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14 Febbraio 2011

Videointerviste

Intervista a Luca Nichetto

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Luca Nichetto (Venezia, 1976) consegue la Laurea in Disegno Industriale presso lo IUAV.
Dal 1999 intraprende l’attività professionale disegnando i suoi primi prodotti in vetro di Murano per Salviati. Nello stesso anno prende il via il sodalizio con Foscarini per la quale, oltre a firmare alcuni progetti, collabora come consulente per la ricerca di nuovi materiali e sviluppo del prodotto (2001-2003). Nel 2006 fonda lo studio Nichetto&Partners e dà vita a collaborazioni con molteplici aziende leader nel settore, tra le quali Bosa, Casamania, Emmegi, Established & Sons, Foscarini, Fratelli Guzzini, Gallotti & Radice, Italesse, Kristalia, Moroso, Offecct, Refin, Salviati, Skitsch, Tacchini, Venini.
Il suo lavoro ha ricevuto vari riconoscimenti internazionali, tra cui il Gran Design Award 2008, il Good Design Award del Chicago Atheneum Museum of Architecture 2008, l’IF Product Design Award 2008 e l’Elle Decoration International Design Awards 2009 (EDIDA) come Designer dell’Anno nella categoria Young Designer Talent. Ha tenuto workshops in numerose università sia in Italia che all’estero, oltre ad aver partecipato a mostre in Europa, Stati Uniti e Giappone.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, per Decor (Regione Puglia) Nichetto ha inteso approfondire le potenzialità espressive della pietra leccese, un materiale dalla potente fascinazione e in grado di emanare un “feeling” particolare con l’utente. Il designer ha voluto re – interpretare la pietra, storicamente associata al Barocco, secondo un’accezione di maggiore semplicità e minimalismo figurativo. L’idea progettuale sfocia nella realizzazione di oggetti quotidiani (sedie, tavoli,…) dalle superfici levigate, da vivere in modo informale per poterne apprezzare gli aspetti di comodità e qualità “tattile”.

di Chiara Testoni

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12 Febbraio 2011

Post-it

Concorso di idee AIDI – in collaborazione con Cariboni Group

Incentivare nuovi sviluppi del rapporto tra formazione, progettazione e produzione; è questo l’obiettivo che si pone la terza edizione del concorso di idee AIDI (Associazione Italiana di Illuminazione, in collaborazione con Cariboni Group) dal titolo Led e design, declinali se vuoi. Idee in libertà di forme innovative che utilizzano sorgenti led.

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10 Febbraio 2011

Interviste

Intervista a Raffaello Galiotto
a cura di Veronica Dal Buono

Già da qualche anno seguiamo l’attività di Raffaello Galiotto nel settore del design industriale, ne studiamo le evoluzioni, ci divertiamo nel lasciarci ammaliare dalle sue rinnovate idee per un design di qualità e insieme capace di rispondere alle esigenze del mercato contemporaneo e alla quotidianità dell’utente finale.
Incontriamo nuovamente Raffaello in occasione della presentazione della nuova collezione LE PIETRE INCISE CURVE per LITHOS DESIGN per rivolgergli con piacere alcuni quesiti.
V.D.B.: Una produzione molto varia, per forme e per materiali di realizzazione, caratterizza i progetti da te firmati. Qual è il metodo che ti consente di affrontare tipologie così diverse?
R.G.: Personalmente cerco di affrontare ogni richiesta con curiosità e interesse sempre rinnovato e ciò mi porta a studiare, approfondire e capire di volta in volta i diversi problemi. Per me l’eterogeneità non è un disagio bensì un aspetto affascinante. A volte mi trovo a progettare articoli in plastica dove gli utenti finali che sono gli animali domestici e nello stesso periodo vasche in marmo per il mercato del lusso. Non mi sento di appartenere ad una categoria, forse la cosa che mi contraddistingue è la capacità di immedesimazione, in ciò mi sento un po’ attore. Perché no. L’importante è che ciò che si fa catturi l’interesse, l’emozione delle persone.

V.D.B.: Come descriveresti sinteticamente il tuo lavoro e la tua personale attitudine al mestiere di designer?
R.G.: Mi ha sempre affascinato il mondo creativo, soprattutto quello “artistico”, dove si producono le cose con le mani. Mi piace la matericità, il colore, la luce. Ho scoperto che proprio questi elementi hanno anche a che fare con l’industria che ne trae profitto e così cerco di trarne anch’io. Mi piace il mio lavoro e, come si dice, “mantengo la famiglia”. Fatico molto ma sono felice.

V.D.B.: Tra le tue qualifiche aggiungi la qualità di “industrial” alla definizione di “designer”, ciò sottende un atteggiamento particolare, quale?
R.G.: La parola design ha molti significati diversi, io intendo connotare il mio lavoro di designer a quell’aspetto che ha a che fare con l’industria, alla produzione seriale di prodotti che vanno venduti nel mercato.

