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26 Aprile 2011

Opere Murarie

Muri ad emplecton*

English version


Dettaglio di muro ad emplecton nel quartiere meridionale di Velia (ph. A. Acocella)

L’architettura dell’ellenismo, dalla fine del IV sec. a.C., conserva e ripropone i materiali e i modi costruttivi tipicamente greci sia pur con una propensione ad un loro uso meno convenzionale, adattandoli alle diverse condizioni e risorse locali, vista l’ulteriore estensione geografica assunta dalla koinè ellenizzante dopo la morte di Alessandro Magno. Ciò che, invece, rappresenta un elemento di sostanziale innovazione è l’allargamento delle soluzioni tecniche in uso sia attraverso inediti impieghi dei materiali già sperimentati, che mediante l’introduzione di nuovi materiali e procedimenti costruttivi.
La pietra e il marmo rimangono i “materiali nobili” per eccellenza degli edifici ellenistici più importanti, anche se legno ed argilla cruda (quest’ultima, a volte, “amorfa” da predisporre entro casseformi, altre “formata” in mattoni regolari parallepipedi) costituiranno le materie maggiormente impiegate nell’edilizia minore; il loro uso si estenderà addirittura all’architettura maggiore visto il notevole aumento del numero e della varietà delle tipologie urbane a cui l’architettura della tarda grecità dedicherà particolare cura progettuale e costruttiva senza poter assolvere a tali allargati programmi realizzativi sempre con strutture di pietra. Ci riferiamo, in particolare, all’importanza assunta dagli edifici civili quali ginnasi, palestre, strutture amministrative e di commercio, stoà.
Benché ritenute molto importanti all’interno della società ellenistica è realisticamente impensabile poter trattare tutte queste “nuove” tipologie al pari dell’architettura monumentale sacra realizzandole in pietra; modi costruttivi spesso compositi (fatti di legno, di muri di argilla intonacati con limitati elementi di pietra) alimenteranno la maggior parte dei programmi ellenistici. La pietra continuerà, in particolare, a svolgere un ruolo significativo nei colonnati di stoà, peristili, agorà e nell’architettura più autenticamente monumentale
Anche sotto l’ellenismo il materiale lapideo viene prevalentemente lavorato; abbandonato l’uso di pietre grezze (che nelle epoche precedenti avevano trovano un largo impiego, soprattutto nelle opere rustiche, in combinazione con l’argilla che ne avvolge i volumi informi dando vita a murature regolarizzate nella loro geometria di elevazione) il materiale litoide viene normalmente “sbozzato” con livelli maggiori o minori di “finezza”; tale passione e consuetudine all’impiego della pietra si registra soprattutto nelle aree del Mediterraneo orientale.
I massi grossolanamente riconfigurati continuano ad essere impiegati, attraverso l’opera poligonale, solo in generi architettonici speciali quali fortificazioni, terrazze, sostruzioni. Blocchi stereotomici perfettamente pareggiati di calcare duro, o addirittura di marmo, invece, permangono – attraverso le tipiche modalità e le apparecchiature dell’opera quadrata – ad alimentare i programmi “artistici” di alta rappresentatività. La posa a secco dei conci rimane il sistema prevalente dell’architettura fine e monumentale; quando le condizioni di esercizio statico lo richiedono, ad integrazione della perfetta lavorazione dei blocchi lapidei, vengono inserite, fra concio e concio, grappe orizzontali o tasselli verticali di ferrofissati con piombo.

«Le commessure sono precise anche in epoca ellenistica; l’anathyrosis, cioè il leggero ribassamento delle superfici di congiunzione, viene realizzata regolarmente. In generale la lavorazione artigianale delle pietre da costruzione continua a mostrare un livello assai alto; forse è un pò venuta meno solo la passione per il dettaglio degli artigiani delle epoche precedenti. L’esecuzione imprecisa e davvero disordinata diventa comunque tipica degli ambienti culturali periferici, dove conta soltanto che l’impressione generale “vada”. In Italia, per esempio, vengono accettate a cuor leggero anche sensibili differenze di misure tra interassi ordinati di colonne e simili, una cosa del tutto impensabile nell’ambito greco più stretto».1


