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24 Ottobre 2011

XfafX

“NEW ITALIAN BLOOD 2011
Premio per giovani architetti e paesaggisti”

Mostra e Tavola rotonda “TOP NIB meet TOP FAF”
28 ottobre 2011 ore 11.00

Palazzo Tassoni Estense
Salone piano terra e Sala I5
via della Ghiara 36, Ferrara

A partire da martedì 25 ottobre prenderà il via la quarta tappa della mostra internazionale di architettura “NEW ITALIAN BLOOD 2011 – Premio per giovani architetti e paesaggisti”. La mostra itinerante – partita da Sciacca ha già toccato le province siciliane di Siracusa e Ragusa e che girerà l’Italia sino a raggiungere New York – costituisce un’importante vetrina per i giovani architetti “under 40” che si sono cimentati, con buoni risultati, in competizioni concorsuali internazionali.
Si svolgerà venerdì 28 ottobre a partire dalle ore 11:00, presso la sede dell’Università di Architettura di Ferrara di Palazzo Tassoni (aula I5), la tavola rotonda TOP NIB meet TOP FAF sulla professione dei giovani progettisti italiani.

Intervengono:
Giovanni Corbellini (Università degli studi di Trieste)
Luigi Centola (New Italian Blood)
Roberto Ricci (Presidente dell’Ordine degli Architetti di Rimini)
Antonio Ravalli (architetto Ferrara)
Antonello Stella (Facoltà di Architettura di Ferrara)
Moderatrice: Valentina Cicognani (architetto Bologna)

per iscrizioni tavola rotonda: relazioniesternefaf@unife.it

PROMOTORI
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Architettura di Ferrara

SOSTENITORI GENERALI XFAFX
AHEC American Hardwood Export Council
Casalgrande Padana
Il Casone
Lithos Design
Pibamarmi
Giuseppe Rivadossi
Viabizzuno

PATROCINI E COLLABORAZIONI
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Regione Emilia Romagna / Provincia di Ferrara
Comune di Ferrara
ADI / SITdA / CNA
Ordini Architetti, Pianificatori Paesaggisti e Conservatori
Province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Modena,
Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Rovigo, Verona

PARTNER
Fassa Bortolo
Libria
Nardi
Sannini

Canali istituzionali
www.xfafx.it
www.unife.it/facolta/architettura
www.materialdesign.it

Contatti
ufficiostampafaf@unife.it

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17 Ottobre 2011

Design litico

Creatività e Design: quando il nome è un manifesto d’intenti


Il sistema di sedute OASI in travertino e frassino.

“Capacità produttiva della ragione o della fantasia”: così il dizionario Devoto-Oli sintetizza il concetto di creatività, facendo leva sul doppio registro di razionalità e immaginazione finalizzati alla ‘produzione’ di idee. E così il verbo “creare” (kraino in greco) nel suo significato pratico del ‘generare materico’, implica l’attività speculativa del dare origine a pensieri innovativi. È da queste premesse che muove Kreoo Design, costola dell’azienda veneta Decormarmi, per offrire soluzioni tecniche e formali che fondano l’esperienza progettuale della casa madre con le più innovative istanze del design contemporaneo.

La scelta di ispirarsi all’Antica Grecia nel nome del brand ha il significato di instaurare un trait d’union naturale ed istintivo con una terra che ha ospitato la nascita della scultura e si È fatta promotrice della purezza delle forme e dei rapporti proporzionali.


La libreria SHIRO in marmo Onice Velluto e larice spazzolato.

Dal suo debutto nel 2010, Kreoo ha tracciato una strada di idee innovative ed accattivanti dedicate all’home design, offrendo al mercato un’immagine nuova ed inedita dell’oggetto in marmo. Tutte le collezioni sono veri e propri sistemi flessibili di elementi d’arredo che, nel solco della tradizione e della sapienza artigiana, danno al marmo una dimensione di inaspettata leggerezza, lo accostano ad altri materiali naturali come il legno e riescono a realizzare oggetti fortemente empatici, dalla forte componente tattile e cromatica, unici seppur ripetuti a scala industriale.
È il caso della collezione di sedute OASI, ispirata alle forme tipiche degli atolli tropicali: proposta anche singolarmente, ma ideale in gruppo poiché accostate queste sedute costituiscono un vero e proprio sistema, Oasi È realizzata in marmo con sedile in legno di frassino termo-trattato ed È adatta ad ambienti interni ed esterni. La leggerezza della seduta È conferita dal verticale susseguirsi ritmico di pieni e di vuoti; tre strati di Travertino con finitura sabbiata che esaltano la matericità e le caratteristiche intrinseche del marmo. Le linee fluide che ne disegnano i contorni ricordano forme organiche, perfette nella loro naturale irregolarità, mentre i volumi acquistano una dignità scultorea che riempie silenziosamente gli spazi creando ricercate isole di conversazione o di semplice attesa.
Oppure di SHIRO, non una semplice libreria ma un’architettura modulare basata sull’accostamento fortemente materico di marmo e legno (larice spazzolato color terra), un gioco statico basato sulla forza di gravità che permette ad ogni modulo della libreria di essere assemblato semplicemente attraverso due sole spine. Una variazione armonica di piani orizzontali e verticali capace di interpretare diverse esigenze abitative e professionali, che si esprimono anche nella duplice versione della proposta, in appoggio alla parete o in veste bifacciale. Quest’ultima tipologia, oltre che consentire l’uso del mobile da entrambi i lati, può diventare anche elemento divisorio degli ambienti del living quotidiano.


La libreria SHIRO in marmo Grigio Saint Marie e larice spazzolato.