V.D.B.: Oltre alla vicinanza logistica, che cosa, quali interessi, ti hanno avvicinato alle industrie del comparto lapideo?
R.G.: Mi ha sempre affascinato il marmo perché ha a che fare con la scultura e l’architettura. È una materia straordinaria, irrepetibile, matrice di capolavori assoluti. Per progettarla e lavorarla bisogna avere un atteggiamento diverso, rispettoso, direi propriamente “di ossequio”. Rispetto ai materiali sintetici ha una nobiltà incomparabile. Non avrei potuto non tentare ripetutamente di propormi alle aziende di questo settore.

V.D.B.: Come descriveresti tale settore; quali le principali differenze rispetto agli altri campi produttivi nei quali ti muovi?
R.G.: Rispetto ad altri è un settore che trae profitto più dal commercio della materia che dalla lavorazione. Questo ha sempre spostato l’attenzione delle aziende alla quantità, ai metri quadrati. Oggi il mercato in Italia e in Europa è cambiato, non ci sono più le quantità di materia prima e i margini di profitto di qualche tempo fa. Ecco che comincia a diventare interessante anche un approccio trasformativo, dove la tecnologia e la creatività possono fare la differenza.


Collezione Le Pietre Incise Curve di Lithos Design, progetto Raffaello Galiotto

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V.D.B.: Negli ultimi anni, dal tuo primo approccio al design litico a oggi, che cosa ritieni possa dirsi cambiato – se cambiato – in tale specifico settore di produzione?
R.G.: Come in tutte le cose sono i fatti che contano. Se prima era una mia convinzione che le cose potessero funzionare ora sono i fatti che lo dimostrano. Il ritorno economico dei progetti passati rende possibili investimenti che prima non lo erano. In sostanza c’è un atteggiamento di maggior fiducia nel design.

V.D.B.: L’esperienza di collaborazione condotta con continuità con l’azienda Lithos Design ti ha visto approdare alla realizzazione di molteplici, originali e suggestive collezioni. In che modo tale relazione ha segnato e incide tuttora sul tuo percorso?
R.G.: Il design non è fatto solo da chi lo pensa ma anche da chi lo fa. La Lithos Design è una realtà che ha creduto subito nel design e che investe in continui nuovi progetti. Questa avventura che prosegue ormai da diversi anni, ovviamente fa crescere anche me quale progettista: di volta in volta posso trarre esperienza dalle realizzazioni e dalle risposte del mercato.

V.D.B.: Come si è costituito e come si articola nello specifico il dialogo tra Lithos Design committente-imprenditore e la figura di Raffaello Galiotto progettista-designer?
R.G.: Le aziende sono fatte dalle persone e sono il rispetto e la fiducia reciproca a far funzionare i rapporti nonché a determinare il successo stesso dell’azienda. Con i fratelli Bevilacqua, Alberto e Claudio, ci si confronta abitualmente e passo a passo si individuano le strategie per il futuro. Non dimentichiamo che quasi sempre ogni prodotto comporta un investimento in macchinari specifici, possibilmente progettati ad hoc, condividendo i progetti fin dall’origine.

V.D.B.: Com’é nato il progetto “Le Pietre Incise” e in particolare come si è evoluto, quali i passaggi fondamentali e gli obiettivi futuri?
R.G.: Già da qualche anno stavo sviluppando elaborazioni sul tema delle superfici, immaginando di realizzarle su pietra, quando Claudio Bevilacqua mi chiese di sviluppare una ricerca proprio in quella direzione. Non mi sembrava vero, è stata una coincidenza eccezionale. Poi, dai primi prototipi si è passati ad un progetto vero e proprio, con investimenti in macchinari ed a una ricerca approfondita che è ancora in evoluzione.

V.D.B.: Quanta ricerca, dedizione e attenzione, richiede lo studio di una nuova linea di prodotti?
R.G.: È un impegno notevole che coinvolge tutti gli aspetti del processo creativo, produttivo commerciale… ogni nuova linea è frutto di un attento esame sugli investimenti e sulle sue reali potenzialità commerciali. Alla fine comunque a decidere è la convinzione dell’imprenditore, è una questione di fiuto. Non credo nei calcoli e nelle strategie estremamente pianificate. Ogni vera novità rompe gli schemi e fortunatamente sfugge alle previsioni del marketing.

V.D.B.: Come sei giunto a “Le Pietre Incise Curve”? Ritieni che tale importante passaggio dalla superficie alla forma tridimensionale e quindi alla relazione con l’elemento luce, possa essere oggetto di ulteriori evoluzioni?
R.G.: È sicuramente un aspetto nuovo, una sorta di quarta dimensione che può essere sviluppata ulteriormente.

V.D.B.: Tensione verso configurazioni formali che guardano alla “natura” oppure “classiche” e al contempo uso di tecnologia d’avanguardia: come si coniugano questi aspetti progettuali nella tua attività?
R.G.: Ben sappiamo quanto la bellezza classica sia ispirata alla natura, ciò che mi affascina maggiormente è il legame geometrico-matematico sottinteso a tali relazioni. È una sorta di ordine nascosto ma fondamentale. Forse è in questo che risiede il maggior margine di indagine possibile.

