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11 Aprile 2011

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Ricerca applicata in ambito di Ergonomia applicata: Redazione di Linee guide per il posto di lavoro della cassiera

Un progetto con la collaborazione tra CRF e i produttori di arredi per la Grande Distribuzione Cefla (Imola), Intrac (Rovigo), LaFortezza (Pianoro-Bologna) e Metalsystem-Sidac (Rovereto-Gambara) , con la collaborazione e supporto di esperti medici di lavoro dell’INAIL di Roma, dell’Università di Bologna e Università di Torino, oltre all’ente certificatore CATAS di S. Giovanni al Natisone, Udine.

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4 Aprile 2011

Pietre d`Italia

Camini in pietra serena nelle residenze fiorentine rinascimentali


Frammento di fronte di camino della seconda metà del Quattrocento, palazzo Vecchietti, Firenze

Se gli elementi architettonici che si mostrano quale struttura dell’edificio fiorentino sono costituiti, tra il Quattro e il Cinquecento, per lo più di pietra serena, questo vale anche per tutte quelle cornici volte a proteggere, sottolineare e ornare interruzioni delle superfici murarie come fori dei caminetti, porte e finestre.

Una premessa: il camino a ridosso della parete
Un fascino particolare lo riservano gli antichi camini che, nella forma ai nostri occhi più tradizionale, nascono solo a partire dal Trecento. Non è infatti la parete muraria ad accogliere in origine il focolare domestico – unico dell’abitazione concepito sia per il riscaldamento della casa che per la cottura del cibo – ma un’area centrale di una stanza a questo dedicata che assume la denominazione di “caminata”1. Sprovvisto di cappa, l’ambiente è spesso posizionato all’ultimo piano dell’edificio o in un locale isolato, permettendo al fumo di uscire da un foro ricavato al centro del soffitto o dagli interstizi esistenti tra le tegole della copertura.
A partire dal Trecento il focolare per il riscaldamento inizia a differenziarsi da quello utilizzato per la preparazione delle vivande, contemporaneamente questo viene addossato alla parete che accoglie una canna fumaria utile all’eliminazione dei fumi. Il nuovo camino – proveniente quasi certamente dal nord Europa (e per questo spesso descritto come “francescho”, cioè “alla francese”2) – giungerà, attraverso successive elaborazioni, all’attuale conformazione.
È interessante osservare la “riduzione” della tridimensionalità dello spazio domestico dedicato al fuoco – capace di permettere un movimento a 360° intorno ad esso – a un’area incassata in uno dei muri che costituiscono l’ambiente in cui questo si trova. Se ad una prima analisi tale spostamento può apparire come una diminuzione della possibilità di fruire di questa fonte di calore, una riflessione più ampia permette di comprendere come l’apparente riduzione non sia altro che un importante miglioramento tecnico oltre che un allargamento funzionale.
La nuova dimensione permette al camino di coesistere con altri elementi dell’abitazione e di essere quindi inserito in ambienti non più concepiti esclusivamente in base alla sua presenza ma dedicati a funzioni diverse. Inoltre, la biforcazione funzionale che vede da una parte il camino per la cottura del cibo e dall’altra quello per il riscaldamento degli ambienti porta il focolare della casa a non essere più unico ma ad essere presente contemporaneamente in più stanze divenendo elemento di arredo capace di arricchirsi di nuove suggestioni legate all’essere il risultato di un progetto di design, oltre che spazio di aggregazione degli abitanti della casa e affascinante punto di osservazione del fuoco in perenne mutamento.

Come accennato, la “fusione” del camino con il muro avviene gradualmente, come gradualmente avviene l’acquisizione della sua nuova posizione da parte dell’architettura italiana. È lo stesso Leon Battista Alberti ad affermare, nel suo De re aedificatoria portato a termine nel 1452, che nel corso del Trecento alcune zone dell’Italia centro-settentrionale introducono nei propri edifici il camino addossato al muro mentre il resto della penisola – in particolare per quanto riguarda le abitazioni più umili, sempre più frequentemente costruite in pietra o mattoni e quindi meno soggette agli incendi tanto assidui fino a quel momento – si allinea gradualmente a questo cambiamento nel secolo successivo. I trattatisti cominciano a occuparsi anche di questo elemento dell’abitazione sottolineandone il carattere architettonico e conseguentemente il fatto che anche nella loro progettazione è necessario seguire le regole degli ordini classici3.
I conci di pietra cominciano ad assumere importanza plastica e compositiva anche in questo nuovo elemento di arredo. Inizialmente questo avviene attraverso mensole e architravi molto lineari posizionate a sostegno delle cappe – costruite esternamente alla parete – che conducono il fumo all’interno della cavità muraria (questi focolari assumono il nome di “camini a padiglione”). Il forte aggetto dal filo del muro della cappa, a imbuto piramidale o conico, oltre a contribuire all’inefficienza del tiraggio per la mancanza di protezione sui due lati, rende infatti necessaria la costruzione di grandi mensole che le sostengano. Queste, solitamente in pietra serena, rimangono molto lineari lasciando spazio a stemmi e simboli araldici delle famiglie di appartenenza dipinti in policromia sulla superficie intonacata delle cappe stesse4.


Paolo Uccello, Miracolo dell’Ostia Profanata, 1468

Elementi in pietra serena nei camini fiorentini
A Firenze, le prime testimonianze di camini addossati alla parete risalgono all’inizio del Trecento; secondo la Cronichetta di Memorie famigliari di Neri degli Strinati – risalente al 1302 – un camino a parete si trova nel palazzo fiorentino di famiglia5. Successivamente, è Giovanni da Milano a offrirci una nuova immagine di un camino fiorentino – purtroppo ormai in parte cancellata – in una delle scene affrescate nella Cappella Rinuccini della basilica di Santa Croce, databile all’incirca al 1365.
Nel 1578, poi, il Palazzo del Podestà accoglie nuovamente un camino costruito in stile medievale attraverso la composizione di conci di pietra serena. Schiapparelli scrive: “Il vero aspetto del camino a cappa in uso nelle sale fiorentine del trecento, noi lo ricercheremo piuttosto in quello di pietra serena, così severo ed elegante ad un tempo, che adorna la sala detta del Duca d’Atene nel Palazzo del Podestà. Sebbene costruito nel 1478 (sic) dallo scalpellino Lorenzo d’Andrea Guardiani, esso conserva infatti nelle linee e negli ornati le caratteristiche dello stile gotico: certo perché si volle metterlo in armonia colle forme e la decorazione dell’ambiente. Sulle sue spallette, foggiate a modo di colonnine, poggiano due beccatelli riccamente scolpiti, i quali, protendendosi in fuori reggono alla lor volta il grande padiglione piramidale: lo stemma gentilizio del Podestà Toscano (durante il cui reggimento fu fatto il camino) sormontato dall’elmo e la cimiero, grandeggia nel mezzo del piano inclinato della cappa, sotto la quale gira un fregio con sette formelle scolpite”6.


Camino della Sala dei Pappagalli, Palazzo Davanzati, Firenze, 1395 circa

La pietra serena viene utilizzata in maniera cospicua anche nella costruzione dei camini, ma se in queste prime tipologie si limita a modellarsi nei conci lineari e privi di decorazioni che formano architravi, mensole ed eventuali piedritti, è nel corso del Quattrocento che, in particolare a Firenze, questa materia assume un ruolo determinante nella caratterizzazione di questo elemento al contempo funzionale e di arredo.
Nel Quattrocento il camino inizia a occupare una maggiore profondità della parete togliendo meno spazio alla stanza che lo ospita. Gradualmente il camino diventa sempre più incassato nel muro provocando una diminuzione delle dimensioni della cappa che, a Firenze più che nelle altre città, tende a sparire. Firenze si fa precorritrice del camino architravato che sarà apprezzato, nei secoli successivi, per la sua eleganza formale7.
La bocca del camino diventa un taglio nel muro e il suo architrave, non più sorretto da mensole, poggia su due stipiti posizionati sul suo stesso piano di aggetto tanto da formare un unico elemento litico. Nella maggior parte dei casi questo è scolpito in blocchi di pietra serena, materia che ancora una volta diviene identificativa di un luogo mostrandosi capace di modellarsi secondo il rinnovato classicismo fiorentino piuttosto che seguendo quelle che sono le evoluzioni decorative della seconda metà del Quattrocento e del secolo successivo, volte a trasformare le mostre dei camini in monumentali complessi scultorei.
Se infatti fino agli anni Cinquanta del Quattrocento i caminetti mantengono forme piuttosto severe, dalla seconda metà del secolo i palazzi fiorentini cominciano a introdurre all’interno delle proprie sale grandi ed eleganti camini riccamente decorati. A dimostrazione del progresso tecnico volto a favorire il comfort della casa e dell’ostentazione del lusso, la residenza aristocratica introduce nelle proprie stanze di rappresentanza, ma anche negli ambienti privati, questo nuovo elemento che diventa al contempo oggetto di design ed elemento architettonico affidato ad architetti e scultori di primo livello.
Nel Rinascimento fiorentino tutti gli elementi che formano il camino – architrave, piedritti che lo sostengono e piano di fondo – si arricchiscono di una ricca plastica decorativa ispirata al repertorio architettonico. Dalla fine del Quattrocento, in particolare, le ampie dimensioni che assumono questi manufatti contribuiscono a renderne maestosa l’immagine. La morbidezza e la forza della pietra serena vi rendono possibile la modellazione di modanature, dentellature o pregevoli bassorilievi che richiamano antichi sarcofagi. A Firenze, grazie al moltiplicarsi di ricche residenze private, li troviamo a ornare preziosi camini in svariati esempi, spesso progettati dallo stesso architetto artefice del progetto della residenza dove viene costruito.


Camino di Palazzo Gondi, Giuliano da Sangallo; camino di Palazzo Borgherini, Benedetto da Rovezzano

Uno degli esemplari fiorentini più rappresentativi è quello realizzato su progetto di Giuliano da Sangallo per Palazzo Gondi8. Risalente agli ultimi anni del Quattrocento e costruito interamente in pietra serena, questo camino è una vera e propria composizione architettonica di piedritti sorreggenti una trabeazione orizzontale. Modanature e apparato decorativo lo mostrano come risultato di un accurato studio compositivo oltre che di un’abile opera scultorea. Due balaustri decorati a motivi vegetali fiancheggiano la cornice del focolare e sostengono un fregio riccamente ornato con divinità marine in trionfo scolpite a bassorilievo e una cornice modanata su cui poggiano lateralmente le statue in terracotta dipinta di Ercole e Sansone. L’incavo del focolare ospita ai lati due nicchie semicircolari terminanti superiormente con due calotte a conchiglia, le stesse del camino che si trova nella villa medicea di Careggi, realizzato nel 1462, per il cui progetto è infatti possibile ipotizzare una presenza di Giuliano da Sangallo9.
Per Palazzo Borgherini Benedetto da Rovezzano scolpisce nella prima metà del Cinquecento un camino oggi conservato presso il Museo Nazionale del Bargello. Il manufatto, in pietra serena, sembra rifarsi al camino Gondi, anche se con dimensioni leggermente minori. Le balaustre si semplificano in semplici colonnine decorate a motivi vegetali, sorreggenti un primo fregio scolpito con scene di guerra e un secondo dove è narrata la storia del re Creso.
Molteplici altri camini architravati in pietra serena arricchiscono le sale dei palazzi fiorentini: architetti e scultori come i da Maiano e i fratelli da Settignano li realizzano per i committenti più importanti della città10. L’antica stanza di Francesca Bentivoglio di Palazzo Manfredi era originariamente arricchita da un camino prodotto dalla bottega dei da Settignano, ornato da candelabri laterali a festoni e da due putti alati che sorreggono una ghirlanda. Anche palazzo Strozzi ne conserva uno di dimensioni monumentali interamente scolpito in conci di pietra serena che formano un originale bugnato a incorniciare la bocca del focolare11.


Camino di Desiderio da Settignano, Londra, Victoria and Albert Museum

Gli artisti fiorentini si specializzano talmente tanto nella modellazione degli elementi compositivi in pietra serena che formano questi splendidi camini, da esportarne i modelli non solo nel resto dell’Italia ma anche al di fuori dei suoi confini, come ci mostrano i camini della Sala della Jole e della Sala delle Armi (1455-60) del Palazzo Ducale di Urbino, in pietra di Cisana, che sembrano essere stati realizzati dall’architetto e scultore fiorentino Michele di Giovanni da Fiesole.