Restituzione grafica di un muro ad emplecton dal Ninfeo del Letoon di Xanto

All’interno della tradizione costruttiva ellenica bisogna evidenziare a questo punto della nostra trattazione lo sviluppo di un procedimento composito dell’opera muraria, impiegato in Grecia sin dall’epoca arcaica e nota col nome di emplecton (émplekton), che sta ad individuare una tipologia speciale di “struttura a riempimento”.
Fra due pareti formate da blocchi regolari di pietra che fungono da rivestimento a forte spessore, si predispone un riempimento di materiali meno pregiati (elementi lapidei di scarto, terra, argilla, ma anche pietrisco e malta, soprattutto nel tardo ellenismo); tale mistura di materiali eterogenei individua il vero emplecton che, per estensione terminologica, designerà attraverso la trattatistica ellenistica il tipo specifico di muratura mista. La si ritrova al Pireo, a Pergamo, a Mileto.
Di questa particolare tipologia muraria ci sono state restituite, dai vari siti archeologici, due varianti: l’emplecton semplice e quello a diatoni (díatonoi); la seconda risulta maggiormente resistente in quanto le pareti murarie di pietra sono concatenate reciprocamente mediante blocchi lapidei trasversali, della lunghezza uguale all’intero spessore del muro; tale soluzione di collegamento è documentata sin dall’epoca classica.
Perfette e solide mura ad emplecton sono rinvenibili anche sul suolo italico ellenizzato all’interno delle colonie greche: è il caso di Velia, città fondata dai Focei poco a sud di Poseidonia, dove poderose mura urbiche circondano il quartiere mercantile proteggendolo dal mare.
Sempre a Velia si può registrare, nei decenni a cavallo fra il IV e i III sec. a.C., una ulteriore e significativa innovazione tecnica a cui la ricerca archeologica ha prestato sinora scarsa attenzione. All’interno dei due possenti bastioni in blocchi litici montati a secco posti a proteggere in forma di antemurali la famosa Porta Rosa (che ostenta, in bella stereotomia, il primo arco di tradizione greca a sud di Roma) si rileva un grande riempimento formato da un misto di frammenti di pietra e di “terra”; ciò che però sembra distinguere tale aggregato è la sua particolare consistenza che si presenta assai compatta al punto da rendere coesi e “cementati” fra loro i vari elementi costitutivi. L’ipotesi è che si tratti di calce spenta la quale, utilizzata insieme ad inerti fini (sabbia), abbia dato vita, in forma pionieristica, ad una malta (o comunque ad una miscela simile a quella che poi sarà la malta campana e romana) utilizzata – sempre a Velia, ancora una volta, con caratteri di innovazione – anche come legante nei primi muri di mattoni in laterizio cotto che la storia costruttiva italica ci ha restituito.


Muratura composita in opus incertum nel santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina (ph. A. Acocella)

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Ci siamo soffermati abbastanza sulle innovazioni tecniche riscontrabili nella città fondata dai Focei poiché, nell’insieme, ci avvertono che una tradizione dell’opera muraria – quella della grecità arcaica e classica – ha codificato ampiamente il proprio statuto costruttivo mentre un’altra, su apporti e stimoli ellenistici, si sta per dischiudere nell’area campana trasferendone, poi, la linea avanzata della sperimentazione e dell’innovazione tecnologica al mondo romano vero “interprete” dell’opera muraria a concrezione. E’ nella regione campana (in particolare nelle aree fertili che si affacciano sul golfo greco-sannitico di Napoli) che, lungo il III sec. a.C., verrà scoperta e subito valorizzata una materia che entrerà a far parte, insieme alla calce, della preparazione di una malta molto speciale.
Si tratta, com’è noto, della pozzolana (da pulvis puteolanus, visto che i depositi più noti sono localizzati nel territorio di Pozzuoli) un sedimento litico di deposizione vulcanica sottoforma di lapillo minuto, con eccezionali caratteristiche di coesività conferite dall’elevato contenuto di silice. Tale sostanza rappresenterà un componente fondamentale per la preparazione della malta romana (l’opus caementicium) che andrà a modificare sostanzialmente, lungo il III e il II sec. a.C., la concezione strutturale dell’opera muraria e con essa la stessa idea di architettura ereditata dalla tradizione greca di tipo plastico-lineare che, pur assorbita e frequentemente riproposta all’interno di programmi monumentali, non costituirà più l’unica anima (né la principale) dei nuovi svolgimenti impressi da Roma al settore delle grandi costruzioni.
Ritornando alla malta, contrassegnata da una lenta ma crescente “fortuna”, affidiamo la descrizione delle tappe significative di tale cammino all’analisi acuta di Hans Lauter:

«Dapprima essa sostituì nei muri di pietre irregolari il più antico riempimento d’argilla; le sue qualità consentirono di fare a meno di allineare e adeguare con molta precisione i singoli blocchi, dal momento che la massa lega e tiene assieme il tutto. Questa fase è attestata da alcuni edifici d’uso del Foro di Paestum costruiti nel primo periodo della colonia romana, certo intorno alla metà del III secolo a.C. Assai presto seguì il passo evolutivo successivo, la scoperta della muratura a sacco.
Piccole pietre maneggevoli vengono messe in opera fino a una certa altezza come una doppia cortina e quindi il loro interno viene colmato con una miscela di malta e pietrisco; si prosegue poi con l’erezione di un’altra fascia della cortina e così via. Nel realizzare le cortine, che Vitruvio definisce significativamente “ortostati”, si curava che le commessure delle pietre piccole delineassero sui lati esterni in vista un bel motivo a reticolo, anche se casualmente non sistematico. Era nato l’opus incertum. Già a partire dal 193 a.C. a Roma fu costruito in questa nuova tecnica il grande magazzino della Porticus Aemilia al porto del Tevere.
Non è necessario descrivere qui in dettaglio la sua marcia trionfale in Campania e nel Lazio, che ne fece di fatto la tecnica costruttiva dominante del tardo ellenismo locale. L’opus incertum è solido e impermeabile; con esso si poteva costruire in altezza, velocemente e in grande, tutte caratteristiche queste che andavano incontro nella maniera migliore alle esigenze dei “romani”».2