V.D.B.: Quando e come entrano le tematiche di sostenibilità ambientale nella tua ricerca?
R.G.: Il tema dell’ambiente è certo di grande attualità; purtroppo mi sembra che in alcuni casi sia tradotto solo in un’etichetta di facciata anche se attraverso di esso ma si giocherà comunque il nostro futuro. È un aspetto che va affrontato al di là dei temporanei incentivi o slogan propagandistici.


Collezione Muri di Pietra di Lithos Design, progetto Raffaello Galiotto

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V.D.B.: All’interno dell’ADI svolgi un ruolo ufficiale. Tale posizione quali riflessioni ti conduce a realizzare rispetto alla situazione attuale del design in Italia e in particolare nel comparto del Nord-Est?
R.G.: Ritengo che la situazione attuale abbia fatto emergere in modo evidente che la nostra competitività si gioca sulla capacità di far emergere il lato positivo del Paese, ciò che in Italia si sa fare con più competenza. Il passato recente, soprattutto nel mio nord est si è investito sulla produzione di quantità, perché era più redditizia e facile. Ora lo scenario è cambiato e la qualità, il design, sono aspetti notevolmente più considerati. Credo che la cosa necessaria oggi sia far dialogare maggiormente l’industria con il mondo del progetto e della ricerca.
Da una parte non va considerato il design come un costo ma come un valore, dall’altro i designer devono capire le necessità reali dell’industria o dell’artigianato, producendo progetti a misura e non calati dall’alto seguendo il falso mito del designer-star. Il nostro compito è quello di divulgare una cultura del design come sistema che coinvolge tutti gli aspetti, dal modo di pensare, al produrre al comunicare, al vendere, al riciclare.

V.D.B.: Cosa pensi della promozione della cultura del design attuata nel nostro paese?
R.G.: Penso che ci sia molta confusione, e che spesso si chiami “design” anche ciò che non lo è propriamente. Vedo molte mostre e sperimentazioni patrocinate o sponsorizzate anche da enti pubblici che, diciamo, non conducono a nulla. Vedo molti giovani cadere nella trappola illusoria del design come “arte” o mera espressione del proprio io. Manca invece la seria promozione di un design che risponda alle reali necessità dell’utente. Un design che renda i prodotti più sicuri, più comodi, più economici e rispettosi dell’ambiente.

V.D.B.: Quale consiglio ti senti di lasciare alle aziende e ai produttori industriali italiani in questo particolare momento storico?
R.G.: Abbiate fiducia dei giovani designer, adottateli, facendo loro capire il mondo produttivo e commerciale del quale poco hanno appreso durante il percorso di studio. Saranno loro la vera risorsa in un mondo in continua evoluzione.

a cura di Veronica Dal Buono

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Lithos Design – Le pietre incise curve
Le nuove collezioni Lithos Design: rivestimento, spazio, parete.

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7 Febbraio 2011

Post-it

Alberto Campo Baeza

Alberto Campo Baeza è una delle figure più raffinate del panorama architettonico contemporaneo internazionale. Il suo è un linguaggio dichiaratamente contro corrente rispetto al trend delle mode attuali, spesso esasperate dalla fascinazione mediatica, dal culto della spettacolarizzazione, dall’innovazione più esteriore che sostanziale.
Refrattario a qualsiasi formalismo o leziosità, Campo Baeza concepisce piuttosto un’architettura rigorosa che veicola nelle forme – compatte, primigenie – il valore fondativo della gravità come espressione dello spazio e in una suggestiva poetica della luce il tema della rivelazione del tempo. Il risultato è una tettonica che, nella sua dimensione a-temporale e spirituale, si pone come baluardo dell’opera d’ingegno umano contro l’irrefrenabile divenire della storia.

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7 Febbraio 2011

Opere Murarie

L’opera muraria megalitica*

English version


Dettaglio delle mura megalitiche di Tirinto

Una delle più rudimentali modalità di “far muro” a mezzo della pietra è l’opera megalitica che si rintraccia nello stadio arcaico delle civiltà mediterranee e, poi, soprattutto nella Grecia continentale e nelle regioni contermini (Asia Minore, Italia ecc.).
Una testimonianza – fra le più antiche – è rappresentata dalle mura di Tiro, costruite intorno al 1400 a.C. utilizzando grandi massi rozzamente squadrati, sviluppate su uno spessore di circa 6 m; questa particolare tipologia di muraglie è definita ciclopica poiché la letteratura antica, proprio in riferimento a Tiro, l’ha avvolta all’interno della tradizione dei miti e ce l’ha restituita attraverso un azione costruttiva ascritta a sovrumani artefici quali erano immaginati i giganti della Tracia, i soli ritenuti capaci di poter “smuovere” i grandi macigni che la compongono. Pausania, che scrive nel II sec. a.C., riferendosi alle mura di Tiro afferma:

«Il muro, tutto ciò che resta delle rovine della città, è opera dei Ciclopi: è costruito con pietre non sbozzate, ognuna delle quali è così grande che un giogo di muli sarebbe incapace di smuovere anche la più piccola di esse. Nei tempi passati piccole pietre venivano poste negli interstizi fra un masso e l’altro allo scopo di connetterle per quanto possibile».

