25 Novembre 2011
News
Marmomacc 2011
Intervista a Flavio Albanese
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Il marmo muta.
Materiale naturale e “alchemico”, si forma e si trasforma, evolve in lentissima genesi, assume proprietà e caratteristiche dell’ambiente dove nasce, assorbendone e rappresentandone individualità e unicità.
Resistente e stabile, è stato storicamente associato a durata e prestigio, diventando materiale d’elezione di architettura e scultura, alla ricerca dell’immortalità.
Oggi tecnologie sempre più avanzate, anche digitali, ne riscoprono l’essenza intimamente, insospettabilmente adattabile.
Il marmo dunque muta ancora.
Lo fa questa volta a livello percettivo, rendendosi duttile ad accogliere quello specchio flessibile di un mondo in continua evoluzione che è il design.
Moduli, complementi, superfici vengono riletti dalla sensibilità dei progettisti allo scopo di affinare logiche sempre più attente anche alle tematiche della sostenibilità.
Se da un lato infatti il marmo continua a imporre la sua personalità, chiedendo di accostarsi alle proprie caratteristiche con una profonda e specifica conoscenza, dall’altra propone infinite variabili – di colore, consistenza, impatto – che rendono possibili altrettante declinazioni. É allora che interviene il fondamentale potenziale di sperimentazione e innovazione offerto dal design.
Nasce da qui la sfida proposta quest’anno da Marmomacc Meets Design a progettisti e aziende, MUTABLE SPIRIT: essere tanto flessibili da esaltare il marmo come materiale mutante e mutevole. Rendendolo, con il loro lavoro, concretamente “mutabile”.
Piccoli ritagli dalle videointerviste durante Marmomacc 2011:
Patricia Urquiola (Budri): “Lavoriamo con tutti gli scarti e con tutti i marmi, mischiando resine e legno. Io spero di lavorare molto in questa direzione; ci stiamo avvicinando al marmo con tanta disinvoltura”.
Marco Piva (Regione Puglia): “Quattro pietre pugliesi, molto simili tra di loro, si prestano ad essere interpretati non soltanto nella loro superficie, ma nell’essenza e nella profondità, apprezzandone l’aspetto visivo, tattile ed emozionale”.
Raffaello Galiotto (Lithos Design): “La pietra da pelle di rivestimento a elemento massivo di costruzione. La pietra poggia sulla pietra e diventa portante, diventa elemento architettonico per la separazione e la costruzione si spazi abitativi”.
Riccardo Blumer (Trentino Pietra): “Dobbiamo immaginare le pietre come se vibrassero, sempre in grande movimento. A me piace raccontare una materia che non è statica ma dinamica. Il marmo si muove, è in movimento”.
Progettisti ed aziende:
Flavio Albanese per Margraf, Riccardo Blumer e Donata Tomasina per Trentino Pietra, Giuseppe Fallacara con Politecnico di Bari e Università di Budapest per Reneszánsz Köfaragò Ztr Urom-Hu, Raffaello Galiotto per Lithos Design, Setsu & Shinobu Ito per Grassi Pietre, Pietro Ferruccio Laviani per Citco, Michele De Lucchi, Angelo Micheli e Laura Cunico per Stone Italiana, Philippe Nigro per Testi Fratelli, Marco Piva per Regione Puglia (Petra Design, Pimar, Stonemotion, In.Spo Marmi), Snøhetta e Kjetil Thorsen per Pibamarmi, Patricia Urquiola per Budri.
Bordo Marittimo di Vigo, Galizia ph. Bleda y Rosa
lectio magistralis
Costruire luoghi urbani
25 novembre 2011 ore 17.30
Palazzo Tassoni Estense
Salone d’Onore
via della Ghiara 36, Ferrara
Iscriviti alla Lectio magistralis
(fino ad esaurimento posti)
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Programma
17.15 Registrazione invitati
17.30 Introduzione
Riccardo Dalla Negra
Facoltà di Architettura di Ferrara
17.45 Presentazione critica
Alessandro Gaiani
Facoltà di Architettura di Ferrara
18.00 Lectio magistralis
Costruire luoghi urbani
Guillermo Vázquez Consuegra
PROMOTORI
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Architettura di Ferrara
SOSTENITORI GENERALI XFAFX
AHEC American Hardwood Export Council
Casalgrande Padana
Il Casone
Lithos Design
Pibamarmi
Giuseppe Rivadossi
Viabizzuno
PATROCINI E COLLABORAZIONI
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Regione Emilia Romagna / Provincia di Ferrara
Comune di Ferrara
ADI / SITdA / CNA
Ordini Architetti, Pianificatori Paesaggisti e Conservatori
Province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Modena,
Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Rovigo, Verona
PARTNER
Fassa Bortolo
Libria
Nardi
Sannini
Canali istituzionali
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www.unife.it/facolta/architettura
www.materialdesign.it
Contatti
ufficiostampafaf@unife.it
Senzacornice è una nuova rivista digitale di critica e arte contemporanea fondata da Alessandra Acocella e Caterina Toschi, due giovani storiche dell’arte fiorentine.
