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Il colonnato della basilica di San Pietro in Vaticano (1659-67) di Gian Lorenzo Bernini. (ph. Alfonso Acocella)
Il nostro incipit intende, innanzitutto, rendere omaggio alla varietà e ricchezza litologica del Paese che s’irradia dalle Alpi alla lunga dorsale appenninica e agli altopiani pugliesi, riemergendo all’interno dell’orografia del tutto individuale delle Isole maggiori. Tale varietas ha offerto materiali molteplici all’azione costruttiva delle comunità ed ha contribuito a contrassegnare peculiarmente l’architettura urbana e rurale dei territori: «Anche fra le pietre che da sole improntano l’aspetto edilizio di qualche città – evidenzia Francesco Rodolico nel libro Le pietre delle città d’Italia – le differenze sono tali da colpire il viaggiatore più distratto: i calcari compatti di Trento, di Brescia, d’Assisi o di Sulmona, quelli teneri di Lecce o di Noto; il travertino di Ascoli Piceno; l’arenaria grigia di Cortona o quella giallastra di Volterra; gli gneiss di Bellinzona; il tufo vulcanico di Viterbo; la lava etnea di Randazzo. Né differenze di tanto rilievo si notano solo tra città lontane; l’accennato frazionamento geologico agisce anche sul breve spazio, differenziando città vicine, sotto questo particolare aspetto».1
La tradizione all’impiego delle pietre in architettura, com’è noto, ha registrato, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, un forte ridimensionamento applicativo con una specializzazione d’uso che ha ricondotto spesso tali materiali alla funzione complementare di ornamentazione, sottoforma di lastre sottili per rivestimenti parietali o superfici orizzontali di calpestio.
È forse il momento – in una fase attenta a rivalorizzare le risorse nazionali ed identitarie dei territori – di riprendere a studiare i lasciti tradizionali e, insieme a questi, i modi costruttivi tecnologicamente avanzati, ricercando anche soluzioni applicative innovative.
D’altronde, salvo pochi casi, ogni regione d’Italia possiede integro, ancora oggi, un rilevante patrimonio di materiali lapidei che è pensabile poter rivalorizzare all’interno dell’architettura contemporanea, soprattutto a fronte delle nuove e potenziate tecnologie di trasformazione che investono la lavorazione della materia grezza di cava.
Cava di travertino senese a Serre di Rapolano. (ph. Alfonso Acocella)
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Oggigiorno, se si escludono i marmi, materiali di pregio che oramai individuano una categoria indirizzata prevalentemente al rivestimento ornamentale, restano di potenziale utilizzo stereotomico – a fini strutturali o quantomeno fortemente collaborativi alla costituzione degli involucri architettonici – le pietre e i graniti che si offrono attraverso una variegata caratterizzazione e distribuzione geografica. È il caso, in particolare, dei materiali lapidei correnti dell’Italia centrale e meridionale – fra cui il travertino, oggetto specifico del nostro studio – che, oltre ad essere contraddistinti da parametri di economicità e di facilità alla riduzione in conci squadrati o in masselli, posseggono considerevoli requisiti di resistenza e di buon aspetto.
La famiglia delle rocce classificate come travertini individua una categoria di litotipi abbastanza omogenea, il cui campo di variabilità e differenziazione interna è limitato a ristretti fattori di cromia e giacitura sedimentaria. Il nome d’identificazione deriva dal termine latino “lapis tiburtinus” – ovvero “pietra di Tibur”, l’attuale Tivoli vicino Roma, dove è rinvenibile uno dei principali e più antichi giacimenti di questa pietra – che con “corruzione” lessicale, avvenuta in epoca medioevale, è stato tramandato come travertino. In particolare, le località di escavazione che hanno alimentato la costruzione di tanti edifici monumentali di Roma antica, lungo un arco cronologico di oltre venti secoli, sono ancora attive e si concentrano nei Comuni di Tivoli e di Guidonia-Montecelio dove operano una trentina di cave; l’approvvigionamento ininterrotto della materia da tali siti ha fatto scomparire quasi completamente le tracce delle lavorazioni più antiche.
