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2 Marzo 2011

Design litico

Sinuose metamorfosi litiche

English version

“Il design è uno dei metodi per confereire forma alla materia e farla apparire così e non in altro modo. Il design, come tutte le espressioni culturali, mostra che la materia non appare (non è appariscente), se non nella misura in cui la si in-forma, e che una volta in-formata, inizia ad apparire (diventa un fenomeno). Così la materia nel design, come in qualsiasi ambito della cultura, è il modo in cui appaiono le forme.
Ciò nondimeno, affermare che il design si colloca fra il materiale e l’immateriale non è del tutto fuori luogo. Vi sono infatti due modi diversi di vedere e pensare: quello materiale e quello formale.”

Vilém Flusser, Filosofia del design, Mondadori
2003 (ed. or. 1993), p. 12i 2003 (ed. or. 1993), p. 12

Della materia ci si accorge, nella materia ci si imbatte, prima o poi. Di essa, alla fine, si rimane “schiavi” nell’azione di trasformazione del nostro ambiente di vita assumendola come immagine al positivo del pensiero creativo formalizzante che si articola attraverso idee e visoni di figure, contorni, corpi, spazi.
La forma, come sappiamo, non ha mai una assoluta libertà.
Essa (la “forma”) esiste come idea latente e immatriale, venendo poi pensata, manipolata, costretta ad esprimersi a partire dalle caratteristiche della natura della materia che la sostanzia, divenendo – nel suo farsi “forma materiale” – disponibile per l’ideazione, per il progetto.
Le forme dei materiali si legano, inevitabilmente, alle loro recenti e antiche modalità d’uso. È lecito ritenere che l’artefice tragga sempre insegnamento – coscientemente o inconsciamente – dalla “stabilizzata” esperienza e dall’immenso orizzonte di soluzioni accumulate nel tempo che definiscono, in ultima istanza, la cultura figurativa del materiale.
Forme, immagini, visioni immateriali – sia pur sempre specchiature di “cose materiche” – inavvertitamente passano, filtrano, si insediano nella mente.
Prima o poi riaffiorano.
Se il repertorio storico viene ri-avvicinato, ri-considerato e ri-assimilato nella teoria e nella pratica contemporanea del progetto, attraverso un personale contributo interpretativo, allora il materiale può risplendere in modo nuovo all’interno dell’opera d’architettura, di design, d’arte.
È quanto sembra avvenire nella felice esperienza di Raffaello Galiotto, designer quarantenne, testimoniata dalla prolifica reinterpretazione della ancestrale materia litica – nell’ambito architettonico, di interior design e design di prodotto – attraverso la oramai pluriennale sperimentazione condotta con entusiasmo fra esuberante creatività e apporto delle nuove tecnologie e macchine di lavorazione informatizzate, per conto della LIthos Design, giovane azienda della Valle del Chiampo diretta da Alberto e Claudio Bevilacqua aperti al dialogo e al confronto con la ricerca universitaria, la cultura del design, i mercati oramai fortemente competitivi e globalizzati.


Pietre incise curve luce – Favo pierre bleue

[photogallery]metamorfosi_album1[/photogallery]

La sperimentazione di Galiotto è apparsa chiara, inedita e per molti versi innovativa, sin da quando, circa cinque anni fa, ne abbiamo potuto apprezzare i primi prototipi e prodotti industralizzabili di serie legati alla collezione “Pietre incise” intorno alla quale si sviluppò un intenso dibattito ed interesse.
Si tratta di una ricerca, evolutasi attraverso fasi successive – legate sia all’azienda Lithos Design che a progetti multiaziendali quali quelli di “Palladio e il design litico” (2008) e di “Marmi del Doge” (2009) promossi dal Consorzio Marmisti Chiampo – incentrata su una evidente resa plastica tridimensionale delle superfici litiche pur quando (ed è il caso della prima collezione “Pietre incise”) la loro destinazione d’uso viene finalizzata a rivestimenti parietali in forma di elementi-lastra di ridotto spessore materico.
Abbandonando il “riduzionismo bidimensionale” del linguaggio moderno, riproposto in vesti aggiornate dalle tendenze internazionali del minimalismo contemporaneo, Raffaello Galiotto ritorna coscientemente al valore plastico-tridimensionale della materia e si muove verso la sua continua saggiatura delle possibili interpretazioni e varianti configurative, connettive, “modellative” della risorsa rocciosa – monolitica ed estesa, variegata e policromatica – delle pietre, dei marmi, dei graniti, dei travertini.


Lampada in Travertino, Serafini Marmo Luce. Design Raffaello Galiotto

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Conseguentemente la visione convenzionale di superficie litica per l’architettura e l’interior design – contrassegnata dai soli elementi geometrici di lunghezzza, larghezza ed estensione planare – passa nella ricerca di Galiotto da entità figurale bidimensionale (che delimita il volume o riveste internamente gli spazi come una omogenea “pelle” complanare) a superficie solidificata dalla forte ed esuberante resa plastica e spesso dagli andamenti sinuosi e flessuosi.
Accennavamo al rapporto sinergico fra creatività del designer e know how tecnologico aziendale, oramai dotato di avanzate e sofisticate macchine di lavorazione senza le quali, indubbiamente, non sarebbero possibili i risultati di alta e raffinata precisione raggiunti. Nel caso specifico, macchine appositamente realizzate e specializzate per la ricerca di Lithos Design e per i suoi avanzati obiettivi di produzione.
Nel mezzo, fra mente creativa del designer Raffaello Galiotto e le macchine di lavorazione, la nuova frontiera strumentale di visualizzazione e modellazione tridimensionale.
La progettazione assistita da avanzati software ci mostra come, oramai, il computer non sta più a rappresentare un semplice strumento di lavoro ex post rispetto alla fase di ideazione vera e propria. Attraverso i suoi programmi, le capacità enormi di calcolo e di rappresentazione si pone, oramai, come elemento contestuale e co-generatore rispetto allo sviluppo di ogni idea, di ogni abbozzo iniziale di forme anche complesse come quelle inseguite dalla creatività di Raffaello Galiotto che “traduce” sulla pietra l’esperienza e le ricerche parallele maturate sui materiali plasmabili quali le plastiche o i metalli necessari per la realizzazione dei complessi stampi.
Il nuovo mondo della prefigurazione ad interfaccia informatizzata ha, oggi, liberato energie nuove per una sperimentazione non convenzionale sulle famiglie di figure geometriche (e loro articolazioni) dove è possibile saggiare una forma (o più forme) all’interno di azioni, retroazioni, visualizzazioni, varianti in tempo reale. Di questo nuovo scenario Raffaello Galiotto è stato uno dei primi interpreti indirizzando le energie creative verso un inedito design litico delle superfici che, progressivamente, vanno evolvendo verso strutture monomateriche a forte spessore dalle configurazioni complesse, fluenti ed innovative come nel caso della Collezione “Muri di pietra”, pervenendo – a breve, auspico – a cimentarsi anche con il tema delle strutture stereotomiche capaci di esportare la sua ricerca dal tema del design degli interni (o degli spazi esterni) a quello dell’architettura contemporanea in pietra in forte rivalutazione e aggiornamento linguistico da almeno due decenni.

Alfonso Acocella

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2 Marzo 2011

English

Sinuous stone metamorphosis

Versione italiana

“Design is one method of giving form to matter and making it appear as it is and in no other way. Design, like all cultural expressions, shows that matter isn’t bold, if not in the way in which it takes shape and in-forms, and that once it has taken shape and has in-formed, it becomes outstanding (a phenomenon). So matter in design, as in any area of culture, is the way in which forms appear.
Nevertheless, to say that design stands between the material and the immaterial is not completely out of place. There are in fact two ways of seeing and thinking: in a material and a formal way.”

Vilém Flusser, Philosophy of design, Mondadori 2003 (ed. or. 1993), p. 12

Sinuous stone metamorphosis
We create from matter, we meet in matter, sooner or later. In the end, we are a “slave” to the act of transforming our surroundings, accepting it as a positive image of creative formal thought that is articulated through the ideas and visions of figures, contours, bodies, spaces.
Three-dimentional forms, as we know, are never completely free.
It (the “form”) is first a latent and immaterial idea, which is then thought out, manipulated, forced to express itself starting with its own material characteristics, becoming available – as it turns into a “material form” – for creation, for a creative project.
Material forms are, inevitably, connected to their recent and ancient uses. It’s fair to say that the creator always -consciously or unconsciously – draws on teachings from “stable” experiences or vast solutions accumulated over time that define, in the end, the figurative culture of the material.
Forms, images, immaterial visions – as long as they mirror “material things” -inadvertently pass, filter and settle in the mind.
Sooner or later they resurface.
If history is revisited, reconsidered and reassimilated into the theory and contemporary aspects of a creative project, and a personal interpretative contribution results, then the material in question can shine in a new way inside the work of architecture, design and art.
Forty-year-old designer Raffaello Galiotto embraces such a challenge in the fields of architecture, interior design and product design, as can be seen by his prolific re-interpretation of ancient stone and his lengthy experiments undertaken with enthusiasm, creativity and the support of new technologies and computerised machines for Lithos Design, a young company from Valle del Chiampo led by Alberto and Claudio Bevilacqua that is open to dialogue and involved in the exchange of ideas through university research, the culture of design, and the now strongly competitive and globalised markets.