Tomba di Cecilia Metella a Roma. In basso, il nucleo strutturale concretizio (ph. A. Acocella)

L’interesse mostrato per la tipologia dell’emplecton sia da Vitruvio che, poi, da Plinio nelle loro opere teoriche è dovuto, molto probabilmente, all’aspirazione di voler rintracciare un antecedente nobile di tradizione greca per il “romano” opus caementicium quale procedimento di costruzione basato sull’uso di pietrame minuto informe (caementa) annegato, insieme alla malta, all’interno di cortine murarie (realizzate per due secoli unicamente con elementi di pietra e, poi, con laterizi cotti) che fungono da casseforma e da paramento, spesso, lasciato a vista. Il successo che incontra l’opus caementicium porterà alla progressiva perdita del primato da parte della concezione costruttiva in pietra alla “maniera greca” facendo parallelamente crescere una visione dell’architettura come struttura involucrante uno spazio interno progressivamente dilatato basata su strutture di concrezione che spesso ne definiscono i limiti attraverso superfici – sia in pianta che in copertura – non più solo “in piano” ma anche, ricorrentemente, in curva.
È soprattutto nel II sec. a.C., con il generale mutare dell’equilibrio politico ed economico nel Mediterraneo a seguito del fenomeno di espansione militare romana, che si affievolisce la lunga tradizione costruttiva all’uso massivo, strutturale ed omogeneo della pietra. Si aprono così, con gli ingegneri e i costruttori romani, nuovi fronti applicativi per gli stessi materiali lapidei, ricchi di inaspettati risultati per l’architettura.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Hans Lauter, “Materiale e tecnica” p.52, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.
2 Hans Lauter, “Materiale e tecnica” p.59, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.

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26 Aprile 2011

English

Emplecton walls*

Versione italiana


Emplecton wall in the southern quarter of Velia (ph. A. Acocella)

From the end of the 4th century onwards, Hellenistic architecture conserved and utilised traditionally Greek materials and constructive techniques, albeit in a less conventional manner and adapted to local conditions and resources, given the further expansion of the Greek koine following the death of Alexander the Great. However, a substantial innovation was introduced with the novel use of tried-and-tested materials, together with the employment of new materials and building methods.
Stone and marble remained the “noble materials” employed in the most important Hellenistic constructions, even though wood and baked clay (at times used to fill formwork, at others to make regular parallelepiped bricks) continued to be the main materials used in less important buildings; they were even used on occasion in the main architectural constructions, given the considerable increase in the number and variety of urban buildings and the difficulty to satisfy demand with stone alone. In particular, these poorer materials were used in civil buildings such as gymnasiums, palaestrae, administrative and commercial constructions, and stoas.
Despite being of considerable importance within Hellenistic society, it was unthinkable to build all of the latter structures with stone alone, as was in fact done in the case of the more important, monumental constructions. Very often a mixture of materials was employed, with a limited quantity of stone associated with wooden parts and plastered clay walls: stone continued to be an essential material for the construction of columns in stoas, peristyles and agoras (markets), as well as monumental structures.
In general, stone continued to be dressed during the Hellenic period; rough stone was no longer utilised (as it had been in previous ages, especially in rural buildings, together with clay used to clad buildings and thus give them a regular appearance), but was now roughly shaped to a greater or lesser degree. This use of stone was particularly widespread in the area of the eastern Mediterranean.
Roughly dressed stones continued to be used in polygonal masonry: however, this tended to be restricted to special kinds of construction, such as fortifications, terraces, substruction work etc. Accurately dressed, cut and squared blocks of hard limestone, or of marble even, continued to be employed in “artistic” constructions of a certain value. Dry-stone ashlar walls remained the prevailing architectural system employed in the construction of elegant and monumental structures;
when static conditions made it necessary, horizontal iron cramps or small vertical blocks were inserted between the ashlars and fastened with lead.

Inlays were accurate in Hellenistic times as well: anathyrosis, that is the smooth dressing of the margins of ashlar stone, was regularly performed. In general, the masons’ dressing of building stone continued to be of a high quality; perhaps there was simply a loss of interest in the details so dear to the craftsmen from previous periods. The imprecise, casual dressing of the stone, nevertheless, became a characteristic of peripheral social contexts, where only the general impression given counted for anything. In Italy, for example, even significant differences in the distances between the centres of columns and other features were all too readily accepted, which would have been unthinkable in a more strictly defined Greek culture.