Barco e Fosse sono i luoghi specifici dove si estrae il travertino romano. La strada Tiburtina divide le due aree di escavazione storica: quella a sud, il Barco (nel Comune di Tivoli) da cui proviene gran parte del materiale litico impiegato per gli edifici della Roma dei Cesari; quella settentrionale, Fosse (Comune di Guidonia-Montecelio) dove è stata estratta la pietra per tutte le grandi opere della Roma papale dal XVI secolo in poi; basti qui richiamare il monumentale colonnato della basilica di San Pietro e la scalinata di Trinità dei Monti.
Le dimensioni e la vastità di tali escavazioni danno l’idea dell’importanza conferita al travertino, a partire dal I sec. a.C. quando tale litotipo assurge al rango di “materiale rappresentativo” dell’architettura imperiale, dopo i secoli repubblicani che avevano visto l’impiego di pietre meno resistenti e durevoli (tufo, peperino, pietra gabina). Tali impressionanti tracce di escavazione richieste dalle fabbriche monumentali di Roma nei secoli sono evidenziate da Giuseppe Cozzo: «La maggior cava di travertino sfruttata dai romani è quella detta del Barco, da cui si estrae una pietra molto compatta e, perciò, di lavorazione molto laboriosa. L’ipotesi che essa sia stata, se non l’unica, certo la principalissima esercitata dai romani, è avvalorata dalla sua enorme ampiezza. Il senatore Lanciani, che ha avuto l’occasione di studiarla particolarmente, ne ha misurato la lunghezza tra le opposte pareti a picco in oltre due chilometri e mezzo; la sua superficie raggiunge i cinquecentomila metri quadrati ed il materiale estratto corrisponde a circa cinque milioni e mezzo di metri cubi di travertino».2
Da sempre le qualità tecniche ed estetiche di questa pietra hanno reso conveniente e di effetto il suo impiego. Così il travertino è diventato il materiale architettonico caratterizzante della città di Roma, assurgendo a simbolo di magnificenza della romanità imperiale, papale e poi, in qualche modo, riferimento dell’italianità nel mondo.
Padiglione tedesco all’Esposizione Universale di Barcellona (1929/1983-86), di Ludwig Mies van der Rohe. (ph. Alfonso Acocella)
Attualmente il comparto industriale del travertino romano – che conserva un certo primato di tradizione e qualità nella lavorazione del prodotto – è costituito da alcune decine di aziende, di dimensioni medie o medio-piccole, le quali operano a tutto campo nell’estrazione e nella lavorazione della pietra per il mercato nazionale ed estero, a cui si aggiungono ulteriori piccole realtà produttive e laboratori artigiani. Allontanandoci dall’area del “lapis tiburtinus” e rivolgendo lo sguardo alla struttura litologica più generale del Paese, dobbiamo evidenziare come ben più ampia, variegata e diffusa sia la disponibilità dei travertini e la loro stessa valorizzazione avvenuta in epoche successive a quella antica.
Giorgio Blanco, nel Dizionario dell’Architettura di pietra, elenca ventitré tipi di travertino, tutti estratti nel territorio italiano;3 a tale varietà corrispondono, comunque, la concentrazione e la potenza di giacimenti in poche aree: lungo le valli dell’Arno, del Tevere, dell’Aniene, del Sacco. I principali bacini estrattivi nazionali – oltre al già citato comprensorio laziale di Tivoli e Guidonia Montecelio – sono localizzati nei territori di Ascoli Piceno in Abruzzo e di Siena (in particolare Rapolano Terme) in Toscana.