Ad accendere un nuovo “fuoco” di civiltà nel mondo del Mediterraneo orientale – dopo l’affievolirsi dell’impulso fenicio e lo spegnersi di quello minoico intorno al 1400 a.C. – e a dare un inedito sviluppo a questa tecnica costruttiva saranno le popolazioni continentali dell’Argolide nel Peloponneso con centro di propagazione in Micene che lega il suo nome a tale esperienza di civilizzazione.
Da un punto di vista cronologico l’opera muraria megalitica che si mostra all’evidenza archeologica attraverso un numero limitato di testimonianze, non ha facilitato sino ad oggi la definizione di un sicuro e condiviso sviluppo evolutivo. Si presenta, lungo tutto il II millennio a. C., con anticipazioni significative in ambiente greco, in particolare nelle cittadelle fortificate di Tirinto, Micene, Gla; in questi territori, sopratutto nella piana di Argo, vi è un’ampia disponibilità di calcare duro riducibile in grandi blocchi irregolari utili alla costruzione di poderose strutture difensive. Qui si innalzano grandi muraglie, piuttosto che di muri, formate da macigni di ingente mole mirabilmente sovrapposti e contrastati reciprocamente.
Queste “muraglie di fortezza” individueranno un genere di realizzazioni con svolgimenti costruttivi del tutto peculiari rispetto a quanto sarà espresso dall’architettura monumentale propriamente greca. Fortemente dipendenti dalle esigenze pratiche, difensive, le mura urbiche delle cittadelle micenee sono spesso “saldate”, ai siti rocciosi su cui si insediano amplificando le difese naturali; bastioni, salienti, porte protette da avancorpi, lunghi tratti murari rettilinei di possente dimensione sono concepiti secondo un’attenta integrazione rispetto alle caratteristiche topografiche dei luoghi.


Murature megalitiche di età micenea nell’Acropoli di Atene

L’architettura continentale micenea nell’organizzare le sue strutture difensive e i palazzi (intesi quali sedi di caste militari conquistatrici) benché faccia trasperire alcuni retaggi minoici – leggibili nell’uso dei portici e dei propilei a colonne, nell’allestimento dei vestiboli del mégaron, nelle tecniche ornamentali ad affresco – mostra i caratteri di una creazione originale con un rinnovato e peculiare modo di concepire ed eseguire l’opera muraria in pietra predisposta a delimitare spazi attraverso possenti recinti, ad alimentare una visione della costruzione fatta di massa, di volumi serrati ed avvolgenti. Mura ciclopiche vengono utilizzate per recingere le cittadelle di Micene, di Argo, di Tirinto e per rafforzare artificialmente, con sbarramenti di pietra, siti già naturalmente protetti; si presentano normalmente sottoforma di cortine murarie continue attraversate unicamente da porte sormontate da grandiosi monoliti disposti a formare rudimentali architravi.
All’impianto planimetrico “aperto”, a terrazze, dei raffinati palazzi minoici rifiniti prevalentemente a stucco affrescato, subentra una vigorosa, severa, monumentale architettura chiusa su se stessa la cui costruzione è alimentata dall’uso di grandi conci di pietra a volte informi o poligonali, altre già perfettamente regolari e squadrati. Alla dispersione e all’estensione ondulante dei palazzi cretesi viene sostituita un’architettura “feudale” che s’insedia su posizioni dominanti: la pietra, ricomposta nell’opera muraria ciclopica, con la sua possanza ne esprime il valore di forza, di inattaccabilità, di indistruttibilità.

«Il terreno non è più occupato – come precisa Roland Martin – da appartamenti disposti ingegnosamente su più di un piano e aperti sul paesaggio come a Cnosso, ma da muraglie di grossi blocchi ciclopici appena squadrati, uniti abilmente e forati da postierle, a cui fanno capo delle scale fortificate, sistemate talora in casematte, come a Tirinto, dove le volte ad archi diedri chiuse da due blocchi appoggiati l’uno sull’altro, hanno resistito al passare dei secoli». 1