Declinabile per esterni e per interni È invece PAVÈ STONE, il sistema di sedute ottenuto sovrapponendo una base in marmo e una di legno lamellare che evoca le forme dei ciottoli dei fiumi, che si re-interpreta ed evolve con due inedite interpretazioni che vanno a completare la collezione: Pavé Log (panca) e Pavé Drink (tavolino). Nel primo caso, alle originali basi in marmo viene sovrapposta un’unica asse in legno di larice che, in linea con l’appeal fortemente materico di tutta la collezione, È proposta con un effetto sabbiato che mette in particolare rilievo le unicità morfologiche del legno. È, inoltre, proposta anche verniciata lucida in un’ampia tavolozza di colori personalizzabili secondo le diverse esigenze. Per gli interni, la trave di seduta nella parte superiore È impreziosita da un rivestimento in cuoio naturale, mentre la parte inferiore della sezione rimane in legno sbiancato per creare contrasto.
Nel secondo caso Pavé diviene Pavé Drink, un inedito tavolino d’appoggio per interni ed esterni. Composizioni libere basate sui contrasti materici che presentano la tipica base in marmo di Pavé Stone dal quale parte lo stelo in metallo che andrà a sostenere il piano circolare in legno di larice lamellare. Il bordo del piano È proposto con un effetto di taglio tipo seghettato per porre ulteriormente l’accento sulla naturalità dell’intero progetto.
Pavé Collection esplora le potenzialità espressive di elementi naturali come il marmo e il legno nella loro accezione più naturale sia come estetica che come funzionalità. L’introduzione dei nuovi modelli offre la possibilità di comporre liberamente isole conviviali immediatamente empatiche; in particolare, per le versioni da esterni, le composizioni si integrano quasi a fondersi con il paesaggio.


Il tavolo ARCAICO con piano in marmo Bianco Sivec e fusti in Bianco Sivec e Grigio Saint Marie.

La collezione ARCAICO mostra a sua volta grande flessibilità d’impostazione; si tratta di un sistema di tavoli basato su una struttura in metallo alla quale sono agganciate basi cilindriche in marmo massello che fungono da contrappesi rispetto al piano (in marmo o legno) che a

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13 Ottobre 2011

PostScriptum

Sulla cima di Snøhetta

English version


Il monte Snøhetta

«La foresta di abeti verde-nera, carica di neve, montava su per i pendii.
Più in alto, si ergevano in bianco-grigio i monti rocciosi, con estesi piani di neve interrotti qua e là da scuri nasi di pietra emergenti, e con le creste svaporanti nell’aria.
Nevicava.
Tutto andava dileguando.
Quando si fermava, immobile per non sentire se stesso, il silenzio era assoluto e perfetto, una quiete ovattata, ignota, mai avvertita, senza riscontri possibili.
Non c’era un alito di vento che sfiorasse gli alberi, non un sussurro, non una voce d’uccello.
Castorp, appoggiato al bastone, la testa china su una spalla, ascoltava il silenzio primordiale; e la neve vi continuava a cadere, quieta, incessante, senza alcun rumore.
Dietro a colli rocciosi e imbiancati, trovò un pendio, poi un pianoro, poi un alto monte, i cui passi dalla soffice imbottitura gli parevano accessibili e invitanti.
Anzi, l’attrazione della montagna e dell’altezza, delle sempre nuove solitudini che gli si aprivano dinnanzi, era potente nel suo animo, e a rischio di far tardi si addentrò in quel deserto silenzioso.
Si fermò poi e guardò in giro, non c’era nulla da vedere, da nessuna parte, tranne singoli minuscoli fiocchi di neve che scendendo dal bianco superiore si posavano sul bianco del fondo, e il silenzio tutto intorno era enorme e nulladicente.
Mentre il suo sguardo si frangeva contro il vuoto abbagliante, sentì annunciarsi il cuore che batteva forte a causa della salita».

È Hans Castorp, giovane protagonista della Montagna incantata di Thomas Mann, a condurci nell’ascesa ad una cima, ad accompagnarci nel silenzio e nel biancore di una sommità innevata che per noi – oggi – è quella di Snøhetta; una delle più alte montagne norvegesi, il cui nome identifica anche il maggiore studio di architettura del paese nordico.

Scelto in realtà in modo piuttosto fortuito da Cetil Thorsen e Craig Dikers nel 1989 per una nuova esperienza professionale collettiva, questo sostantivo ormai noto, con la distintiva lettera O barrata, è sinonimo da oltre vent’anni di un metodo progettuale profondamente radicato nella lunga tradizione culturale scandinava, per cui l’architettura è intimamente legata alla gente, alla natura ed al clima.


Snøhetta, Museo d’arte a Lillehammer, 1994

Dalla vetta della montagna che si staglia candida sul paesaggio nordico, di opera in opera Snøhetta apre uno sguardo ampio e profondo sul mondo, uno sguardo lanciato dalla sommità non certo per ambizioni gerarchiche ma per la volontà di conquistare un’ottica lunga e onnicomprensiva che, scevra di retaggi e preconcetti, si libri alta per comprendere innanzitutto la complessità del reale, e per costruire risposte specifiche e articolate per le istanze della contemporaneità.

Lo studio conta oggi oltre cento persone, provenienti da diciassette paesi e distribuite in due sedi: nell’ufficio principale ormai storico di Oslo e in quello di New York, riguardabile come un vero e proprio incubatore culturale per il costante rinnovamento del gruppo di lavoro. L’attività di Snøhetta è basata su di un approccio interdisciplinare e sperimentale; su di una filosofia democratica che anima interventi complessi e multiscalari, nei settori dell’architettura, del progetto paesaggistico e del design.
L’opera della firma norvegese si esplica infatti in molteplici tipologie d’intervento: grandi edifici per la cultura e la formazione, architetture per le istituzioni, musei, edifici per i trasporti, strutture specialistiche per lo sport, residenze, alberghi, ristoranti, piccoli spazi commerciali, luoghi sperimentali per l’arte e lo spettacolo, architetture e installazioni temporanee, piazze pubbliche, percorsi naturalistici, giardini privati.