Ad Ascoli il travertino viene cavato da secoli ed è il materiale dominante del ricco tessuto di centri storici dell’area. Tale litotipo è ancora oggi presente in discreta quantità nell’alta valle del Tronto, soprattutto nel tratto tra Ascoli e Acquasanta Terme, dove la formazione dei giacimenti è legata ai movimenti tettonici: l’anticrinale di Acquasanta, a causa di fratture profonde, ha dato origine a fuoriuscite di acque termominerali, responsabili della precipitazione del carbonato e quindi della formazione dei depositi di travertino. Grazie ad un’abbondante presenza, la pietra, dal cromatismo grigio-argenteo, è da sempre il principale materiale utilizzato per la costruzione di case, architetture rappresentative, infrastrutture e ha caratterizzato fra Medioevo e Rinascimento la maggior parte degli edifici monumentali di Ascoli, conferendo alla città un aspetto unico, ancora in gran parte conservato. Attualmente l’industria di estrazione e lavorazione del travertino piceno è impegnata in una fase di ripresa e di rilancio tentando di allargare il mercato di tale litotipo dalla dimensione locale a quella regionale e nazionale4.
A fronte della capacità di trasformazione picena attualmente ancora ridotta, risulta notevolmente in crescita quella toscana. Nel territorio senese – rispetto alle sempre più rare pietre storiche: il giallo di Siena, il marmo nero di Murlo, il macigno – insistono ancora banchi consistenti di travertino così come descritti da Francesco Rodolico: «La collina dove sorge Siena (caratterizzata da tre crinali convergenti, a ciascuno dei quali corrisponde un “terzo” dell’abitato) appartiene alla serie dei rilievi, posti tra le valli dell’Arbia e dell’Elsa, costituiti da formazioni plioceniche marine, sabbiose in alto, argillose in basso. In particolare, la collina di Siena è tutta di sabbie giallastre sciolte od agglomerate, i tufi, come lo sono gran parte di quelle che si susseguono verso settentrione e verso ponente; a mezzogiorno invece, ed a levante, il paesaggio è dominato dalle argille biancastre, le crete.
Palazzo delle Poste (1933-36) a Roma, di Mario Ridolfi. La facciata con il rivestimento “a liste” in travertino toscano. (ph. Alfonso Acocella)
I terreni pliocenici, ricoperti talora da depositi di travertini quaternari (estesi soprattutto nei territori di Colle Val D’Elsa e di Rapolano), s’insinuano tra gruppi montuosi secondari, come quelli della Montagnola Senese, o terziari, come i monti del Chianti. Condizioni che certamente hanno favorito il prevalere dei laterizi nell’edilizia e nell’architettura di Siena, ma che d’altronde hanno concesso varietà e ricchezza di pietre ai costruttori d’una delle maggiori città d’arte d’Italia. (…) I travertini quaternari (…) a guisa di coltri orizzontali, spesse a volte qualche decina di metri, coprono qua e là i terreni pliocenici: un lembo d’oltre cinquanta chilometri quadrati trovasi presso Colle Val D’Elsa; un altro riveste, salvo qualche breve interruzione, il pliocene, dalla regione di Asciano a quella delle attuali sorgenti di Rapolano, cosicché, osserva un naturalista del Settecento, “si cammina sempre su un lastricato di travertino e di spugnone per il corso di quasi due miglia, estraendosi in varj luoghi di questo tratto i travertini, che sono d’uso per le fabbriche di Siena”. Difatti le tagliate delle cave mostrano spesso verso l’alto la roccia spugnosa più recente. Mentre i tipi migliori, per quanto sempre porosi od anche cellulari, stanno al basso. La durezza cresce nettamente dopo l’estrazione dalla cava; perciò riesce opportuna ed agevole la lavorazione della roccia appena tolta. Tale proprietà, insieme alle ottime doti di resistenza meccanica ed alla mancanza di gelività, spiegano la notevole diffusione del travertino senese, anche ai nostri tempi. Il colore della pietra, spesso gradevolmente zonata, va dal bianco al giallognolo; di rado è brunastro».5