È soprattutto la forza volumetrica della composizione architettonica, impostata saldamente sull’opera muraria con grandi blocchi di pietra, a rappresentare il nuovo vento continentale a cui si associa, subito, una ricerca monumentale delle masse asserragliate intorno allo spazio introverso del sala del trono, del mègaron; tutti caratteri, questi, oppositivi ai palazzi regali dell’architettura cretese.
Il palazzo di Tirinto, realizzato nel XIII sec. a.C. in modo maggiormente evidente rispetto ad ogni altra roccaforte (più di quella di Pilo, di Micene, di Tebe, di Mathi) offre l’esempio maturo ed unitario della nuova concezione micenea. La rocca, che acquisisce il suo assetto definitivo intorno al 1200 a.C., è la struttura difensiva meglio conservata con le sue mura megalitiche a grandi macigni; lo spessore di queste ultime è mediamente di 6 m (in alcuni tratti si raggiungono addirittura i 10 m) su cui, realisticamente, è possibile ipotizzare l’esistenza di un coronamento con camminamento di ronda formato da mattoni di argilla cruda ed integrato da strutture lignee secondo modalità e abitudini mediterranee consolidate così come è ancora attestato nelle mura difensive ellenistiche di Capo Soprano a Gela in Sicilia.
All’interno delle mura ciclopiche di Tirinto, poste a serrare il piccolo podio naturale che consente di controllare dall’alto la piana di Nauplia ed Argo, ritroviamo altre anticipazioni costruttive i cui svolgimenti evolutivi seguiremo nei capitoli successivi della nostra trattazione. Ci riferiamo, in particolare, agli ambienti delle “casematte” dove è possibile rintracciare – negli spazi di smistamento delle truppe – dispositivi rudimentali di archi e di volte a sesto acuto (o, più esattamente, di pseudoarchi e di pseudovolte) ottenuti mediante la collocazione in aggetto dei grandi macigni.
A Tirinto siamo di fronte all’ultima espressione – ma anche alla più spettacolare – di sistema murario megalitico dell’antico Mediterraneo. Con uno scarto cronologico di circa un millennio le popolazioni italiche, insediatisi fra il V e il III sec. a. C. sulle alture del Lazio meridionale, si riallacceranno a questa particolare tipologia costruttiva per difendere le loro città (Alatri, Arpino, Norma, Cori) quando le altre etnie della penisola – gli etruschi, i greci d’occidente, i romani – a questa data innalzano già perfetti muri in opera quadrata.


Mura urbiche di Micene

Chi lascia Tirinto e si porta alla cittadella di Micene, centro propulsore della civiltà micenea davanti alla Porta dei Leoni ha una conferma di eguale possanza guardando le mura ciclopiche che ancora superbamente la cingono, ma al tempo stesso riceve anche l’impressione di un “mondo nuovo”. Le strutture urbiche di difesa a grandi macigni, del XIV sec. a.C., danno vita ad una cinta mistilinea (con uno spessore compreso fra i 6 e gli 8 metri) solo interrotta, a nord, mediante una postierla ogivale e, a sud, dalla celeberrima Porta dei leoni; quest’ultima è inquadrata da tre blocchi monolitici squadrati con un architrave di 20 tonnellate che sorregge la lastra del rilievo, alta tre metri, posizionata secondo il triangolo di scarico per alleggerire l’architrave stesso.
Il “mondo nuovo” che sembra aprirsi agli impieghi della pietra è rappresentato dal modo di concepire l’opera muraria che qui sembra regolarizzarsi e perfezionarsi sperimentando, inoltre, soluzioni costruttive inedite quali le strutture a pseudocupola delle tombe ipogee a tholos dei principi micenei, con pareti curvilinee in pianta e in alzato, che rimarranno tecnicamente, per molti secoli, insuperate, oltre che dimenticate dall’architettura greca per ciò che riguarda, soprattutto, le loro implicazioni spaziali.


Dettaglio delle mura urbiche di Micene

E’ da evidenziare come nella esecuzione tecnica della cinta difensiva di Micene si registrano diversi modi costruttivi dell’opera muraria: a tratti essa risulta realizzata con grossi macigni informi, in altri con massi di forma poligonale a facce tagliate rozzamente, in altri ancora con blocchi perfettamente squadrati disposti in filari orizzontali che già anticipano la maniera dell’opera quadrata. Valga per tutti proprio il tratto della Porta dei Leoni – a cui viene assegnato un ruolo fortemente rappresentativo – realizzato utilizzando blocchi rettificati e pareggiati, disposti in corsi perfettamente allineati e regolari. Lo stesso gusto all’opera quadrata si esprime, con ancor maggiore evidenza e precisione esecutiva, sempre a Micene, nelle tombe a tholos localizzate appena fuori dal circuito della cittadella, in particolare nel Tesoro di Atreo che ne incarna il modello più evolutivo e meglio conservato.
Ritornando all’opera ciclopica e alle sue implicazioni tecnologiche è da evidenziare come, differentemente dall’opera poligonale, le strutture murarie megalitiche presentino soluzioni di interconnessione fra i massi impiegati assai poco accurate, facendo affidamento per il contrasto e la stabilità a scaglie litiche di “rincalzo” (integrate a volte da “colate” di argilla semiliquida eseguite fra gli interstizi vuoti del muro). Lo stesso trattamento assegnato al paramento esterno delle mura appare rudimentale; in genere esso non sfrutta alcuna lavorazione se si esclude qualche parziale rettifica delle facce dei blocchi litici da lasciare a vista.
In questo tipo di muratura le pietre – disposte l’una sull’altra, cercando di colmare il più possibile i vuoti – sono stabilizzate dal notevole peso proprio e dall’attrito reciproco che le diverse facce esercitano fra loro. L’esecuzione di tali dispositivi murari procede realizzando, prima, i paramenti esterni (calzandoli attraverso scaglie) e procedendo, poi, alla formazione del nucleo interno. Le murature sono realizzate a secco (ovvero senza interposizione di malta in funzione di legante) lasciando i massi nelle loro forme irregolari d’origine – o solo leggermente modificati col taglio – disponendoli in modo che, nella struttura, possano “contrastarsi” reciprocamente.