di Sara Benzi

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Note
1 Nel 1265 circa, Nicola Pisano scolpisce l’Arca di San Domenico nell’omonima chiesa bolognese; in una delle formelle è possibile notare la presenza di un camino posto al centro di una stanza.
2 Cfr. A. Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, G. C. Sansoni, Firenze, 1908, vol. 1, pp. 96, 97. A p. 96 si legge: “[…] in una lettera di Niccolò Acciaiuoli riguardante i lavori della Certosa di Val d’Ema (del 14 marzo 1356) leggiamo: “Io credo bene che in questa estate si doverà potere fare la logia, la sala e la cucina, e sia la cucina a due camini franceschi” Lo stesso “camino francesco” lo ritroviamo citato relativamente al palazzo pratese di Francesco Datini.
3 Dalla seconda metà del Quattrocento il camino diventa oggetto di analisi e dettami da parte dei trattatisti che lo inseriscono tra gli elementi che architetti e costruttori devono progettare e realizzare secondo precise tecniche e regole compositive. Il De re edificatoria di Leon Battista Alberti (1452), i Trattati di architettura ingegneria e arte militare di Francesco di Giorgio Martini (1502), Le regole generali di architettura di Sebastiano Serlio (1537), i Quattro Libri dell’Architettura di Andrea Palladio (1570) e L’Idea dell’Architettura Universale di Vincenzo Scamozzi (1615) presentano il caminetto tra gli elementi che contribuiscono al comfort dell’abitazione.
4 Una testimonianza iconografica significativa che ci mostra il loro utilizzo alla fine Trecento la troviamo nel Miracolo dell’Ostia Profanata, dipinto da Paolo Uccello nel 1468 con l’intento di narrare una vicenda, si dice, accaduta nella Francia del 1290: in due scene troviamo la presenza di un grande camino a padiglione sostenuto da mensole.
5 Cfr. A. Schiaparelli, op. cit., pp. 88-113; G. Cantelli, “La vita sociale e la nuova dimensione dell’abitare”, in A. Restucci (a cura di), L’architettura civile in Toscana. Il Rinascimento, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo – Milano, 1995, p. 338.
6 A. Schiaparelli, op. cit., pp. 103, 104.
7 Cfr.: C. Paolini, D. Rapino, Il fuoco in casa. Camini e altri accorgimenti per riscaldarsi nella Firenze antica, Ed. Polistampa, Firenze, 2005. Per un approfondimento sul tema si veda anche: M. Forni, “La “ricerca del paradiso perduto”. Sistemi passivi, camini, stufe e impianti ad aria tra Cinquecento e Settecento”, in A. Visconti, a cura di, Il legno brucia: l’energia del fuoco nel mondo naturale e nella storia civile, Atti del convegno tenutosi a Milano il 20 e 21 settembre 2007, nella serie Natura – Rivista di Scienze Naturali, Società Italiana di Scienze Naturali e Museo Civico di Storia Naturale di Milano, Milano, giugno 2008, vol. 98, Fasc. I, pp. 181-196; A.F. Freyrie, Camini e caminetti dal Rinascimento a oggi, Giovanni Vecchi Editore, Milano, 1994.
8 Relativamente a questo camino, che misura 420 cm di larghezza per 480 cm di altezza (comprese le statue), parla lo stesso Vasari scrivendo: “[un cammino]molto ricco d’intagli e tanto vario di componimento e bello che non se ne’era insino allora veduto un simile, ne’ con tanta copia di figure” (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti Pittori Scultori e Architettori, a cura di P. Barocchi R. Bettarini, Firenze, 1984, vol. IV, p. 137).
9 Cfr.: F. Gurrieri, “Il camino di sala della villa di Careggi”, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica Economia Cultura Arte, Atti del Convegno di Studi promosso dalle Università di Firenze, Pisa e Siena, 5-8 novembre 1992, Pacini editore, Pisa, 1996, vol. I, pp. 69-72.
10 Cfr.: L.Pellegrini, “La produzione di camini a Firenze nel primo Rinascimento”, in D. Lamberini, M. Lorri, R. Lunardi (a cura di), Giuliano e la bottega dei da Maiano, Atti del Convegno Internazionale di Studi tenutosi a Fiesole il 13-15 giugno 1991, Octavo Franco Cantini Editore, Firenze, 1994, pp. 209-215.
11 Questo camino è forse attribuibile a Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, lo stesso architetto che dal 1490 dirige i lavori di costruzione del palazzo; il camino, tuttavia, presenta una scritta incisa all’interno della cappa che fa sorgere alcuni sull’autenticità del manufatto; vi si legge: “Montato il caminetto nel 1887 il mese di marzio. Finito il giorno 14 del detto Mese”. Cfr.: A. Piscopiello, “Camini rinascimentali dal Quattrocento al primo Cinquecento”, in Quasar, Quaderni di Storia dell’Architettura e restauro, Saggi di letteratura architettonica, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, agosto-dicembre 1999, Serie di Storia, 1999, n. 22, pp. 105-113; D. Lamberini, Un “monte di saxi” nuovi. I restauri di Palazzo Strozzi nella Firenze post-unitaria e fascista, in Palazzo Strozzi. Metà Millennio 1489-1989, Atti del Convegno di Studi, Firenze 3-6 luglio 1989, Roma 1991, pp. 214-242.

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31 Marzo 2011

Pietre d`Italia

TRAVERTINO PIETRA ITALIANA
I luoghi e i caratteri della materia*

English version


Il colonnato della basilica di San Pietro in Vaticano (1659-67) di Gian Lorenzo Bernini. (ph. Alfonso Acocella)

Il nostro incipit intende, innanzitutto, rendere omaggio alla varietà e ricchezza litologica del Paese che s’irradia dalle Alpi alla lunga dorsale appenninica e agli altopiani pugliesi, riemergendo all’interno dell’orografia del tutto individuale delle Isole maggiori. Tale varietas ha offerto materiali molteplici all’azione costruttiva delle comunità ed ha contribuito a contrassegnare peculiarmente l’architettura urbana e rurale dei territori: «Anche fra le pietre che da sole improntano l’aspetto edilizio di qualche città – evidenzia Francesco Rodolico nel libro Le pietre delle città d’Italia – le differenze sono tali da colpire il viaggiatore più distratto: i calcari compatti di Trento, di Brescia, d’Assisi o di Sulmona, quelli teneri di Lecce o di Noto; il travertino di Ascoli Piceno; l’arenaria grigia di Cortona o quella giallastra di Volterra; gli gneiss di Bellinzona; il tufo vulcanico di Viterbo; la lava etnea di Randazzo. Né differenze di tanto rilievo si notano solo tra città lontane; l’accennato frazionamento geologico agisce anche sul breve spazio, differenziando città vicine, sotto questo particolare aspetto».1
La tradizione all’impiego delle pietre in architettura, com’è noto, ha registrato, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, un forte ridimensionamento applicativo con una specializzazione d’uso che ha ricondotto spesso tali materiali alla funzione complementare di ornamentazione, sottoforma di lastre sottili per rivestimenti parietali o superfici orizzontali di calpestio.
È forse il momento – in una fase attenta a rivalorizzare le risorse nazionali ed identitarie dei territori – di riprendere a studiare i lasciti tradizionali e, insieme a questi, i modi costruttivi tecnologicamente avanzati, ricercando anche soluzioni applicative innovative.
D’altronde, salvo pochi casi, ogni regione d’Italia possiede integro, ancora oggi, un rilevante patrimonio di materiali lapidei che è pensabile poter rivalorizzare all’interno dell’architettura contemporanea, soprattutto a fronte delle nuove e potenziate tecnologie di trasformazione che investono la lavorazione della materia grezza di cava.


Cava di travertino senese a Serre di Rapolano. (ph. Alfonso Acocella)

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Oggigiorno, se si escludono i marmi, materiali di pregio che oramai individuano una categoria indirizzata prevalentemente al rivestimento ornamentale, restano di potenziale utilizzo stereotomico – a fini strutturali o quantomeno fortemente collaborativi alla costituzione degli involucri architettonici – le pietre e i graniti che si offrono attraverso una variegata caratterizzazione e distribuzione geografica. È il caso, in particolare, dei materiali lapidei correnti dell’Italia centrale e meridionale – fra cui il travertino, oggetto specifico del nostro studio – che, oltre ad essere contraddistinti da parametri di economicità e di facilità alla riduzione in conci squadrati o in masselli, posseggono considerevoli requisiti di resistenza e di buon aspetto.
La famiglia delle rocce classificate come travertini individua una categoria di litotipi abbastanza omogenea, il cui campo di variabilità e differenziazione interna è limitato a ristretti fattori di cromia e giacitura sedimentaria. Il nome d’identificazione deriva dal termine latino “lapis tiburtinus” – ovvero “pietra di Tibur”, l’attuale Tivoli vicino Roma, dove è rinvenibile uno dei principali e più antichi giacimenti di questa pietra – che con “corruzione” lessicale, avvenuta in epoca medioevale, è stato tramandato come travertino. In particolare, le località di escavazione che hanno alimentato la costruzione di tanti edifici monumentali di Roma antica, lungo un arco cronologico di oltre venti secoli, sono ancora attive e si concentrano nei Comuni di Tivoli e di Guidonia-Montecelio dove operano una trentina di cave; l’approvvigionamento ininterrotto della materia da tali siti ha fatto scomparire quasi completamente le tracce delle lavorazioni più antiche.
Barco e Fosse sono i luoghi specifici dove si estrae il travertino romano. La strada Tiburtina divide le due aree di escavazione storica: quella a sud, il Barco (nel Comune di Tivoli) da cui proviene gran parte del materiale litico impiegato per gli edifici della Roma dei Cesari; quella settentrionale, Fosse (Comune di Guidonia-Montecelio) dove è stata estratta la pietra per tutte le grandi opere della Roma papale dal XVI secolo in poi; basti qui richiamare il monumentale colonnato della basilica di San Pietro e la scalinata di Trinità dei Monti.
Le dimensioni e la vastità di tali escavazioni danno l’idea dell’importanza conferita al travertino, a partire dal I sec. a.C. quando tale litotipo assurge al rango di “materiale rappresentativo” dell’architettura imperiale, dopo i secoli repubblicani che avevano visto l’impiego di pietre meno resistenti e durevoli (tufo, peperino, pietra gabina). Tali impressionanti tracce di escavazione richieste dalle fabbriche monumentali di Roma nei secoli sono evidenziate da Giuseppe Cozzo: «La maggior cava di travertino sfruttata dai romani è quella detta del Barco, da cui si estrae una pietra molto compatta e, perciò, di lavorazione molto laboriosa. L’ipotesi che essa sia stata, se non l’unica, certo la principalissima esercitata dai romani, è avvalorata dalla sua enorme ampiezza. Il senatore Lanciani, che ha avuto l’occasione di studiarla particolarmente, ne ha misurato la lunghezza tra le opposte pareti a picco in oltre due chilometri e mezzo; la sua superficie raggiunge i cinquecentomila metri quadrati ed il materiale estratto corrisponde a circa cinque milioni e mezzo di metri cubi di travertino».2
Da sempre le qualità tecniche ed estetiche di questa pietra hanno reso conveniente e di effetto il suo impiego. Così il travertino è diventato il materiale architettonico caratterizzante della città di Roma, assurgendo a simbolo di magnificenza della romanità imperiale, papale e poi, in qualche modo, riferimento dell’italianità nel mondo.


Padiglione tedesco all’Esposizione Universale di Barcellona (1929/1983-86), di Ludwig Mies van der Rohe. (ph. Alfonso Acocella)

Attualmente il comparto industriale del travertino romano – che conserva un certo primato di tradizione e qualità nella lavorazione del prodotto – è costituito da alcune decine di aziende, di dimensioni medie o medio-piccole, le quali operano a tutto campo nell’estrazione e nella lavorazione della pietra per il mercato nazionale ed estero, a cui si aggiungono ulteriori piccole realtà produttive e laboratori artigiani. Allontanandoci dall’area del “lapis tiburtinus” e rivolgendo lo sguardo alla struttura litologica più generale del Paese, dobbiamo evidenziare come ben più ampia, variegata e diffusa sia la disponibilità dei travertini e la loro stessa valorizzazione avvenuta in epoche successive a quella antica.
Giorgio Blanco, nel Dizionario dell’Architettura di pietra, elenca ventitré tipi di travertino, tutti estratti nel territorio italiano;3 a tale varietà corrispondono, comunque, la concentrazione e la potenza di giacimenti in poche aree: lungo le valli dell’Arno, del Tevere, dell’Aniene, del Sacco. I principali bacini estrattivi nazionali – oltre al già citato comprensorio laziale di Tivoli e Guidonia Montecelio – sono localizzati nei territori di Ascoli Piceno in Abruzzo e di Siena (in particolare Rapolano Terme) in Toscana.
Ad Ascoli il travertino viene cavato da secoli ed è il materiale dominante del ricco tessuto di centri storici dell’area. Tale litotipo è ancora oggi presente in discreta quantità nell’alta valle del Tronto, soprattutto nel tratto tra Ascoli e Acquasanta Terme, dove la formazione dei giacimenti è legata ai movimenti tettonici: l’anticrinale di Acquasanta, a causa di fratture profonde, ha dato origine a fuoriuscite di acque termominerali, responsabili della precipitazione del carbonato e quindi della formazione dei depositi di travertino. Grazie ad un’abbondante presenza, la pietra, dal cromatismo grigio-argenteo, è da sempre il principale materiale utilizzato per la costruzione di case, architetture rappresentative, infrastrutture e ha caratterizzato fra Medioevo e Rinascimento la maggior parte degli edifici monumentali di Ascoli, conferendo alla città un aspetto unico, ancora in gran parte conservato. Attualmente l’industria di estrazione e lavorazione del travertino piceno è impegnata in una fase di ripresa e di rilancio tentando di allargare il mercato di tale litotipo dalla dimensione locale a quella regionale e nazionale4.
A fronte della capacità di trasformazione picena attualmente ancora ridotta, risulta notevolmente in crescita quella toscana. Nel territorio senese – rispetto alle sempre più rare pietre storiche: il giallo di Siena, il marmo nero di Murlo, il macigno – insistono ancora banchi consistenti di travertino così come descritti da Francesco Rodolico: «La collina dove sorge Siena (caratterizzata da tre crinali convergenti, a ciascuno dei quali corrisponde un “terzo” dell’abitato) appartiene alla serie dei rilievi, posti tra le valli dell’Arbia e dell’Elsa, costituiti da formazioni plioceniche marine, sabbiose in alto, argillose in basso. In particolare, la collina di Siena è tutta di sabbie giallastre sciolte od agglomerate, i tufi, come lo sono gran parte di quelle che si susseguono verso settentrione e verso ponente; a mezzogiorno invece, ed a levante, il paesaggio è dominato dalle argille biancastre, le crete.