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Galiotto’s experiments continue to appear clear, original and in many ways innovative, since five years ago when we were able to appreciate the first prototypes and industrial products of the “Carved stone” collection, a series that created intense debate and interest.
His works is based on research that has evolved in phases – together with the Lithos Design company and multi-company projects such as “Palladio and stone design” (2008) and “The Doge’s Marble” (2009) promoted by Consorzio Marmisti Chiampo – and has focused on an obvious three-dimentional plastic tribute to stone surfaces even also when their final use as a basic, thin stone plate was aimed at covering walls (as with the “Carved stone” collection).
Raffaello Galiotto abandons “two-dimentional reductionism” which dresses itself today in the vests of contemporary minimalism, to consciously give value to the three-dimentional plastics of the material and moves wisely towards possible interpretations and configurational, connective, “moulding” variants of this rocky – monolithic and extensive, variegated and polychromatic – source of stones, marble, granite and travertine.
As a result, in Galiotto’s work, the conventional view of stone surfaces destined for architecture and interior design – marked by the geometry of length, width and planar extentions -goes from a two-dimentional figurative representation (that defines volume or covers the inside of spaces like a homogenous coplanar “skin”) to a surface strengthened by a strong and exhuberant tribute to plastic and often by a sinuous and lithe progressional flow.
We mentioned the synergetic relationship between the creativity of the designer and the technological know-how of a company, by now gifted with advansed and sophisticated machines without which high quality precise results would, undoubtedly, not be possible. Here, we are talking about machines specifically made to aid Lithos Design in its research and advanced production objectives.
Between the creative mind of designer Raffaello Galiotto and the machines is the new frontier for three-dimentional viewing and modelling.
Advanced software-assisted design shows how computers are no longer simple working tools with regards to the creation phase. The enormous capacity of computer programs to calculate and represent demonstrate that they are a contextual element and co-generator of ideas and even of complex sketches of forms like those sought by Raffaello Galiotto who “translates” onto stone his experience and extensive research on pliable material such as plastic or metal necessary to create complex molds.
The new world of prefiguration which uses information technology interfacing has created new energy for unconventional experiments to take place on geometric figures (and their extentions) making it possible to test a form (or several forms) inside actions, retroactions, visualisations and variants in real time.
Raffaello Galiotto is one of the first interpreters of this new artistic scene to direct creative energy to designing original stone surfaces that, progressively, evolve into structures that are heavily mono-materialistic with complex configurations that are fluent and innovative – as with the “Stone walls” collection. He moves to tackle – soon, I hope – stereotomic structures capable of transporting his research on interior design (or external spaces) to that of contemporary architecture based on stone which has been strongly revaluated and linguistically discussed for at least two decades.

Alfonso Acocella

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Palladio e il design litico
To celebrate the quincentenary of the birth of this great architect the marble craftsmen of the Consorzio of Chiampo (CMC) gave me the honour of trying to find an idea that could bring to light some aspects, perhaps not well known, of Palladio and show the high level of professionalism of the workmanship in the Chiampo area connected with working with stone.
What is the relationship between Palladio and stone design?
To try to give an answer to this question I did a research. In what I would say a surprising way emerged a recurrent geometric profile from the comparative study of the works and drawings.
I thereafter designed the objects of this exhibition on this profile and even if in a flattened or simplified shape one can find that it is always present.
The projects, born on paper as sketches, were then elaborated on in detail by my studio with sophisticated 3D programmes after which, using the best available technology, they were made in marble, stone and granite by the expert marble craftsmen of the CMC.

I Marmi del Doge
“The conversation between Kublai Kan and Marco Polo in “Le Città Invisibili” by Italo Calvino comes to mind: “Why do you speak to me about stones?” says Kublai Kan, “I only care about the arch”. Polo replies: “Without stones there is no arch”. To put it in another way: without stones, Venice would not be.”
“Interpreting the hidden suggestions in the marble of the Palazzo Ducale, and working with the best kind of marble himself, Galiotto – and the marble workers of the Valle del Chiampo – have created contemporary objects and environments of very high artistic quality (but that are still functional and reproducible) aimed at hospitality and welcome. If, in their deepest sense, these objects and these environments carry a hidden memory of the Palazzo Ducale, their “destination” echoes an historic role – very much present today – of Venice as a city of welcoming, a “door” between the East and the West, a place of meeting and of dialogue between people, cultures, religions”.

Massimo Cacciari
Mayor of Venice

Raffaello Galiotto
He studied at the Accademia di Belle Arti in Venice, during his training he entered the world of industry where he started collaborating on design project which soon led to business relationship that eventually resulted in him being able to set up his own activity and to open his industrial design practice in 1993.
At first he worked for companies in the furniture industry, thus becoming highly experienced in the design of extremely popular, large, plastic products.
He expanded his horizons by applying his knowledge to various other sectors, from outdoor and indoor furniture, to kitchens, to items for pets, to stone products and by so doing encountered and learnt about materials and technologies used for different types of production.
In the stone sector, in particular, and with the close collaboration of firms, he creates innovative products with new types of surfaces, gaining national and international awards. Collaborates with prestigious Italian universities and holds lectures and conferences with delegations of international architects.
In recent years, he projected important events of stone design and in collaboration with the CMC (Consorzio Marmisti Chiampo) conducted two important events: “Palladio e il design litico” and “I Marmi del Doge“ exposed at Marmomacc Verona and now in several european cities.

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28 Febbraio 2011

Opere Murarie

L’opera muraria poligonale*

English version


L’opera muraria poligonale classica di Alba Fucens (ph. Alfonso Acocella)

L’opera poligonale “classica”
Con caratteri architettonici perfettamente distinguibili dei muri ciclopici si presenta il dispositivo dell’opera muraria poligonale a blocchi lavorati con le facce a vista rigorosamente complanari ed assemblate fra loro a formare un paramento a giunti stretti; una tecnica costruttiva indubbiamente tra le più peculiari e specifiche dell’ambiente greco. Ancora oggi, comunque, si discute su quanto di “miceneo” possa leggersi in questa evoluzione dell’architettura in pietra.
Archeologicamente l’opera poligonale è largamente documentata in tutta la Grecia continentale con le testimonianze più antiche riscontrabili nell’Attica, nel Peloponneso, in Acarnania. Tale modalità di esecuzione delle murature, oggigiorno, non è più valutata come una tecnica di ricongiunzione fra l’opera ciclopica e quella quadrata in quanto si sviluppa, sotto il profilo cronologico, parallelamente a quest’ultima rappresentandone una differenziata e specifica concezione realizativa.
Caratteristiche d’impiego ricorrenti sono quelle che ne inscrivono l’adozione all’interno di strutture con particolari funzioni (cinte urbiche, bastioni, zoccoli, basamenti, sostruzioni di grandi terrazze ecc.) attraverso una restituzione della sezione muraria sempre significativa e maggiore di quella assegnabile all’opera quadrata. A fronte di una diminuzione d’uso dell’opera poligonale lesbia maturata negli ambienti greci d’oriente è da registrare, lungo il VI e il V sec. a.C., l’affermazione di quella poligonale classica come un prodotto d’ingegno peculiare dei greci del Peloponneso. Sotto il profilo della cronologia di diffusione può essere rilevato come essa conservi – all’interno della tecnica costruttiva ellenica – la massima fortuna nel corso del V sec. a.C., continuando comunque ad essere adottata più sporadicamente nei secoli successivi.
Da un punto di vista esecutivo l’opera poligonale richiede, in genere, una consistente ed accurata lavorazione dei blocchi lapidei impiegati. I massi dalla configurazione poligonale sono posti in opera con le facce irregolari verso l’interno della sezione muraria, mentre verso l’esterno ricevono una lavorazione e una disposizione del tutto particolare contribuendo alla formazione del caratteristico disegno generale “a rete” conseguito attraverso linee di connessione estremamente precise dei giunti. I grandi blocchi – nelle opere più rappresentative – sono regolarizzati alla perfezione nelle superfici da lasciare a vista risultando frequentemente “pareggiate”, spesso anche “picchiettate” a martello, più raramente sono lavorate con solchi verticali.