L’idea è nata dalla comune volontà di creare una piattaforma culturale online fruibile su scala globale, in grado di aprire prospettive di riflessione al di fuori delle “cornici” istituzionali in cui vengono il più delle volte confinate. L’obiettivo principale è quello di consentire ai giovani studiosi di condividere il prodotto dei loro anni di studio, creando così un spazio editoriale “aperto” al confronto e al dialogo tra figure specializzate in ambiti di ricerca molteplici.
La rivista è a cadenza trimestrale e ogni numero approfondisce una tematica in un’ottica di confronto interdisciplinare tra arte contemporanea e architettura, cinema, antropologia, letteratura, filosofia, sociologia…
Il primo numero della rivista, editato nei primi di Novembre, è dedicato al tema della Cornice, intesa – in un’accezione polisemica – come “elemento in grado di circoscrivere un determinato campo visivo, isolare l’immagine dal mondo reale e focalizzare così l’attenzione dello spettatore su di essa”. Sei gli autori dei contributi presenti in questo primo numero, i quali hanno affrontato il tema della Cornice declinandolo secondo alcune prospettive critiche: storico-artistiche (Caterina Toschi, Alessandro Gallicchio, Irene Balzani, Alessandra Acocella), architettoniche (Diletta Storace) e cinematografiche (Camilla Toschi).
A questo nucleo iniziale di autori, si è aggiunto l’architetto e critico Pietro Valle, che con il suo saggio sulla Biennale d’Arte di Venezia 2011 ha inaugurato una nuova sezione per la rivista, intitolata “Fuoritema”; una sezione in cui verranno editati tutti gli articoli di particolare interesse che esulano dalle tematiche di volta in volta proposte attraverso i numeri trimestrali e che verranno ad arricchire così il panorama dei contenuti offerti dalla rivista.
Il secondo numero (febbraio-aprile 2012) sarà dedicato al Canone, di cui i lettori potranno trovare una sintetica definizione all’interno del sito, insieme alle modalità e alle norme redazionali attraverso cui poter collaborare all’evoluzione della rivista con un proprio contributo.
Tra i progetti futuri collegati all’attività della rivista vi è quello di promuovere cicli di conferenze e incontri di approfondimento tra giovani studiosi non solo italiani, così da estendere l’orizzonte delle ricerche condivise nello spazio della Rete.
Un ingresso con in evidenza il bancone di reception.
Per la nuova sede dell’Hermitage di Amsterdam, succursale olandese del celebre museo di San Pietroburgo, la scelta è caduta su Amstelhof, nel tentativo di dare nuova vita ad un seicentesco edificio adibito per oltre due secoli a casa di cura per anziani, chiuso nel 1900 e che ora dopo un lungo restauro si offre ai visitatori come ben più di un semplice spazio espositivo.
Il maestoso edificio estende la sua ampia facciata sulla riva del fiume Amstel per 102 metri e sviluppa la pianta quadrata attorno ad un’ampia corte centrale, dando vita ad un maestoso complesso scandito dalla simmetricità e dalle proporzioni.
Il restauro è stato coordinato dall’architetto Hans Van Heeswijk che tra il giugno del 2007 e il giugno del 2009 ha completamente ridisegnato l’edificio rispettando tuttavia la struttura originale delle fabbriche storiche e ricavando 9.000 metri quadrati di spazi espositivi, suddivisi in due saloni principali e 44 sale minori. Gli architetti Merkx+Girod sono stati invece incaricati di disegnare l’interno del museo quando il progetto architettonico era pressoché completo e il layout distributivo determinato.