Se giungessimo ad Oslo, nella sede di Snøhetta affacciata sul porto, comprenderemmo appieno i valori e le dinamiche di un metodo di lavoro agerarchico e partecipativo. Saremmo accolti a sedere attorno a lunghi tavoli dove dialogando si progetta collettivamente, vedremmo riunioni in corso in sale trasparenti, assisteremmo all’attività dei laboratori con utensili artigianali e macchine a controllo numerico per la modellazione di plastici e di mock up; attratti dal profumo del cibo entreremmo infine nell’open space della cucina per pranzare in un momento conviviale che è considerato parte integrante della giornata di lavoro.


Un interno della sede di Snøhetta ad Oslo.

L’ascolto, la comunicazione, il rispetto delle proposte dei vari operatori dal committente al costruttore, influenzano fortemente i processi architettonici che Snøhetta promuove nel segno della valorizzazione delle culture locali, dell’impegno sociale, della tessitura di un legame stretto con il contesto ambientale. Opere come il Museo d’arte di Lillehammer (del 1994), il Museo della Pesca a Karmøy (del 1998), il Centro culturale di Sandvika (del 2003) e il Petter Dass Museum (del 2007) dimostrano l’impegno dello studio in programmi finalizzati alla valorizzazione delle culture e delle memorie locali, al sostegno e allo sviluppo dell’artigianato e dell’arte amatoriale, alla democratizzazione e al decentramento delle attività culturali anche nei luoghi remoti.

Accanto alla ricerca di un rapporto vero ed esplicito con i paesaggi ambientali ed umani dei territori in cui si colloca, l’architettura di Snøhetta pratica un distintivo sincretismo di linguaggi: essa presenta a tratti i caratteri di un amichevole eclettismo monumentale, a tratti le figure elementari di un minimale concettualismo, altre volte le forme sinuose di una modernità liquida, e riesce a lanciare con efficacia messaggi sempre ugualmente riconoscibili, ricchi di contenuti intellettuali rivolti al mondo globalizzato.
Mantenendo ferma una ricerca insistita dell’accessibilità, una configurazione ponderata del palinsesto funzionale e distributivo ed una cura raffinata degli aspetti formali e materici dell’architettura, Snøhetta esprime così un’estetica delle forme dinamiche, declinata in numerose variazioni fatte addensamenti, rarefazioni, squarci, torsioni, profili angolati, dorsali oblique, volumi scatolari o superfici avvolgenti.
Tale pratica sincretica, che fonde e trasfonde materiali e linguaggi in un processo suscettibile di continue rigenerazioni e inclusioni, non discende in modo univoco da una teoria, ma metabolizza pensieri e approcci critici diversi, da quelli più spiccatamente finalizzati all’architettura di Bob Somol, Sarah Whiting e Christopher Alexander, a quelli mutuati da discipline tangenti o parallele come l’estetica e la land art.
Operando da sempre ad una scala globale, Snøhetta rinnova la tradizione scandinava di architetti dall’approccio pragmatico e internazionale quali Alvar Aalto, Jorn Utzon, Ralph Erskine e Sverre Fehn, consolidando uno stile di metodo, più che di linguaggio, emblematico per la sua capacità di tramutare l’architettura in efficace ambasciatrice di cultura che spesso va – mano nella mano – con programmi ed impegni sociali e politici di alto profilo.


Snøhetta, Oslo Opera House, 2008

Significative in proposito sono opere come la Biblioteca di Alessandria d’Egitto, per la cui progettazione Snøhetta ha iniziato la sua attività nel 1989, o come il Memorial degli attentati terroristici dell’11 settembre a New York a cui lo studio sta lavorando in questo momento, o – ancora – come la Opera House di Oslo costruita
tra il 2000 e il 2008. Quest’ultima realizzazione in particolare può essere assunta come paradigma di una filosofia di intervento chiara e pregnante.

Il processo progettuale del teatro, guidato in ogni sua fase dallo studio, è stato estremamente articolato; il cantiere ha visto avvicendarsi oltre 50 imprese, chiamate a realizzare un edificio di grandi dimensioni, particolarmente avanzato dal punto di vista tecnologico e carico di valenze culturali e simboliche, non solo per la città in cui sorge, ma anche per l’intera comunità nazionale norvegese.
Destinato ad accogliere l’attività dell’Opera e del Balletto di Norvegia, l’edifico è nato infatti come baricentro di un più ampio progetto di riqualificazione urbana del fronte mare di Oslo e sorge dalle acque del fiordo dove si affaccia la città interamente rivestito di marmo bianco di Carrara, come un tributo monumentale al grande valore assegnato dal Paese scandinavo alla cultura lirica e teatrale.
L’intento dei progettisti di ricreare un frammento di pack artico, una sorta di candido spezzone di banchisa arenato in prossimità della piccola penisola di Bjørvika – luogo di incontro storico per gli abitanti della capitale norvegese – ha dato vita ad un volume architettonico definito da una serie di piani inclinati per lo più praticabili come terrazze pubbliche rivolte verso la baia.
All’omogeneità della scorza lapidea di rivestimento esterno, una distesa marmorea continua, variata soltanto nel pattern diversificato di molteplici finiture superficiali, è affidato il trasferimento della suggestione di una bianca massa solida monolitica, una nuova celebrazione del paesaggio nordico – questa volta in un contesto marino – generata dalla intersezione di piani dalle giaciture ripetutamente variate, incidenti tra loro secondo spigoli sghembi, mai ortogonali, a formare una grande scogliera ghiacciata.