«È opportuno osservare – evidenzia Antonino Giuffré – come nulla di tale regolarità può essere riscontrata nelle mura ciclopiche. In esse nessuna astrazione geometrica è concessa dai massi le cui facce venivano lavorate in situ, e quindi né orizzontamenti, né euritmie di giunti sono concepibili. I blocchi affiancati restituiscono idealmente la continuità della roccia originale, col solo artificio di ricostruire un contatto regolare dove le pietre estratte dalla cava offrivano superfici di forma diversa». 1

Nell’opera muraria poligonale, a differenza di quanto avviene nella coeva opera quadrata, i blocchi lapidei non sono mai fissati mediante grappe o cunei di qualsiasi genere; la statica e la resistenza meccanica della muratura fanno affidamento unicamente sulla massa, sul grande peso dei macigni impiegati; la stabilità è legata alla qualità del materiale e alla sapienza della sua messa in opera.
In generale nell’opera poligonale al “filo esterno” dei muri viene assegnata una leggera inclinazione orientata verso l’interno. Per evidenti motivi di stabilità, negli angoli e negli stipiti delle aperture, i blocchi poligonali sono sostituiti da massi più grandi ed accuratamente regolarizzati secondo una configurazione parallelepipeda in modo da contrastare lo slittamento dei blocchi ordinari. In queste parti specifiche delle costruzioni si effettua spesso l’integrazione dell’opera poligonale con le altre tipologie murarie (l’opera trapezia, l’opera quadrata).
La notevole abilità richiesta alle maestranze e la quantità di lavoro necessario alla precisa configurazione dei massi poligonali possono essere state le motivazioni alla base di quella progressiva tendenza alla regolarizzazione dei blocchi e della scelta di una linea di posa in corsi più o meno continui e costanti, come avviene nell’opera poligonale trapezia, o nell’ancor più regolare opera quadrata.

L’opera poligonale lesbia
Questa particolarissima variante all’interno della famiglia dell’opera poligonale è, giustamente, distinta ed enucleata a sé per i caratteri morfologici che presentano i singoli blocchi litici impiegati nella composizione muraria del paramento a vista. L’invenzione del tipo costruttivo è legata da alcuni studiosi alle particolari circostanze che rinvengono nell’isola di Lesbo la disponibilità di una roccia tendente, naturalmente, a “fendersi” secondo piani moderatamente curvilinei. Resta accertata un’adozione di tale genere di opera muraria nelle aree terrritoriali in rapporto con l’ambiente ionico (Delfi, Eretria, Samo, Thasos ecc.).


Delfi. Basamento in opera poligonale del Tempio di Apollo (ph. Alfonso Acocella)

La fase di maggiore diffusione lega l’opera poligonale lesbia al VI sec. a.C., con la propensione a datare, verosimilmente, la sua origine al secolo precedente. Il IV sec. a.C ne fa registrare l’abbandono quasi totale; questo, almeno, è da rilevare per l’ambiente greco. La lavorazione finale delle facce dei blocchi litici lasciati a vista evidenzia chiaramente – lungo alcuni lati – una configurazione curvilinea che si ripercuote anche sui giunti concepiti a spigolo vivo. La perfetta corrispondenza dei massi adiacenti (tanto per taglio dei giunti che per complanarità dei piani) dimostra come le curvature sono il frutto di una calcolata volontà ordinatrice che le seleziona e le pone in opera in modo figurativamente espressivo.
E’ da evidenziare, comunque, come molti studiosi delle tecniche costruttive antiche non abbiano riconosciuto all’opera lesbia un valore autonomo bensì l’abbiano considerata come una variante interna dell’opera poligonale classica. Al pari delle altre maniere poligonali il grado di finitura è molto severo, essenziale; anche qui uno dei trattamenti più ricorrenti dei blocchi è la regolarizzazione, in complanarità, con lavorazione a martello; più raramente il paramento murario riceve una specifica espressività mediante solchi verticali paralleli, più o meno fitti.
Volendo indicare una realizzazione eccellente dell’opera poligonale lesbia è possibile riferirsi al sito sacro di Delfi il cui grande tèmenos del VI sec. a.C, in forma di scosceso muro di recinzione (190×135 m), risulta – sia pur solo in parte – costruito con questa tecnica, offrendo una soluzione monumentale dell’ingresso al santuario panellenico. Ma di ancora di più raffinata esecuzione a Delfi è il basamento della terrazza centrale del santuario, su cui sarà costruito il tempio degli Alcmeonidi dedicato ad Apollo, posto a rappresentare una delle più monumentali e scenografiche realizzazioni della tecnica poligonale lesbia.
Nel santuario affollato da una moltitudine di piccole costruzioni (ex voto, offerte, Tesori, statue votive ecc.) il programma indirizzato ad integrare il nuovo tempio alla scala scenografica del paesaggio naturale dominato dalle grandiose rocce Fedriadi rende necessario un lavoro considerevole, con demolizioni e riallocazioni, per la realizzazione della terrazza; il poderoso basamento – la cui costruzione è effettuata, dopo il 548 a.C., assecondando le irregolarità del terreno – mostra, ancora oggi, tutta la sua possanza a chi vi si avvicini percorrendo in salita la via sacra. Guadagnata la terrazza si rimane stupefatti del lavoro murario con gli arabeschi dei suoi giunti curvilinei, perfettamente combacianti, che disegnano le facce dei blocchi poligonali. Moltissime iscrizioni incise sulla pietra (circa 800) ci restituiscono, inoltre, uno dei più importanti e consistenti archivi dell’antichità greca.


Delfi. L’opera poligonale lesbia nel basamento del Tempio di Apollo (ph. Alfonso Acocella)

L’opera poligonale trapezia
L’opera poligonale trapezia è posta da alcuni studiosi a rappresentare solo una fase transitoria fra l’opera poligonale vera e propria e quella quadrata; da altri è considerata, invece, una variante autonoma tra le tipologie murarie dotata di un proprio magistero costruttivo che coesistette, sin dalle origini, con le altre; mantiene, in ogni caso, un “contatto” evidente con la tradizione tecnica dell’opera poligonale.
Le prime attestazioni documentali sono restituite, in avvio del V sec. a.C, in sincronismo con la diffusione dell’opera poligonale più canonica. È verosimile ipotizzare che tale tecnica possa essere stata codificata, contestualmente in più luoghi, come logico e consequenziale adattamento in direzione di un lavoro di regolarizzazione della muratura poligonale valutando – sul piano della cronologia – la sua compresenza soprattutto lungo tutto il V sec. a.C. (quando si diffonde in diversi luoghi della Grecia continentale, in particolare nell’Attica e nel Peloponneso) insieme all’opera poligonale e all’opera quadrata.
Sul piano esecutivo, a fronte di un maggior impegno “adattatorio” da parte dei cavatori o dei lapicidi, l’opera trapezia consente una consistente semplificazione e velocizzazione delle fasi esecutive. L’apparecchio murario, nella sua codificazione canonica, organizza la connessione reciproca di blocchi lapidei pareggiati, con i lati maggiori paralleli al suolo e i lati minori disposti obliquamente.
La fronte del muro resta così caratterizzata dalla morfologia dei trapezi giustapposti in modo tale che l’inclinazione obliqua dei lati minori risulti complementare a quella dei conci contigui; in questa apparecchiatura i piani di posa risultano, a differenza dell’opera poligonale, orizzontali, sia pur a tratti interrotti. Il disegno complessivo che ne scaturisce, soprattutto in presenza di blocchi lapidei di differenti proporzioni ed altezze, è estremamente variato, risultando progressivamente “progettato” lungo le fasi esecutive.


Muro in opera poligonale trapezia della sala ipostila di Delo

La caratterizzazione superficiale del paramento a vista di questa particolare maniera dell’opera poligonale – al pari delle altre – è abbastanza semplificata in quanto è frequentemente affidata ai blocchi lasciati grezzi o solo sommariamente ricondotti, mediante l’azione incidente del martello, ad un assetto di morbida convessità (una sorta di trattamento a “cuscino”). Più raro è il pareggiamento delle facce e l’uso di solchi incisi sui conci lapidei.
Assai frequenti sono le deroghe rispetto all’apparecchiatura canonica appena illustrata; fra queste vi è la soluzione in cui i blocchi – pur configurati frontalmente in quadrilateri irregolari – presentano con insistenza i lati minori perpendicolari alla base maggiore; in questo caso si produce una maggiore similitudine del disegno murario all’opera quadrata, soprattutto quando si è in presenza di moduli costanti per ciò che riguarda l’altezza dei conci stessi. Si parla, in questi casi, di un’opera trapezia regolare ed isodoma destinata ad essere impiegata almeno fino alla fine del IV secolo a.C.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Antonino Giuffré, “Le tipologie murarie classsiche” p.4, in Letture sulla Meccanica delle murature storiche, Roma, Edizioni Kappa, 1991, pp. 84.