Per il progetto d’interni gli architetti hanno sviluppato una strategia in cui risultano fondanti alcuni principi: la monumentale pelle esteriore è rimasta intoccata, sia all’interno sia fuori; i divisori ed i pavimenti hanno seguito la struttura complessiva delle fabbriche, liberandosi di tale riferimento solo in funzione di necessità programmatiche particolari; elementi speciali sono stati progettati e posizionati localmente per evidenziare specifiche identità degli spazi ove richiesto. Ne sono un esempio le colonne ed i rivestimenti dei solai, tenuti distaccati da travi e muri perimetrali per accrescerne il carattere monumentale. Altro esempio è offerto dalle pareti interne, ispessite sino ad 80 cm per contenere le installazioni tecniche, in tal modo rese invisibili. Queste pareti includono pure vetrine, finestre ed aperture, divenendo spazialmente più interessanti lungo la sequenza di vani costituita da reception principale, negozio del museo, ristorante, education center e hall monumentale.
Uno spazio distributivo interno.
Tutte le recenti trasformazioni del museo poggiano su un piano pavimentale in pietra serena dai tipici riflessi cerulei opera della ditta fiorentina Il Casone; essi s’appropriano della scala monumentale dopo essersi estesi agli orizzontamenti principali dell’intero complesso, in modo diffuso, con posa di lastre a quadri regolari non sfalsati.
Gli spazi interni sembrano molto più ampi di ciò che ci si aspetta osservando l’edificio dall’esterno, infatti muri e divisori interni sono stati eliminati per creare spazi espositivi fluidi e continui. La scansione delle finestre in successione guida il visitatore in modo intuitivo nell’esplorazione delle sale. Il risultato è una eccezionale coesione tra architettura ed interni.
Il lavoro di Merkx+Girod è caratterizzato da un approccio analitico al disegno di progetto combinato con la passione per il dettaglio, i materiali, i colori, producendo risultati sorprendenti per qualità tecnologica ed eleganza. Il lavoro di Merkx+Girod spazia da edifici privati a strategie complesse per grandi e complessi edifici pubblici riuscendo comunque a mantenere una coesione speciale tra architettura ed interni.
Due scatti fotografici dei nuovi interni.
Gli architetti Merkx+Girod hanno curato anche l’ampia mostra inaugurale “Alla corte russa”, che attraverso una selezione di circa duemila oggetti tra abiti, gioielli e arredi ha fatto rivivere il fasto degli Zar sottolineando l’antico legame tra Russia e Olanda.
Il paesaggista Michael van Gessel ha ripensato gli spazi aperti della corte creando un meraviglioso spazio verde proprio nel cuore della città il cui disegno si ispira semplicemente all’edificio e ai suoi ritmi. Dei quattro castagni monumentali tre restano a testimoniare la storia dell’edificio e contribuiscono a definire in modo asimmetrico l’ambiente della corte. Un progetto semplice, elegante e curato che utilizza materiali durevoli.
Più che uno spazio espositivo l’edificio può essere definito una vera e propria cittadella dell’arte che comprende un ristorante, un centro studi, le aule didattiche di Hermitage for Children, un auditorium, negozi e un caffè-ristorante.
Il percorso previsto per i visitatori parte dallo storico ingresso sul fiume Amstel; attraverso l’ampia corte si raggiunge poi l’accesso vero e proprio al museo sul lato opposto, dove sono situati anche il ristorante Neva, l’auditorium e le sale conferenza accessibili anche separatamente.
Dove rivesta ruolo funzionale nell’articolata struttura del museo, lo spazio rimane silenzioso, parte della chiara strategia complessiva. Dove invece prevalga la necessità d’evidenziare specifiche funzioni, lo spazio è caratterizzato in modo più libero.
Il successo di un intervento su un edificio monumentale può avvenire, come in questo caso, solamente riconoscendone e rispettandone le qualità originali.
Permangono comunque in tutto il complesso un’identità ed un senso unitari, seppure gli interni siano allestiti con sicura varietà ed emozionalità.
di Debora Giacomelli
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Maestranze cosmatesche, Ambone per la lettura del Vangelo con lastre in porfido rosso d’Egitto e rotae in porfido verde di Grecia, XIII secolo. Roma, basilica di San Lorenzo fuori le Mura.
“Gaius Cominius Leugas, che ha scoperto le cave di porfido e di knekites e di porfido nero e pietre variopinte, ha dedicato un tempio a Pan e Serapide, potenti dei, per la salute dei suoi figli. Anno IV di Tiberio Cesare Augusto”.