Palazzo delle Poste (1933-36) a Roma, di Mario Ridolfi. La facciata con il rivestimento “a liste” in travertino toscano. (ph. Alfonso Acocella)

I terreni pliocenici, ricoperti talora da depositi di travertini quaternari (estesi soprattutto nei territori di Colle Val D’Elsa e di Rapolano), s’insinuano tra gruppi montuosi secondari, come quelli della Montagnola Senese, o terziari, come i monti del Chianti. Condizioni che certamente hanno favorito il prevalere dei laterizi nell’edilizia e nell’architettura di Siena, ma che d’altronde hanno concesso varietà e ricchezza di pietre ai costruttori d’una delle maggiori città d’arte d’Italia. (…) I travertini quaternari (…) a guisa di coltri orizzontali, spesse a volte qualche decina di metri, coprono qua e là i terreni pliocenici: un lembo d’oltre cinquanta chilometri quadrati trovasi presso Colle Val D’Elsa; un altro riveste, salvo qualche breve interruzione, il pliocene, dalla regione di Asciano a quella delle attuali sorgenti di Rapolano, cosicché, osserva un naturalista del Settecento, “si cammina sempre su un lastricato di travertino e di spugnone per il corso di quasi due miglia, estraendosi in varj luoghi di questo tratto i travertini, che sono d’uso per le fabbriche di Siena”. Difatti le tagliate delle cave mostrano spesso verso l’alto la roccia spugnosa più recente. Mentre i tipi migliori, per quanto sempre porosi od anche cellulari, stanno al basso. La durezza cresce nettamente dopo l’estrazione dalla cava; perciò riesce opportuna ed agevole la lavorazione della roccia appena tolta. Tale proprietà, insieme alle ottime doti di resistenza meccanica ed alla mancanza di gelività, spiegano la notevole diffusione del travertino senese, anche ai nostri tempi. Il colore della pietra, spesso gradevolmente zonata, va dal bianco al giallognolo; di rado è brunastro».5
All’interno di questo volume l’ampio saggio di Davide Turrini sul comprensorio estrattivo e trasformativo senese, fornisce dati e consegna testimonianze tangibili sull’attività storica ed attuale del Consorzio del Travertino di Rapolano che, insieme alla Regione Toscana, ha sostenuto la ricerca sul territorio e la stessa pubblicazione dell’opera. A tale saggio – insieme a quello di Anna Maria Ferrari relativo, specificatamente, al travertino e alla sua genesi – rimandiamo il lettore per ogni ulteriore approfondimento.6

Del travertino: l’essere della materia
Tale litotipo, definibile come roccia concrezionata a struttura microcristallina (con genesi sedimentaria in corrispondenza di acque termali, bacini lacustri, sorgenti e cascate), raggruppa specie litologiche di natura carbonatica di origine chimica o biochimica, la cui formazione è avvenuta attraverso la precipitazione del bicarbonato di calcio disciolto nell’acqua, con successiva deposizione in carbonato di calcio su supporti prevalentemente vegetali. In altri termini la formazione dei travertini è da mettere in relazione alla risalita e fuoriuscita in superficie – in corrispondenza dello sbocco di sorgenti – di acque termominerali particolarmente ricche di carbonato di calcio. La genesi, dovuta ad un continuo e progressivo accumulo di materiale carbonatico dalle zone di dissoluzione a quelle di deposizione, ha comportato una sedimentazione di tali rocce secondo stratificazioni parallele orizzontali, a volte segnate da marcate variazioni di colore e da porosità diffuse.
Da un punto di vista mineralogico è da evidenziare come il carbonato di calcio (sotto forma di calcite, con un contenuto medio generalmente superiore al 95%) rappresenta il componente principale del travertino; elementi accessori sono, invece, alcuni minerali argillosi, il quarzo, ossidi e idrossidi di ferro e manganese, lo zolfo, il gesso, la mica bianca, le cloriti.
Portatrici di specifici caratteri morfogenetici del materiale sono le impronte vegetali. Lungo le fasi di sedimentazione delle concrezioni la presenza e l’inglobamento, all’interno della massa litica in formazione, di essenze vegetali (quali steli, foglie, alghe, frammenti lignei) ha comportato, a seguito della loro decomposizione, il caratteristico assetto del materiale attraversato da numerose “incisioni”, “ferite”, cavità, a volte d’ordine centimetrico.
Spesso striato, con le sue evidenti lacune e i suoi vacuoli irregolari, il travertino ci invita a leggere così sulle superfici di taglio la sua genesi formativa, a indagare su quelle presenze inglobate nel materiale in tempi geologici lontani: quei vegetali – o, più raramente, quei piccoli organismi: minuscoli invertebrati terrestri o molluschi d’acqua dolce – restituiti a noi in forma “latente” dopo il distacco dalla roccia o il taglio meccanico di fabbrica.


Palazzo delle Poste (1933-36) in via Marmorata a Roma, di Adalberto Libera. Dettaglio della facciata in travertino. (ph. Alfonso Acocella)

L’incidenza volumetrica della tessitura vacuolare è significativamente variabile da giacimento a giacimento, come pure da strato a strato all’interno di una medesima bancata di roccia. In conseguenza di tale variazione percentuale dei vuoti si registrano valori di peso del materiale oscillanti fra i 2300 e i 2700 Kg/mc. In genere la quantità di vuoti si distribuisce all’interno di un range molto ampio: dal 2 al 45% del volume complessivo della roccia; le varietà meno compatte, caratterizzate da numerosi e macroscopici vacuoli, sono denominate nel linguaggio corrente “pietre spugne” o “tufi calcarei”; normalmente al loro interno l’incidenza dei vuoti è superiore al 20% del volume totale. I travertini, per quanto porosi, presentano buone caratteristiche di antigelività, di resistenza meccanica e di durevolezza che li rendono particolarmente indicati per le applicazioni costruttive.
Marco Giamello ci fornisce elementi interpretativi sul ruolo fondamentale svolto dalla struttura vacuolare del materiale: «In particolare la struttura porosa, comune a tutti i materiali lapidei, varia entro ampi limiti anche in materiali che posseggono analoga composizione mineralogica, come ad esempio le rocce carbonatiche, il travertino, altri calcari e marmi, costituite prevalentemente da calcite. A parità di porosità totale, intesa come percentuale del volume dei vuoti rispetto al volume totale, si possono avere strutture con diversa distribuzione dei pori in funzione del loro diametro. Sono proprio le dimensioni dei pori che, per assorbimento capillare, favoriscono l’ingresso nella roccia di acqua e quindi l’inizio e il procedere dei fenomeni fisico-chimici che portano al degrado della pietra.
Il travertino, a differenza di altri litotipi quali marmi e arenarie, possiede una elevata porosità, costituita per la maggior parte da macropori, ossia vuoti di notevoli dimensioni. All’interno di tale macroporosità, i cristalli di neoformazione per precipitazione dei sali solubili e i cristalli di ghiaccio hanno a disposizione spazio sufficiente per accrescersi, senza esercitare pressioni sulle pareti dei pori. Vengono così ad essere annullati gli effetti disgreganti dei processi alterativi legati ad aumenti di volume e viene limitata la formazione di incrostazioni carbonatiche sulla superficie. Questo peculiare comportamento fa sì che il travertino possegga una buona durevolezza, intesa come resistenza nel tempo ai processi alterativi».7
Rispetto ai travertini esteri, caratterizzati da cromatismi particolari e spesso esuberanti, i travertini italiani mettono a disposizione dell’attività costruttiva una famiglia di litotipi ben variati quanto a disegno tessiturale, ma abbastanza “omogenei” e “confrontabili” secondo una tavolozza cromatica che dai toni più chiari – quali bianco, argento, beige, nocciola – passa al giallo dorato, al rosato, al bruno.


Farnsworth House (1945-51) a Plano, di Ludwig Mies van der Rohe. Dettaglio angolare del podio pavimentato in travertino.

Con l’esposizione all’aria e il passare del tempo i tipi più chiari di travertino “fanno pelle”, ovvero assumono una caratteristica e morbida patina tendente al giallo dovuta, in genere, all’ossidazione dei sali ferrosi in essi contenuti; in particolare i cristalli di pirite – disseminati all’interno della massa del materiale – si trasformano in limonite che conferisce alla pietra un “color biondo”, così tipico soprattutto nel travertino romano.
La tonalità calda e omogenea del materiale, unitamente all’epidermide vibrante nelle mutevoli condizioni di esposizione alla luce che agisce sulla tessitura dei pori, ha fatto del travertino una pietra molto apprezzata per l’originalità dei caratteri espressivi; a questa qualità si è aggiunto, storicamente, il valore eminentemente costruttivo di pietra massiva, resistente, disponibile sia alla mano dello scalpellino (e dello scultore) che alla formalizzazione plastica dell’architetto.
Le elevate caratteristiche di durevolezza e di resistenza meccanica (con carichi di rottura che si spingono fino ai 120 MPa), unite alla lavorabilità del materiale, hanno contribuito a far affermare il travertino nell’architettura italiana ed internazionale, ben oltre le ristrette aree territoriali di estrazione. In particolare la buona configurabilità e modellazione è dovuta alla significativa presenza di umidità nella massa rocciosa appena escavata che la rende “docile” agli utensili e ad ogni trattamento specifico. Non appena il travertino si asciuga, in relazione alla progressiva perdita del tenore acqueo, il materiale “cambia stato” con assunzione di maggiore solidità e durezza che diventano, con il tempo, veramente elevate.
Negli ultimi decenni la struttura dei comparti trasformativi italiani del travertino – tradizionalmente caratterizzata da un’escavazione e lavorazione di tipo artigianale, indirizzata alla configurazione di elementi prevalentemente in solido: blocchi e bozze da muro, marcapiani, cornici, colonne, masselli da rivestimento, sculture, manufatti per il design urbano – è stata profondamente adeguata al settore delle produzioni più industriali e seriali, rinunciando a molte delle sue prerogative storiche.
Conseguentemente anche il travertino – apprezzato storicamente per quel suo essere materiale corposo, solido e per le condizioni di economicità d’uso pur in spessori massivi – è stato avviato ad un’esistenza “riduttiva” e “semplificata”, registrando l’omologazione del ciclo produttivo contemporaneo di tipo seriale e standardizzato. Prodotti tipici sono i blocchi regolari di cava e gli elementi lastriformi che vengono accatastati, in gran numero e in rigido ordine, sui piazzali delle aziende in attesa di essere immessi nel circuito di un’edilizia di massa sempre più seriale e lontana da una progettualità architettonica valorizzativa dell’apporto sostanziale dei materiali.
Quasi completamente respinto in secondo piano è l’uso del travertino quale materia resistente e plastica, capace di conferire solidità, volume, massa all’architettura attraverso piani murari lisci o sagomati, superfici “grezze” o a bugnato dal valore espressivo ancor più fortemente chiaroscurale. Gli architetti dovrebbero ritornare a guardare l’uso tipicamente costruttivo rintracciabile nelle “città del travertino” – da quelle d’età classica, come Roma o Perugia, ai centri medioevali di Siena, Rieti, Ascoli Piceno, Ancona – per capire appieno il materiale e per assimilarne la forte personalità plastica, solida, corposa.
Vorremmo, in altri termini, di nuovo additare, attraverso l’occasione del volume sul Travertino di Siena, modi costruttivi del materiale non indirizzati unicamente verso il tema del rivestimento sottile con lastre che foderano, in esterno od interno, superfici parietali o pavimentali.
La continuità d’uso che si registra in alcune città del Paese fanno del travertino un materiale tipico della tradizione italiana; ma numerosi sono gli esempi che evidenziano una veicolazione internazionale di tale pietra. Nell’architettura contemporanea – grazie all’aura che gli deriva dall’essere materiale della grandiosità romana – troviamo il travertino declinato attraverso forme raffinate ed essenzializzate della stagione del Moderno in opere di Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Mies van der Rohe, Louis Kahn, Carlo Scarpa e – più recentemente – nelle architetture di Alberto Campo Baeza, Richard Meier, Renzo Piano, Rem Koolhaas, David Chipperfield, Ortner & Ortner, 3N Architects, Mansilla + Tuñón Arquitectos (solo per citare alcuni dei protagonisti della scena internazionale); opere interpretate criticamente nel saggio di Luigi Alini che chiude il volume e al quale rimandiamo il lettore per ogni approfondimento.

di Alfonso Acocella

Note:
Francesco Rodolico, “Introduzione”, p. 20, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1965, (ed. or. 1953), pp. 500.
Giuseppe Cozzo, “Marmi e pietre” p. 53 in Ingegneria romana, Roma, Multigrafica Editrice, 1970 (ed. or. 1928), pp. 317. Per una trattazione sull’uso del travertino all’interno dell’architettura romana d’età imperiale si veda: Giuseppe Lugli, “Lapis Tiburtinus (travertino)” pp. 319-333 in La tecnica edilizia dei romani, Roma, Bardi, 1988 (ed.or. 1957), pp. 741. Per gli usi in epoca moderna e contemporanea si veda: Enrico Clerici, “Il travertino di Fiano Romano”, Bollettino del Regio Comitato Geologico nn. 3-4, 1887, pp. 2-27; Giuliano Bellezza, L’industria del travertino romano nella prospettiva geografica, Roma, Ferri, 1973, pp. 47; Il travertino romano di Tivoli, Roma, ANIS, 1984, pp. 119; Luciana Rattazzi (a cura di), Sulla pietra di Roma, Roma, Edizioni Kappa, 1995, pp. 120; Silvano Olezzante, Gli uomini del travertino: l’attività estrattiva nell’area di Guidonia e di Tivoli, Roma, Ediesse, 1998, pp. 78; Incontro tra l’architettura e l’artigianato: idee per l’uso del travertino romano, catalogo della mostra, Roma, Prospettive, 2002, pp. 93; Marco Ferrero, Architettura di pietra nella Roma del Novecento, Roma, Palombi editori, 2004, pp. 143.
3 I tipi di travertino elencati da Giorgio Blanco sono: Travertino Ascolano (Ascoli Piceno), Travertino Bianco Spugnoso di Siena (Asciano, SI), Travertino della Selva (Poggio Moiano, RI), Travertino della Valpantena (Grezzana, VR), Travertino di Alcamo (Alcamo, TP), Travertino di Angera (Angera, VA), Travertino di Bagni di Lucca (Bagni di Lucca, LU), Travertino di Jano (Jano di Montaione, FI), Travertino di Latina (Fondi, LT), Travertino di Monsummano (Monsummano Terme, PT), Travertino di Orte (Orte, VT), Travertino di S.Casciano Bagni (S.Casciano Bagni, SI), Travertino Doré (Tivoli, RM), Travertino Ligure (Orco Feligno, SV), Travertino Maschio di Monte Nerone (Piobbico, PS), Travertino Montemarano (Montemarano, GR), Travertino oniciato di Poggio Moiano (Poggio Moiano, RI), Travertino romano (Tivoli, Guidonia-Montecelio, RM), Travertino Sabino (Poggio Moiano, RI), Travertino spugnoso colorato di Castiglione d’Orcia (Castiglione d’Orcia, SI), Travertino toscano (Rapolano, SI).
Giorgio Blanco, “Travertino” pp. 218-221 in Dizionario dell’Architettura di pietra, Roma, Carocci, 1999, pp. 299.
4 Per il travertino piceno si vedano: Giovanni Poli, Il travertino, la pietra nobile ascolana, Ascoli Piceno, STE, 1952, pp. 46; Roberto Colacicchi, Carlo Boni (a cura di), Indagine geologica sui travertini della provincia di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, C.C.I.A.A., 1966, pp. 88; Giannino Gagliardi, Carlo Melloni, Carlo Paci, Ascoli Piceno: nel colore del suo travertino il calore di una città, Ascoli Piceno, APT, 1993, pp. 42; Travertino ascolano: storia, arte, artigianato, Acquaviva Picena, Fast Edit, 1998, pp. 67; Francesco Quinterio, Ianua Picena: materia e linguaggio nei fronti degli edifici di Ascoli, dal periodo preimperiale al Novecento, Ascoli Piceno, Istituto Cecco d’Ascoli, 2004, pp. 183; Pippo Ciorra e Stefano Papetti (a cura di), Ascoli città di travertino, in corso di stampa.
5 Francesco Rodolico, “Siena” p. 287, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze Le Monnier, 1965 (ed. or. 1953), pp. 500.
6 Per una trattazione specifca del travertino toscano di Rapolano si veda: Cristina Piersimoni (a cura di), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63; Consorzio Siena Export, Il travertino di Siena, Siena, Al. Sa. Ba., Grafiche, s.d., pp. 95.
7 Marco Giammello, “Impieghi nell’architettura senese e tipologie di alterazioni del travertino”, p. 55, in Cristina Piersimoni (a cura di), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63.