Alfonso Acocella

Note:
*) Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Roland Martin, “L’architettura micenea” p.26, in Architettura greca, Milano, Electa, 1980, pp. 198.

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7 Febbraio 2011

English

Megalithic walls*

Versione italiana


Partial view of the megalithic walls at Tiryns

One of the simplest ways of “making a wall” from stone is that used in the ancient megalithic constructions to be found in the Archaic Period of Mediterranean civilisation, and subsequently (and above all) in mainland Greece and its neighbouring regions (Asia Minor, Italy etc.).
One of the most ancient examples is constituted by the walls of Tyre (in present-day Southern Lebanon), built in about 1400 B.C. using massive, roughly-squared rocks about 6 m. thick: this particular type of wall has been defined as Cyclopean, the name having been taken from ancient references to Tyre and the superhuman efforts of the mythical Giants of Thrace, the only beings deemed capable of moving the huge boulders constituting these walls.
After the weakening of the impulse provided by the Phoenicians, and the decline of Minoan civilisation around 1400 B.C., the western Mediterranean was once subjected to a new civilising force, this time in the form of the mainland peoples of the Argos region in the Peloponnese, that propagated out from the city of Mycenae which was to lend its name to this new civilisation.
From the chronological point of view, the megalithic wall (of which relatively few existing examples have so far been discovered) is difficult to clearly define. It was present throughout the first millennium B.C., and early Greek examples can be found in the fortified sites at Tiryns, Mycenae and Gla. In these areas, and in particular in the Argos plain, there is an ample supply of hard limestone that can be cut into large irregular blocks to be employed in the construction of massive defensive ramparts – that is, huge barriers composed of gigantic blocks of stone placed on top of each other, rather than walls as such.
These “fortress walls” were to constitute a different category of construction from true Greek monumental architecture. The natural rock on which the cities were built was often incorporated into these defensive walls, thus increasing the protective qualities of the whole: ramparts, salients, gates protected by foreparts, and long stretches of massive rectilinear wall, were all conceived with great care and where possible integrated into the surrounding natural landscape.


Megalithic wall dating from the Mycenaean period – the Athens Acropolis

In the organisation of its defensive structures and its buildings (conceived as headquarters for the conquering military castes), mainland Mycenaean architecture, despite featuring a number of Minoan characteristics – such as the use of porticoes and columned propylaea, the creation of vestibules for the megaron, the employment of ornamental fresco techniques – displayed a highly original approach to stone wall design and construction. Cyclopean walls were utilised to surround the citadels of Mycenae, Argos and Tiryns, and to artificially reinforce naturally protected sites; these walls usually took the form of continuous curtains only interrupted by gates surmounted by massive stone monoliths arranged so as to create very rudimentary architraves.
The “open-plan”, terraced layout of the elegant, frescoed Minoan palaces was now to be replaced by a more severe, enclosed monumental architecture, built using massive stone blocks, at times shapeless or polygonal, at others perfectly regular and squared. The dispersive, wave-like extension of the Cretan palaces was replaced by a more “feudal” style of architecture, with buildings now constructed in dominant positions, and with the stone employed in the building of cyclopean walls now able to express its true worth as an indestructible material. As Roland Martin points out:

This is an architecture of conquering soldier kings, feudal overlords occupying dominant positions that have contours filled not with the ingeniously terraced, invitingly open apartments of Knossos, but by thick walls built of cyclopean blocks, barely hewn yet cunningly assembled. These walls are pierced by occasional posterns at he foot of fortified stairs or “casemates”, like those of Tiryns, whose vaults of corbelled arches, closed at the top by two blocks leaning one against the other, have withstood the passage of the centuries. 1

It was above all this volumetric force of the new architectural composition, based soundly on the cyclopean wall built using large stone blocks, that constituted the wind of change blowing from the mainland, together with the monumental employment of massive stones barricading the throne room, the megaron: all these features were in sharp contrast to those of the royal Cretan palaces.
The palace at Tiryns, built in the 13th century B.C., more than any other such fortress (such as those at Pilos, Mycenae, Thebes or Matheni) provides a mature, standardised example of the new Mycenaean architectural approach. The fortress, which was completed in about 1200 B.C. , is the best preserved example of a defensive structure, with its megalithic walls of massive boulders (on average 6 m. in diameter – although in certain sections they reach a diameter of some 10 m.), which was probably crowned by a battlement and walkway made of baked-clay bricks and wood in Mediterranean style, as can be seen in the Hellenistic defensive walls at Capo Soprano (Gela) in Sicily.
Within the cyclopean walls at Tiryns, built to enclose the small natural podium giving the population control over the surrounding plain of Nauplia and Argos, there are further architectural features whose evolution we shall be looking at in the following chapters. In particular, there are “casemates” featuring rudimentary arches and pointed vaults (or rather, pseudo-arches and pseudo-vaults) created using massive projecting rocks.
Tiryns boasts the final, but also the most spectacular, example of the megalithic wall system in use in the ancient Mediterranean. About one millennium later, the Italic tribes that settled on the plateau of southern Latium between the 5th and the 3rd centuries B.C., were to utilise this type of construction to defend their cities (Alatri, Arpino, Norma and Cora) when the other peoples living on the peninsula at that time – the Etruscans, the western Greeks, the Romans – were already building regular, perfectly-squared walls.