Drawing of an emplecton wall from the Nynphaeum of the Letoon of Xanthos

Within the context of Hellenistic building techniques, special reference needs to be made to a highly particular method employed in Greece from the archaic period onwards, known simply as emplecton (émplekton), denoting a particular kind of “filled in structure”. Basically, this consists of two walls of regular stone blocks which constitute the two sides of the final thick walling, with the space in between the two outer walls filled with a mixture of poorer material, such as stone remnants, earth, clay, rubble and even mortar – especially in the late Hellenistic period . This assortment of material characterises the true emplecton or “mixed wall”, examples of which have been discovered in Pireaus, Pergamum and Miletus.
Two varieties of this particular kind of wall have been discovered by archaeologists: the simple emplecton and the bonded emplecton. The latter, featuring bonding cross blocks the length of the entire depth of the wall, is clearly the stronger of the two, and evidence of its existence as far back as the classical period has been found.
Perfect, solidly-built emplecton walls have also been discovered in those areas of Italy colonised by the Greeks: for example, at Velia, a city founded by the “Focei” just south of Poseidonia (modern-day Paestum), where massive city walls surround the merchants’ quarter, protecting it from the sea.
Velia also witnessed the advent of a further important technical innovation between the 4th and 3rd centuries B.C., one that until now has received little attention from archaeologists. Inside two massive bastions of dry-laid stone blocks, designed to protect the famous Porta Rosa (which boasts the first Greek arch south of Rome), there is a large filling of stone fragments and “earth”: however, this aggregate is distinguished by its compact consistency, rendering the constituent elements almost cement-like. It is thought that slaked lime was used together with sand to produce a prototype mortar (or in any case a mixture very similar to the mortar used in the Rome and Campania areas) which was also utilised (again in Velia) as a binder in the first brick walls to be built in Italy.


Mixed opus incertum wall in the Sanctuary of Fortuna Primigenia at Palestrina (ph. A. Acocella)

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We have dwelt on the technological innovations discovered in the city founded by the Focei because they would seem to indicate that a masonry tradition – that of archaic and classical Greece – has amply codified its own constructive statute, whereas another, as a result of Hellenistic expansion, is about to be revealed in the Campania region, thus transferring the forefront of technological experimentation and innovation to the Roman world, the real protagonist in the development of the concretion of masonry walls. Indeed, the Campania region (and in particular the fertile areas adjacent to the Greek-Samnite Gulf of Naples) witnessed the discovery of one particular material during the 3rd century B.C. which, together with lime, was to be used as the basis for the preparation of a very special mortar. The material in question, as we all know, is called pozzolan or pozzuolana (from the Latin pulvis puteolanus, a direct reference to the most famous deposits situated in the Pozzuoli area near Naples), a volcanic sedimentary deposit in the form of fine lapilli with extremely high cohesive qualities due to its markedly siliceous nature. This material was to constitute a vital component of Roman mortar (used in opus caementicium), which substantially modified the structural conception of wall construction during the 3rd and 2nd centuries B.C., together with the very idea of architecture inherited from the Greek, plastic-linear tradition, which although often utilised in monumental constructions, no longer constituted the sole (nor the main) principle underlying large-scale construction in Roman times.
The historical evolution of mortar, an innovation which slowly but surely came to the fore in the construction field, is succinctly described by Hans Lauter:

At first it was used to replace the traditional filling of clay in walls of irregular stone; its characteristics meant that it was no longer absolutely necessary to perfectly align and shape the individual blocks, given that their mass bound and held everything together. This phase is evidenced by certain buildings within the Paestum Forum built during the early years of the Roman colony, around the mid-third century B.C. This was shortly followed by the subsequent phase, characterised by the discovery of the cavity wall.
Small, manageable stones are laid up to a certain height to form a double wall, and the cavity between the two walls is then filled with a mixture of mortar and rubble; then another layer of the same double wall is built, the cavity filled in the same way as before, and so on. In building the double wall, which Vitruvius defined as basically “orthostatic”, care was taken to ensure that the arrangement of the small stones created an attractive, reticular pattern on the facing of the wall, albeit not of a systematic kind. Thus it was that opus incertum was invented. Already in 193 B.C., the great warehouse at Rome’s Porticus Aemilia, at the port on the Tiber, was built using this technique.
There is no need to give a detailed description here of the success of this technique in the Campania and Latium regions, which saw it become the predominant local building method during the late Hellenistic period. The opus incertum is solid and impermeable; it can be used to quickly build tall, large constructions, characteristics which greatly satisfied the requirements of the Romans”.
2


The Tomb of Cecilia Metella, Rome. At the bottom of the wall, the structural base in opus caementicium can be seen (ph. A. Acocella)