All’interno di questo volume l’ampio saggio di Davide Turrini sul comprensorio estrattivo e trasformativo senese, fornisce dati e consegna testimonianze tangibili sull’attività storica ed attuale del Consorzio del Travertino di Rapolano che, insieme alla Regione Toscana, ha sostenuto la ricerca sul territorio e la stessa pubblicazione dell’opera. A tale saggio – insieme a quello di Anna Maria Ferrari relativo, specificatamente, al travertino e alla sua genesi – rimandiamo il lettore per ogni ulteriore approfondimento.6
Del travertino: l’essere della materia
Tale litotipo, definibile come roccia concrezionata a struttura microcristallina (con genesi sedimentaria in corrispondenza di acque termali, bacini lacustri, sorgenti e cascate), raggruppa specie litologiche di natura carbonatica di origine chimica o biochimica, la cui formazione è avvenuta attraverso la precipitazione del bicarbonato di calcio disciolto nell’acqua, con successiva deposizione in carbonato di calcio su supporti prevalentemente vegetali. In altri termini la formazione dei travertini è da mettere in relazione alla risalita e fuoriuscita in superficie – in corrispondenza dello sbocco di sorgenti – di acque termominerali particolarmente ricche di carbonato di calcio. La genesi, dovuta ad un continuo e progressivo accumulo di materiale carbonatico dalle zone di dissoluzione a quelle di deposizione, ha comportato una sedimentazione di tali rocce secondo stratificazioni parallele orizzontali, a volte segnate da marcate variazioni di colore e da porosità diffuse.
Da un punto di vista mineralogico è da evidenziare come il carbonato di calcio (sotto forma di calcite, con un contenuto medio generalmente superiore al 95%) rappresenta il componente principale del travertino; elementi accessori sono, invece, alcuni minerali argillosi, il quarzo, ossidi e idrossidi di ferro e manganese, lo zolfo, il gesso, la mica bianca, le cloriti.
Portatrici di specifici caratteri morfogenetici del materiale sono le impronte vegetali. Lungo le fasi di sedimentazione delle concrezioni la presenza e l’inglobamento, all’interno della massa litica in formazione, di essenze vegetali (quali steli, foglie, alghe, frammenti lignei) ha comportato, a seguito della loro decomposizione, il caratteristico assetto del materiale attraversato da numerose “incisioni”, “ferite”, cavità, a volte d’ordine centimetrico.
Spesso striato, con le sue evidenti lacune e i suoi vacuoli irregolari, il travertino ci invita a leggere così sulle superfici di taglio la sua genesi formativa, a indagare su quelle presenze inglobate nel materiale in tempi geologici lontani: quei vegetali – o, più raramente, quei piccoli organismi: minuscoli invertebrati terrestri o molluschi d’acqua dolce – restituiti a noi in forma “latente” dopo il distacco dalla roccia o il taglio meccanico di fabbrica.
Palazzo delle Poste (1933-36) in via Marmorata a Roma, di Adalberto Libera. Dettaglio della facciata in travertino. (ph. Alfonso Acocella)
L’incidenza volumetrica della tessitura vacuolare è significativamente variabile da giacimento a giacimento, come pure da strato a strato all’interno di una medesima bancata di roccia. In conseguenza di tale variazione percentuale dei vuoti si registrano valori di peso del materiale oscillanti fra i 2300 e i 2700 Kg/mc. In genere la quantità di vuoti si distribuisce all’interno di un range molto ampio: dal 2 al 45% del volume complessivo della roccia; le varietà meno compatte, caratterizzate da numerosi e macroscopici vacuoli, sono denominate nel linguaggio corrente “pietre spugne” o “tufi calcarei”; normalmente al loro interno l’incidenza dei vuoti è superiore al 20% del volume totale. I travertini, per quanto porosi, presentano buone caratteristiche di antigelività, di resistenza meccanica e di durevolezza che li rendono particolarmente indicati per le applicazioni costruttive.