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28 Febbraio 2011

English

Polygonal masonry*

Versione italiana


The classic polygonal wall at Alba Fucens (ph. Alfonso Acocella)

“Classical” polygonal masonry
The polygonal wall, composed of dressed stone blocks with strictly coplanar faces arranged so as to form close joints, clearly differs enormously from the previously-described cyclopean wall: the former undoubtedly represents one of the most specific and particular building techniques of ancient Greek civilisation. There is still some debate, however, as to the degree to which Mycenaean civilisation contributed towards this development in stone architecture.
Archeologically speaking, the polygonal structure has been documented throughout mainland Greece, with the oldest remains having been found in Attica, in the Peloponnese and in Akarnania. This technique of building walls is no longer considered to be an intermediate method, lying between that of the cyclopean wall and that of the squared-ashlar wall, in that it developed at about the same time as the latter, and represents a constructional variation thereof.
The polygonal method was commonly used in the building of walls with specific purposes (city walls, ramparts, bases, basements, the substruction of large-scale terracing, etc.), and involved the creation of a structure with a larger section than that of the opus quadratum. Against a decline in the use of polygonal “Lesbian” masonry in the eastern Greek colonies, throughout the 6th and 5th centuries B.C. there was an increase in the use of classical polygonal masonry, invented by the Greek inhabitants of the Peloponnese. The latter technique was particularly popular during the 5th century B.C., although it continued to be adopted, albeit more sporadically, during the following centuries.
From the constructional point of view, polygonal masonry generally requires the accurate dressing of the stone blocks employed. The polygonal stones are arranged so that their irregular faces are concealed within the wall, while their regular faces are carefully arranged to form the outer surface of the wall, constituting the characteristic net-like pattern with its precise joints between the stones.
The large blocks in the more representative works are dressed so as to present a perfectly regular face, often having been “squared”, frequently “speckled” using a hammer, and very occasionally dressed with vertical grooves.
Antonino Giuffré points outs that:

None of this regularity can be seen in cyclopean walls: no geometrical abstraction is possible with such huge stones dressed in situ – no horizontal linearity, no matching of joints. The blocks laid side by side are designed to represent the reconstitution of natural stone, the only difference being that their dressed surfaces offer a more regular point of contact than the diverse surfaces of the quarried rock.1

Polygonal masonry walls, unlike the opus quadratum of that period, were characterised by the fact that the stone blocks were not held in place by cramps or wedges of any kind; the statics and mechanical strength of the walls derived exclusively from the enormous mass and weight of the stones themselves. Stability was also given by the type of material employed and the skill with which the wall was laid. In general, the “outer course” of the polygonal wall was inclined inwards slightly: moreover, stability was further guaranteed by the use of larger stones as cornerstones and jambstones, generally of a regular, parallepiped shape, which helped to prevent any slipping of the ordinary blocks. In these areas of the wall, furthermore, the polygonal masonry was often supplemented by other types (trapezoid and/or squared ashlar).
The considerable skill required of masons, and the significant work involved in dressing these polygonal stones, may have been the underlying reason for the gradual move towards the use of more regular blocks and of a method of laying based on the creation of more or less continuous courses of masonry, as in the case of trapezoid polygonal masonry, or on that of the even more regular opus quadratum.

Polygonal “Lesbian” masonry
This highly particular variation of polygonal masonry is characterised by the morphological features of the individual stone blocks employed in the composition of the facing of stone walls. Certain scholars have identified a link between the invention of this type of masonry and the existence of a particular kind of rock on the Greek island of Lesvos which naturally tends to split in a slightly curvilinear fashion. There is proof of this kind of masonry being employed in the Ionian-influenced area of the Mediterranean (Delphi, Erythrae, Samos, Thassos, etc.).


Delphi. Polygonal masonry basement in the Temple of Apollo (ph. Alfonso Acocella)

Polygonal “Lesbian” masonry was most popular during the 6th century B.C., and there is a tendency to date its origins from the previous century; the 4th century B.C., on the other hand, saw it fall into almost complete disuse in the Greek world.
The final dressing of those stone blocks used as facing clearly shows a curvilinear form which also influences the sharp-edged joints. The perfect matching of adjacent blocks (both in terms of the cut of the joints and of the coplanar nature of the faces) shows how the curves are result of a calculated choice aimed at creating an expressive figurative effect.
However, it should be said that numerous scholars have failed to recognise the independent nature of polygonal “Lesbian” masonry, considering it a mere variation of classical polygonal masonry. Compared with other forms of polygonal masonry, “Lesbian” masonry is characterised by a severer, more essential finish; again, one of the most frequent methods of dressing the stone involved its standardisation using a hammer, and only on rare occasions was it ever “decorated” with close-knit parallel vertical lines.
One excellent example of polygonal “Lesbian” masonry can be seen at the sacred site of Delphi: the great temenos, dating from the 6th century B.C., features a steep boundary wall (190 x 135 m.) partly built using this particular method, constituting a monumental entrance to this Panhellenic sanctuary.
An even more refined example, to be found at Delphi, consists of the basement of the sanctuary’s central terrace, on which the Temple of Apollo – was to be built: this in fact constitutes one of the finest monumental products of the polygonal “Lesbian” method. In the sanctuary, which contains a multitude of small constructions (votive offerings, memorials, treasuries, votive statues etc.), the plan to integrate the new temple into the surrounding landscape dominated by the huge Fedriadi rocks required considerable work, including the demolition and reallocation of several constructions, in order to create the terrace. The massive basement, built after 548 B.C. in conformity with the surrounding, irregular land, to this very day reveals all of its power to those visitors reaching it from below along the sacred way. As you get to the terrace, you cannot fail to be amazed by the polygonal wall with its perfectly-matching, arabesque-like curvilinear joints. There are a great many inscriptions on the wall (roughly 800), making it one of the most important ancient Greek archives.


Delphi. Polygonal lesbian masonry of the basement of the Temple of Apollo (ph. Alfonso Acocella)

Trapezoid polygonal masonry
Certain scholars maintain that trapezoid polygonal masonry represents but a transitional phase between true polygonal masonry and the opus quadratum; others, on the other hand, see it as a separate variety among those masonry types with their own constructive method, one that co-existed with the others from the very start. In either case, it maintained close “contact” with the polygonal masonry approach.
The earliest documentary evidence dates from the beginning of the 5th century B.C., which coincides with the widespread use of the more traditional polygonal method. The trapezoid technique can probably be codified as being employed in various different areas during the same historical period, in an attempt to rectify and standardise more traditional polygonal masonry: in fact, it was present – together with both polygonal masonry and opus quadratum – above all during the 5th century B.C., in various parts of mainland Greece (in particular, in Attica and in the Peloponnese).
As regards the laying of this kind of masonry, while requiring greater effort from those quarrying and dressing the stone, it does have the advantage of considerably simplifying and speeding up construction work. Standard procedure requires that the blocks be laid in regular courses, their levelled sides positioned adjacent to each other, with the longer sides laid parallel to the ground, and the shorter sides arranged in an oblique manner.


Trapezoidal polygonal wall of the hypostyle hall at Delos

The face of the wall is thus characterised by the trapezoid shape of the anterior faces of the stones and the complementary nature of the adjacent shorter, oblique sides. In this arrangement, the courses are all horizontal, albeit at times interrupted, unlike in the case of classical polygonal masonry. This produces a variegated design – especially when different-sized stone blocks are used – which tends to be “planned” in a gradual manner as the blocks are being laid.
The design of the outer face of the wall is fairly straightforward, given that large-size blocks, left rough or only briefly dressed with a hammer to give them a gently convex surface, are generally used. The faces of the stones are very seldom levelled and grooves engraved in them.
However, there are various departures from the above-mentioned standard practice; these include arrangements whereby the stone blocks, although frontally characterised by their irregular quadrilateral shape, have the shorter sides perpendicular to the longer base; in such cases, they more closely resemble the opus quadratum arrangement, especially when they are of the same height as each other. Such arrangements are known as regular trapezoid isodomic masonry, and were employed at least up until the end of the 4th century B.C.

Alfonso Acocella

Notes
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Antonino Giuffré, “Le tipologie murarie classiche” p.4, in Letture sulla Meccanica delle murature storiche, Rome, Edizioni Kappa, 1991, pp. 84.