Ostrakon 1615, 18 d.C.
Il materiale
L’immaginario collettivo ha un potere incredibile nel creare simboli… ed il “marketing”, quello d’antan, vecchio di centinaia e centinaia di anni, è riuscito a trasformare il porfido rosso d’Egitto in una quintessenza simbolica, epitome di divinità, potere e coraggio. Un materiale, per quanto bellissimo, di difficilissima lavorabilità a causa della sua durezza, e con cave ubicate nel nulla più assoluto del Deserto Orientale egiziano, nel centro delle vie carovaniere che collegavano i poli commerciali della valle del Nilo e Coptos con i porti di Myos Hormos e Berenice, verso la via per le indie e l’Arabia.
Cave che erano talmente impervie e remote da finire per essere completamente dimenticate per molti secoli. Poi una lenta ricerca del passato grazie al toscano Jacopo d’Angelo che nel XV secolo ha tradotto dal greco al latino “Geografia” di Tolomeo, ed ancora Francesco Berlinghieri nella sua libera traduzione del medesimo testo in italiano (Firenze, 1482). Entrambi hanno il merito di parlare, anche se in forma vaga e imprecisa delle cave da cui proviene quel materiale che continua ad essere considerato tra i più preziosi ed importanti – il Porfido rosso Antico – per posizionarne l’area estrattiva là, in qualche parte del Deserto Egiziano Occidentale, in quella ipotetica metà strada tra i porti sul Mar Rosso e la valle del Nilo:
“Vedi monti distesi per istilo
dallo oriente del prefato fiume [Nilo]/
Lun dietro allaltro quasi posti affilo/
Questo vocare et vetusto chostume
Monte di pietra Troigo & il sequente
Alabastren che luce rende & lume.
Porphirito quell’altro dir si sente.
L’altro di Paragone & pietra nera
Monte si chiama: & piu uerso oriente
Quel Monte quivi di pietra decto era
Sebasanito anchor che la sia rude
Piace per degnita della matera…”
Le cave, riscoperte ed esplorate da Burton e Wilkinson solo tra il 1882 e il 1883, erano talmente importanti nell’antichità da essere gestite direttamente dall’entourage imperiale: non era pensabile l’uso routinario del porfido rosso antico in quanto esso era il materiale simbolo della casa imperiale e degli dei, diventato successivamente il materiale simbolo della cristianità e del martirio di Cristo.
L’imperatore veniva incoronato su un trono in porfido rosso antico; “porphyrog&eacuto;nntos” – latinizzato in Porphyrogenitus (“nato nella porpora”) – era il titolo che si dava ad un principe o una principessa se e solo se – oltre ad altre circostanze imposte – nascevano nella Phorphyra, la Camera di Porpora del Gran Palazzo di Costantinopoli che si affacciava sul mar di Marmara che era interamente rivestita di Porfido imperiale. Nella Roma imperiale le rotae in porfido potevano essere usate solo come espressione di Dio, Cristo o dei concetti ed espressioni relative la cristianità: sì quindi alle rotae in porfido rosso antico all’ingresso di una chiesa, in coincidenza dell’altare, o dove venivano posti i paramenti sacri, no invece, al loro uso come commemorazione del singolo prelato pur se di alta caratura. Solo più tardi, col tempo, il materiale divenne anche simbolo di opulenza diffusa nell’uso di politici e ricchi che erano in grado di sostenerne il costo proibitivo: 250 dracme stando all’editto di Diocleziano del 301, anche se c’è chi pensa che tale prezzo sia riferibile a materiale di riuso piuttosto che a materiale proveniente direttamente dalle cave.
Stereomicroscopio 7 I. Materiale a spacco. Il materiale presenta una colorazione bordeaux con locali plaghe che virano al verde, ed è macchiettato da individui bianchi, bianco-rosati. In bianco i feldspati.
Descrizione macroscopica
Il Porfido Rosso Antico è un litotipo magmatico effusivo di colore di insieme rosso bordeaux costituito da una massa di fondo crtiptocristallina non distinguibile ad occhio nudo in cui sono flottanti fenocristalli di colore bianco debolmente rosati, tendenzialmente isoorientati ove allungati e con dimensioni massime pari a 5 millimetri. Talora si presentano in associazioni glomeroporfiriche. Localmente sono presenti microcristalli scuri identificabili però solo tramite l’analisi con stereomicroscopio. Il materiale è molto compatto, mostra frattura vagamente concoide, ed è privo di porosità superficiale.