The interest shown in emplecton masonry, first by Vitruvius, and subsequently by Pliny, is probably due to the desire to find a noble Greek precedent for the “Roman” opus caementicium: the latter consisted of the use of irregular smaller stones (caementa) mixed with mortar to fill the cavity between the two outer walls (made solely of stone for some two hundred years, and then with baked bricks). These two walls, separated by the said cavity, acted as both formwork and facing, and were often left bare. The considerable success of opus caementicium was accompanied by a decline in “Greek-style” stone masonry, as architecture was increasingly seen as “enveloping” an inner space which was gradually extended and now involved not only flat surfaces (both walls and ceilings) but also curved ones as well.
During the 2nd century B.C., there was a general shift in political and economic power in the Mediterranean area, the result of Roman military expansion: this was to weaken the long-standing tradition of massive, homogeneous, structural stone masonry, while at the same time enabling Roman masons and engineers to use the same stone materials in new ways.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Hans Lauter, “Materiale e tecnica”, in L’architettura dell’Ellenismo (Milan: Longanesi, 1999) (original title Die Architektur des Hellenismus, 1986), p. 52.
2 Hans Lauter, “Materiale e tecnica”, in L’architettura dell’Ellenismo, p. 59.

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22 Aprile 2011

XfafX

XfafX Festival to design today

La Facoltà di Architettura di Ferrara
La Facoltà di Architettura di Ferrara, istituita nel 1987, fu aperta ufficialmente con il primo corso di studi nell’A.A. 1991-1992.
Seppur circoscritta all’arco di soli venti anni la storia della facoltà ferrarese è estremamente densa di avvenimenti, scelte qualificanti, risultati riconosciuti, reputazione acquisita sul piano nazionale e internazionale.
La scuola ha puntato sul rapporto diretto e collaborativo tra studenti ed insegnanti impegnandosi nel sostenere con continuità lo sforzo strategico di reclutare docenti giovani attingendo liberamente e dinamicamente al mondo professionale, indirizzandone poi molti stabilmente alla carriera accademica; docenti, in ogni caso motivati, presenti nella didattica e attivi nel campo della ricerca architettonica.
Altrettanto costante è stato lo sforzo di selezionare un insieme qualificato di studenti rimodulando, anno per anno, le relative modalità di accesso e il numero degli iscritti da ammettere al corso di studi in funzione delle modificazioni indotte dalle varie riforme dell’ordinamento universitario nazionale e degli spazi progressivamente resi disponibili con l’avanzamento dei lavori di recupero del vasto complesso edilizio gravitante intorno al fulcro monumentale di Palazzo Tassoni Estense.
La Facoltà di Architettura di Ferrara, al fine di garantire un adeguato raccordo tra la formazione universitaria e il mondo del lavoro, ha avviato attività di tirocinio e corsi di perfezionamento post-laurea in settori disciplinari di particolare attualità e rilevanza, consentendo l’aggiornamento e il subitaneo inserimento dei laureati nel mondo professionale.
Nella consapevolezza dell’evoluzione che contraddistingue lo scenario della società contemporanea, la Facoltà di Architettura di Ferrara stimola gli studenti a compiere esperienze di formazione all’estero promuovendo un elevato numero di borse di studio. I rapporti e gli scambi internazionali sono intensi: appartengono a quattordici paesi della Comunità Europea le Università con le quali si attuano programmi Socrates/Erasmus e numerose sono le iniziative di collaborazione con Università del Sud America, Nord America e Nuova Zelanda.
Da anni la Facoltà di Architettura di Ferrara è ai vertici delle classifiche di qualità CENSIS che valutano gli Atenei del Paese, risultando ripetutamente prima fra le Facoltà italiane di Architettura. I risultati positivi, ampiamente confermati nel tempo, sono sostenuti da una concezione organizzativa e da una politica gestionale finalizzata a perseguire gli obiettivi prefissati, monitorati anno per anno, nella didattica e nella ricerca.
Con A.A. 2009-2010 l’offerta didattica della Facoltà di Architettura di Ferrara si è arricchita del Corso di laurea triennale in Design del prodotto industriale.
Tale nuovo Corso si inscrive in un asset strategico orientato a coniugare, sinergicamente, le realtà produttive degli ambiti territoriali di riferimento dell’Emilia Romagna – caratterizzati dai distretti di filiera della ceramica, dell’automobilismo, della moda, dell’arredamento – e quelle del Made in Italy più in generale attraverso l’apporto delle risorse immateriali della ricerca, dell’innovazione sia essa tecnologica, formale, culturale. Il Corso prevede un numero programmato di 50 studenti per anno con un totale di 150 inscritti nel triennio di laurea.
Valorizzando i punti di forza, la reputazione e il prestigio acquisiti, la Facoltà di Architettura di Ferrara intende aprirsi all’esterno, ancor più di quanto ha già fatto finora, e promuovere collaborazioni con Istituzioni, Committenze pubbliche e private, Associazioni di categoria, Organizzazioni di produzione finalizzate allo svolgimento di ricerche, di progetti formativi e culturali istituzionali.