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25 Febbraio 2011

Post-it

Intervista a Daniel Libeskind

La Facoltà di Architettura di Ferrara, nell’ambito delle attività promosse dall’Uffico di Relazioni esterne e Comunicazione, ha ospitato lo scorso giugno la conferenza di Daniel Libeskind “Counterpoint”. In tale occasione il celebre architetto ha rilasciato la seguente intervista.

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23 Febbraio 2011

Post-it

Architettura cosciente Architettura appropriata

A Firenze il 16 marzo 2011 presso il Salone Brunelleschi del prestigioso Ospedale degli Innocenti, si terrà la terza edizione del Convegno “Architettura cosciente–Architettura appropriata”.
Come vocaboli di un dizionario dell’architettura cosciente e sostenibile, le testimonianze di architetti contemporanei di diverse generazioni proseguono in questo terzo appuntamento, che avrà come prestigiosa location la città di Firenze, in uno dei suoi monumenti rinascimentali più insigni: il brunelleschiano Ospedale degli Innocenti.

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22 Febbraio 2011

Design litico

Il design litico contemporaneo*

English version


Un’ambientazione della collezione nelle occasioni di Marmomacc 2009.

Continuità
Oggi il design litico, posto di fronte alle opportunità ampie di un mercato complesso e globalizzato, è tornato con una certa evidenza al centro dell’approfondimento del settore lapideo nazionale e della stessa attività di ricerca e di sperimentazione dei designer.
Il design valutato quale leva competitiva in grado di creare valore aggiunto rispetto alla risorsa litica di partenza è da alcuni anni focus dell’appuntamento culturale promosso dall’Ente Fiere di Verona sotto il titolo “Marmomacc incontra il Design” dove un gruppo di designer collabora in stretto contatto con aziende del comparto lapideo per elaborare progetti e prototipi valorizzativi dei know how tecnologici propri delle realtà produttive coinvolte. “Leggerezza del marmo; “Pelle, Skin, Texture”; “Hibrid and Flexible” sono i temi di sperimentazione proposti negli anni 2007, 2008, 2009.
Nella stessa direzione s’inscrivono i progetti promossi dalle aziende del Consorzio Marmisti di Chiampo – quali “Palladio e il design litico” (2008) e i “Marmi del Doge” (2009) – e ideati da Raffaello Galiotto.
Nell’avviare la nostra riflessione sul design litico contemporaneo ci ha interessato, in particolare, l’idea di esplorare gli elementi di continuità, insieme a quelli di discontinuità (o quantomeno di differenziazione), che è dato riscontrare fra il recente passato e la situazione dell’oggi.
Se lo spirito dei tempi esiste, qual è lo Zeitgeist attuale del design? Quale la condizione operandi nel processo di ideazione e produzione degli artefatti litici?
Fra gli elementi atemporali (e quindi di continuità) fra il passato e il presente dei processi generativi del design litico (e del design in generale) riteniamo vi sia la ricerca ineliminabile di forme o, se si vuole, la necessità del conferimento di forma alla materia.
«L’idea di fondo – per dirla con Vilém Flusser – è questa: il mondo dei fenomeni che percepiamo con i nostri sensi è un caos amorfo dietro il quale sono nascoste forme eterne, immutabili che possiamo percepire grazie alla prospettiva sovra sensoriale della teoria. Il caos amorfo dei fenomeni (il “mondo materiale”) è un’illusione e le forme nascoste dietro si essa (il “mondo formale”) costituiscono la realtà che può essere scoperta per mezzo della teoria. In questo modo è possibile riconoscere come i fenomeni amorfi sfocino nelle forme, le riempiano per poi defluire ancora una volta nell’amorfo (…) Il mondo materiale è ciò che viene introdotto nelle forme, è il riempitivo delle forme.» 1
L’immateriale (la forma) in altri termini è ciò che fa apparire in primo luogo la materia. Se, allora, la forma è l’opposto della materia, il design è l’attitudine e la strategia esclusiva del genere umano attraverso cui conferire forma a tutto ciò che ne è privo (la materia litica, nel nostro caso specifico).
Il mondo delle forme disvelate, replicate, variate, inventate sta all’origine di ogni azione indirizzata a produrre design: forme naturali ed artificiali, forme immutabili e mutevoli, forme eterne e contingenti allo stesso tempo.
Questo mondo formale, cresciuto sulle spalle del mondo materiale, rappresenta il substrato culturale a cui ogni designer (di ieri, come di oggi) non può sottrarsi. Un universo poliedrico di forme che sembra appartenere al “mondo materico” ma che, invece, è dote del mondo delle idee, della teoria, della cultura intesa come memoria, conoscenza o visionarietà proiettata verso il futuro.
Il progetto “I Marmi del Doge” muove il tema della ricerca delle “sue” forme a partire dalle suggestioni dell’ordine architettonico di Palazzo Ducale di Venezia.
Un ordine architettonico “invertito” quello del Palazzo Ducale che sembrerebbe essere “costruito contro le leggi sacrosante dell’architettura” – come Wolfang Wolters riporta in questo stesso volume citando dalle cronache dei commentatori dell’opera di Filippo Calendario – con le sue due logge tettonico-lineari (filtranti e leggere) nella fascia basamentale e la continuità muraria di natura tessile (“pesante”, avvolgente, fortemente decorativa) a contatto con il cielo.
Da questo partito architettonico “inverso” Raffaello Galiotto – con metodo già sperimentato nel progetto “Palladio e il design litico” – seleziona, distilla, estrapola alcune linee, figure, geometrie combinatorie. Poi le trasferisce nello spazio del progetto digitale guidato dall’alchimia ideativa che astrattivamente e associativamente procede alla fusione delle forme di partenza e di quelle nuove che affluiscono dalle regioni insondabili della visionarietà di ogni mente creativa, dando vita al nuovo progetto-concept di design litico.
Processi alchemici e magici quelli della creazione di cui il progetto “I Marmi del Doge” ci parla attraverso i suoi prototipi litici, calchi delle forme mentali (e digitali, come vedremo) del suo ideatore.


Un’ambientazione della collezione nelle occasioni di Marmomacc 2009.