Marco Giamello ci fornisce elementi interpretativi sul ruolo fondamentale svolto dalla struttura vacuolare del materiale: «In particolare la struttura porosa, comune a tutti i materiali lapidei, varia entro ampi limiti anche in materiali che posseggono analoga composizione mineralogica, come ad esempio le rocce carbonatiche, il travertino, altri calcari e marmi, costituite prevalentemente da calcite. A parità di porosità totale, intesa come percentuale del volume dei vuoti rispetto al volume totale, si possono avere strutture con diversa distribuzione dei pori in funzione del loro diametro. Sono proprio le dimensioni dei pori che, per assorbimento capillare, favoriscono l’ingresso nella roccia di acqua e quindi l’inizio e il procedere dei fenomeni fisico-chimici che portano al degrado della pietra.
Il travertino, a differenza di altri litotipi quali marmi e arenarie, possiede una elevata porosità, costituita per la maggior parte da macropori, ossia vuoti di notevoli dimensioni. All’interno di tale macroporosità, i cristalli di neoformazione per precipitazione dei sali solubili e i cristalli di ghiaccio hanno a disposizione spazio sufficiente per accrescersi, senza esercitare pressioni sulle pareti dei pori. Vengono così ad essere annullati gli effetti disgreganti dei processi alterativi legati ad aumenti di volume e viene limitata la formazione di incrostazioni carbonatiche sulla superficie. Questo peculiare comportamento fa sì che il travertino possegga una buona durevolezza, intesa come resistenza nel tempo ai processi alterativi».7
Rispetto ai travertini esteri, caratterizzati da cromatismi particolari e spesso esuberanti, i travertini italiani mettono a disposizione dell’attività costruttiva una famiglia di litotipi ben variati quanto a disegno tessiturale, ma abbastanza “omogenei” e “confrontabili” secondo una tavolozza cromatica che dai toni più chiari – quali bianco, argento, beige, nocciola – passa al giallo dorato, al rosato, al bruno.
Farnsworth House (1945-51) a Plano, di Ludwig Mies van der Rohe. Dettaglio angolare del podio pavimentato in travertino.
Con l’esposizione all’aria e il passare del tempo i tipi più chiari di travertino “fanno pelle”, ovvero assumono una caratteristica e morbida patina tendente al giallo dovuta, in genere, all’ossidazione dei sali ferrosi in essi contenuti; in particolare i cristalli di pirite – disseminati all’interno della massa del materiale – si trasformano in limonite che conferisce alla pietra un “color biondo”, così tipico soprattutto nel travertino romano.
La tonalità calda e omogenea del materiale, unitamente all’epidermide vibrante nelle mutevoli condizioni di esposizione alla luce che agisce sulla tessitura dei pori, ha fatto del travertino una pietra molto apprezzata per l’originalità dei caratteri espressivi; a questa qualità si è aggiunto, storicamente, il valore eminentemente costruttivo di pietra massiva, resistente, disponibile sia alla mano dello scalpellino (e dello scultore) che alla formalizzazione plastica dell’architetto.
Le elevate caratteristiche di durevolezza e di resistenza meccanica (con carichi di rottura che si spingono fino ai 120 MPa), unite alla lavorabilità del materiale, hanno contribuito a far affermare il travertino nell’architettura italiana ed internazionale, ben oltre le ristrette aree territoriali di estrazione. In particolare la buona configurabilità e modellazione è dovuta alla significativa presenza di umidità nella massa rocciosa appena escavata che la rende “docile” agli utensili e ad ogni trattamento specifico. Non appena il travertino si asciuga, in relazione alla progressiva perdita del tenore acqueo, il materiale “cambia stato” con assunzione di maggiore solidità e durezza che diventano, con il tempo, veramente elevate.