Prof. Graziano Trippa
Preside Facoltà di Architettura di Ferrara

Prof. Alfonso Acocella
Responsabile scientifico e organizzativo XfafX 2011-2012
Responsabile Relazioni esterne e Comunicazione FAF


Palazzo Tassoni. Facoltà di Architettura di Ferrara

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Facoltà di Architettura di Ferrara

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Province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Modena, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Rovigo, Verona

COLLABORAZIONI SCIENTIFICHE
SITdA Società Italiana della Tecnologia dell’Architettura

SOSTENITORI GENERALI XFAFX
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Casalgrande Padana
Il Casone
Lithos Design
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Giuseppe Rivadossi
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18 Aprile 2011

Design litico

Tutto quello che non ti aspetti da una parete in pietra


Bamboo

Per chi ancora pensa alla pietra come a un materiale ‘classico’ e poco versatile nell’ambito del rivestimento parietale, Citco con il design di Ferruccio Laviani ha messo a punto una serie di pannelli dalle texture più varie e sorprendenti, che se da un lato imitano altri materiali in un processo di mimesi formale (come nel caso della parete Bamboo), dall’altro strizzano l’occhio a divertenti soluzioni optical e tattili di grande plasticità, combinati con metalli quali rame, ottone, acciaio.

Prendiamo ad esempio la parete Bamboo: sistema realizzato con moduli che riprendono la forma naturale del bambù, permette di allestire ambientazioni molto particolari con un materiale ad elevata resistenza e durabilità quale la pietra calcarea Desert Honey.


Camelia

O ancora, la parete Camelia presenta una particolare trattamento superficiale con fiori modellati ad altorilievo su pannelli di marmo Imperial Black, generando un effetto estremamente decorativo, la cui delicatezza rende quasi morbido il marmo. L’altorilievo è ottenuto per incisione meccanica a partire da pannelli dello spessore di 5 cm; i fiori vengono scolpiti fino a spiccare su una base di 2 cm di fondo.
Materiali e dimensioni sono sempre personalizzabili, permettendo sia di realizzare ambienti unici, altamente caratteristici, sia di ottenere progetti su misura e secondo le richieste del cliente.


Chachemire Paisley

D’ispirazione indiana e persiana il suggestivo motivo cachemire – paisley in inglese – è un decoro tra i più conosciuti della tradizione botanica orientale; il pattern Paisley è realizzato in bassorilievo per incisione meccanica su immacolati pannelli in marmo bianco Sivec. Questo particolare tipo di marmo originario della Macedonia, poco venato e di un bianco quasi assoluto, si presta particolarmente ad evidenziare gli effetti chiaroscurali del decoro.


Senso

Infine, la proposta Senso della collezione Metal and Marble si ispira ai motivi pop astratti e caleidoscopici degli anni Settanta e alle geometrie dei quadri optical di Victor Vasarely, l’artista che portò all’attenzione di un vasto pubblico la OP ART, una sorta di simulazione della terza dimensione ottenuta attraverso la deformazione che fa percepire “l’effetto sfera”. Senso suggerisce infatti quasi un movimento rotazionale, combinandosi nel decoro di pietra e metallo. L’intarsio a motivi circolari e a spirale è realizzato con onice tanzania, particolarmente brillante, marmo bianco Sivec e acciaio, e viene realizzato a mano assemblando tutti i materiali. Solo successivamente questi vengono levigati meccanicamente fino ad ottenere una superficie perfettamente liscia e continua senza commettiture e ruvidità al tatto tra un materiale e l’altro.

Eugenia Valacchi

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15 Aprile 2011

Post-it

NUANCE: sei nuove texture in Pietra Serena

IL CASONE e LITHOS DESIGN presentano NUANCE: sei nuove texture in Pietra Serena, progettate da Raffaello Galiotto, all’evento “150Y Italian Beauty” by Roberto Semprini

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15 Aprile 2011

Osservatorio Litico

Kokaistudios, PKU Università di Legge,
Pechino, Cina 2010

Kokaistudios è una realtà professionale fondata a Venezia nel 2000 dagli architetti Filippo Gabbiani e Andrea Destefanis. L’obiettivo principale dello studio, composto da un team giovane, multidisciplinare e flessibile, è garantire le risposte più adeguate – in termini di design e progettazione architettonica – alle complesse esigenze della società contemporanea e futura.
Nel 2002 Kokaistudios ha stabilito una propria sede permanente con uno staff di 20 architetti e designers a Shanghai, intraprendendo con entusiasmo le più diverse sfide progettuali e ottenendo numerosi autorevoli riconoscimenti internazionali.
Nel 2007 l’Università di Pechino, insieme a una prestigiosa fondazione americana, ha incaricato lo studio di realizzare il progetto per la nuova sede della Facoltà di Legge, all’interno dello storico campus di una delle più importanti università della Cina. Le particolarità del contesto, di grande pregio storico e qualità paesaggistica, hanno imposto una doverosa riflessione sul linguaggio da adottare per consentire un corretto e armonioso inserimento dell’opera ex novo nel sito.
L’edificio presenta un volume solido e compatto – imposto dai vincoli urbanistici e dalle concrete esigenze funzionali della facoltà – efficacemente valorizzato da un uso espressivo dei materiali. Le rigorose superfici esterne rivestite in pietra locale fungono da “filtro luminoso” diffondendo negli ambienti interni una suggestiva luce naturale. L‘attenzione alla massima flessibilità nell’uso degli spazi, agli aspetti di sostenibilità ambientale, al controllo dei costi di gestione denuncia un iter progettuale complesso e responsabilmente ragionato in tutte le sue fasi, dall’ideazione all’esecuzione.