Tale mega-cristallo emerge dall’elemento liquido instaurando con esso un rapporto complesso; l’architettura si configura al contempo come un segnale paesaggistico distinguibile a grande distanza e come un elemento connettivo urbano che unisce la città all’acqua: il mare specchia la forma litica e la increspa di riflessi luminosi nelle giornate di sole; il marmo bianco sottilmente venato di grigio si pone in relazione di dualità oppositiva, cromatica e materica, con le cupe acque del fiordo.
Progettato da Snøhetta con una raffinata scelta di materiali ed una sicura definizione dei dettagli costruttivi, l’edificio esprime una monumentalità piana e coinvolgente, ottenuta espandendo la dimensione orizzontale piuttosto che lo sviluppo verticale dell’architettura; i concetti di accesso libero e di stimolo all’incontro e all’aggregazione della gente sono alla base della progettazione del grande piano inclinato lapideo, che dalla città consente l’ingresso diretto al foyer del teatro o il contatto con l’acqua, per poi salire, con diversi cambi di pendenza, fino ad una copertura-belvedere praticabile.


Snøhetta, Ras Al Khaimah Gateway Project, in corso di realizzazione

Oggi il lavoro di Snøhetta continua…

… e con atteggiamento quasi romantico accetta di misurarsi con le forze sublimi di una natura diversa, non più quella nordica ma quella assolata e torrida del deserto arabo di Dhahran e Ras Al Khaimah, e ancora una volta per due imponenti edifici dedicati alla cultura.

Ma per far questo è giunto il momento di salire nuovamente la montagna, di compiere il viaggio che i nostri architetti rinnovano ogni anno in questa stagione.

Lo faremo insieme.

Dietro di noi, in alto sulla cima di Snøhetta, lasceremo i percorso di ascesa verso i risultati passati, verso la materializzazione dei tanti programmi, lasceremo le storie culturali e architettoniche inquadrate e raccontate in coordinate formali che di opera in opera mutano e si rinnovano.
Davanti a noi solo il paesaggio ed il cielo della montagna, egualmente spogli, egualmente puri, egualmente bianchi; talmente bianchi da accecarci per un istante, disorientandoci, azzerando in noi ogni verità acquisita, ogni sicurezza, ogni retaggio, per riconsegnarci ad un nuovo progetto scevri e vitali, con la potente forza analitica e immaginativa che solo lo sguardo elevato, gettato dalla sommità, ci può assicurare.

di Davide Turrini

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13 Ottobre 2011

English

On the top of Snøhetta

Versione italiana


Mount Snøhetta

“The black-green forest, covered with snow, climbed up the slopes.
Above, the rocky mountains stood white-grey, with vast planes of snow spotted here and there with dark noses of stone, and with ridges vanishing in the air.
It was snowing.
Everything was fading away.
When he stood still in order not to hear himself, the silence was absolute and perfect, a softened, unknown, never-heard-before quietness, without no solution possible.
There was no breath of wind to caress the trees, not a whisper, not a bird singing.
Castorp, leant on his stick, his head bent on his shoulder, was listening to that primeval silence; and the snow kept falling down quiet, endless, noiseless.
Behind the whitened rocks, he found a slope, then a plateau, and another high mountain, the stuffed passages of which seemed accessible and inviting to him.
The attraction of the mountain and its highness, of the ever-new solitudes that were waiting for him, was very powerful in his soul indeed, so he entered that silent desert even with the risk to be late.
He stopped and looked around, there was nothing to see, nowhere, except for tiny snowflakes falling from the upper whiteness and laying down on the whiteness below, and the silence all around was huge and speechless.
While his look broke against the dazzling void, he felt his heart beginning to beat faster and faster because of the climbing.”

It’s Hans Castorp, young protagonist of Thomas Mann’s The Magic Mountain, who accompanies us in climbing the mountain, in the whiteness and quietness of a snowy top, that for us is – today – the mount Snøhetta, one of the highest Norwegian mountains, whose name is also the one of the main architecture studio of the Nordic country.

This name was actually chosen almost by chance by Cetil Thorsen and Craig Dikers in 1989 for their new group professional activity: this well-known name, with the distinctive slashed O, is synonym of a projecting method deeply rooted in the long Scandinavian cultural tradition, according to which architecture is strictly linked to people, nature and climate.


Snøhetta, Lillehammer Art Museum, 1994

From the top of the mountain emerging in the Nordic landscape, Snøhetta has developed, work by work, a vast and deep look on the world, a look dropped from the top not for ambition or hierarchic reasons but for a willing of gaining an omnicomprehensive perspective that, without preconceptions or bias, is free to understand the complexity of reality and gives specific and articulated answers to contemporary instances.

The studio numbers nowadays more than a hundred people coming from 17 countries and distributed in the two locations of Oslo, the historical main office, and New York, a veritable cultural incubator useful to constantly renew the staff. Snøhetta’s activity is based on a multi-disciplinary approach and on a democratic philosophy that animates articulated and multi-graduated interventions, in the domains of architecture, landscape projecting and interior design. Snøhetta’s works develop in several intervention types: educational and cultural buildings, offices and institutional architectures, small commercial structures, experimental locations for the arts and sports, temporary architectures and installations, public squares, natural paths and private gardens.

If we got to Oslo, in the Snøhetta office set in front of the harbour, we could fully understand the values and dynamics of this participative working method without any hierarchy. We’d seat at long tables where projects are developed collectively through conversations, we’d see meetings taking place in transparent rooms, we’d witness workshop activities with handcraft tools and CNC machines for creating scale or mock up models; invited by the smell of the food, we’d finally enter the kitchen open space to have lunch in a convivial moment considered integral part of the working day.


Inside Snøhetta’s office in Oslo.

Listening, communicating, respecting the suggestions of the various figures from the customer to the builder,
strongly influence the architectural processes Snøhetta develops within the valorisation of local cultures, the social commitment, and the strong link with the environmental context. Works like the Museum in Lillehammer (1994), the Fishing Museum in Karmoy (1998), the Sandivika cultural centre, and the Petter Daas Museum (2007) demonstrate the studio’s efforts in order to stress the importance of local cultures and memories, sustaining craftsmanship and manual arts, and supporting democratization and decentralization of cultural activities even in the farthest locations.