Discontinuità
I decenni centrali del secondo Novecento (ci riferiamo in particolare agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta) hanno visto numerosi maestri del design italiano impegnati nell’ideazione e messa in produzione – insieme ad aziende del mondo dei marmi, delle pietre o dell’arredamento – di oggetti di design litico molti dei quali ancora oggi disponibili sul mercato: Angelo Mangiarotti, Carlo Scarpa, Achille Castiglioni (…) e poi più tardi – lungo la stagione del postmodernismo – Aldo Rossi, Paolo Portoghesi, Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo Di Francia, Mario Bellini (…).
Immaginiamo tali designer – molti dei quali architetti famosi sulla scena internazionale – all’interno dei loro atelier affollati e ingombrati da tavoli da disegno, intenti nel fissare su carta, attraverso schizzi fortemente autoriali, le loro idee iniziali di forma, passare poi ai collaboratori le indicazioni necessarie per trasferire l’idea su qualche tavola a disegno quotato tradizionalmente eseguita, avviare infine i contatti colloquiali e fiduciari con le realtà produttive preposte all’esecuzione dei pezzi con impiego di metodiche prevalentemente artigianali e lavorazioni manuali o parzialmente meccanizzate.
Molto diverso lo scenario e le condizioni operandi che è dato riscontrare nella produzione del progetto di design in avvio di nuovo millennio.
Innanzitutto è da evidenziare l’affiancarsi (e l’affermarsi) accanto alle figure “tradizionali” degli architetti-designer di quelle “nuove” dei designer-designer cresciute sul progetto dell’oggetto o, se si vuole, sulla scala dell’architettura del piccolo. Si tratta di una sostanziale mutazione del quadro generale dei protagonisti del progetto di design a cui si lega, contestualmente, il ricambio generazionale con l’immissione di figure giovani (se non addirittura molto giovani) cresciute nell’era della rivoluzione digitale.
Un secondo elemento di discontinuità – anch’esso molto significativo e sostanziale – attiene alla mutazione dello spazio fisico di lavoro insieme a quello concettuale ed operativo inerente ai modi di produzione del progetto di design.
Gli atelier di progettazione hanno perso ogni atmosfera o aura autoriale, si sono svuotati dei tavoli di disegno ingombranti, liberati dei tecnigrafi, dei modelli eseguiti spesso da sapienti artigiani della materia e hanno accolto al loro posto ordinate e asettiche consolle informatiche dotate di grandi schermi interattivi che spalancano al nuovo mondo della realtà virtuale parallela a quella materiale.
Nel volgere dell’ultimo quindicennio un sostenuto processo di innovazione dei concetti tradizionali di spazio, tempo, materia, forma, presenza è stato indotto – come sappiamo – dai progressi delle scienze elettroniche con influenze non irrilevanti nell’area del design di architettura e di prodotto.
Il campo informatico, che ha fatto propri i risultati della ricerca scientifica più generale, ha reso disponibili per i progettisti potenti strumenti di calcolo, insieme a metodiche innovate di creazione, rappresentazione, simulazione degli artefatti. La possibilità di trasporre equazioni differenziali, funzioni e algoritmi – riguardabili come sculture matematiche o anche come “nuvole di punti” nello spazio – in ambienti virtuali di lavoro gestiti da avanzati software ha consentito ai progettisti di interagire con interfacce di prefigurazione e modellazione in cui sperimentare ogni tipo di forma attraverso atti di formazione (generazione), de-formazione, metamorfosi.
Ne è derivato, conseguentemente, oggigiorno una mutazione dello spazio in cui si esercita la creatività da parte delle nuove generazioni di progettisti.
La cultura del progetto sempre più si concentra e si alimenta in studi-atelier attrezzati con potenti computer connessi in rete in forma di network, sostenuti dalle competenze di giovani operatori delle tecnologie informatiche, di esperti di modellazione virtuale e di produzione di immagini fotorealistiche in grado di gestire in team lo sviluppo di progetti oramai integralmente digitalizzati: dall’idea iniziale fino alla produzione degli artefatti stessi.
Il computer non sta più a rappresentare un semplice strumento di lavoro ex post rispetto alla fase di ideazione vera e propria. Attraverso i suoi programmi, le capacità enormi di calcolo e di rappresentazione si pone, oramai, come elemento contestuale e co-generatore rispetto allo sviluppo di ogni idea, di ogni abbozzo iniziale di forma.
Il nuovo mondo della prefigurazione ad interfaccia informatizzata ha, contestualmente, liberato energie nuove per una sperimentazione più libera sulle famiglie di forme (e loro articolazioni) dove è possibile saggiare una forma (o più forme) all’interno di azioni, retroazioni, visualizzazioni, varianti in tempo reale.
Lo stesso spazio progettuale da spazio razionalizzato attraverso la terna di assi cartesiani evolve verso matrici geometriche più complesse e spazi con dimensioni di ordine superiore.
In questi ambienti di simulazione pluridimensionale il progetto contemporaneo di design non si produce più in forma lineare e sequenziale (scandito cronologicamente fra concept autoriale, progetto esecutivo, prototipazione). Sempre più evidente è l’aumento della contestualità-complessita nella gestione del progetto, delle scelte e dei dati relativi alle diverse aree problematiche e alle diverse fasi del processo, non ultima quella produttiva.
Le risorse informatizzate dischiudono il progetto di design verso territori ed orizzonti del tutto nuovi.
Il primo è interno allo sviluppo digitalizzato del progetto con l’elevato livello di definizione tecnica conseguibile e la precisione della modellazione virtuale consentita sotto forma di plastici digitali tridimensionali (statici e dinamici) ad altissima definizione delle linee, delle curve, dei volumi e dei dati analitico-quantitativi connessi.
Il secondo orizzonte dischiusosi attiene all’interconnessione di ambiti operativi sino a qualche lustro fa scarsamente correlati e dialoganti. Ci riferiamo all’integrazione diretta fra progetto di design e fase di produzione grazie alla possibilità di conversione dei dati e delle rappresentazioni tridimensionali (i “file progetto”) nel relativo linguaggio di comando delle macchine di lavorazione, oramai completamente robotizzate e gestite anch’esse da software.
Riteniamo che non molto diverso da quanto prefigurato sia il contesto in cui è nato ed è stato sviluppato il progetto “I Marmi del Doge”.


Un’ambientazione della collezione nelle occasioni di Marmomacc 2009.

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Verso la materia (in-formatizzata)
Lo spirito attuale del tempo si coglie anche nelle aziende del settore lapideo dove, accanto a linee di produzione seriali segnate dal tempo e dal “logorante” lavoro sulla dura materia litica, si nota la presenza di imponenti e nuovi macchinari robotizzati di recentissima generazione.
Si tratta di centri di lavoro capaci di assicurare modalità e processi operativi alimentati dalla trasmissione dei dati elettronici provenienti dalla fase del progetto digitale di design. Il concatenamento tra l’input dei dati immateriali portatori di forma e l’output di modellazione materico delle macchine robotizzate di fabbrica rappresenta uno degli elementi di maggiore innovazione (e, quindi, di discontinuità) dello scenario manifatturiero odierno del settore lapideo rispetto a quello di solo qualche lustro fa.
Tali centri di lavoro sono macchine a controllo numerico con bracci snodabili guidati da software CAD/CAM (Computer Aided Design – Computer Aided Manufacturing) capaci di imprimere la forma di qualsiasi modello tridimensionale ai litotipi attraverso l’aiuto di laser scanner ed altri dispositivi ad avanzata tecnologia integrati alle macchine stesse. Selezionando automaticamente specifici utensili diamantati questi macchinari robotizzati possono realizzare fresature, sbancature su monoliti tridimensionali, lavorazioni a tutto tondo, scavi in profondità della materia. Lo stesso spazio utile di lavoro è oramai significativo (600 cm di diametro, 300 cm di altezza) non ponendo più grossi limiti alla tipologia dimensionale di artefatti sottoponibili a tale tipo di sistema produttivo.
La chiave di svolta di questi grandi robot – molti dei quali frutto dell’ancora insuperato primato italiano nella produzione di macchine manifatturiere – è nella tecnologie abilitanti (software avanzati, sensori, laser…) che li rendono “macchine intelligenti” con bracci servomovimentati in uno spazio multidimensionale di lavoro.
Ciò che in un passato, anche molto recente, era possibile ottenere solo attraverso procedure discontinue, costose, ibride (con contestualità di lavoro manuale e meccanizzato) coordinate dall’abilità e dall’esperienza di esperti artigiani, oggigiorno è affidabile alla collaborazione fra l’immaterialità dei flussi di dati elettronici del progetto digitalizzato e la forza modellante dei bracci semoventi che conferiscono forma alla materia litica assicurando altissima precisione e continuità al processo produttivo, indirizzabile – quest’ultimo – verso la realizzazione di oggetti unici o multipli in funzione delle specifiche richieste mercato.
Il conferimento di forma alla materia litica attraverso una realtà virtualmente parallela (generata dal progetto di design) apre a nuovi orizzonti e a morfologie complesse gli artefatti litici contemporanei ripristinando per il settore produttivo dei lapidei il livello dell’alto artigianato che ha contraddistinto la tradizione italiana degli elementi architettonici e dell’arredo marmoreo riguardabili come tipici apporti della civiltà abitativa delle nostre città storiche di cui lo stesso splendido Palazzo Ducale di Venezia ne è testimonianza.
Senza questa rivoluzione dei mezzi di produzione e senza il progetto digitalizzato di design che si colloca a monte (e ne, in-forma a valle, la materia) non sarebbe stato possibile in così breve tempo e con tale apertura sperimentale e sistemica un progetto come quello de “I Marmi del Doge” ideato e coordinato da Raffaello Galiotto, figura rappresentativa ed emergente all’interno di quel nuovo panorama dei designer-designer a cui abbiamo fatto riferimento.
Un progetto di concept design di nuovo millennio, prim’ancora che messa in produzione di singoli oggetti di design litico.
Un’ultima riflessione che vorremmo avanzare, a proposito del progetto “I Marmi del Doge”, attiene al rapporto sinergico fra progetto di design e know how aziendale quale leva competitiva all’interno dell’economia postfordista.
L’evoluzione delle transazioni economiche dall’ambito locale a quello globale non sta ad individuare oggi solo la dilatazione geografica del mercato e la crescita (esponenziale) dei potenziali acquirenti-consumatori di beni e servizi di massa. È anche indicatore della nascita di particolari aperture del mercato stesso legate alla richiesta di prodotti di alta gamma contrassegnati dai valori di qualità, unicità, durata nel tempo, assicurabili solo attraverso materiali di pregio ed elevate competenze manifatturiere delle imprese.
Mi piace valutare il progetto “I Marmi del Doge” all’interno di tale orizzonte di competizione economica riguardandolo, nel suo insieme – dall’ideazione formale di prodotto, alla fase produttiva fino a quella importante di comunicazione e promozione dell’iniziativa stessa – come una proposta-concept fortemente innovativa sotto il profilo strategico nel tentativo di rendere esplicito e valorizzare, attraverso un progetto di design, il livello tecnologico avanzato delle aziende del Consorzio Marmisti Chiampo riunite in un sistema a rete e protese a intercettare le tendenze evolutive del mercato – sia pure di nicchia – verso beni durevoli, prim’ancora che di lusso come spesso superficialmente si tende ad identificare i prodotti litici di alta gamma e valore.


