variety of different constructional methods and approaches. Such methods bring to the fore the irregularity or the precision of the dressing of the stone and of the masons’ building expertise, and of the evolution of the technical aspects of building with stone.
The more primitive of walls include those built using “shapeless” stones gathered from the ground or “broken off” rock faces in local quarries. These stones may be rough, sharp-edged or worn by the elements: whether boulders, quarried rocks or pebbles from the riverbed, the size and shape of such stones is always going to be determined by natural factors, by the petrographical characteristics of the cleavage of the outer layers of the Earth’s crust.
Walls built using rough, “shapeless” material may have been what generated the taste for “rusticated ashlar”, where the dressing of the stone is governed by the attraction of stone’s natural value – stone perceived in its geologically-shaped form – almost as if the design of the wall is conditioned by a material resistant to the modelling force of the geometrical order.
The polygonal wall, on the other hand, was to represent a different architectural structure, with its dry-laid stones perfectly matching to form an essentially coplanar surface characterised by grid-like joints resembling the cracks in sun-baked clay.
Regularly-shaped stone walls clearly require blocks of stone with regular surfaces, according to a given design and cut: in order to obtain such material, the stone is taken directly from the earth’s crust in the form of massive blocks, and these are subsequently hewn into ashlars; the arrangement of the ashlars in superimposed courses of the wall could be seen as the re-composition of the natural strata of the sedimentary rock from which the stones were hewn.


The city walls at Alatri

The use of mortar, an innovation introduced during the Hellenistic period and characteristic of the area around the “Greek-Samnite” Bay of Naples, was to provide masonry will new technical potential and figurative options. Mortar, this supplementary building material, was to constitute the continuous, all-encompassing bed “imprisoning” even the most irregular of stones, and as such was to lead to the emergence, and subsequent success, of the Roman opus incertum. Thus the principle of gravity underlying the construction and strength of dry-stone walls, was now aided by the introduction of this bonding agent; the “discontinuous” presence of the stones in the dry wall was supplemented by the continuous design of the network of joints characterising the mortared wall. In this new conception of the stone wall – and in particular in the case of those walls with particularly wide gaps left between one stone and the next – the stone itself appears to constitute the background against which the network of joints stands out.
We shall be looking at the specific methods of stone wall construction a little later on: for the moment, we would like to remain a little longer on the subject of the spatial aspects of walls.
The action of “gathering” or “extracting” material from the natural environment for the purpose of creating a given architectural space, basically derives from Man’s need for “confined”, comfortable spaces that in themselves represent the essence of his own existence.

The space that nature offers us-claims Dom Hans van der Laan-rises above the ground and is oriented entirely towards the Earth’s surface. The contrast between the mass of the earth below and the space of the air above, which meet at the surface of the Earth, is the primary datum of this space. On account of their weight all material beings are drawn into this spatial order, and live as it were against the Earth. Through his intellect and his upright stance man can detach himself from this order and relate to himself the piece of space that he needs for action and movement. He is conscious of a horizontal orientation centred upon himself in the midst of the vertical orientation centred upon the Earth-of a space around him in the midst of the space above the earth.
Architecture is born of this original discrepancy between the two spaces-the horizontally oriented space of our experience and the vertically oriented space of nature; it begins when we add vertical walls to the horizontal surface of Earth. Through architecture a piece of natural space is as it were set on its side so as to correspond to our experience-space. In this new space we live not so much against the Earth as against the walls; our space lies not upon the Earth but between walls.

The search for a sufficiently large space (which subsequently gradually grew in size) designed to satisfy Man’s conception of life together with his aesthetic requirements, was to become a permanent feature of Man’s existence, one that has yet to exhaust its influence over the course of architectural history.
In rocky areas, natural caverns – shaped by the forces of nature during extremely remote times – already constituted an embryonic form of “proto-architectural” spatiality corresponding to those rocky masses eroded by nature or subtracted from the latter as a result of their transformation by Man’s endeavour. However, although such subterranean spaces are often of considerable size, they do not significantly modify the surrounding area: although they can be inhabited, they do not possess their own separate identity as spaces created by Man. True architectural spaces are not the result of the exploitation of gaps in the Earth’s crust, but of an intentional effort to create spaces, to carve them out of the infinite extension of the Earth’s surface, using walls as artificial boundaries designed to define the extension of large stereometrical volumes rising up from the ground.
In introducing the idea of authentic architectural space, we have referred to walls and then to the stereometrical volume created by those walls. We would like to specify that a single wall erected on the surface of the Earth, albeit constituting a meaningful separation of sorts, does not in fact affect the unlimited natural extension of the said surface. In other words, all it really does is sub-divide the natural open-air surface which, only partially delimited by the height of the wall, remains free and limitless in all other directions. Each of the natural environments on either side of the wall continues to conserve its original character; the geographical extension of the land has not been abolished but only interrupted. What we still do not have is the “formalisation” and “enucleation” of a true existential space.
In order to create a separate architectural space, distinct from the immeasurable extension of the Earth’s surface, we need to “bend” the wall or to erect a pair of parallel walls positioned in such a way as to produce a spatial “enclosure”, as was achieved in early times by the sacred Egyptian enclosures, or the walls of Mycenaean cities or of the temenos of the Greek sanctuaries, where a clear section in the Earth’s surface was “hemmed in” between enormous stone walls. This type of construction marked the advent of the true architectural space.