Descrizione microscopica
Litotipo ipocristallino – costituito sia da cristalli e sia da vetro – faneritico in quanto costituito da una massa di fondo afanitica in cui sono presenti fenocristalli inequigranulari riconoscibili ad occhio nudo di forma generalmente euedrale. La tessitura è porfirica localmente glomerofirica con tessitura direttiva trachitica.
I costituenti fondamentali sono: feldspati, presenti sia come micro/cripto cristalli diffusi nella massa di fondo trachitica dove hanno generalmente una disposizione isoorientata sub parallela e sia come fenocristalli, nel qual caso sono geminati, zonati, abbondantemente intorbiditi da ematite ed in fase di alterazione più o meno spinta. A causa della loro scarsa limpidezza non è molto facile trovare dei plagioclasi sui quali effettuare il calcolo della percentuale di molecola anortitica presente, un paio di individui hanno permesso di verificare una loro composizione andesinica. Verosimile anche la presenza di K-feldspato, anche se non identificabile a causa dell’alterazione del materiale.
Microscopio a luce riflessa, s.s., 10I. Localmente la massa di fondo presenta una colorazione rossastra per la presenza di microgranulazioni ematitiche diffuse.
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La roccia è sottoscorsa ad una intensa condizione di alterazione, tale per cui le fasi mineralogiche anteriori generalmente non sono identificabili.
Sono presenti fenocristalli sub millimetrici con tessitura coronitica in fase di alterazione e sostituzione molto spinta in cui il minerale costituente il protolito risulta essere non più riconoscibile. La loro forma è comunque compatibile con l’esistenza pregressa di inosilicati.
Tra le fasi cristalline presenti sono riconoscibili epidoti con dimensioni massime pari a 500 micron spesso in microgranuli. Essi sono verosimilmente di due tipologie differenti, epidoti s.s. spesso con strutture coronitiche molto spesse o in fase di parziale sostituzione, ma, prevalentemente, come piemontite, uno dei prodotti derivanti dal processo di alterazione idrotermale che ha interessato per parte l’area del Deserto Orientale Egiziano da cui proviene il Porfido Imperiale.
Abbondanti i minerali opachi, presenti sia come magnetite ma anche come ematite prevalentemente in microgranuli diffusi. Sono presenti zirconi anche essi con strutture coronitiche e fillosilicati in rare lacinie biotitiche e muscovite di alterazione dei feldspati. Rara la calcite anche essa di alterazione.
La roccia mostra una alto livello di alterazione che la rende poco leggibile anche a causa delle esigue dimensioni dei costituenti medesimi. La caratteristica della roccia lascia ipotizzare si tratti di un materiale magmatico di composizione andesitico, anche se la composizione mineralogica a piemontite lascia chiaramente intendere come il materiale sia sottoscorso ad un leggero metasomatismo manganesifero.
La roccia quindi può essere definita META ANDESITE.
Analisi diffrattometrica ai raggi X
L’analisi diffrattometrica del Porfido Rosso Antico è stata gentilmente eseguita dal Dott. Gianfranco Brignoli (Panalytical)
Provenienza e geologia
L’Eastern Desert va ad incunearsi nei rilievi più importanti dell’Egitto denominati Red Sea Hills e si allunga nell’area impervia ed invivibile che si trova tra l’ampia fascia del Nilo ed il Mar Rosso. Lo scudo Arabo-Nubiano, un tempo unito a formare un’unica area, si è smembrato con la messa in posto di crosta oceanica durante l’apertura del mar Rosso. Questa orogenesi Pan Africana ha influito e influenzato in maniera molto intensa l’evoluzione dei rilievi dai quali proviene il materiale in analisi: la regione dell’Eastern Desert egiziano .
Questa area è ipoteticamente divisibile in tre aree differenziate per chimismo, struttura ed età: l’area nord est – la più giovane – caratterizzata da prevalenti graniti e sienograniti e con una generale mancanza di ofioliti in affioramento, contrapposta all’area sud dove affiorano le rocce più vecchie con una maggior concentrazione di gabbri, tonaliti, granodioriti e litotipi gneissici. Queste due zone sono separate da una area centrale che si contraddistingue per l’alta concentrazione di litotipi vulcanici – Dokhan Volcanics attorno a Gebel Dokhan – ed è associata alle maggiori sequenze clastico-sedimentarie (Hammamat Group).