City walls at Mycenae

If you travel from Tiryns to the citadel at Mycenae (the focal point of Mycenaean civilisation), you will see the impressive cyclopean city walls before the Lion Gate that still splendidly encircle the city, while at the same time getting an impression of a “new world”. In fact, the massive stone city defences dating from the 14th century B.C., consist of a mixtilinear city-wall (between 6 and 8 m. thick), interrupted only by an ogival postern on its northern side and the famous Lion Gate on its southern side. The latter is framed by three square monolithic blocks with an architrave weighing 20 tons supporting the 3ft-high relieving slab, positioned in correspondence to the relieving triangle in order to lighten the load on the architrave itself.
The said “new world” of stone architecture is represented by a new way of conceiving the construction of walls. Unlike in the past, walls were now transformed to create innovative structures such as the pseudo-cupola of the tholos tombs, built during the early Mycenaean period: these tombs, with their curvilinear walls, were to remain to the fore, technically speaking, for many centuries thereafter, but were nevertheless forgotten by Greek architecture as a result of their spatial implications.


City walls at Mycenae

The construction of Mycenae’s city-walls involved a variety of wall-building techniques: certain sections are composed of massive, irregularly-shaped stones, others feature roughly-cut polygonal stones, while others still consist of perfectly squared blocks arranged in horizontal courses predating the advent of the opus quadratum technique. One excellent example of this latter technique is the Lion Gate, built using squared and levelled blocks laid in perfectly regular, aligned courses. An even better example is that of the tholos tombs in the same Mycenae (situated just outside the citadel’s walls), and in particular that of the startling Treasury of Atreus, the most advanced and best-preserved of them all.
Returning to the cyclopean wall and its technological implications, we should point out that, unlike the polygonal wall, the megalithic construction manages to “bond” the large principal stones together using stone chips or wedges (sometimes aided by semi-liquid clay poured into the empty gaps in the wall). The same rudimentary method is used on the outer facing, other than which the stones are not really dressed at all, except for the occasional partial rectification of the faces of those stone blocks left in view. In the case of this type of stone wall, the stones, arranged on top of each other so as to fill the gaps as much as possible, are stabilised by their own considerable weight and by the friction between the faces of the stones. These walls are constructed by first building the outer facing (using stone chips between the larger stones) and then the inner section. These are dry-stone walls (i.e. built without using a binding material such as mortar), and the stones themselves are generally not dressed at all, or only slightly modified by cutting, and are laid in such a way that they counter each other’s weight and thrust in a reciprocal manner.

Alfonso Acocella

Notes
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Roland Martin, “Mycenaean Architecture”, in Greek Architecture, Milan, Electa, 2003, p. 33.

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3 Febbraio 2011

Post-it

CRITICAL FUTURES #2

Nell’ultimo decennio, trasformazioni epocali hanno profondamente ridisegnato il contesto all’interno del quale si concepisce e si discute l’architettura. Internet ha reso possibile che informazioni e immagini gratuite fossero disponibili e fruibili istantaneamente da chiunque in ogni punto del globo. Le riviste cartacee, un tempo artefici indiscusse della critica architettonica e di design, sono state spinte a ridefinire la propria ragion d’essere e il proprio modello economico alla luce della diminuzione dei lettori; i blog hanno dato un audience potenzialmente illimitata a chiunque abbia una connessione Internet.

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3 Febbraio 2011

Post-it

Materialegno.

Un edificio di 9 piani, un doppio involucro, una risposta ai danni di un evento sismico, il restauro di un fabbricato plurisecolare, un’installazione d’arte, un sguardo a un prodotto commerciale e molto altro: ambiti fortemente diversificati, ma accomunati dalla scelta comune del materiale legno, nelle sue diverse forme e manifestazioni. Questa la riflessione culturale e tecnica proposta da materialegno, una rivista che non vuole essere esclusivamente uno strumento di marketing pubblicitario, ma un canale di diffusione di una nuova sensibilità del costruire in legno, un materiale che, in Italia, non si è ancora oggi completamente manifestato nelle sue molteplici accezioni (costruttiva, tecnologica, architettonica, linguistica, sensoriale, ecc.).