*Il post riedita il saggio pubblicato in Alfonso Acocella, Davide Turrini (a cura di), Travertino di Siena, Firenze, Alinea, 2010, pp. 303.
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31 Marzo 2011

English

TRAVERTINE, AN ITALIAN STONE
Location and characteristics of the material*

Versione italiana


The colonnade of St. Peter’s Basilica (1659-67) in The Vatican City, by Gian Lorenzo Bernini. (ph. Alfonso Acocella)

This introduction aims to above all celebrate the richness and variety of lithologies in Italy. These emerge in the Alps and through the long Apennine chain to the Puglia Tableland, reappearing within the peculiar topography of the country’s major islands (Sicily and Sardinia). The different varieties have provided a wide array of building materials, characterising the urban and rural architecture of these areas:
“Even among the stones characterising the buildings in some cities”, states Francesco Rodolico in the book Le pietre delle città d’Italia, “the differences are such that they are noticed by even the most distracted of travellers: the compact limestones of Trento, Brescia, Assisi or Sulmona, the soft ones of Lecce or Noto; the travertine of Ascoli Piceno; the grey sandstone of Cortona or the yellowish one of Volterra; the gneiss of Bellinzona; the volcanic tuff of Viterbo; the Etnean lava at Randazzo. Nor are such striking differences noticeable between distant cities only; the above-mentioned geological differences are also found locally, differentiating nearby cities in this particular aspect».1
The traditional use of stone in architecture has decreased significantly, especially in the second half of the 20th century. This material now often serves merely ornamental purposes, used as thin slabs for wall cladding or floor paving. At a time when the focus is on careful promotion of national resources and territorial identity, the moment has come to study once again traditional heritage as well as technologically advanced methods of construction in the search for innovative applied solutions.
With few exceptions, every Italian region still has a significant patrimony of stone materials that – thanks to the new, more powerful technologies for transforming quarried raw materials – may be exploited within the context of contemporary architecture.


Sienese Travertine quarry at Serre di Rapolano. (ph. Alfonso Acocella)

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Nowadays, if one excludes prized materials such as marble (a category mainly used for ornamental cladding), there remains the large group of stones and that of granites (characterised by varied typologies and geographic distributions) for possible stereotomic uses, i.e. for structural purposes or at least strongly contributing to the formation of architectural envelopes. This is the case of stone materials from central and southern Italy in particular and include travertine, the object of our study. Besides being economic and easily cut into blocks or thick slabs, it is considerably resistant and aesthetically pleasing. The group of rocks classified as travertine comprises a fairly homogeneous category of lithotypes. Variations and internal differences are limited to colouring and sedimentary position.
One of the largest and most ancient travertine deposits is in Tivoli, near Rome. Travertine derives its name from this town, which was known as Tibur in ancient Roman times. The Latin name for this stone, “lapis tiburtinus”, meaning “Tibur stone”, was corrupted to travertine in the medieval period. The sites that provided the construction material for so many monumental buildings in Roman antiquity over a period spanning more than twenty centuries are still operative. They are concentrated in the municipalities of Tivoli and Guidonia-Montecelio, where there are some thirty quarries. The uninterrupted supply of material from these sites has almost completely erased the more ancient traces of excavation.
Barco and Fosse are the specific sites in which Roman travertine was quarried. Via Tiburtina divides the two areas. To the south, Barco (in the Municipality of Tivoli), from which most of the stone material used in Roman construction under the Caesars was derived, and to the north, Fosse (Municipality of Guidonia-Montecelio), where all the stone for the most important works of Papal Rome from the 16th century on, for example the monumental colonnade of St. Peter’s Basilica and the Spanish Steps, was quarried.
The vastness and size of these quarries give an idea of the importance of travertine. In the 1st century BC this lithotype became the “representative material” of Imperial architecture, supplanting the less resistant and durable stones (tuff, peperine, Gabine stone) used for centuries in the Republican period. Such impressive traces of quarrying activity through the centuries for the monumental buildings of Rome are highlighted by Giuseppe Cozzo: «The largest travertine quarry used by the Romans was that of the Barco, from which a very compact stone, hard to work, is extracted. Its enormous size sustains the hypothesis that it was if not the only, certainly the main quarry worked by the Romans. Senator Lanciani, who has had occasion to study it carefully, found that it was more than two and a half kilometres long between facing vertical walls. Its surface area reaches five hundred thousand square meters, and about five and a half million cubic meters of travertine have been quarried».2
The technical and aesthetic qualities of this stone are such that its use has always been suitable and gives striking results. Travertine is thus the architectonic material which characterises the city of Rome. First a symbol of the splendour of Imperial and Papal Rome and now, in a sense, of Italy in the world.
The industrial sector of Roman travertine preserves a certain prestige due to its longstanding tradition and the quality of workmanship. It currently comprises several dozen companies of medium to large size covering all aspects of travertine quarrying and processing for national and international markets, as well as small firms and artisan workshops.
Leaving the area of “lapis tiburtinus” and looking to the more general geology of Italy, the availability of travertine and its use was much more varied and widespread in the ages subsequent to Antiquity.
Giorgio Blanco, in his Dizionario dell’Architettura di Pietra (Dictionary of Stone Architecture), lists twenty-three different types of travertine quarried in Italy.3 The largest travertine deposits and most of these varieties are concentrated in just a few areas: along the river valleys of the Arno, the Tevere, the Aniene and the Sacco. The major national areas of extraction – besides the districts of Tivoli and Guidonia Montecelio in Lazio previously mentioned – are located in the areas of Ascoli Piceno in the Abruzzi and of Siena (in particular Rapolano Terme) in Tuscany.


The German Pavilion by Ludwig Mies van der Rohe for the Barcelona Universal Exposition (1929/1983-86). (ph. Alfonso Acocella)

At Ascoli Piceno, travertine has been quarried for centuries and is the dominant material in the rich fabric of historical centres in the area. This lithotype is to this day present in reasonable quantities in the upper valley of the River Tronto, especially in the stretch between Ascoli and Acquasanta Terme, where the formation of deposits is linked to tectonic motion. Thermomineral waters are discharged from the deep fractures in the Acquasanta anticline; these waters are responsible for carbonate precipitation and the formation of travertine deposits. Thanks to its abundance, this silvery grey stone has always been the main material used to construct homes, buildings of importance and infrastructures. Between the medieval period and the Renaissance, it characterised most of the monumental buildings in Ascoli Piceno, giving the city a unique aspect that is largely intact to this day. Efforts are currently being made to revive and relaunch the travertine extraction and processing industry of Ascoli by widening its market from a local to a regional and national scale.4
In contrast to the still modest processing capacity of the district of Ascoli, that of Tuscany is growing. Although some historical stones in the territory of Siena – yellow Siena marble, the black marble of Murlo, macigno sandstone – are increasingly rare, there are still considerable banks of travertine, as described by Francesco Rodolico: «The hilltop of Siena (characterized by three converging crests, each corresponding to one “third” of the city) is part of a series of hills between the Arbia and Elsa valleys consisting of Pliocene marine formations that are sandy at the top and clayey at the bottom. In particular, the hill of Siena consists entirely of loose or consolidated yellowish sands called tufo, as are most of the hills that continue to the north and west; to the south and east, instead, the landscape is dominated by the whitish clays of the crete.
The Pliocene terrains, sometimes covered by Quaternary travertine deposits (especially in the areas of Colle Val d’Elsa and Rapolano), crop out between groups of Mesozoic hills, such as those of the Montagnola Senese, or Cenozoic ones, like the Chianti hills. This setting certainly favoured the predominance of bricks in the buildings and architecture of Siena, at the same time providing a wide variety and wealth of stones to the builders of one of Italy’s major art cities (…).
Here and there the Quaternary travertine (…), in horizontal layers of up to several tens of meters, covers the Pliocene terrains: a strip of more than fifty square kilometres lies near Colle Val d’Elsa. With only a few brief interruptions, another covers the Pliocene terrains from Asciano to the present-day springs of Rapolano. An 18th century naturalist commented, “one treads on a paving of Travertine and Spugnone [a porous limestone] for almost two miglia, there being travertine quarries along this stretch that are used for construction in Siena”. The quarry cuts often show the more recent spongy rock towards the top. The best types, though always porous or even cellular, lie towards the bottom. The hardness [of travertine] increases markedly after extraction from the quarry, so that it is opportune and easier to work the freshly quarried rock. This characteristic, along with its excellent mechanical resistance and negligible frost susceptibility, explain the widespread diffusion of Sienese travertine to this day. The colour of the stone, which is often pleasantly striated, varies from white to yellowish; it is rarely brownish».5


Palazzo delle Poste (1933-36) in Rome, by Mario Ridolfi. Facade clad with “strips” of Tuscan travertine. (ph. Alfonso Acocella)

Within this book, the exhaustive essay by Davide Turrini on the quarrying and processing district of Siena provides data and tangible evidence of historic and current activity undertaken by the Consorzio del Travertino di Rapolano. Along with the Regione Toscana, this consortium has sustained research on the territory and the publication of this volume. For further information the reader can refer to this essay – and to that by Anna Maria Ferrari regarding travertine and its genesis.6

On travertine: the essence of the material
This lithotype may be considered a concretionary rock with a microcrystalline structure (formed through sedimentation near thermal waters, lakes, springs and waterfalls). It comprises different carbonate lithologies of chemical or biochemical origin: when the calcium bicarbonate dissolved in water precipitates, it forms calcium carbonate deposits that encrust objects of mainly plant origin. In other words, the formation of travertine is linked to the upwelling of thermomineral waters particularly rich in calcium carbonate that spring from the surface of the earth. Its genesis, due to a continuous and progressive accumulation of carbonate material from the zones of dissolution to those of precipitation, has led to the sedimentation of these rocks in parallel, horizontal layers sometimes characterised by marked variations in colour and widespread porosity.
Note that, from a mineralogical standpoint, calcium carbonate (in the form of calcite) represents the main component of travertine (generally more than 95%). The accessory elements include some clay minerals, quartz, iron and manganese oxides and hydroxides, sulphur, gypsum, white mica and chlorites.
The fossil moulds of vegetation give the material specific morphogenetic characteristics. During sedimentation, vegetation (e.g. stems, leaves, algae, twigs) is incorporated within the forming calcareous concretion; its subsequent decomposition produces numerous characteristic “incisions”, “wounds” and cavities, sometimes of centimetric size, in the stone material.
Often striated, with its evident gaps and irregular pores, travertine invites us to decipher its formation history from the cut surface, to investigate the materials that were incorporated in its geological past. Vegetation or, more rarely, small organisms such as tiny terrestrial invertebrates or freshwater molluscs are returned to us in “latent” form when the rock is quarried or when it is mechanically cut in a factory.
The volumetric proportion of voids varies significantly from one deposit to another, as well as from one layer to another within the same rock bank. Due to this percent variation in pore volume the density of travertine varies from 2300 to 2700 Kg/m3. The quantity of pores generally ranges widely from 2 to 45% of the total rock volume. The less compact varieties, characterised by numerous macroscopic cavities, are commonly known as “sponge stones” or “calcareous tufa”; pores normally make up more than 20% of the total rock volume.
Notwithstanding its porosity, travertine has low frost susceptibility, and good mechanical resistance and durability that make it particularly suited for construction.


Palazzo delle Poste (1933-36) in via Marmorata in Rome, by Adalberto Libera. Facade detail showing the travertine cladding. (ph. Alfonso Acocella)

Marco Giamello explains the essential role played by the porosity of the material: «In particular, the porous structure common to all stone materials varies widely, even in materials with a similar mineralogical composition and consisting mainly of calcite (for example carbonate rocks, travertine, other limestones and marbles). For a given total porosity, defined as the percentage of pore volume with respect to the total volume, it is possible to have structures with different pore distributions as a function of pore diameter. The size of pores is important in favouring the capillary absorption of water and the initiation of processes that lead to the physical-chemical degradation of the stone.
In contrast to other lithotypes such as marble and sandstone, travertine has a high porosity mostly determined by the presence of macropores, i.e. pores of considerable size. Within this macroporosity, new crystals formed by precipitation of soluble salts and ice crystals have enough room to grow without putting pressure on the pore walls. Weathering processes linked to an increase in volume are thus annulled, and the formation of carbonate encrustations on the surface is limited. Thanks to this peculiarity, travertine has good durability, defined as the resistance to alteration in time».7
With respect to foreign travertine, characterized by particular, often vivid colours, Italian travertine forms a group of lithotypes with varied textural patterns but a rather “homogeneous” colour palette which ranges from light tonalities – such as white, silver, beige and hazelnut – to golden yellow, pinkish and brown.
Through exposure to air and the passage of time the lighter coloured travertine develops an “outer skin”, i.e. a characteristic soft, yellowish patina due to the oxidation of iron salts in the stone. In particular, pyrite crystals scattered within the rock mass are transformed into limonite, which gives the stone a “blonde colour” typical of Roman travertine especially.
The warm, homogeneous colour of the material, along with its vibrant surface under variable exposure to light (which interacts with the texture of pores), is such that travertine is greatly appreciated for its uniqueness. Along with this quality, historically the stone has been primarily valued as a massive, resistant building material which lends itself to be both shaped by the stoneworker (or sculptor) and moulded by the architect.
The high durability and mechanical resistance (with a tensile strength of up to 120 MPa), along with the workability of the material, have helped affirm the use of travertine in Italian and international architecture, well beyond the limited territories in which it is quarried. In particular, the relative ease with which it is worked and sculpted is due to the significant amount of water in the freshly quarried rock mass which makes it “docile” to utensils and all kinds of processing. As travertine dries it “changes state”: the progressive loss of water increases its solidity and hardness – parameters that in time reach very high values.
In the last decades the structure of the Italian working of travertine – traditionally characterized by artisan quarrying and processing and mostly focusing on the production of solid elements (masonry blocks and ashlar, sill courses, cornices, columns, slabs for facing, sculptures, products of urban design, etc.) – has been profoundly modified to produce more industrial items in series, thereby losing many of its traditional characteristics.