Negli ultimi decenni la struttura dei comparti trasformativi italiani del travertino – tradizionalmente caratterizzata da un’escavazione e lavorazione di tipo artigianale, indirizzata alla configurazione di elementi prevalentemente in solido: blocchi e bozze da muro, marcapiani, cornici, colonne, masselli da rivestimento, sculture, manufatti per il design urbano – è stata profondamente adeguata al settore delle produzioni più industriali e seriali, rinunciando a molte delle sue prerogative storiche.
Conseguentemente anche il travertino – apprezzato storicamente per quel suo essere materiale corposo, solido e per le condizioni di economicità d’uso pur in spessori massivi – è stato avviato ad un’esistenza “riduttiva” e “semplificata”, registrando l’omologazione del ciclo produttivo contemporaneo di tipo seriale e standardizzato. Prodotti tipici sono i blocchi regolari di cava e gli elementi lastriformi che vengono accatastati, in gran numero e in rigido ordine, sui piazzali delle aziende in attesa di essere immessi nel circuito di un’edilizia di massa sempre più seriale e lontana da una progettualità architettonica valorizzativa dell’apporto sostanziale dei materiali.
Quasi completamente respinto in secondo piano è l’uso del travertino quale materia resistente e plastica, capace di conferire solidità, volume, massa all’architettura attraverso piani murari lisci o sagomati, superfici “grezze” o a bugnato dal valore espressivo ancor più fortemente chiaroscurale. Gli architetti dovrebbero ritornare a guardare l’uso tipicamente costruttivo rintracciabile nelle “città del travertino” – da quelle d’età classica, come Roma o Perugia, ai centri medioevali di Siena, Rieti, Ascoli Piceno, Ancona – per capire appieno il materiale e per assimilarne la forte personalità plastica, solida, corposa.
Vorremmo, in altri termini, di nuovo additare, attraverso l’occasione del volume sul Travertino di Siena, modi costruttivi del materiale non indirizzati unicamente verso il tema del rivestimento sottile con lastre che foderano, in esterno od interno, superfici parietali o pavimentali.
La continuità d’uso che si registra in alcune città del Paese fanno del travertino un materiale tipico della tradizione italiana; ma numerosi sono gli esempi che evidenziano una veicolazione internazionale di tale pietra. Nell’architettura contemporanea – grazie all’aura che gli deriva dall’essere materiale della grandiosità romana – troviamo il travertino declinato attraverso forme raffinate ed essenzializzate della stagione del Moderno in opere di Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Mies van der Rohe, Louis Kahn, Carlo Scarpa e – più recentemente – nelle architetture di Alberto Campo Baeza, Richard Meier, Renzo Piano, Rem Koolhaas, David Chipperfield, Ortner & Ortner, 3N Architects, Mansilla + Tuñón Arquitectos (solo per citare alcuni dei protagonisti della scena internazionale); opere interpretate criticamente nel saggio di Luigi Alini che chiude il volume e al quale rimandiamo il lettore per ogni approfondimento.
di Alfonso Acocella
Note:
Francesco Rodolico, “Introduzione”, p. 20, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1965, (ed. or. 1953), pp. 500.
Giuseppe Cozzo, “Marmi e pietre” p. 53 in Ingegneria romana, Roma, Multigrafica Editrice, 1970 (ed. or. 1928), pp. 317. Per una trattazione sull’uso del travertino all’interno dell’architettura romana d’età imperiale si veda: Giuseppe Lugli, “Lapis Tiburtinus (travertino)” pp. 319-333 in La tecnica edilizia dei romani, Roma, Bardi, 1988 (ed.or. 1957), pp. 741. Per gli usi in epoca moderna e contemporanea si veda: Enrico Clerici, “Il travertino di Fiano Romano”, Bollettino del Regio Comitato Geologico nn. 3-4, 1887, pp. 2-27; Giuliano Bellezza, L’industria del travertino romano nella prospettiva geografica, Roma, Ferri, 1973, pp. 47; Il travertino romano di Tivoli, Roma, ANIS, 1984, pp. 119; Luciana Rattazzi (a cura di), Sulla pietra di Roma, Roma, Edizioni Kappa, 1995, pp. 120; Silvano Olezzante, Gli uomini del travertino: l’attività estrattiva nell’area di Guidonia e di Tivoli, Roma, Ediesse, 1998, pp. 78; Incontro tra l’architettura e l’artigianato: idee per l’uso del travertino romano, catalogo della mostra, Roma, Prospettive, 2002, pp. 93; Marco Ferrero, Architettura di pietra nella Roma del Novecento, Roma, Palombi editori, 2004, pp. 143.