Along with the search for a genuine and overt relationship with natural and human environments, Snøhetta’s architecture develops a distinctive syncretism of styles: it presents sometimes the characters of a friendly monumental eclecticism, some others the elementary shapes of a minimal conceptualism, and others the sinuous shapes of a liquid modernity, managing to express messages always perfectly recognizable, rich in intellectual contents aimed to the global world.
Staying constant in this strongly accessible research, in this well-thought configuration of functional and distributional textures and in a refined attention to formal ad material aspects of architecture, Snøhetta expresses in this way an aesthetics of dynamic shapes in numerous variations: densifications, rarefactions, passages, twists, cornered profiles, oblique lines, box-like volumes, wrapping surfaces.
This syncretic practice, mixing materials and languages in a process that can be continuously regenerated and expanded, is not developed from a single theory, but condenses different thoughts and critical approaches, from the more architecture-aimed ones – like Bob Somol’s, Sarah Whiting’s or Christopher Alexander’s, to the ones borrowed from similar disciplines like aesthetics or land art.
Working in a global scale, Snøhetta renovates the Scandinavian tradition of architects with a pragmatical and International approach like Alvar Aalto, Jorn Utzon, Ralph Erskine, and Sverre Fehn, consolidating not only a language, but also a style and a method able to turn architecture into a cultural ambassador often linked to high-level social and political commitments.


Snøhetta, Oslo Opera House, 2008

Notable architectures in this domain are the Alexandria Library, for the projecting of which Snøhetta studio was founded in 1989, the 11th September Memorial – a current project of the studio, or the Oslo Opera House built between 2000 and 2008. This last in particular can be mentioned as a highly symbolical paradigm of their working philosophy.

The projecting of the theatre, guided in each step by the studio, was extremely articulated; 50 firms worked in the site in order to create a building of huge dimensions, highly technologically advanced and rich in cultural and symbolical values, not only in relation to the city it is located in but also for the entire Norwegian community.
Destined to host the activities of the Norwegian Opera and Ballet, the building was conceived as the central point of a bigger re-qualification of the Olso harbour side and it rises, completely covered with Carrara marble, from the water of the city fjord, as a monumental tribute to the great value the country assigns to the culture of opera and theatre.
The projectors’ aim was to re-create a fragment of Arctic pack, a sort of candid piece of pack ice stranded near the little Bjørvika peninsula – place where people historically meets in the Norwegian capital town, giving life to an architectural volume defined by a series of inclined surfaces, mostly of them being used as public terraces oriented toward the bay.
The homogeneity of the stone external covering, a continuous surface in marble only varied by the different patterns of several finishes, transmits the suggestion of a white solid monolith, a new celebration of the Nordic landscape – this time in a marine context – generated by the intersection of plans with varied inclinations that touch themselves always with oblique corners, never orthogonal, in order to form a great frozen reef.
This enormous “crystal” rises from the liquid element fixing with it a complex relationship; the architecture is set at the same time as an element distinguishable at long distance in the landscape and as a connective urban element that links the city to the water: on sunny days the sea reflects the stone form and enriches it with luminous reflections; the white, subtly grey-veined marble is in a contrastive duality – in colours and shapes – with the dark waters of the fjord.
Projected by Snøhetta with a refined choice of materials and a decided definition of construction details, the building expresses a plain and engaging monumental aspect, obtained expanding the horizontal dimension instead of the vertical one; the concepts of free access and incentive to social aggregation are the basis of this project that allows the direct entrance to the theatre foyer straight from the city or the immediate contact with water, and then going up again, with different inclinations, to the passable belvedere roof.


Snøhetta, Ras Al Khaimah Gateway Project, under construction

Nowadays Snøhetta’s work keeps going on and, with an almost Romantic attitude, it has accepted to face the great forces of a completely different nature, not again the Nordic one but the sunny and heated Arab desert of Dhahran and Ras Al Khaima, once again two important cultural buildings.
But in order to do this, it’s time to climb again the mountain, to follow our architects in the trip they have every year in this season.
We’ll do that together.
On the top of Snøhetta, we’ll leave behind us the climbing path with the past results, directing ouserselves to the realisation of many projects, we’ll leave the cultural and architectural stories set and narrated in formal coordinates that change and renew in every single work.
In front of us only the mountain sky and landscape, both of them bare, pure, white; so white that we are blinded for a moment, loosing orientation and every known truth, every security, every preconception, in order to let ourselves face new vital and pure projects, with an analytic and imaginative powerful force that can only be granted by an elevated sight dropped from the top.

by Davide Turrini

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10 Ottobre 2011

Paesaggi di Pietra

Costruzione in pietra massiccia in Svizzera


Blocchi in gneiss. Arvigo, Cantone dei Grigioni, 2008

«Pour moi, construire une aérogare en pierre serait une imbécillité, pour ne pas dire une folie. Mais s’imposer des structures dynamiques pour installer des trois pièces-cuisine dans des immeubles de trois à dix étages, n’est pas moins aberrant.»1