Farnsworth House (1945-51) in Plano, by Ludwig Mies van der Rohe. Corner detail of the deck paved in travertine.

As a result, even travertine – historically appreciated for its compact, solid nature and for its economic use in massive slabs – has been relegated to a “narrow” and “simplified” existence through its homologation in the modern serial and standardized production cycle. Typical products are the regular quarry blocks and the slabs that are stacked in great number and in precise order in the yards of companies while waiting to be used in increasingly standardized mass housing projects which do not make the most of the actual qualities of materials.
The use of travertine as a resistant, plastic material able to confer solidity, volume and weight to architecture, through smooth or modelled wall facades, “rough” or ashlar surfaces with great chiaroscuro expressive value, has been assigned secondary importance. Its typical use in construction can be traced in the “travertine cities” – from those of the classical period, such as Rome or Perugia, to the medieval centres of Siena, Rieti, Ascoli Piceno, Ancona, etc. Architects should return to these cities to observe and fully understand this material and absorb its markedly plastic, solid, rich personality.
In other words, we would like to take advantage of this volume on Sienese Travertine to once again indicate the many possible uses of this building material, not only as thin slabs for lining, externally or externally, wall surfaces and pavements.
Its continuous use recorded in some Italian cities no doubt makes it a material typical of Italian tradition; however, there are numerous examples of its international diffusion. In contemporary architecture – thanks to the aura derived from it having been the material of Roman magnificence – the use of travertine is toned down in the refined and essential forms of Modernism found in works by Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Mies van der Rohe, Louis Kahn, Carlo Scarpa and – more recently – in the architectural design of Alberto Campo Baeza, Richard Meier, Renzo Piano, Rem Koolhaas, David Chipperfield, Ortner & Ortner, 3N Architects, Mansilla + Tuñón Arquitectos (to name only a few protagonists of the international scene); these works have been critically discussed in the essay by Luigi Alini, to which the reader can refer for further details.

by Alfonso Acocella

Notes:
1 Francesco Rodolico, “Introduzione” p. 20, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze Le Monnier, 1965 (ed. or. 1953), pp. 500.
2 Giuseppe Cozzo, “Marmi e pietre” p. 53 in Ingegneria romana, Roma, Multigrafica Editrice, 1970 (ed. or. 1928), pp. 317. For a discussion on the use of travertine in Imperial Roman architecture see: Giuseppe Lugli, “Lapis Tiburtinus (travertino)” pp. 319-333 in La tecnica edilizia dei romani, Rome, Bardi, 1988 (ed.or. 1957), pp. 741.
For its use in the modern and contemporary period see: Enrico Clerici, “Il travertino di Fiano Romano”, Bollettino del Regio Comitato Geologico nn. 3-4, 1887, pp. 2-27; Giuliano Bellezza, L’industria del travertino romano nella prospettiva geografica, Roma, Ferri, 1973, pp. 47; Il travertino romano di Tivoli, Rome, ANIS, 1984, pp. 119; Luciana Rattazzi (edited by), Sulla pietra di Roma, Rome, Edizioni Kappa, 1995, pp. 120; Silvano Olezzante, Gli uomini del travertino: l’attività estrattiva nell’area di Guidonia e di Tivoli, Rome, Ediesse, 1998, pp. 78.
3 Giorgio Blanco lists the following types of travertine: Travertino Ascolano (Ascoli Piceno), Travertino Bianco Spugnoso di Siena (Asciano, SI), Travertino della Selva (Poggio Moiano, RI), Travertino della Valpantena (Grezzana, VR), Travertino di Alcamo (Alcamo, TP), Travertino di Angera (Angera, VA), Travertino di Bagni di Lucca (Bagni di Lucca, LU), Travertino di Jano (Jano di Montaione, FI), Travertino di Latina (Fondi, LT), Travertino di Monsummano (Monsummano Terme, PT), Travertino di Orte (Orte, VT), Travertino di San Casciano Bagni (San Casciano Bagni, SI), Travertino Doré (Tivoli, RM), Travertino Ligure (Orco Feligno, SV), Travertino Maschio di Monte Nerone (Piobbico, PS), Travertino Montemarano (Montemarano, GR), Travertino oniciato di Poggio Moiano (Poggio Moiano, RI), Travertino romano (Tivoli, Guidonia-Montecelio, RM), Travertino Sabino (Poggio Moiano, RI), Travertino spugnoso colorato di Castiglione d’Orcia (Castiglione d’Orcia, SI), Travertino toscano (Rapolano, SI).
Giorgio Blanco, “Travertino” pp. 218-221 in Dizionario dell’Architettura di pietra, Rome, Carocci, 1999, pp. 299.
4 For the travertine from Ascoli Piceno see: Alessandro Martelli, “Note geologiche e paleontologiche sul Travertino di Ascoli Piceno”, Rivista Italiana di Paleontologia n. 2, 1908, pp. 97-102; Giovanni Poli, Il travertino, la pietra nobile ascolana, Ascoli Piceno, STE, 1952, pp. 46; Roberto Colacicchi, Carlo Boni (edited by), Indagine geologica sui travertini della provincia di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, C.C.I.A.A., 1966, pp. 88; Giannino Gagliardi, Carlo Melloni, Carlo Paci, Ascoli Piceno: nel colore del suo travertino il calore di una città, Ascoli Piceno, APT, 1993, pp. 42; Travertino ascolano: storia, arte, artigianato, catalogo del concorso nazionale per opere di scultura e di arredo urbano o sacro, Acquaviva Picena, Fast Edit, 1998, pp. 67; Francesco Quinterio, Ianua Picena: materia e linguaggio nei fronti degli edifici di Ascoli, dal periodo preimperiale al Novecento, Ascoli Piceno, Istituto Cecco d’Ascoli, 2004, pp. 183; Pippo Ciorra and Stefano Papetti (edited by), Ascoli città di travertino, in press.
5 Francesco Rodolico, “Siena” p. 287, in Le pietre delle città d’Italia, Florence Le Monnier, 1965 (ed. or. 1953), pp. 500.
6 For a focused discussion of Tuscan travertine from Rapolano see: Cristina Piersimoni (edited by), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63; Consorzio Siena Export, Il travertino di Siena, Siena, Al. Sa. Ba., Grafiche, s.d., pp. 95.
7 Marco Giammello, “Impieghi nell’architettura senese e tipologie di alterazioni del travertino”, p. 55, in Cristina Piersimoni (edited by), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63.

*This essay is part of the book edited by Alfonso Acocella, Davide Turrini, Sienese travertine, Firenze, Alinea, 2010, pp. 303.

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28 Marzo 2011

News

Progettare e costruire con la pietra


Copertina dell’inserto: Smiljan Radic, casa Pite, Papudo, Cile, 2003-2005; le pietre monolitiche di Marcela Correa all’ingresso della casa affacciata sull’oceano, © Cristóbal Palma.

Il 14 marzo scorso, nell’elegante spazio Casabella Laboratorio in via Marco Polo 13 a Milano, la rivista “Casabella” e Marmomacc (Mostra Internazionale di Pietre, Tecnologie e Design) hanno presentato Progettare e costruire con la pietra, l’inserto monografico allegato a al numero 799 di “Casabella” di marzo 2011 dedicato ai materiali lapidei – marmi, pietre, graniti, agglomerati – e al loro utilizzo nell’ambito dell’architettura e del design.
Sotto l’egida di Francesco Dal Co, direttore della rivista, e Mauro Albano, brand manager di Marmomacc, l’allestimento della sala ha presentato, attraverso pannelli disposti lungo tutte le pareti e una vivace sequenza di slide proiettate in loop, una selezione dei servizi e degli articoli più interessanti dell’inserto.
Disponibile per la consultazione in varie copie sull’ampio tavolo centrale dello spazio espositivo, il fascicolo monografico dà un quadro completo e aggiornato delle possibilità espressive, compositive, prestazionali e applicative attualmente disponibili nel settore lapideo. Utile come momento conoscitivo atto a interpretare al meglio le qualità estetiche e le caratteristiche tecniche di questi materiali, l’inserto racconta una realtà che spesso è poco conosciuta dal mondo del progetto.


Fotografia dell’allestimento al Casabella Laboratorio

Nella prima pagina di presentazione i due curatori Evelina Bazzo e Livio Salvadori sottolineano come abbiano voluto creare un riferimento temporale ed esaustivo sul marmo – dal design all’art design, dall’architettura alla formazione, dalle associazioni alla più importante mostra internazionale di riferimento, il Marmomacc; per “portare in primo piano la profonda sapienza artigianale e le innovative tecniche di trattamento e trasformazione, le lavorazioni tradizionali e i processi produttivi all’avanguardia, nonché i metodi di posa in opera che recuperano e reinterpretano in chiave moderna gli esempi del passato e le soluzioni applicative di nuova concezione”.
Il primi lavori presentati sono realizzati dai cileni Smiljan Radic e Marcela Correa. Tra i più sensibili e capaci esponenti della nuova generazione di progettisti, la loro opera si distingue per la ricerca continua della relazione tra scultura e architettura, un dialogo tra discipline simili teso all’esplorazione e alla riproposizione di luoghi e spazi naturali all’interno della forma costruita.


Smiljan Radic e Marcela Correa, Ristorante Mestizo, Santiago del Cile, Cile 2005-2007; il fronte principale del ristorante rivolto verso il parco, © Gonzalo Puga

Nella sezione centrale dell’inserto sono illustrate le realizzazioni di alcune delle più grandi aziende italiane del settore (Budri, CMC – Consorzio dei Marmisti della Valle del Chiampo, Kreoo by Decormarmi, Franchi Umberto Marmi, Grassi Pietre, Lithos Design, Pedrera, Pibamarmi, Regione Puglia – Sprint Puglia, Trentino Sprint) in collaborazione con firme del design internazionale.
Esemplare l’allestimento di Patricia Urquiola con Budri, Marblelace, che unisce alla modellazione tridimensionale di blocchi monolitici la precisione dell’intarsio, giocato su un pattern geometrico ripetuto e di chiara matrice digitale. Nella forma di “altorilevo”, Urquiola ha portato il marmo verso una dimensione di apparente leggerezza, quasi un pizzo, una tenda lapidea che non solo sottolinea le possibilità offerte dalle nuove tecniche di lavorazione, ma sposta, tramite un convincente scarto creativo, l’idea del marmo assunto come lastra bidimensionale verso sorprendenti dimensioni espressive. La stessa Urquiola afferma di avere avuto pregiudizi infondati su questo materiale: “pensavo che una lastra di marmo fosse già un manufatto completo e compiuto, ma dopo avere lavorato qualche anno con questo materiale e in stretto rapporto con l’azienda, mi sono ricreduta, scoprendo delle incredibili e insospettate possibilità”. Al piccolo modulo ondulato ripetibile all’infinito per comporre screen variabili e di massima flessibilità, corrisponde il suo residuo, impiegato per costruire altre tessiture, paraventi filtranti che ricordano le lavorazioni artigianali degli antichi palazzi indiani.


Patricia Urquiola, Progetto Marblelace per l’azienda Budri, Marmomacc Meets Design 2010, © Alberto Parise

Non sono solo affermati designer (nell’inserto si trovano realizzazioni di Enzo Mari, Tobia Scarpa, Michele de Lucchi con Pibamarmi…) a misurarsi con il materiale lapideo, ma anche giovani architetti, come i quattro che hanno interpretato e plasmato la pietra per Sprint Puglia creando originali collezioni per il design di interni. I pezzi realizzati da Luca Nichetto, Tomás Alonso, Stefan Diez e Philippe Nigro riescono a rappresentare tutte le tipologie litiche pugliesi: in ogni opera sono riconoscibili le sfumature di un diverso bacino estrattivo.


Luca Nichetto, Progetto Cuezzi per Decor Martena – Regione Puglia, Marmomacc Meets Design 2010, © Alberto Parise

Ancora molte altre le realizzazioni e i progetti presentati nel volume, tutte a testimoniare come la pietra può trasformarsi oggi da semplice materiale della tradizione a componente evoluto del progetto di architettura e design contemporaneo.

di Nicoletta Gemignani

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26 Marzo 2011

Post-it

Prestazioni e design negli ambienti interni dell’abitare contemporaneo: i materiali di finitura

Da quest’anno l’appuntamento fieristico del MADE expo (Milano Architettura Design Edilizia) organizza MADE expo in tour, un ciclo di conferenze sul territorio nazionale atto a coinvolgere aziende, professionisti e appassionati del settore sui temi più caldi del costruire.