3 I tipi di travertino elencati da Giorgio Blanco sono: Travertino Ascolano (Ascoli Piceno), Travertino Bianco Spugnoso di Siena (Asciano, SI), Travertino della Selva (Poggio Moiano, RI), Travertino della Valpantena (Grezzana, VR), Travertino di Alcamo (Alcamo, TP), Travertino di Angera (Angera, VA), Travertino di Bagni di Lucca (Bagni di Lucca, LU), Travertino di Jano (Jano di Montaione, FI), Travertino di Latina (Fondi, LT), Travertino di Monsummano (Monsummano Terme, PT), Travertino di Orte (Orte, VT), Travertino di S.Casciano Bagni (S.Casciano Bagni, SI), Travertino Doré (Tivoli, RM), Travertino Ligure (Orco Feligno, SV), Travertino Maschio di Monte Nerone (Piobbico, PS), Travertino Montemarano (Montemarano, GR), Travertino oniciato di Poggio Moiano (Poggio Moiano, RI), Travertino romano (Tivoli, Guidonia-Montecelio, RM), Travertino Sabino (Poggio Moiano, RI), Travertino spugnoso colorato di Castiglione d’Orcia (Castiglione d’Orcia, SI), Travertino toscano (Rapolano, SI).
Giorgio Blanco, “Travertino” pp. 218-221 in Dizionario dell’Architettura di pietra, Roma, Carocci, 1999, pp. 299.
4 Per il travertino piceno si vedano: Giovanni Poli, Il travertino, la pietra nobile ascolana, Ascoli Piceno, STE, 1952, pp. 46; Roberto Colacicchi, Carlo Boni (a cura di), Indagine geologica sui travertini della provincia di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, C.C.I.A.A., 1966, pp. 88; Giannino Gagliardi, Carlo Melloni, Carlo Paci, Ascoli Piceno: nel colore del suo travertino il calore di una città, Ascoli Piceno, APT, 1993, pp. 42; Travertino ascolano: storia, arte, artigianato, Acquaviva Picena, Fast Edit, 1998, pp. 67; Francesco Quinterio, Ianua Picena: materia e linguaggio nei fronti degli edifici di Ascoli, dal periodo preimperiale al Novecento, Ascoli Piceno, Istituto Cecco d’Ascoli, 2004, pp. 183; Pippo Ciorra e Stefano Papetti (a cura di), Ascoli città di travertino, in corso di stampa.
5 Francesco Rodolico, “Siena” p. 287, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze Le Monnier, 1965 (ed. or. 1953), pp. 500.
6 Per una trattazione specifca del travertino toscano di Rapolano si veda: Cristina Piersimoni (a cura di), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63; Consorzio Siena Export, Il travertino di Siena, Siena, Al. Sa. Ba., Grafiche, s.d., pp. 95.
7 Marco Giammello, “Impieghi nell’architettura senese e tipologie di alterazioni del travertino”, p. 55, in Cristina Piersimoni (a cura di), Le pietre di Rapolano, Siena, Grafica Pistolesi, 1995, pp. 63.
*Il post riedita il saggio pubblicato in Alfonso Acocella, Davide Turrini (a cura di), Travertino di Siena, Firenze, Alinea, 2010, pp. 303.
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