Provocazione di un architetto reazionario oppure lucida analisi del settore della costruzione dell’epoca, quest’affermazione di Fernand Pouillon conserva, a quarant’anni di distanza, il suo valore di riflessione sull’utilizzo della pietra naturale. In effetti, a seguito della rivoluzione industriale e dell’introduzione di nuovi materiali per la costruzione, come il calcestruzzo armato e l’acciaio, la pietra naturale è stata progressivamente relegata nella sfera dei materiali nobili per il rivestimento. La situazione fino al XIX secolo era però completamente diversa, sia per l’utilizzo del materiale sia per il suo status sociale. La pietra naturale era, e lo è ancora oggi grazie alla sua grande durevolezza, il principale elemento costitutivo dell’ambiente costruito: gli edifici pubblici, quelli rurali, le opere di genio civile, i termini catastali e di proprietà, erano tutti realizzati in pietra naturale, poiché era un materiale localmente disponibile e la cui estrazione necessitava di poca energia.
La conoscenza empirica delle caratteristiche delle rocce locali permetteva ai costruttori di facilitare l’estrazione, sfruttandone le fratture e le “debolezze” naturali, e la scelta in fase di messa in opera. La pietra naturale lavorata poteva essere riutilizzata grazie alla grande resistenza agli agenti atmosferici, aumentata dagli importanti spessori utilizzati. L’investimento in lavoro e in energia era così distribuito su diverse generazioni.
Un adeguamento fra risorsa, estrazione e tecniche costruttive si produceva naturalmente. Una lenta evoluzione portò la pietra naturale sino all’industrializzazione dei processi estrattivi e di taglio che permisero in Francia, durante gli anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale, la ricostruzione di alloggi per gli sfollati utilizzando la pietra “pretagliata” con formati normalizzati (si veda il post “La pietra pretagliata e la ricostruzione in Francia dopo la Seconda Guerra Mondiale”). Finita quest’avventura, l’utilizzo in forma massiccia della pietra naturale scomparve lentamente, per riapparire, negli anni novanta del XX secolo, quando l’architetto Gilles Perraudin iniziò a costruire edifici con dei blocchi grezzi di pietra naturale (si vedano, ad esempio, i post “Cantina per il Monastero di Solan”, e “Regola e Sostenibilità”).
Questa ricerca dottorale si ispira direttamente all’esperienza di Pouillon. In effetti, nell’epoca dello sviluppo sostenibile e delle agende energetiche, l’utilizzo della pietra naturale dovrebbe essere rinnovato. In quest’ottica è analizzato, nella tesi, il caso della costruzione in pietra naturale massiccia in Svizzera.
Seguendo il percorso che porta la roccia dal giacimento all’edificio, si è cercato di definire un metodo per l’utilizzo della pietra naturale nella costruzione corrente, rispettando le attuali esigenze in materia di sostenibilità, di sicurezza antisismica e di riduzione del consumo energetico. Si è dunque tentato di dimostrare che la pietra naturale può essere ancora considerata come un materiale edile a tutti gli effetti, e ciò grazie al ricorso alla verifica scientifica, inedita in questa forma, di pratiche ben consolidate nel tempo.


Le schede delle pietre naturali svizzere per la costruzione massiccia

Il territorio svizzero, ben circoscritto geograficamente, possiede praticamente tutte le principali famiglie di rocce. Le distanze ridotte permettono di prevedere un utilizzo del materiale su scala regionale, sino a nazionale. Il costruttore è obbligato a conoscere le caratteristiche geologiche, petrografiche e tecniche delle diverse rocce per poterle selezionare, perché le proprietà del materiale influiscono sul suo comportamento in opera sia a livello statico sia della durevolezza, e determinano inoltre le tecniche estrattive e di lavorazione. In effetti, prima di poter essere utilizzata, la roccia deve diventare pietra da costruzione: la coltivazione della cava, le sue tecniche contemporanee così come le diverse possibilità di lavorazione devono essere conosciute e analizzate. Questi processi non influenzano esclusivamente le dimensioni dell’elemento lapideo, ma anche i suoi costi sia energetici sia economici. Nel secondo capitolo della ricerca, sono perciò analizzate la coltivazione della cava e l’estrazione della pietra naturale. Le conoscenze empiriche acquisite durante le visite sul terreno così come i dati scientifici prodotti grazie alle prove in laboratorio, dei quali oggi quasi tutti i produttori dispongono, ci hanno permesso di determinare quali rocce svizzere siano utilizzabili per la costruzione massiccia e di raggrupparle in una serie di schede sintetiche.


Cava di calcare. Giura svizzero, Cantone di Neuchâtel, 2008

La disponibilità di pietra naturale è la condizione essenziale per progettarne un utilizzo maggiore nella costruzione. Si è dunque trattato anche della gestione della cava e del suo recupero alla fine della coltivazione, sia a livello ambientale sia di sviluppo del territorio.
Le conoscenze acquisite sulle pietre naturali, le loro caratteristiche e l’estrazione servono al costruttore per definire le soluzioni di messa in opera. Queste ultime non derivano solo da criteri costruttivi o statici, ma, soprattutto oggi, da esigenze antisismiche, di comfort termico, di aumento della durata di vita e di sostenibilità. L’utilizzo della pietra naturale in forma massiccia è proposto dunque per tre tipi di costruzioni: strutture portanti per edifici di abitazione; rivestimenti auto-portanti per facciate, e strutture o rivestimenti per muri di sostegno. In tutti questi casi, si auspica che il progetto si realizzi attraverso un adeguamento fra la roccia, le tecniche estrattive e le esigenze costruttive attuali, al fine di dimostrare l’attualità di questo materiale ancestrale.

Stefano Zerbi

La tesi “Construction en pierre massive en Suisse”, redatta in lingua francese, è disponibile in formato elettronico presso la biblioteca del Politecnico Federale di Losanna.