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21 Marzo 2011

XfafX

L’XfafX e il suo antecendente (Xfaf)

English version

Il Decennale di fondazione
Nel presentare ufficialmente l’avvio di XfafX, progetto culturale legato alle celebrazioni del Ventennale della Facoltà di Architettura di Ferrara, ci è sembrato in qualche modo logico e utile riconnetterlo – in uno spirito di continuità e, allo stesso tempo, di evoluzione – al suo fortunato antecedente rappresentato dal Decennale di fondazione Xfaf, iniziativa ideata e promossa da Graziano Trippa, Alfonso Acocella, Gabriele Lelli, Theo Zaffagnini.
Restituire una sintesi dell’X concept, dei contenuti e degli eventi più significativi di Xfaf – svolti lungo tutto l’arco del 2003 – riteniamo possa essere utile a saldare il passato al presente, offrendoci anche l’occasione della ripresa, della rinascita del progetto culturale tenuto in vita in quest’ultimo decennio attraverso una serie continuata di eventi, lectio magistralis. lauree honoris causa, lectures internazionali fino alla presenza di Daniel Libeskind nel giugno 2010.
Il Decennale di fondazione ha affidato al segno X il proprio messaggio comunicativo, strategico e riverberativo: una X campita di giallo, in omaggio al colore istituzionale della Facoltà di Architettura dell’Ateneo ferrarese.
Ripercorrere le motivazioni e l’ambivalenza semantica assegnata alla X di Xfaf è di qualche interesse.
In primis vi è il significato meramente numerico. Già presente negli alfabeti della Grecia e della Magna Grecia la lettera X viene accolta ed assorbita nella scrittura di Roma dove, declinata al maiuscolo, indica il numero dieci. Si tratta, verosimilmente, di una di saldatura, in corrispondenza dei vertici di due V, segni identificativi del numero cinque.
X, quindi, innanzitutto come simbolo iconico temporalizzato del Decennale, dei primi due lustri di vita e di intensa attività della Facoltà di Architettura di Ferrara (1991-2001).
Ma c’è stato anche un altro modo di rapportarsi al segno X, traguardandolo da un punto di vista programmatico e sinergico.
Con riferimento alle specifiche caratteristiche morfologiche della lettera X – che intreccia due aste lineari posizionate obliquamente con evidente funzione di mutuo sostegno – è possibile notare come tali elementi geometrici, si sovrappongano, sorreggendosi reciprocamente. Ecco nascere, allora, l’idea di fondo che ha accompagnato il progetto culturale Xfaf, dove la X ha assunto progressivamente il significato esplicito ed espansivo di “cross”, di intersezione quale azione dinamica protesa a varcare, a superare i confini settoriali del mondo universitario, chiuso ed autoreferenziale.
Si è “intrecciato” il progetto universitario dell’Xfaf con le Istituzioni cittadine, regionali, nazionali e soprattutto con le Aziende private di produzione detentrici di quelle risorse economiche indispensabili per l’esecuzione del progetto stesso attraverso un’azione di fund raising istituzionale.
In sintesi un X concept di cross fertilisation che ha voluto, e vuole tuttora ripensare, il ruolo dell’Università e della Facoltà di Architettura di Ferrara in particolare indirizzandolo ad un interscambio, ad una condivisione di risorse intellettuali, progettuali, economiche rispetto al settore produttivo più dinamico del Paese, invitato ad una politica di investimento per la cultura e ad una visione di responsabilità sociale.

Il tema dell’Xfaf. Progetto e costruzione
L’asset principale delle iniziative culturali dell’Xfaf svoltesi nel 2003 ha ruotato intorno al tema disciplinare di Progetto e Costruzione in architettura.
Tale scelta è da collegare all’identità del percorso formativo promossso dalla Facoltà di Ferrara legato sin dalle origini alla figura dell’architetto progettista che, tradizionalmente, assomma a sé il talento artistico dell’ideazione, unitamente al ruolo di regista e responsabile della qualità della costruzione.
Intorno a questa tesi di fondo – posta, tra l’altro, come radice della stessa crescita culturale della Facoltà di Architettura di Ferrara – è nata l’idea centrale di promuovere un ampio dibattito disciplinare invitando architetti di chiara fama dello scenario internazionale; figure di primo piano volutamente variegate quanto a sensibilità e modi di intendere il Progetto e la stessa Costruzione dell’opera architettonica.
Interrogarsi sullo statuto contemporaneo della disciplina nel quadro delle tendenze internazionali è stato allora – e vuole esserlo ancora – un modo per testimoniare la volontà di non chiudersi in un ambito culturale ristretto, guardando all’Europa e al mondo intero da parte della Facoltà di Architettura di Ferrara.
All’interno di questo orizzonte internazionale un interesse condiviso per la figura di Peter Zumthor e il suo lavoro di progettista-costruttore ha evidenziato – lungo l’iter fondativo del Decennale – la centralità di tale figura al punto da eleggerla come riferimento disciplinare.
L’idea di una Laurea Honoris Causa per Peter Zumthor è apparsa, a conclusione di un dibattito interno alla comunità scientifica della Facoltà, come un’occasione solenne e maieutica per dare un valore emblematico e memorabile al Decennale.
A questo riconoscimento onorifico è stato affidato un messaggio importante per additare alle giovani generazioni un Maestro severo ed esigente, poetico e costruttore. Un Maestro nell’interpretazione dei valori spaziali dell’architettura (la vera essenza della disciplina), nella produzione di suggestioni “scritte” con la fisicità della materia e con la regia della costruzione quale atto ineludibile di controllo dell’Opera.
La Laurea Honoris Causa a Peter Zumthor è stata conferita a conclusione del Decennale della Facoltà di Architettura di Ferrara nel dicembre 2003.
Amplissimo il panel delle personalità internazionali invitate; in occasione dell’Xfaf; ampia l’adesione ufficiale al progetto da parte degli architetti internazionali; numerose e qualificatissime le Lectio magistralis tenute in Facoltà con larghissima presenza di pubblico e di stampa.

A seguire i portagonisti invitati; in sottolineato le adesioni (al febbraio 2003)
Abalos – Herreros / Adjaye Associates / Aires Mateus & Associados / Stan Allen / Mariano Arana Sancez / Wiel Arets / Shigeru Ban / Baumschlager & Eberle / Jordi Bellmunt / Mario Botta / Paolo Burgi / Alberto Campo Baeza / Massimo Carmassi / Francesco Cellini / David Chipperfield / Claus en Kaan / Coop Himmelb(l)au / Dalnoky & Desvigne / Claudio D’Amato Guerrieri / Giancarlo De Carlo / Derrick De Kerckhove / Delugan Meissl Architects / Georges Descombes / Diller & Scofidio / Peter Eisemann / Carlos Ferrater / Foreign Offices Architects / Foster & Partners / Massimiliano Fuksas / Future System / Frank O. Gery / Gigon & Guyer / Cristophe Girot / Giorgio Grassi / Thomas Herzog / Herzog & De Meuron / Michael Hopkins / Steve Holl / Toyo Ito / Bernard Khoury / Waro Kishi / Mathias Klotz / Hans Kolloff / Kengo Kuma / Locaton & Vassal / Eusebio Leal Spenglel / Jaime Lerner / Daniel Libeskind / Greg Lynn / Angelo Mangiarotti / Mansilla & Tunon / Mecanoo / William J. Michell / Rafael Moneo / Glenn Murcutt / MVRDV / Adolfo Natalini / Pier Luigi Nicolin / Jean Nouvel / Nox Architects / OMA / Ortner & Ortner / Alfredo Payà / Jhon Pawson / Gilles Perraudin / Dominique Perrault / Renzo Piano Building Workshop / Boris Podrecca / Nino Portas / Paolo Portoghesi / Franco Purini / RCR Aranda Pigem Vilalta / Riegler Riewe Architects / Sancho-Madridejos / Sauerbruch Hutton Architects / Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa / Claudio Silvestrin / Alvaro Siza / Eduardo Souto De Moura / Mauro Staccioli / Studio Azzurro / Stephan Tischer / Bernard Tschumi / Van Berkel & Bos / Guillermo Vázquez Consuegra / Francesco Venezia / Viaplana & Pinon / West 8 / Riken Yamamoto / Franco Zagari / Peter Zumthor.

Lectio magistralis Xfaf (2003)


Contesto Baumschlager & Eberle
28 marzo 2003
presentazione: Andrea Rinaldi / contributo critico: Giovanni Leoni


Ordine Hans Kollhoff
28 marzo 2003
presentazione: Nicola Marzot / contributo critico: Alfonso Acocella


Blobs Greg Lynn
10 aprile 2003
presentazione: Gabriele Lelli / contributo critico: Antonino Saggio


Continuità Michael Hopkins
10 aprile 2003
presentazione critica: Theo Zaffagnini / contributo critico: Cristina Donati, Alfonso Acocella


Materia Shigeru Ban
9 maggio 2003

presentazione: Gabriele Lelli / contributo critico: Alfredo Zappa

Trame Kengo Kuma
21 maggio 2003
presentazione: Giovanni Corbellini / contributo critico: Alessandro Rocca


Sostenibile Thomas Herzog
11 giugno 2003
presentazione: Michele Ghirardelli / contributo critico: Mario Cucinella


Prossimo Future Systems
13 giugno 2003
presentazione: Antonello Stella / contributo critico: Luigi Prestinenza Puglisi


Solido Eduardo Souto de Moura
19 settembre 2003
presentazione: Theo Zaffagnini / contributo critico: Giovanni Leoni


Colore Sauerbruch & Hutton
31 ottobre 2003
presentazione: Gabriele Lelli / contributo critico: Luca Molinari


Superfici Aires Mateus & Associados
07 novembre 2003
presentazione: Alessandro Gaiani / contributo critico: Alfonso Acocella


Contrasti Mecanoo
18 novembre 2003
presentazione: Enzo Mularoni / contributi critici: Sebastiano Brandolini e Pietro Valle


Neutro Dominique Perrault
19 novembre 2003
presentazione: Theo Zaffagnini / contributo critico: Enrico Morteo


La magia della realtà Peter Zumthor
10 dicembre 2003
presentazione: Graziano Trippa / contributo critico: Gabriele Lelli


Laurea Honoris causa Peter Zumthor
10 dicembre 2003
Peter Zumthor
Lectio Doctoralis in Aula Magna Rettorato
Conferimento: Francesco Conconi Rettore

Istituzioni patrocinanti Xfaf
Regione Emilia Romagna
Provincia di Ferrara
Comune di Ferrara
Teatro Comunale di Ferrara
Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara
MusArc
Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori
Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di
Ferrara
Bologna
Ravenna
Parma
Modena
Piacenza
Rimini
Reggio Emilia
Forlì-Cesena
Associazione Architetti Ingegneri di Ferrara
Ordine degli Ingegneri di Ferrara
AIAPP
ANCE

Con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara

Sostenitori generali
IBL
Viabizzuno

Sostenitori singoli eventi
IBL
Viabizzuno
Comieco
Ente Sviluppo Porfido
Fassa Bortolo
Assopiastrelle
Idea Architecture Books
Brianza plastica

Rassegna stampa Xfaf
IL MATTINO DI PADOVA 31.01.2003 “Iuav, una nobildonna in disarmo”
IL RESTO DEL CARLINO 31.01. 2003 “All’inizio coabitavamo coi matti”
LA REPUBBLICA 01.02.2003 “Dieci anni di Architettura e Ferrara laurea Zumthor”
LA NUOVA FERRARA 01.02.2003 “Architettura studia lo spazio a teatro e in biblioteca”
IL RESTO DEL CARLINO 01.02.2003 “Compleanno in Vietnam”
ARCHITECTURE.IT 24.02.2003 Home page e nella sezione Eventi
LA NUOVA FERRARA 19.03. 2003 “Teatro & Architettura. Tre momenti con gli artisti”
IL RESTO DEL CARLINO 09.03.2003 “L’architettura diventa spazio poetico”
UFFICIO STAMPA UNIFE 26.03.2003 “Il Decennale della Facoltà di Architettura”
UFFICIO STAMPA UNIFE 27.03. 2003 Incontro con il regista Denis Krief per la rassegna “Teatro & Architettura”
LA NUOVA FERRARA 27.03.2003 “L’Architettura dalla grande X”
LA NUOVA FERRARA 27.03.2003 “Intersezione ed azione oltre le quattro mura”
IL RESTO DEL CARLINO 27.03.2003 “Via agli appuntamenti per il decennale”
LA REPUBBLICA 27.03.2003 “I grandi maestri si raccontano a Cesena e Ferrara”
IL RESTO DEL CARLINO 28.03.2003 “Fra carta e web: confronto fra i protagonisti dell’editoria specializzata”
AREA n. 67, 2003 “Xfaf”
ARCHIMAGAZINE 01.04.2003 Newsletter
ITALIAOGGI 02.04.2003 “L’architettura fra la carta e il web”
IL GIORNALE DELL’ARCHITETTURA 04.2003 Formazione
IL RESTO DEL CARLINO 15.05.2003 “Così Forsythe costruisce il proprio spazio scenico”
LA NUOVA FERRARA 15.05.2003 “Danza e Architettura”
LA REPUBBLICA 16.05.2003 “William Forsythe”
LA NUOVA FERRARA 21.05.2003 “Conferenza con Kengo Kuma”
IL RESTO DEL CARLINO 21.05.2003 “Il tradizionalista Kengo Kuma ospite del Xfaf”
CASABELLA n. 711, 2003 “Xfaf Premio Internazionale Architettura Sostenibile”
MODULO 05, 2003 “Xfaf. Premio Internazionale Architettura Sostenibile”
PAESAGGIO URBANO, n. 2, 2003 “Xfaf. Decennale della Facoltà di Architettura di Ferrara”
ITALIA OGGI 21.05.2003 “Il Giappone di Kengo Kuma”
AL (Architetti Lombardi) n. 5, 2003 Xfaf. Decennale della fondazione della Facoltà di Architettura di Ferrara”
COSTRUIRE n. 240, 2003 “Europee e compatibili. Auguri Ferrara”
MATERIA n. 41, 2003 “Xfaf, decennale della fondazione della Facoltà di Architettura di Ferrara”
ABITARE n. 429, 2003 “Shigeru Ban a Milano”
ARCHAEDILIA n. 5, 2003 “Premio Architettura Sostenibile Fassa Bortolo”
ITALIA OGGI 11.06.2003 “Herzog al decennale dell’Ateneo di Ferrara”
AREA n. 68, 2003 “Xfaf”
EUROPACONCORSI 12 giugno 2003 Memo
RECUPERO E CONSERVAZIONE n. 50, 2003 “Kengo Kuma, Thomas Herzog, Future Systems”
LA REPUBBLICA 28. 06.2003 “Il futuro è tutto da costruire”
LOTUS NAVIGATOR 2003 “Xfaf”
SPAZIO ARCHITETTURA n. 62, 2003 “Xfaf. DecennaleFacoltà di Architettura di Ferrara”
PAESAGGIO URBANO n. 3, 2003 “Il nuovo premio”
AION n. 3, 2003 “Xfaf. Decennale Facoltà di Architettura di Ferrara”
VILLEGIARDINI, luglio 2003 “Ferrara. Manifestazioni per l’architettura”
CASABELLA n. 713, 2003 “L’architettura di cartone di Shigeru Ban”
PAESAGGIO URBANO, n. 4, 2003 “L’architettura sostenibile di Thomas Herzog”
COSTRUIRE IN LATERIZIO n. 94, 2003 “Xfaf. Il Decennale della Facoltà di Architettura”
CASABELLA n. 714, 2003 “Progetto e costruzione sostenibile”
D’A settembre 2003 “Coreografia del corpo. Architettura vivente”
PARAMETRO n. 246, 247 “Xfaf. Decennale della fondazione”
LA REPUBBLICA 09. 12.2003 “L’architetto che ha ideato l’eden in terra”
IL RESTO DEL CARLINO 10.12.2003 “La laurea a Zumthor chiude il Decennale”
LA NUOVA FERRARA 10.12.2003 “Zumthor, laurea ad honorem”

di Alfonso Acocella

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21 Marzo 2011

English

The XfafX and its antecedent (Xfaf)