The city gate at Alatri

Archetypes/Recent developments. An analysis of the main differences, together with a closer look at those characteristics that distinguish the stereotomic construction from the tectonic one, underlie the organisation of the present chapter. The opening section has focused on a very important aspect of western civilisation – which clearly emerged in that very distant Mycenaean world – consisting of the stable, eternal presence of those walled structures that constituted the fortresses and tombs of the Mycenaean people, and that were to subsequently represent a radical and permanent transformation of the natural landscape.
A considerable part of the chapter on Stone Walls is taken up with a survey of archetypal walls: this digression is not meant to be a nostalgic tribute to the past or a “return” to our ancient origins, a world far removed from the uncertainty and difficulties of the present, but rather an attempt to return to the origins before investigating the more recent developments within this field.
Our examination of ancient walls attempts to preserve the necessary scientific and historical rigour, and awareness of the very latest archaeological discoveries – albeit within the logical confines of a larger work investigating a broad range of aspects of stone architecture both past and present: however, rather than a philological treatise, it is designed to be an interpretative, strongly “subjective” instrumental account of Man’s present-day cultural project. The focus on ancient origins particularly interests us for its underlying “working” hypothesis.
As the great architects of each age have always taught us, we would like to adopt a suitably critical, active stance with regard to the archetypal stone walls, perfected and codified over lengthy periods in history, rather than simply contemplating their nature in an erudite, yet uncritical fashion. Such an approach is designed to enable us to perceive their latent conceptual valence and contemporary worth. We believe the refinements expressed by the original creators of such archetypal stone constructions merit closer analysis and comparison with more modern architectural designs; if the latter are to be fully understood, then this search for the origins is of prime importance. To this end, the ancient world can be a concrete source of ideas and knowledge which may be employed in contemporary design, as Carlo Truppi seems to affirm when he states that:

Architecture perceived as a gradual activity leads to the belief that the substance of the subject remains unchanged, despite the continual modifications made. It makes sense, therefore, to search for the prototypes, the origins, the embryonic layers: in other words, to delineate the real depth of present-day architecture, its “archaeological” roots. Indeed, archaeology wishes to bring to light the regular development of building practices, the evolution of its contents, the ways in which ideas emerged, procedures were established, experiences were reflected in other experiences, trends emerged, ebbed and then re-emerged once more.


The Cemetery at Parabita, designed by Alessandro Anselmi e Paola Chiatante

We would like to underline the exuberance and wealth of Mediterranean stone architecture – inextricably connected as it is to Greek civilisation –in particular the degree of continuity between past and present. The archetypal walled construction is associated with the theme of the permanent architectural creation; it may never be cancelled from the history of human constructions, but only “renewed” through an incessant “re-writing” of the use of stone, of the compositional variation of volumetric bodies that fix spatial conceptions in time.
In general, the earliest stone walls, unlike their baked-clay counterparts or the Roman concretion variety, can be seen as a kind of mosaic characterised by all the various possible ways of combining stones to form a continuous vertical structure. At a certain point these early walls were to curve to form arches and vaults, and to continue along a horizontal plane to form floors and paving, using the same material; however, such developments go beyond the scope of the present chapter on Stone Walls, and as such will be dealt with separately later on in this work.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

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17 Gennaio 2011

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Ducati: una design strategy

Una conferenza per raccontare il ruolo strategico del design nel percorso produttivo della Ducati: questo l’obiettivo dell’incontro aperto al pubblico con Andrea Ferraresi, Ducati Design Director, il 20 gennaio (ore 15, Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Bologna) sotto l’egida del corso di II livello in Design Management.

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17 Gennaio 2011

Post-it

I trattamenti autopulenti: materiali fotocatalitici e “effetto loto”

La fotocatalisi è il fenomeno naturale per cui una sostanza (catalizzatore), attraverso l’irraggiamento di luce, modifica la velocità di una reazione chimica.
Il materiale con proprietà fotocatalitiche più importante e caratterizzato è il biossido di titanio (TiO2) che appartiene alla famiglia degli ossidi dei metalli di transizione. Lo studio delle sue proprietà ha avuto origine agli inizi degli anni ‘70 ed è tuttora di grande interesse per le sue applicazioni. È stato infatti dimostrato che l’uso di TiO2 irraggiato con luce ultravioletta (UV) non solo permette la totale degradazione dei composti organici volatili ma anche l’abbattimento degli ossidi di azoto e di zolfo.

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