Note
1 Pouillon, F. 1968: Mémoires d’un architecte, Paris, Editions du Seuil, p. 174. “Per me, costruire un’aerostazione in pietra sarebbe un’imbecillità, per non dire una follia. Ma imporsi [l’utilizzo, n.d.T.] di strutture dinamiche per collocarvi [degli appartamenti, n.d.T] di tre locali più cucina in edifici da tre a dieci piani, non è meno aberrante.” (traduzione dell’autore)

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7 Ottobre 2011

Letture

L’esploratore del tempio di pietra


Davide Turrini, Manuel Aires Mateus. Un tempio per gli Dei di pietra, Librìa, Melfi, 2011

Al cospetto di questi nuovi Dei, nel silenzio e in un’atmosfera luminosa soffusa, sono ammessi gli eroi, i visitatori che sanno comprendere il rituale della pietra e che sono invitati ad entrare per vivere un rapporto privilegiato con le divinità, assumendone in parte le virtù.
Potrebbe sembrare, a una prima lettura, che queste poetiche e ispiratissime righe siano state redatte da un esploratore del passato, un viaggiatore nordico dalla cultura vasta e cosmopolita, sbarcato a fine Ottocento tra i templi antichi e mitici della Magna Grecia. Potrebbe sembrare che l’oggetto del racconto si trovi tra le silenti campagne intorno ad Agrigento, immerso in un cono di luce zenitale, assopito nell’attesa di un eroico spettatore post-moderno che ne riscopra l’intatto splendore. Potrebbe sembrare, perché l’autore di questo libro, ricercatore presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, coniuga all’interno di precise ed esaustive pagine una profonda fede umanista e una spiccata conoscenza per i temi tecnologici legati ai materiali.
Davide Turrini, ormai alla sua seconda pubblicazione con la raffinata casa editrice Librìa, trasforma la narrazione tutta contemporanea del padiglione espositivo Pibamarmi che Manuel Aires Mateus ha progettato per la 45° edizione di Marmomacc, in un’occasione di racconto ad ampio raggio in cui qualità della pietra, tecniche compositive, poetica e gesto progettuale rimandano a un passato mitico, a una storia nella Storia. Un libro prezioso che riesce a superare la barriera della riduzione verbale – la parola che, in campo architettonico, troppo spesso non restituisce l’intensità dello spazio – per sviluppare considerazioni di carattere teorico sul lavoro dei due grandi architetti portoghesi. Un libro, infatti, che nasce da una conoscenza diretta e sedimentata di Manuel Aires Mateus come si evince chiaramente dalla lettura dell’interessante intervista che l’autore rivolge all’architetto in occasione della presentazione veronese del padiglione.


Manuel Aires Mateus, Un tempio per gli Dei di pietra, padiglione Pibamarmi 2010

Il testo è contenuto ed equilibrato nelle sue parti costitutive così come lo è la scelta delle immagini che esalta in modo radicale la bellezza del materiale, la sua atemporalità, anche grazie a una selezione di piante e assonometrie molto curata. È la via dell’equilibrio formale quella che percorre Davide Turrini, in perfetto accordo con l’eleganza silenziosa e intensa del progetto, concedendosi solo una breve ma esaustiva introduzione per comunicare al pubblico dei lettori la ricca storia progettuale dei Mateus. Apprezzabile è sicuramente la capacità di restituire con pochi accenni – sempre ben documentati – la complessità di molti anni di pratica professionale vissuta sotto il cielo che contempla anche le memorabili architetture di Byrne, Tavora, Siza e Souto de Moura, tutti grandi progettisti portoghesi. Frasi precise quelle che Turrini impiega nell’introduzione, senza mai cedere alla tentazione dell’elencazione, dell’erudizione fine a se stessa, ma tentando invece con successo di appassionare il lettore, per brevi cenni, al tema dello spazio vuoto, vera cifra stilistica dei Mateus.
Grazie ad un percorso di messe a fuoco progressive il racconto passa dall’inquadramento d’azione allo specifico progetto, quello del padiglione Pibamarmi, che è però trattato come splendida metafora capace di agganciare le diverse storie dei tanti edifici che si dipanano tra le righe della narrazione. Una metafora sorretta da argomentazioni pertinenti e puntuali in cui palcoscenico, spettatori e pubblico – Tempio, Dei ed eroi – formano una perfetta unità aristotelica. Il padiglione diventa teatro dell’azione scenica, momento di espressione del valore concettuale della materia – la pietra protagonista silenziosa della storia – al cui interno vengono compiuti rituali d’antica memoria come se il sacro potesse essere evocato anche al di là del mito classico che l’autore dimostra di conoscere alla perfezione.


Manuel Aires Mateus, Un tempio per gli Dei di pietra, padiglione Pibamarmi 2010

E Turrini parla a ragione delle “forme scultoree essenziali” incastonate come pietre preziose all’interno dell’involucro litico del padiglione che completano con equilibrato rigore lo spazio intenso e vibrante progettato da Mateus. Gli elementi di design, anch’essi pensati dalla mano dell’architetto, vengono evocati nel testo con la perizia scientifica dell’entomologo che nel raccogliere dati spiega e nello spiegare appassiona e nell’appassionare produce un nuovo progetto, quello del libro appunto. Così il racconto in nessuna sua parte riduce la qualità dell’opera del padiglione ma anzi la esalta creando un ologramma linguistico che conduce lo spettatore ben oltre il semplice sguardo, in una dimensione nuova, in bilico tra biografia, storia e critica.
Prima della parte che contiene la traduzione inglese, dimostrazione che questo testo è un veicolo per arrivare lontano, il saggio del professor Alfonso Acocella chiosa attraverso il binomio vuoto/pieno l’essenza della storia, la sua riduzione ad una coppia mitica, a quell’incontro di luce e ombra che, attraverso le parole, Davide Turrini ha saputo evocare con maestria. Conclusa la lettura non può che venire voglia di acquistare immediatamente l’altro libro dell’autore, quello dedicato al lavoro di Alberto Campo Baeza, sempre edito da Librìa. Altro racconto dipanato nel tempo della classicità, altro saggio di grande qualità. Ma questa, appunto, è un’altra storia…

di Elisa Poli

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4 Ottobre 2011

Osservatorio Litico

Ipostudio, Residenza Sanitaria Assistenziale, Montemurlo


Vista fronte est

Un’orografia articolata da dinamici terrazzamenti, tracce di vigorosi muri a secco che costellano il territorio, una campagna a vocazione agricola dallo straordinario pregio paesistico: in questo incantevole contesto proprio dell’entroterra toscano, Ipostudio ha realizzato un’opera vibrante e suggestiva, testimonianza concreta di un approccio progettuale fortemente ispirato dal genius loci e da un sincera sensibilità ambientale e sociale dell’intervento.