Un’ambientazione della collezione nelle occasioni di Marmomacc 2009.

di Alfonso Acocella

Vai al sito di Consorzio Marmisti Chiampo
Vai al sito di I Marmi del Doge

Note
* Il saggio è tratto da I marmi del Doge. Design e ospitalità, a cura di Raffaello Galiotto, Vicenza, Consorzio Marmisti Chiampo, 2009, pp. 122
1 Vilém Flusser, “Forma e materia” p.7 in Filosofia del design, Milano, Bruno Mondadori, 2003 (ed. or. 1993), pp. 153.

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22 Febbraio 2011

English

The contemporary lithic design

Versione italiana

Continuity
Today, lithic design, facing great opportunities in a market that is complex and globalized, has returned to be the focus of reappraisal and of a deeper inquiry by the national stone&marble design industrial sector, and by the designer’s own experimentation in this area.
Design, seen as a market resource able to confer and impart added value to the raw lithic resource, has been the focus of the cultural event promoted by the “Ente Fiere of Verona” (Trade Fair Association) under the title “Marmomacc incontra il design” (“Marmomacc meets design”) for a few years. It is a team of designers who work with companies from the marble industries to elaborate and develop projects and prototypes to promote and advance the technological know-how of the companies involved. “The lightness of Marble; “Pelle, skin, texture”; “Hybrid and Flexible” were the themes of experimentation and study that were the subjects of attention in 2007, 2008 and 2009.
The projects promoted by the companies of the Consorzio Marmisti of Chiampo – such as “Palladio e il design Litico” (2008) and “I Marmi del Doge” (2009), conceived and realized by Raffaello Galiotto – , moved in the same direction.
Our reflection on the contemporary lithic design starts from our particular interest in the idea of exploring those elements that are perennial, eternal, permanent and that have never changed over the course of time, elements of continuity, together with those elements that are impermanent and thus discontinuous (or, at least, are divergent and in contrast) in the lithic design world between the recent past and today. If there is such a thing as the spirit of the times, what is today’s Zeitgeist in design? What is the governing principle during the process of artistic endeavour and of the production of lithic artefacts?
Among the atemporal and eternal elements (hence of continuity) between the past and the present generative processes, which give life to lithic design (or design in general), we believe the main inspiration cannot do without the essential research into forms, or in clearer terms, the need to confer form and shape to the raw material. “The fundamental idea – to quote Vilém Flusser- is this: the world of phenomena that we perceive with our senses is a formless and amorphous chaos behind which eternal forms hide, forms which we can perceive through the non-sensorial perspective of theory. This unshaped chaos of phenomena (“the material world”) is an illusion and the hidden forms behind it (“the formal world”) constitute the real, which can be discovered and revealed through theory. In this way, it is possible to know and to recognize how this amorphous world flows into the world of forms, which, itself, receives form before it dissolves again into the amorphous world. The material world is the filling substance of the forms”.(1) The immaterial (the form) in other words is what shapes and makes formless matter appear and materialize. If, then, form is the opposite of matter, design is the disposition and exclusive strategy of humanity by which forms are created for everything which is devoid of and without form (in our specific case, the lithic material – blocks, slabs etc. – ).
The world of the revealed, unveiled, replicated, varied, invented forms is at the origin of every activity aimed at producing design: natural and artificial forms, mutable and immutable forms, eternal and temporary at the same time.
This formal world, which lies behind the material world, represents the cultural stratum and heritage which every designer, (as in the past, as today) cannot escape from and renounce. This manifold, multiple universe of forms that seems to pertain to the “world of matter” is instead the fruit and result of the world of ideas, of theory, of culture intended as memory, of tradition, of knowledge or visionary imagination projected for the future.
The “I marmi del Doge” project leads off the discussion on the research into “forms”, by looking at the ideas which lie behind the architectonic style of the Ducal Palace of Venice. This is an architectonic style which is “against/contrary”, which would seem to be “built against the sacred laws of architectures” – as Wolfgan Wolters says in this publication, by quoting the documents and sources of the critics of the work by Filippo Calendario – with its linear tectonic loggias (light-looking, lean and screen-like) in the lower section, and the facing of the façade-lengths having a textile appearance (“heavy”, all-enveloping and cladding the Palace and very decorative) reaching out toward the sky.
From this “contrary” architectonically designed form, Raffaello Galiotto – with the method already experimented in the “Palladio and the Lithic design” project-selects, distils and extrapolates lines, figures and geometric configurations. He, then, transfers them onto the space of the digital project inspired by his creative alchemy, which by association and connection goes ahead with the fusion of the original forms and the newly created ones, which originate from the mysterious creative vision of the mind, thus bringing to life a new concept-project in lithic design.
Alchemical and magical processes are the source of creation, which the project “I Marmi del Doge” communicates to us through sketches, tracings and its lithic prototypes, which are the moulds of the mental forms (and digital, too, as we shall see later) of its designer/creator.

Discontinuity
The central decades of the second half of the twentieth century (we are referring, particularly, to the 60s, 70s and 80s) saw many “maestri” of the Italian design engaging with the creation of design and the putting into production – in collaboration with marble stone and furniture producers – of objects in lithic design style. Many of these products can still be found in the market: creations by Angelo Mangiarotti, Carlo Scarpa, Achille Castiglioni (…) and then later – during postmodernism – works by Aldo Rossi, Paolo Portoghesi, Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo Di Francia, Mario Bellini (…). Let us imagine these designers – many of whom world-wide famous architects – at work inside their crowded studios, studios fitted with drawing tables, absorbed with and concentrating on fixing lines, outlines, sketches, giving their collaborators the necessary information to transfer the idea onto a drafting board to have it executed according to old manual processes , and then starting the informal contacts with trusted production laboratories, capable of carrying out the execution and the manufacture of the pieces, manly by using, artisanal processes with little technology involved.
It is very different now: in the new millennium. The production of a new product from its initial design-project is radically different. First of all, we must signal the emergence of a new kind of specialist role. Next to the traditional figure of the architect-designer, we also have the designer-designer who has emerged over the years out of the project of the object, or in other words, people who work in the architecture of the small. This is something entirely new. The old general system of designing and developing a project has mutated, and now we find new protagonists involved; and this in conjunction with the generational change and the rise of new young talents (sometimes, extremely young) who have grown up in the digital-revolution-era and have changed the whole traditional way of working. The second element that is a break from the past – it is also very significant and important – has to do with the change of the physical space of work and the conceptual and operative change of the means of production for the realization of the design-project. The design studios have lost all the prestige and aura of authority. They have got rid of their large, crowding drawing tables, freed themselves of the universal drafting devices , emptied their studios of those casts executed by skilled artisans of that material. They have, instead, now, embraced orderly and aseptic computer consoles, equipped with large interactive screens that open up to the new world of virtual reality which hovers parallelly over material reality.
In the last 15 years, a sustained and fast process of innovation in the traditional concepts of space, time, matter, form and presence has been brought forward -as we know- by the progress in electronics, and this, in turn, has influenced the sector of the design in architecture and in the product (artefact). Computer science and technology, which have benefitted from the research done in the field of science today, have made available to design engineers powerful instruments of calculus and new innovative ways of creation, representation, simulation of the artefacts.
The possibility of applying differential calculus, equations, algorithms and functions – and to look at them as mathematical sculptures or even as “clouds of dots” in space – in virtual work-environments run by advanced software, has allowed design engineers to interact with interfaces of pre-figuration and modelling, through which they can experiment and create every kind of shape, through the simple act of formation (generation), de-formation and metamorphosis. What has come out of this, as a consequence, today, is a mutation in the space, in which, the new generations of designers practise their creativity.
The culture of the project concentrates on and feeds its creativity from atelier-laboratories – equipped with powerful computers, which are linked to one another in networks – aided by the skills of the new operators of computer technology, by experts in virtual modelling and in photo-realistic images who are able to work as a team in the development of projects, by now, totally digitalized: from the moment of the idea and design, up to the production of the artefacts. The computer is no longer a simple (ex post) instrument of work with respect to the phase of artistic creation. Through its programmes, the powerful capacity of calculus and of image-creation, it is today, a fundamental, element and a co-generating participant to the development of every idea and of every initial and preliminary sketch or outline of form.
The new world of computerized interface pre-figuration has, really, freed new energies and resources for a greater and freer experimentation in archetypes of forms (and their various possible mutations) where it is possible to view a design, or a form (or more forms, or more designs) from any angle or distance, in movement, or in reverse movement; visualizations of images changing in real-time. The same planning space, which gives rationalized space through the three Cartesian axes, evolves toward evermore complex geometrical matrixes and toward spaces having ever greater dimension. In these work-stations of multi-dimensional simulation, contemporary design is no longer produced in linear and sequential form (divided chronologically, from the designer’s initial concept, the executive project phase, and the making of the prototype). What is becoming more evident is the increase in the contextuality-complexity of the management of the project; the increase in the choices and of the data relevant to the different problem-areas and to the different phases of the process, last but not the least, the production process phase. The resource of computer-generated graphics open the project of design toward new horizons and territories.
The first of these new horizons lies within the digitalized development of the project itself, where the high level of technical graphics definition and the precision of virtual modelling which can be obtained in the form/shape of digital three-dimensional figures (either static or in motion-dynamic), is staggering. Amazing, too, is the high definition lines, curves, (shapes, volumes and sizes) the analytic data and quantity-information that these programmes can supply.
The second horizon, which is disclosed, pertains to the interconnection of operational contests that until recently had hardly even dialogued or been connected. Here, I am referring to the direct integration between the design-project to the production phase proper, which is reached thanks to the possibility of converting the data and of converting the three-dimensional images “the project file” into the language of commands of the machinery, which by now is completely robotized and run by software.
We believe that the context, for which the project “I Marmi del Doge” was born and developed, is not much different from what we have just discussed and outlined.