di Chiara Testoni

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Kokaistudios, PKU Università di Legge, Pechino, Cina 2010
progettista: Kokaistudios
localizzazione: Pechino, China
team: Andrea Destefanis, Filippo Gabbiani, Li Wei, Fang Wei Yi, Liu Wen Wen, Yu Feng
progettazione: 2007
esecuzione: 2010
referente architettonico locale: BIAD
strutture: BIAD
impianti: BIAD
superficie: ca. 10.000 mq

Recapito
Kokaistudios

West Gate, 2/F, Anfu Road 201,
200031 Shanghai P.R.C.
Tel: 0086 021 64730937
Fax: 0086 021 64731037
www.kokaistudios.com
info@kokaistudios.com

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12 Aprile 2011

Opere di Architettura

Casa Miggiano a Otranto
di Umberto Riva


Dettaglio della facciata della casa

«Non ho idee progettuali a priori; l’idea nasce sempre da suggestioni: un paesaggio, il rapporto con una persona. Non calo l’architettura in un luogo; è il luogo che mi dice cosa fare. (…) Quando ho costruito Casa Miggiano, mi è capitato che qualcuno mi dicesse: “Questa casa è strana, non si capisce cosa ricordi”. Io speravo mi dicessero che, a suo modo, ricorda una masseria pugliese; sarebbe stato il migliore dei complimenti. Ho sempre guardato con attenzione le masserie, gli stazzi; sono edifici in cui non esiste una netta distinzione tra l’abitare dentro e l’abitare fuori. C’è una oculatezza nel progettare le aperture, nel dosare l’intensità e la qualità della luce; una capacità di lasciare risuonare all’interno della densità luminosa esterna»1.
Nel Salento, dove roccia e mare sono presenze costanti del paesaggio, Umberto Riva realizza alla metà degli anni ‘90 questa piccola casa, un volume elementare spaccato sul fronte dall’incunearsi di una corte a pianta ogivale che apre la vista alle lontananze del Golfo di Otranto.


Piante e sezioni longitudinali di Casa Miggiano

Numerose sono le suggestioni tratte dalla tradizione architettonica pugliese: il tema della corte interesterna scavata nel corpo compatto dell’edificio; il disegno del giardino chiuso da muretti e sopraelevato rispetto alla quota del pergolato d’ingresso; le coperture a terrazze piane e l’uso dei materiali lapidei locali.
Grazie al tufo salentino, facilmente lavorabile con semplici utensili da falegname, Riva può dar corpo ad una scatola muraria portante di matrice cubica, ammorbidita nella sua solidità da angoli mai perfettamente retti e incisa da incavi dove le ombre si insinuano, quasi a testimoniare che l’assolutezza stereometrica non è l’affermazione fondante del progetto. È ancora il tufo, ridotto in polvere e mescolato a calce ed ossidi secondo la consuetudine delle maestranze locali, a conferire agli intonaci stesi su tutti i prospetti quella pastosità materica e cromatica che sola si adatta all’intensa luce mediterranea.


Vista della casa e del pergolato d’ingresso

Alla tradizione del luogo si riferisce anche l’impiego decorativo della pietra leccese con la sua grana frequentemente punteggiata da fossili affioranti. Tale materiale litico, in forma di liste sottili o lastre di dimensioni maggiori, commenta i volumi della casa sottolineandone gli spigoli, le linee di raccordo tra piani verticali e orizzontali, e rivestendo in parte la facciata principale. Si tratta dello stesso calcare argilloso di colore paglierino utilizzato nei tetti piani lastricati tipici della zona.
Nella Casa Miggiano queste coperture orizzontali praticabili rimangono a prescindere dalla mancanza delle tradizionali strutture voltate sottostanti. Umberto Riva mantiene tali superfici piatte e sfalsate su quote diverse per dar vita ad un sistema di terrazze e camere senza soffitto in cui il volume architettonico si sfrangia, come se fosse incompiuto, perdendosi nell’azzurro del cielo.

di Davide Turrini

Vai a: Umberto Riva

Note
1 Vitangelo Ardito, Giovanni Leoni (a cura di), “Progettare è servire. Conversazione con Umberto Riva”, Area n.52, 2000, pp. 106-113.