L’opera, realizzata a seguito di concorso di progettazione, contempla il riuso funzionale di alcuni edifici rurali esistenti e la loro integrazione nell’ambito di un intervento di ampliamento per la realizzazione di una nuova residenza sanitaria assistenziale. Un unico spazio aperto – mutuato dal concetto dell’aia propria delle fattorie toscane – funge da elemento unificatore tra le preesistenze e l’ex novo. La quota dell’aia determina l’accesso all’intero complesso e alla nuova struttura che ospita i nuclei abitativi e che si sviluppa su due piani ipogei, in aderenza alle curve di livello del pendio.


Particolare fronte est

Il nuovo edificio è caratterizzato ad est da un fronte curvilineo a due livelli, originato dalla morfologia del sito, che costituisce un forte segno di caratterizzazione progettuale. L’interfaccia con l’ambiente è rappresentato da un diaframma a due pelli: una vetrata, interna, in relazione con le stanze degli ospiti; l’altra, esterna, ad una distanza di 1,80 m, rivestita in materiale lapideo – recuperato dagli scarti del cantiere – a memoria dei muri a secco tipici della campagna toscana.

L’organizzazione distributiva del complesso prevede la disposizione a ventaglio dei nuclei residenziali, dislocati sui due piani dell’edificio, con affaccio unico verso la valle. Le bucature casuali che interrompono la lama muraria introducono rapporti differenziati tra gli spazi interni e il paesaggio, rendendo così uniche e “personalizzate” – nonostante la serialità planimetrica – le singole unità abitative.


Vista interna

Un intervento misurato e composto che, senza indulgere in sterili narcisismi, veicola concretamente una sensazione di profonda tranquillità e di serena riconciliazione con il paesaggio naturale/antropico: ovvero, proprio ciò di cui gli utenti hanno bisogno.

Chiara Testoni

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SCHEDA TECNICA
Località: Via di Cicignano – Località Le Querce – Montemurlo
Committente: Azienda Sanitaria Locale 4 di Prato, RUP Ing. Armando Forgione
Progettazione architettonica e coordinamento progettuale: Ipostudio Architetti
Consulenti: Niccolò De Robertis – struttura- Aei progetti srl; Paolo Pietro Bresci e Leopoldo D’Inzeo –impianti– Consilium srl
Coordinamento generale: Eugenio Arbizzani – STS spa
Impresa esecutrice: Restructura soc coop arl – S. Arsenio (SA) – edificio al grezzo; Staccone spa Costruzioni Generali – Roma – completamento
Direzione lavori e coordinamento sicurezza: Nicola Freddi – STS spa – edificio al grezzo; Elisabetta Zanasi Gabrielli – Ipostudio architetti – completamento
Tempistica: progettazione definitiva ed esecutiva 1999; Lavori impresa Restructura – edificio al grezzo – da settembre 2002 a settembre 2005; Lavori impresa Staccone – completamento – da aprile 2008 a ottobre 2010
Fotografie Pietro Savorelli, Jacopo Carli, Archivio Ipostudio
Superfici e volumi
Superficie del lotto: 5.305 mq
Superfici fuori terra (piano terra e primo): 1.155 mq (compresi di 165 mq di locali tecnici)
Superficie ipogea (livello -1 e livello -2): 2.505 mq (compresi 275 mq di locali tecnici)
Superficie totale: 3.660 mq
Volume fuori terra: 3.810 mc (compresi 570 mc di locali tecnici)
Volume ipogeo: 8.770 mc (compresi 960 mc di locali tecnici)
Volume totale: 12.580 mc

Recapito:
Ipostudio Architetti (Lucia Celle, Roberto Di Giulio, Carlo Terpolilli, Elisabetta Zanasi Gabrielli, Panfilo Cionci)
Piazza G. Poggi 1
50125 Firenze
www.ipostudio.it

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3 Ottobre 2011

Post-it

Massimiliano Fuksas: Orient Express n°1

La visita di Massimiliano Fuksas in una Facoltà di architettura produce un’energia simile a quella che si può captare in uno stadio poche ore prima dell’inizio di un concerto rock. Tre maxi schermi posizionati tra i due saloni di Palazzo Tassoni Estense e l’Aula magna di via Quartieri, studenti in attesa dell’arrivo dell’archistar.
Poi, mentre tutti ormai si erano seduti in religiosa attesa, la notizia che lo avrebbe accompagnato anche la moglie, Doriana Mandrelli, sua inseparabile compagna di vita e lavoro che ha deciso di seguirlo per vedere “questa Facoltà dell’eccellenza” che un po’ disassata rispetto alla direttrice Roma-Bologna-Milano ricorda molto a chi la visita i prestigiosi campus anglosassoni, dislocati in territori limitrofi alle grandi città, in centri culturalmente importanti, come appunto è il caso di Ferrara.

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3 Ottobre 2011

Post-it

Snøhetta Architect

Lo studio Snøhetta è stato fondato ad Oslo nel 1989 da Craig Dykers e Kjetil Thorsen; oggi conta uno staff di oltre cento persone, provenienti da diciassette paesi e distribuite in due sedi, nella capitale norvegese e a New York. L’attività di Snøhetta è basata su di un approccio interdisciplinare e sperimentale, e su di una filosofia democratica che anima interventi articolati e multiscalari, nei settori dell’architettura, del progetto paesaggistico e dell’interior design.

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3 Ottobre 2011

Post-it

La biblioteca centrale dell’Università di Humboldt di Max Dudler

Il pluripremiato Jacob-und-Wilhelm-Grimm-Zentrum, la biblioteca centrale dell’Università di Humboldt, è un classico esempio di architettura moderna in grado di ottenere la massima efficienza energetica. Il ciliegio americano e il noce americano creano l’atmosfera ideale nella più moderna biblioteca tedesca.

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