Versione italiana

The Decennial of foundation
Officially presenting XfafX, the cultural project linked to the celebrations of the Twentieth Anniversary of the Faculty of Architecture of Ferrara, we’d like to reconnect it – in a sense of continuity and evolution- to its successful antecedent represented by the Decennial Foundation Xfaf, cultural initiative, planned by Graziano Trippa, Alfonso Acocella, Gabriele Lelli, Theo Zaffagnini.
We think that giving back, in these pages, a synthesis of the X concept, of the most significant events and contents of Xfaf – performed along the whole 2003 – might be useful in joining past and present, also offering a chance to continue and accelerate the launched cultural project kept alive in this last decade by a continued string of events, lectio magistralis, honorary degrees, International lectures until the presence of Daniel Libeskind in June 2010.
The Tenth Anniversary of Foundation assigned to the mark X its own communicative, strategic and reverberant message: a yellow painted X, in homage to the institutional colour of the Faculty of Architecture of the Ferrara University.
Perhaps it might be interesting to retrace the motivations and the semantic ambivalence assigned to the X of Xfaf.
In primis there is the merely numeric meaning. The letter X, already present in the alphabets of Greece and Magna Grecia, was received and absorbed in the Rome’s script, where, declined in capital, it indicates the number ten. Probably it represents a connection of the vertices of two V. The sign V identifies the number five.
Therefore X as a temporalized icon symbol of the Tenth Anniversary of the first two quinquenniums of life and intense activity of the Faculty of Architecture of Ferrara (1991-2001).

There is another way to approach the sign X, reaching it from a conceptual, programmatic and strategic point of view.
Referring to the specific morphological features of the letter X – which crosses two linear stems, obliquely placed in a clear function of mutual support – it is possible to note how these geometrical elements overlap each other, reciprocally supporting.
Here it starts the basic idea which has accompanied the cultural project Xfaf, where the X has gradually taken the explicit meaning of “cross”, of intersection as a dynamic action, focused to overtake the sectorial limits of the closed and self-referential world of university.
A few structural components of the Xfaf project have interlinked – twice – in different directions.
On the one hand the thematic focus of Project and Construction and the connected real events (marked by the presence of the big contemporary architects) intersected with uncommon narrative virtual operations, reflected on the web, in an innovative vision of institutional communication.
On the other hand the university project of Xfaf interlinked with the civic, regional, national institutions, and, moreover, with the private productive companies, which hold those economic resources, essential to fulfil the project itself through an institutional action of fund raising.
In brief, a X concept of cross fertilization, aimed to rethink the role of the university and of the Faculty of Architecture in Ferrara, specifically focusing on an interchange, a sharing of intellectual, planning, economical resources, with the most dynamic productive sector of the country, invited to an investment policy for the culture and to a vision of social responsability.

The Xfaf theme. Project and Construction
The main asset of the cultural initiatives of Xfaf turned around the disciplinary theme of Project and Construction in Architecture.
This choice should be linked to the identity of the formative course, promoted by the faculty of Ferrara, joined, since the beginning, to the figure of the designer, who, traditionally, reassumes the artistic talent of the devising, connected to the role of director and responsible of the building’s quality.
From this basic thesis – set as the root of the cultural growth of the Faculty of Architecture of Ferrara – arose the central idea of promoting a wide discipilinary debate, inviting well-known architects of the international scenery; leading figures sensitive to the project.
Examining the contemporary statute of the discipline, within the international trends, the Faculty of Architecture of Ferrara aims to open to Europe and the whole world, avoiding to retreat in a restricted cultural area.
In this international view, a large interest about Peter Zumthor and his work as a designer underlined the centrality of this figure, elected as a disciplinary reference.
At the end of a debate developed inside the scientific community of the Faculty, the idea of a Honoris Causa Degree to Peter Zumthor appeared like an opportunity to give emblematic value to the Tenth Anniversary.
An important message has been set in this award, indicating to the young generations a severe, demanding poetic Master, able to interpret the special values of architecture (the real essence of this discipline), able to produce suggestions “written” by the corporeity of the material, able to direct the act of building as a control of the work.
The Laurea Honoris Causa to Peter Zumthor has been given at the conclusion of the Decennial of the Faculty of Architecture of Ferrara in december 2003.
There was a wide pannel of international personalities invited at the Xfaf; a large official adhesion to the project by international architects; numerous and highly qualified Lectio Magistralis, held in the Faculty with a vast audience and press.

Later on the invited protagonists; underlined the adesions (until February 2003)
Abalos – Herreros / Adjaye Associates / Aires Mateus & Associados / Stan Allen / Mariano Arana Sancez / Wiel Arets / Shigeru Ban / Baumschlager & Eberle / Jordi Bellmunt / Mario Botta / Paolo Burgi / Alberto Campo Baeza / Massimo Carmassi / Francesco Cellini / David Chipperfield / Claus en Kaan / Coop Himmelb(l)au / Dalnoky & Desvigne / Claudio D’Amato Guerrieri / Giancarlo De Carlo / Derrick De Kerckhove / Delugan Meissl Architects / Georges Descombes / Diller & Scofidio / Peter Eisemann / Carlos Ferrater / Foreign Offices Architects / Foster & Partners / Massimiliano Fuksas / Future System / Frank O. Gery / Gigon & Guyer / Cristophe Girot / Giorgio Grassi / Thomas Herzog / Herzog & De Meuron / Michael Hopkins / Steve Holl / Toyo Ito / Bernard Khoury / Waro Kishi / Mathias Klotz / Hans Kolloff / Kengo Kuma / Locaton & Vassal / Eusebio Leal Spenglel / Jaime Lerner / Daniel Libeskind / Greg Lynn / Angelo Mangiarotti / Mansilla & Tunon / Mecanoo / William J. Michell / Rafael Moneo / Glenn Murcutt / MVRDV / Adolfo Natalini / Pier Luigi Nicolin / Jean Nouvel / Nox Architects / OMA / Ortner & Ortner / Alfredo Payà / Jhon Pawson / Gilles Perraudin / Dominique Perrault / Renzo Piano Building Workshop / Boris Podrecca / Nino Portas / Paolo Portoghesi / Franco Purini / RCR Aranda Pigem Vilalta / Riegler Riewe Architects / Sancho-Madridejos / Sauerbruch Hutton Architects / Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa / Claudio Silvestrin / Alvaro Siza / Eduardo Souto De Moura / Mauro Staccioli / Studio Azzurro / Stephan Tischer / Bernard Tschumi / Van Berkel & Bos / Guillermo Vázquez Consuegra / Francesco Venezia / Viaplana & Pinon / West 8 / Riken Yamamoto / Franco Zagari / Peter Zumthor.

Lectio magistralis Xfaf (2003)


Contesto Baumschlager & Eberle
28 March2003
presentation: Andrea Rinaldi
critic: Giovanni Leoni


Ordine Hans Kollhoff
28 March2003
presentation: Nicola Marzot
critic: Alfonso Acocella


Blobs Greg Lynn
10 aprile 2003
presentation: Gabriele Lelli
critic: Antonino Saggio


Continuità Michael Hopkins
10 aprile 2003
presentation: Theo Zaffagnini
critic: Cristina Donati, Alfonso Acocella


Materia Shigeru Ban
9 maggio 2003
presentation: Gabriele Lelli
critic: Alfredo Zappa


Trame Kengo Kuma
21 maggio 2003
presentation: Giovanni Corbellini
critic: Alessandro Rocca


Sostenibile Thomas Herzog
11 giugno 2003
presentation: Michele Ghirardelli
critic: Mario Cucinella


Prossimo Future Systems
13 giugno 2003
presentation: Antonello Stella
critic: Luigi Prestinenza Puglisi


Solido Eduardo Souto de Moura
19 settembre 2003
presentation: Theo Zaffagnini
critic: Giovanni Leoni


Colore Sauerbruch & Hutton
31 ottobre 2003
presentation: Gabriele Lelli
critic: Luca Molinari


Superfici Aires Mateus & Associados
07 novembre 2003
presentation: Alessandro Gaiani
critic: Alfonso Acocella


Contrasti Mecanoo
18 novembre 2003
speakers:
Enzo Mularoni
Sebastiano Brandolini
Pietro Valle


Neutro Dominique Perrault
19 novembre 2003
presentation: Theo Zaffagnini
critic: Enrico Morteo


La magia della realtà Peter Zumthor
10 dicembre 2003
presentation: Graziano Trippa
critic: Gabriele Lelli


Peter Zumthor
Lectio Doctoralis in the Rectory Auditorium
10 december2003
Laurea Honoris causa a Peter Zumthor
Awarding: Francesco Conconi Rettore

By Alfonso Acocella

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18 Marzo 2011

Opere Murarie

Le tipologie dell’opera muraria quadrata*

English version


Mura urbiche ellenistiche di Capo Soprano a Gela (ph. Alfonso Acocella)

Opera quadrata “irregolare”
Il procedere per graduali e progressive acquisizioni accompagna generalemnte l’evoluzione delle tecniche costruttive; tale fenomeno può essere anche rilevato nelle vicende dell’opera muraria quadrata prima che si pervenga alla sua fase matura con le apparecchiature perfettamente regolari quali possono considerarsi l’isodoma e la pseudoisodoma. Nella fase d’avvio il lavoro si spinge verso la preparazione di cava e la disposizione in opera di blocchi lapidei solo parzialmente regolarizzati, sia pur con una spinta tendenza alla geometrizzazione, alla configurazione sostanzialmente parallelepipeda dei conci litici.
In questi casi, rispetto ai modi dell’opera muraria ad elementi irregolari, è presente, in generale, una più onerosa lavorazione iniziale di cava dove i singoli blocchi di pietra estratti sono ricondotti, più o meno rigorosamente, configurazioni rettificate sotto il profilo geometrico. A parziale recupero del lavoro dei lapicidi corrisponde – in fase realizzativa del muro – una maggiore velocità e semplicità di posa essendo necessari adattamenti minori che investono la volumetria complessiva dei conci o addirittura solo la finitura delle facce a vista dei blocchi, spesso eseguita in situ a costruzione ultimata.
L’uso dell’opera quadrangolare irregolare, per certi versi “imperfetta” rispetto ai canoni a cui ci hanno abituato i capolavori di epoca classica, caratterizza frequentemente le realizzazioni della fase arcaica durante la quale si assiste al lento processo di litizzazione dell’architettura monumentale. Il dispositivo più antico e rudimentale, sia pur già dotato di un controllo geometrico generale, è quello ottenuto mediante blocchi parallelepipedi accuratamente pareggiati ma contrassegnati da altezze e proporzioni differenti che, messi in opera all’interno delle diverse assise, danno vita ad assestamenti con giunti orizzontali e paralleli frequentemente interrotti.
Un più accurato lavoro di preparazione dei conci da impiegarsi nella costruzione muraria procede, invece, con la predisposizione di ricorsi costanti ma differenziati in altezza; tale procedimento porta alla realizzazione di un disegno variato del paramento a vista.


Teatro di Segesta. Muro perimetrale (ph. Alfonso Acocella)

Un ulteriore e più preciso impegno dei lapicidi, posto nella preparazione dei conci configurati tutti con uguale altezza (ma con lunghezza diversificata al fine di ottenere la massima valorizzazione delle risorse di cava), conduce spesso nella fase dell’arcaismo – ma con una permanenza anche nelle epoche successive – a soluzioni murarie in opera quadrata irregolare contrassegnati da giunti orizzontali paralleli continui e da una texture ricca di differenziazioni interne dovute soprattutto alla non corrispondenza dei giunti nei vari ricorsi di cui risulta composta la muratura.
Tale apparecchiatura dell’opera quadrata irregolare è frequentemente rintracciabile nelle fortificazioni delle poleis elleniche contendendo, spesso, alla tecnica poligonale il primato nell’allestimento delle mura urbiche riguardabili come il “volto” offerto dalle città al visitatore che vi giunge dall’esterno. In Grecia, nella Magna Grecia, in Sicilia si trovano realizzazioni esemplari di tale tipologia costruttiva molto prossima a quella isodoma.

Opera quadrata isodoma
A fronte di muri in opera quadrata irregolare, in cui vengono utilizzati blocchi lapidei parallelepipedi di volumetria e proporzioni differenti, si sviluppano sin dall’età arcaica, soprattutto nelle celle dei templi, soluzioni più raffinate con elementi perfettamente regolari da leggersi quali contributi canonici della tecnica costruttiva greca. Per antonomasia, all’interno dell’opera quadrata regolare, l’apparecchiatura cosiddetta isodoma ne rappresenta uno dei tipi più rappresentativi e perfetti; i blocchi, in questo caso, di unico modulo sono disposti in corsi rigorosamente uguali semplicemente sfalsati reciprocamente.
In particolare gli elementi lapidei di forma parallelepipeda, tutti identici fra loro per ciò che riguarda profondità, altezza e lunghezza (con una lunghezza, in genere, doppia dell’altezza nella faccia lasciata a vista), vengono posti in opera con giunti verticali, a corsi alterni, attestati in mezzeria dei conci delle assise contigue. Tale condizione di organizzazione della rete dei giunti è costantemente rispettata; indubbiamente oltre che soddisfare un’aspettativa estetica di regolarità tale disposizione è motivata anche dalla migliore sollecitazione dei blocchi lapidei caricati baricentricamente in modo da distribuire i carichi su tutta la faccia di posa degli elementi componenti il muro.
L’apparecchiatura isodoma diventa lo stile costruttivo caratteristico della Grecia classica, particolarmente dei programmi monumentali delle città dell’Attica dove viene impiegata nelle raffinate architetture in marmo bianco (come nei sontuosi edifici dell’Acropoli ateniese). Si diffonde, comunque, anche nella Sicilia e, poi, più tardi, soprattutto nelle città ellenistiche (Pergamo, Priene ecc.)
Il classico disegno a vista del sistema isodomo, impostato su una composizione muraria molto regolare ed autoequilibrata, viene anche ottenuto a partire dall’utilizzo di blocchi lapidei che presentano proporzioni diverse rispetto a quelle descritte precedentemente.
Una prima variante esecutiva è quella che impiega, a ricorsi alterni, conci di pietra differenziati, ma tali da risultare dimensionalmente gli uni doppi degli altri. Tutti i blocchi da utilizzare nella predisposizione del muro hanno in comune, comunque, una faccia dalle identiche dimensioni in modo da poterla lasciare in vista riproducendo, conseguentemente, il classico disegno dell’opera isodoma. L’obiettivo di questa apparecchiatura è valorizzare maggiormente le risorse del materiale di cava, riducendo al cinquanta per cento le necessità di grandi blocchi, senza rinunciare al carattere estremamente regolare dell’opera isodoma canonica.