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3 Febbraio 2011

Post-it

Terre a fuoco

L’opera è stata commissionata in occasione della celebrazione del 50° anno della Casalgrande Padana, colosso industriale profondamente radicato nel territorio tra Reggio Emilia e Modena ma leader a livello mondiale per qualità del prodotto, innovazione tecnologica, sensibilità ambientale e responsabilità etica.

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3 Febbraio 2011

Appunti di viaggio

Il tesoro di San Lorenzo

Silenzio, solo il ronzio di una lampadina e i nostri passi.
La luce fioca si rifletteva sui metalli,
facendo emergere dalla penombra quegli oggetti scintillanti.
La serie di reliquie sacre sospese su piedistalli d’acciaio,
sembrava potesse prender vita nel piccolo spazio ipogeo
e ricominciare la danza secolare.
Bloccate esattamente nel punto più congeniale per farsi osservare,
aspettano mestamente l’inesorabile scorrer del tempo sopra di loro,
e rimangono immobili e si lasciano, nude, guardare.
Lo spazio si comprime, si dilata, si stratifica intorno a loro,
gli osservatori diversi della scena, lo gonfiano di aria di vita.
Luogo senza tempo, centrifugo e centripeto,
vestito di grigia pietra, assorbente di luce e di tempo.
La funzione svanisce come la calda penombra che ci avvolge,
rimane il piacere di una logica libertà
e chi lo vuole non vedrà più uguale.

Pensavamo di essere in orario e invece mancava ancora mezz’ora all’apertura pomeridiana. Era il giorno 23 novembre dell’anno passato in un imprevedibile clima primaverile, raro ma non inusuale a Genova, soprattutto inaspettato venendo da una Lombardia già fredda e umida.
Dopo una mattinata trascorsa ad ambientarci nella città, tra albergo, puntatina all’università di architettura e immancabile giro al porto, una piccola pausa rilassatrice per arti inferiori non faceva di certo male, nonostante anelassimo per ammirare la prima opera di Franco Albini che avessimo mai visto.
La sosta avvenne nella piazzetta antistante alla cattedrale di San Lorenzo, che si sviluppa in leggera pendenza verso una ripida scalinata di marmo consumata dalla folle secolari di fedeli, sulla quale si assesta la facciata gotica della chiesa, accentuando la sensazione di imponenza. Alle ore 15.00, dischiuse le porte di uno dei tre portali a sesto acuto con profondi sguanci di fattura francese, percorsimo la profonda navata centrale alla ricerca dell’ingresso al Tesoro di San Lorenzo. Nonostante la ceca bramosia che ci guidava verso l’opera di Albini, come fossimo un branco di lupi affamati a caccia della preda da azzannare per farla nostra fino all’ultimo brandello, ci meravigliammo tutto a un tratto della bellezza che ci circondava. Probabilmente ciò accadde per acuire l’intensità dell’attesa e ritardare un po’ la scoperta del tesoro ipogeo ma la sensazione che provammo non era la solita percepita nelle cattedrali di altre città, cioè imponenza, freddezza e grandiosità, piuttosto di ammirazione verso lo spazio. Quest’ultimo nonostante fosse chiaramente a tre navate, contraddistinte da due massicci colonnati sostenenti l’enorme volta a botte centrale, era difficile considerarlo come tale. Sembrava un’unica entità, dove la serie di colonne diventava esile diaframma coinvolto nella fluidità dello spazio, finemente lambito dalla luce zenitale.


La mappa del museo di San Lorenzo

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All’interno del museo del tesoro il concetto sembra capovolto: piccolo, scavato, buio, illuminato dall’alto artificialmente, ma ugualmente fluido, sotteso alla geometria principale di un esagono. Elementi cilindrici cavi lo comprimo e lo dilatano in un gioco di visuali sempre mutevoli.
Le superfici sono contraddistinte da lastre di pietra di promontorio lavorate a scalpello piatto, d’una tonalità di grigio caldo, che emergono dall’ombra scivolando sotto i deboli proiettori, a volte in forme spigolose altre morbide. Anche sotto i piedi corrono corsi di questa grigia pietra, creando una tessitura isodoma convergente in tre fuochi, coincidenti con il centro delle quattro sale cilindriche. Lo stesso meccanismo si riflette sulla copertura in calcestruzzo armato, dove esili travetti dalla sezione rastremata mai combacianti tra loro ma trattati come mensole a sbalzo dalle pareti, conferiscono al solaio un effetto di sospensione.
Lo spazio e l’ombra, la pietra e il calcestruzzo, gli oggetti e le teche di vetro, conferisco al tutto una dimensione atemporale. (…) uno spazio sacro, “moderno” perché inattuale, smemorato perché attraversato da innumerevoli ricordi *

Emmanuele Visieri

Nota
* Si veda il saggio di Marco Mulazzani, «Un’architettura scavata, tutta di dentro» Il museo del tesoro di San Lorenzo, in I musei e gli allestimenti di Franco Albini, a cura di Federico Bucci e Augusto Rossari, Venezia 2005, pp.73

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