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Towards computer-generated matter and materials
The spirit of times is also seen in the companies of the Marble & Stone sector, where, next to the old serial production lines, discoloured by time and by the heavy work on the hard and resistant stony material, we can see the presence of new robotized machinery of the latest state-of-the-art generation.
They are work-stations and areas capable of ensuring different manufacturing-processes run by the transmission (input) of electronic data which come directly from the digitally-designed-project phase. The chain, between the input signal of the data which transmits the design and the output which informs and commands the robotized factory machines on how to mould and shape the material, represents one of the most innovative features (and hence, an element of discontinuity) in today’s marble manufacturing panorama in contrast to the recent past.
These work-stations are numeral-controlled machines with movable arms guided by CAD/CAM (Computer Aided Designed – Computer Aided Manufacturing) software capable of shaping and modelling all kinds of three-dimensional designs on the marble or stony material through the aid of laser scanners and other advanced technological devices integrated to the machines themselves. By selecting automatically the specific diamond-bladed tools, these robotized machines can execute milling, facing, stripping on any three-dimensional monolith, and other types of operations, such as drilling, carving and cutting deeply into the lithic material. The small work space is significant (600 cms in diameter, 300 cms in height). This does not limit any longer the size of the artefacts, which can be put through the manufacturing process. The turning-point of these big robots – many of which are jewels in the crown of the yet unsurpassed Italian dominance and know-how of the manufacture of manufacturing machines – is in the technology (advanced software, sensors, lasers) that transforms them into “intelligent machines” with servo-mechanical powered arms in a multidimensional work-space.
What, in the past, until not too long ago, was only possible to obtain through many discontinuous and disconnected procedures, expensive, hybrid (requiring both manual labour and mechanized procedures/phases) coordinated and managed by the skills and experience of expert craftsmen, today, this is entrusted to the link between the electronic data flux of the digitalized project and the modelling force of the automatic arms which shape and carve the marble & stone material with high precision. In fact, the capabilities of these new software technologies have led to a new form of prototyping called digital prototyping. In contrast to physical prototypes, which entail manufacturing time and material costs, digital prototypes allow for design verification and testing on screen, speeding time-to-market and decreasing costs. This latest technology ensures, too, that the production process is continuous and flexible, so as to allow for the realization of either single or multiple artefacts, depending on the demand of the market. To give and to confer form to lithic material through a virtual parallel reality (generated by the design-project process) allows one to break into new areas and complex morphologies in the contemporary world of marble artefacts/creations, thus connecting today’s marble manufacturing sector to the prestigious artisanal tradition which has always distinguished Italian design and style in Architecture and in marmoreal furniture. These elements can be traced back to the typical historical contribution to the urban-life civilization our historical cities have made, of which the beautiful Ducal Palace is a wonderful testament.
Without this revolution in the means of production and without the digitalized design-project which make this all possible (and which, in the end, models the material), projects, such as that of the “I Marmi del Doge” would never have been possible in such a short time and with this high degree of experimental sophistication. The project is created and co-ordinated by Raffaello Galiotto, who is a typical representative and an emerging protagonist within this new panorama of the designer-designer, of which we have just discussed. It is a project of concept-design of the new millennium, before it is the putting in production of single objects in lithic design. The last thoughts we would like to make concerning the project “I Marmi del Doge” have to do with the synergetic relationship between the design-project and the know how of a company, and how this synergy can give a competitive edge to companies in today’s post-Ford economy. The evolution of economic transactions from a local-market context to a global one, does not only signify the Geographic dilatation and fragmentation of the market and the (exponential) growth of potential buyers-consumers of mass goods and services. It is also an indicator of the growth in the market for the demand of high-quality goods, which are distinguished by and prized for their quality, uniqueness and durability and which can only be obtained by using the best materials and the best manufacturing skills.
I would like to appraise and evaluate the “I Marmi del Doge” project within this framework of economic competition. To see it in its entirety, from the time the product is formally imagined and conceived, to its production phase, until the important phase of communication and of its marketing. I see all of this as a very innovative idea, which with the aid of the “design-project” can promote and develop the artefacts and the advanced technological standard of the companies united in the association “Consorzio Marmisti Chiampo”. These companies, which are linked in a network, are trying to predict the new market trends in durable goods, – albeit in niche products – which the beautiful high-quality lithic products certainly are, even though, there is an erroneous tendency to consider them being only luxury goods.

by Alfonso Acocella

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18 Febbraio 2011

Videointerviste

Tomàs Alonso

Videointerviste Marmomacc 2010 Umbrella
Crediti videointerviste Studiovisuale

Tomás Alonso (Vigo, Spagna, 1974) ha studiato design negli Stati Uniti, in Italia e in Australia, prima di stabilirsi a Londra dove si è laureato nel 2006 presso il Royal College of Art. Nello stesso anno ha fondato insieme ad altri cinque designers di differenti nazionalità, laureati presso il RCA, l’OKAY Studio con sede a Londra. Il lavoro del gruppo ha ottenuto spesso recensioni molto favorevoli in varie riviste specializzate di design, tra cui Wallpaper e World of Interiors. Oltre a svolgere un percorso di ricerca progettuale personale, Alonso collabora con l’architetto inglese Nigel Coates, specializzato nel design di mobili prodotti in Italia.
Il linguaggio progettuale di Alonso spazia da una sensibilità “umanistica”, ispirata al romanticismo del mondo naturale, a una profonda attenzione per gli aspetti funzionali. Il suo lavoro è stato recentemente incluso nella collezione permanente del Design Museum di Londra.

Nell’ambito di Marmomacc 2010, per In.spo Marmi (Regione Puglia) il designer spagnolo ha inteso associare le qualità figurative di solidità e gravità della pietra pugliese con quelle di piacevolezza tattile del legno, un materiale a lui caro per sensibilità ed esperienza professionale. Le sue riflessioni sono sfociate nella realizzazione di oggetti (tavoli, sedute) che sfruttano, in un equilibrato dualismo, le qualità strutturali e scultoree della pietra per la parte portante e il calore del legno per la finitura.

di Chiara Testoni

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16 Febbraio 2011

Citazioni

Lo standard è morto


Vaso in alabastro di Angelo Mangiarotti per Società Cooperativa Artieri Alabastro (1981-96).

«Viviamo nell’epoca del design di Babele. Quando si va a comprare un mobile complesso, costituito da diversi elementi, per esempio una cucina, un’armadiatura, un sistema giorno, scopriamo di avere una possibilità di scelta da capogiro grazie a un numero elevato di moduli, materiali, finiture, colori. Incrociando le varianti, si ottengono numeri a tre cifre.
Chi fa i mobili dice che ormai per restare sul mercato è fondamentale offrire una possibilità di scelta sempre più grande, e aggiornarla molto spesso.
La personalizzazione, il “sartoriale”, la possibilità di adattare una cosa ai propri bisogni quasi su misura è una delle tendenze più incisive di questi anni. Al punto che si comincia a discutere della crisi del sistema industriale di base, che ha la sua ottimizzazione economica ideale in un unico prodotto realizzato nel massimo numero di pezzi».

Aurelio Magistà, “Lo standard è stato ucciso. Pesce, l’assassino, si confessa”, Il Venerdì di Repubblica, 10 dicembre 2010, p. 109.

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Angelo Mangiarotti
Gaetano Pesce
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