Le rocce vulcaniche di Dokhan formano un affioramento spesso fino a 1200 m con chimismo variabile da andesite a dacite, localmente riolite, e presentano strutture laviche, localmente tufitiche o agglomerati eterogenei nello spessore e nelle strutture. Esse infatti possono presentare struttura variabile da porfirica a non porfirica e colori mutevoli da grigio scuro a verdastro a rosso, come accade proprio nel caso del Porfido Rosso Antico, o Porfido Imperiale che fa parte del gruppo di rocce di età più recente.
Francesco Ferrucci del Tadda, ritratto in porfido rosso del Granduca Cosimo I de’Medici, 1570 circa. Firenze, Palazzo Medici Riccardi.
La loro origine è strettamente connessa all’apertura del Mar Rosso, evento geologico associato ad una importante fase vulcanica che evolve e si modifica chimicamente di pari passo all’apertura del bacino oceanico lasciando in eredità materiali molto duri dal punto di vista della lavorazione, ma estremamente importanti e preziosi nella storia estrattiva dell’antico Egitto.
Il porfido Rosso Antico proviene dal Mons Porphyrites, e trae origine da un vulcanesimo vecchio di circa 630 milioni di anni di composizione dacitico-andesitico che ha portato alla formazione di grandi strati di materiale effusivo, ma anche di tufi ed ignimbriti. Il numero di cave rilevate, compatibili con questa tipologia di materiale sono sei, tutte posizionate sul lato orientale del monte e a quote differenti rispetto lo Uadi Abu Maamel che ne interseca l’area; basta comunque solo la breve distanza esistente tra una cava e l’altra per garantire al litotipo in questione una grande variabilità di aspetto e caratteristiche. Ad esempio la massa di fondo è generalmente caratterizzata da fenocristalli di colore più o meno intensamente rosati, ma nella cava situata a Nord ovest rispetto lo Uadi Abu Maamel i feldspati presentano colorazione bianca. Localmente si apprezza una varietà brecciata, mentre a nord est l’andesite, è di colore nero in quanto non ancora sottoposta ad un processo di alterazione così intenso come quello dell’andesite denominata Porfido Rosso Antico e privo quindi di quella rilevante quantità di ematite e piemontite che ne causano l’intensa colorazione rossa.
Secondo alcuni studiosi la colorazione rossa è imputabile alla presenza di piemontite diffusa nella roccia e localmente a sostituzione dei feldspati e dell’orneblenda, mentre secondo altri è invece più accreditata, quale causa cromatica, l’elevata concentrazione di ossidi di ferro.
L’affioramento maggiore è spesso 50 metri e, ad occidente rispetto lo Wadi Abu Maamel, il materiale affiora per una estensione di circa 200 per 300 metri.
Antiche cave egiziane, area di provenienza del Porfido rosso antico (da James A. Harrel and Storemyr, Ancient Egyptian quarries. An illustrated overview).
Le cave
Secondo quanto abbiamo letto nell’ostrakon a cappello introduttivo di questo studio, sembra che le cave del Mons Porfirites – attualmente denominate Dokhan volcanics -furono scoperte da Gaius Cominius Leugas nel 18 d.C. Inizialmente questo materiale – durissimo – veniva estratto con magli e mortai in pietra (dapprima doleritici, ma successivamente anche con graniti a grana fine e arenarie silicizzate) senza disdegnare, durante il periodo Dinastico, l’uso del fuoco per indebolirne la parte corticale del materiale prima di iniziarne la lavorazione con strumenti a percussione lapidei, ma anche con punciotti in rame, bronzo o legno per allargare le fessure esistenti.
Strumenti in ferro (martelli, picconi, scalpelli, cunei) furono usati dagli egiziani durante la 30° Dinastia dell’Ultimo Periodo, mentre un’altra innovazione risalente all’epoca Tolemaica consisteva nel preparare l’area di estrazione con una serie di fori allineati che consentono di diramare le forze impresse nell’atto del distacco lungo piani preselezionati al fine di ottenere forme squadrate.