Vista generale e dettaglio murario dei Propilei dell’Acropoli di Atene (ph. Alfonso Acocella)

Una seconda variante esecutiva è quella che utilizza blocchi lapidei con le stesse caratteristiche geometriche della precedente apparecchiatura ma in diversi rapporti quantitativi d’impiego. I conci più piccoli formano file di due o tre ricorsi per volta affidando ai blocchi maggiori – doppi, nelle dimensioni, rispetto ai primi – il ruolo di concatenamento e di solidarizzazione della muratura che mantiene in vista lo schema geometrico canonico dell’opera isodoma. In questa apparecchiatura la quantità di blocchi che coprono, con il loro spessore, l’intera sezione muraria si riduce ulteriormente favorendo un più evidente risparmio di materiale lapideo di grandi dimensioni; sotto il profilo statico, chiaramente, tale soluzione appare più critica, quanto a stabilità e distribuzione dei carichi, rispetto alle precedenti.
Esempi paradigmatici, per le qualità di lavorazione dei blocchi, fra i numerosissimi che potremmo citare al fine di evocare soluzioni eccellenti dell’apparecchiatura isodoma, sono tutti gli edifici classici di età periclea della seconda metà del V sec. a.C. costruiti in marmo sull’Acropoli di Atene.

Opera quadrata pseudoisodoma
L’opera isodoma, perfetta nella sua partitura geometrica egualitaria dell’impaginato murario, sarà apparsa in un certo qual modo “monotona” visto che, parallelamente alla sua affermazione, sono introdotti dai costruttori greci altri tipi di apparecchi indirizzati alla ricerca di un più articolato disegno tessiturale.
È il caso della soluzione definita pseudoisodoma nella quale si utilizzano conci regolari, perfettamente squadrati, di uguale lunghezza e profondità ma contrassegnati da una differenziata altezza (in genere doppia l’una rispetto all’altra). La veicolazione di tale dispositivo non è stata, ancora, esattamente accertata e la sua stessa introduzione, sotto il profilo cronologico, presenta ancora un quadro non definito. Attestazioni archeologiche di età classica ne fanno ascrivere, verosimilmente, a questa fase storica la sua codificazione; ma vi è chi la ricollega al tardoarcaismo.


Ricostruzione del Bouleuterion di Mileto

La soluzione prevede l’alternanza delle assise, contrassegnate dalla differente altezza, disposte ad individuare un ritmo costante come nell’apparecchiatura isodoma ma, in questo caso, con una gerarchia dei moduli conferita dalla diversa altezza dei conci che ne restituiscono, sul piano della figuratività dell’opera muraria, un ritmo più variato.
La necessità di una razionalizzazione dell’impiego di manodopera che normalmente contraddistingue la messa in esecuzione dei programmi edilizi – anche di quelli monumentali – suggerisce agli architetti, con molta probabilità, di variare ingegnosamente la configurazione dei conci dell’opera pseudoisodoma pur senza rinunciare alle aspettative formali di partenza.
Una prima variante costruttiva è quella che prevede la realizzazione dei filari di maggiore altezza non più mediante blocchi monolitici pari all’intero spessore del muro bensì attraverso due conci (adeguatamente ridotti dimensionalmente) posati di costa che lasciano fra loro dello spazio vuoto. Il disegno dell’apparecchiatura muraria è quello canonico dell’opera pseudoisodoma con alternanza continua di un’assise alta rispetto ad una bassa e con giunti verticali allineati (in sequenza discontinua) che cadono in mezzeria.
A volte, nella ricerca di una più accentuata variazione della tessitura a vista, sono alternati due o più ricorsi di blocchi a maggiore altezza. In questa ultima soluzione aumenta ulteriormente la distanza fra le assise di minore altezza che scandiscono, con più debole forza figurativa, il disegno dell’apparecchiatura muraria. Ai blocchi sottili si assegnano, in genere, le dimensioni dell’intera profondità del muro in modo da far assumere loro il ruolo di concatenamento trasversale della muratura – ad altezze programmate – in funzione delle specifiche esigenze statiche.


Acropoli di Velia (antica Elea). Muro di sostruzione del Tempio di Atena (ph. Alfonso Acocella)

Opera quadrata “per testa e per taglio”
La ricerca di modi costruttivi capaci di introdurre, all’interno della regolarità geometrica del disegno dell’opera quadrata, una variazione della tessitura a vista porta i costruttori greci a mettere in campo – oltre l’apparecchiatura pseudoisodoma – altre soluzioni come quella comunemente definita “per testa e per taglio” si diffonde soprattutto in epoca tardoclassica e poi ellenistica.
Il dispositivo aggregativo è formato da blocchi di uguali dimensioni posti – a file alterne – “per testa e per taglio”; l’apparecchiatura si presenta, costruttivamente, molto contrastata e resistente lasciando in vista, per alcuni ricorsi, le facce minori degli elementi lapidei; varia invece il modo di configurare le assise impostate con blocchi disposti per taglio.
Nei casi canonici le assise con i conci posati di testa si alternano regolarmente a quelle realizzate con blocchi disposti di taglio. Questa apparecchiatura appare molto razionale sotto il profilo dell’economia edilizia in quanto utilizza blocchi di identica configurazione e dimensione eliminando i grossi conci dell’opera isodoma o pseudoisodoma. La previsione di un rapporto che assegna alle facce dei conci da lasciare a vista una superficie doppia dell’altra consente di ottenere una maglia del paramento molto regolare alimentata dal disegno a “croce” che si forma nella sovrapposizione dei blocchi lapidei.
In casi di murature meno accurate, non indirizzate a conseguire paramenti estremamente regolari, vengono alternate singole assise formate da conci di testa ad altre in cui gli elementi sono disposti di taglio. Non frequente nella prassi costruttiva greca, ma comunque attestata archeologicamente, è la disposizione alternata di blocchi per testa e per taglio all’interno di un medesimo corso.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

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18 Marzo 2011

English

Types of opus quadratum*

Versione italiana


Hellenistic city walls at Cape Soprano, Gela (Sicily) (ph. Alfonso Acocella)

“Irregular” opus quadratum
Building methods tend to evolve in a gradual manner, and the same is true of the development of opus quadratum, as can be seen from the development of isodomic and pseudisodomic masonry. At the beginning, roughly hewn or partially dressed stones were used, although there was a tendency to shape the stone blocks into a roughly parallelepiped form.
Compared with the use of completely irregular stones to build walls, such cases generally involve more work at the quarrying stage, when the blocks are dressed more or less thoroughly into specific geometrical shapes: this extra work is partially compensated for by the faster laying of such blocks compared to irregular stones: indeed, they often only require the finishing of the facing, which may be done in situ when the blocks have already been laid to form the wall.
The use of irregular opus quadratum – to a certain degree “imperfect” given the standards set by the architecture of the classical period – often characterises the architecture of the archaic period, during which there was a gradual process of transformation of monumental architecture, involving the increasingly widespread employment of stone. The oldest, most rudimentary construction, albeit characterised by a general geometrical design, was the one built using parallelepiped blocks that had been carefully levelled off but were of various heights and proportions, and as a result, when laid they frequently give rise to discontinuous horizontal and parallel joints.
A more accurate form of ashlar-work saw the laying of regular courses, albeit of different height, thus creating a variegated outer wall design.


Segesta. The perimeter wall of the Hellenistic theatre (ph. Alfonso Acocella)

An even more accurate approach, involving the preparation of ashlars of equal height but of differing lengths (so as to exploit to the full the available stone), often led during the archaic period (and also, to a certain extent, during subsequent periods) to the construction of irregular opus quadratum characterised by continuous, parallel horizontal joints and by a variegated texture resulting from the non-correspondence of the joints in the various masonry courses constituting the wall.
This form of irregular opus quadratum can often be found in the fortifications of the Hellenic poleis, contending with the polygonal method for primacy in the construction of those city walls constituting the “face” offered to visitors from outside. Greece, the Magna Graecia and Sicily all possess fine examples of this kind of construction, which is very similar to isodomic masonry.

Isodomic opus quadratum
Compared with irregular opus quadratum, with its parallelepiped block of diverse shapes and sizes, the masonry techniques developed in particular in conjunction with the construction of temple cellae are of a more refined nature: they involve the use of perfectly regular ashlars, which were subsequently to become the standard for Greek architecture. The range of regular opus quadratum includes the so-called isodomon, generally considered one of the most representative and perfect types; its identical stone blocks are accurately laid in identical, reciprocally staggered courses. These identical blocks (in terms of their depth, height and length – the latter generally being twice the height) were laid in courses where each vertical joint is centred on the block in the course below. This arrangement of the joints is constant; as well as its obvious aesthetic appeal, this method also gives the wall greater stability, as the load is evenly distributed across the entire face of the wall.
The isodomic opus quadratum is the constructive style that was to characterise classical Greek architecture, particularly in the monumental areas of the cities of Attica, where numerous elegant white marble constructions were erected (such as the sumptuous buildings composing the Acropolis of Athens). It also spread to Sicily and, later on, to Hellenistic cities such as Pergamum, Priene and others. The classical design of the isodomic system also allows for the use of stone blocks of different proportions from those previously described. One variation is that which uses alternate courses of different-sized blocks (the ones in the first course being twice the size of those in the adjacent course ), but which are arranged in such a way as to present faces of exactly the same size, in the same way as the standard model does, and thus reproducing the latter design. The idea behind this variation is that it manages to make better use of the stone available, by reducing the need for large blocks by fifty percent, without however compromising the extremely regular character of the isodomic construction.


View and wall detail of Propylaea inside Athens Acropolis (ph. Alfonso Acocella)

A second variation on the isodomic theme is the one that utilises stone blocks of the same geometric nature as the previously-described ones, but employed in different ratios. The smaller blocks are laid to form two or three courses, followed by a course of the larger blocks designed to give greater solidity to the overall construction, whilst preserving the standard isodomic design when seen from the outside. In this case, there is a further reduction in the number of blocks that cover the entire section of the wall, and this means a further saving in the amount of stone that is wasted. From the static point of view, however, this latter method is not as effective as the other two in terms of stability and distribution of loads.
Excellent examples of the innumerable constructions built using isodomic masonry include all of he classical constructions from the Periclean period of the latter half of the 5th century B.C., built in marble on the Athens Acropolis.

Pseudisodomic opus quadratum
The perfectly geometrical opus quadratum may have appeared as rather “monotonous”, given that at the same time as it gained popularity, Greek builders also introduced a variation on this theme in their search for a more complex textural design. This variation is commonly called the pseudisodomic opus quadratum, and features regular, perfectly squared ashlars of equal length and depth, but of differing height (generally speaking, some were double the height of the others). The origins of this variation have yet to be clearly ascertained, and we are not sure when it was first introduced. Archaeological finds from the classical period would seem to indicate that this type of opus quadratum first appeared during this particular period, although some scholars believe it was codified during the late archaic period.


Reconstruction of the Bouleuterion at Miletus

Pseudisodomic opus quadratum consists of alternate courses arranged so as to offer a constant pattern similar to that of isodomic opus quadratum, but unlike the latter, with a hierarchical arrangement of the blocks according to their differing height giving a more varied rhythm to the final design.
The need to rationalise the employment of labour in construction programmes, including monumental ones, probably led architects to vary the arrangement of the ashlars in the pseudisodomic opus quadratum without, however, forgoing the original formal expectations.
An initial variation consisted of the construction of such walls without using monolithic blocks of the thickness of the wall itself, but using two blocks (suitably cut to size) laid on edge with a space between them to give a high, unbonded course. The wall design is the standard one seen in pseudisodomic opus quadratum, with the continual alternation of a high and a low layer, and with vertically aligned joints (in a discontinuous sequence – where each vertical joint is centred on the block in the course below).
Sometimes, in an attempt to create a more accentuated variation in the facing pattern, two or more courses of higher blocks are alternated with a course of lower blocks. This further variation creates a greater distance between the courses of the lower blocks, which thus produce a less rhythmic design overall. The depth of the lower blocks generally extends the entire section of the wall, in order that they act as transversal bonds at given heights, depending on the static requirements of the overall structure.


The Acropolis of Velia (ancient Elea). Substruction wall of the Temple of Athena (ph. Alfonso Acocella)

“Headers and stretchers” opus quadrata
The search for building techniques capable of introducing a variation in the design of the facing of opus quadratum, led Greek builders to experiment with styles different from the above-mentioned pseudisodomic opus quadratum, including the so-called “header and stretcher” bond, which was particularly popular during the late classical and the Hellenistic periods.
This particular arrangement consists of the use of equal-sized blocks laid in alternate courses of “headers and stretchers”: it constitutes a particularly strong bond, and the standard type consists of a course of headers followed by a course of stretchers. From the economic point of view, in using blocks of the same shape and size it eliminates the need for those large blocks used in the isodomic or pseudisodomic opus quadratum. The arrangement whereby the surface area of the headers is exactly double that of the stretchers allows for the construction of a very regular network of stones characterised by the “cross-like” design obtained by the superimposition of the blocks.
In the case of less carefully designed, more irregular walls, single courses of headers may be alternated with others made up of stretchers. Another variation, not frequently found in Greek constructions, is the use of both headers and stretchers within the same course of masonry.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

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