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11 Aprile 2011

News

VITTORIO SAVI ARCHITETTO / INTELLETTUALE / NARRATORE
Fidenza ricorda un concittadino illustre

Giovedi 14 aprile alle 16, presso il Ridotto del Teatro Magnani
Interverranno: il Sindaco di Fidenza Mario Cantini, Adolfo Natalini (Architetto, docente di Progettazione all’ Università di Firenze), Maria Pia Bariggi (docente e studiosa di Storia della Letteratura), Paolo Barbaro (storico della Fotografia), Piero Orlandi (Architetto, Responsabile del servizio beni architettonici dell’ IBC Emilia Romagna).
Seguirà la proiezione di
Buongiorno Architettura, Buonanotte Architettura, audiovisivo sull’ Architettura in Emilia Romagna, da un’ idea di Vittorio Savi e Piero Orlandi, Regia di Francesco Lauber, 2005

Così scrisse l’ amico e collega Adolfo Natalini, all’ indomani della scoparsa di Vittorio Savi: “Era un architetto che aveva costruito poco perché non sopportava la distanza tra teoria e pratica, tra la bellezza delle idee e la durezza della costruzione. Era stato architetto per interposta persona ispirando architetture con una sorta di critica preventiva a giovani architetti dei quali indirizzava lucidamente i percorsi. Era nato il 18 settembre 1948 a Fidenza e continuava ad amarla ricambiato. Ogni visita alla sua città (era impegnato in progetti per il centro storico) era per Vittorio, diventato fiorentino con frequentazioni internazionali, un ritorno a casa sia per la profonda conoscenza della città che per la calda rete di amicizie che lo avvolgeva. Vittorio Savi ha insegnato Estetica al Dams di Bologna e Storia dell’ Architettura Moderna a Mendrisio e Ferrara: è stato per moltissimi anni un docente amatissimo, con una produzione scientifica esposta in convegni in tutta Europa. Di sterminate letture era nutrita la sua scrittura, coltissima, criptica ed elegante; ne erano nutriti anche i suoi interventi e presentazioni. Spesso iniziava a parlare di cose così lontane dall’ argomento che tutti si chiedevano dove volesse arrivare; poi, come un prestigiatore, tirava fuori l’ asso dalla manica e concludeva centrando il bersaglio con una bravura che obbligava all’ applauso. Vittorio Savi aveva poco più di 27 anni quando terminava (nel 1975) il suo saggio fondamentale L’ architettura di Aldo Rossi, il primo sul grande architetto con illuminanti intuizioni. Nel 1985 usciva il suo straordinario romanzo indiziario di architettura sulla Nuova Stazione di Firenze intitolato “De auctore”. Nel 1992 pubblicava “Rain Check”, definendola la sua prima opera letteraria e, nel 1995, “Finesecolo”, un libro di poesia e, in quarta di copertina, si autodefiniva “architetto, critico dell’ architettura e narratore in versi e prosa”. Tra questi tre libri e successivamente ha dato alle stampe innumerevoli saggi, recensioni, presentazioni che trascendevano i limiti dei rispettivi generi. Vittorio Savi è morto nella sua amata casa, alta sulla collina di Doccia, vegliato dalla sua famiglia e dai suoi libri, di prima mattina, il 7 gennaio 2011.”

L’ incontro fidentino, voluto da una gruppo di amici e dall’ Amministrazione Comunale, più che una commemorazione intende essere il tornare a fare i conti con la figura complessa e sfaccettata di un intellettuale difficilmente definibile. Sarà il dialogo di amici, collaboratori, colleghi, su alcuni dei campi in cui Vittorio Savi è incisivamente intervenuto e entro cui ha saputo tracciare nuove connessioni, lasciando sempre un segno discreto quanto profondo: la teoria e la pratica dell’ Architettura, le forme della parola scritta e parlata, l’ immagine come pensiero in atto sul mondo esterno, il territorio come luogo della relazione infinita, sempre storica e sempre contemporanea, tra architettura e paesaggio.

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11 Aprile 2011

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DOME Cantiere didattico sperimentale

Nell’ambito delle attività didattiche del Laboratorio di progetto II della Facoltà di Architettura di Siracusa, da marzo a giugno 2011 si terrà il Cantiere Sperimentale, Dome. Costruire con il laterizio. Il progetto coordinato dal prof. Luigi Alini è realizzato in collaborazione con AION

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11 Aprile 2011

Post-it

Zoom. Italian Design and the Photography of Aldo and Marirosa Ballo

“Io non faccio foto d’arte, foto ‘da chiodo’ – dichiarava Aldo Ballo – qui si fa fotografia industriale, si va dentro l’oggetto: interpretare l’oggetto, restituirgli l’anima”. In queste parole è percepibile tutta l’energia di un progetto non soltanto artistico ma più generalmente culturale che il grande fotografo milanese, insieme alla moglie Marirosa, ha saputo portare a compimento. Sempre che, e qui è importante sottolinearlo, la creazione abbia un punto di stasi, e non sia invece, più probabilmente, un’operazione di continua mobilità, di messa in discussione del postulato stabilito, di riflessione sul metodo.

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