Le condizioni di lavoro all’interno di queste cave possono essere definite, senza tema di smentita – assolutamente infernali: lontano da ogni forma di vita, (150 km dalle rive del Nilo) in una terra di deserto roccioso arido e polveroso, tanto che, al contrario di altre cave più vicine alla zona nilotica dove verosimilmente erano presenti figure professionali indipendenti, in queste cave, erano presenti sembra – con periodiche punte massime di 900 presenze – schiavi e “damnati ad metalla”. persone condannate senza reale speranza di sopravvivenza.
La difficoltà oggettiva che caratterizzava la lavorazione di tale materiale ha provocato nel corso dei secoli una ricerca sempre più spasmodica di nuovi strumenti idonei a facilitare la trasformazione di materiali così duri. Al punto da creare miti e leggende peraltro non sempre verificabili. Ad esempio ciò accade con la storia dei Quattro Santi Coronati, i santi protettori degli scalpellini. Esiste infatti una leggenda abbastanza particolare rispetto il loro martirio: sembra che i Quattro Santi Coronati, scalpellini provenienti dalla Pannonia lavorassero per Diocleziano proprio nelle cave del Porfido Imperiale, e che possedessero degli scalpelli “temperati” da Cristo, il che consentiva loro – votati alla religione cristiana – di realizzare opere incredibili altrimenti non ottenibili con gli strumenti ordinari. E sembra anche che, rifiutando un lavoro all’imperatore Diocleziano adducendo motivi religiosi, fossero poi mandati al martirio.
Ma non solo! Nel 1568 il Vasari informa che già nel 1555 il duca Cosimo de’ Medici, desideroso di possedere una fontana in Porfido Rosso Antico, curò personalmente la distillazione di un liquore d’erbe col quale temprare gli attrezzi per la sua lavorazione, che poi il Tadda, abile scalpellino e scultore, usò per realizzare la fontana su disegno del Vasari medesimo…Vero? Falso? Sono seguiti studi e ricerche sulla paternità di questa invenzione senza arrivare a capo della notizia….e chissà, forse già gli stessi Quattro Santi Coronati conoscevano una qualche forma di tempratura che si guardavano bene dal condividere con gli altri scalpellini del loro tempo.
Aspetto di un campione di Porfido Rosso Antico, levigato e lucidato.
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Impieghi del materiale
Parlare del Porfido Imperiale significa parlare di un simbolo come, ai giorni nostri, parlare di Ferrari, Bulgari, Armani….ma con una valenza molto maggiore, perchè prima di diventare emblema del lusso incarnava l’alto simbolismo del potere divino prima ancora di quello umano. Esso tra tutti i materiali antichi è forse quello che in assoluto trasuda maggiormente di simbolismo. Difficile da lavorare a causa della sua durezza – sembra fosse tutto sommato poco usato al tempo dei faraoni proprio a causa di questo problema – ma sicuramente la pietra più importante e costosa, e da sempre preso a simbolo del potere divino e come raffigurazione di nobiltà, prestigio e ricchezza.
E proprio a causa del suo significato intrinseco esso è stato utilizzato – e riutilizzato – prevalentemente per realizzare opere che già di per sè dovevano fungere da propaganda culturale: colonne quindi a supporto di rappresentazioni di divinità o di imperatori, basi di busti, piccole statue votive, dipinti sia realizzati direttamente su lastrine di porfido, ma anche porfido riprodotto tout-court nei dipinti, come si nota nel refettorio di Santa Apollinare a Firenze dove nell’Ultima cena di A. del Castagno (1421-1457) si può vedere una specchiatura ad imitazione del Porfido Rosso Antico. E ancora vasi, piccoli recipienti, vasche, sarcofaghi. Colonne per templi o per edifici di grande rilevanza storica.
Col Porfido Rosso Antico si sono realizzati rivestimenti interni di stanze – la Camera di Porpora del Gran Palazzo di Costantinopoli ne era interamente rivestita – ma anche pavimenti generalmente secondo l’arte cosmatesca, e rotae che potevano essere usate a rappresentanza di un potere ed una grandezza divina, mai umana la qual cosa sarebbe apparsa inappropriata e di cattivo gusto se usata con significato non liturgico: al loro posto lastre quadrate, rettangolari od ovali o addirittura marmi differenti trattati e colorati al fine di renderli i più simili possibili a tale materiale.
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Exedra Nice Hotel, Boscolo Group, 2008 ph. Nicola Schiaffino
Oggetti macroggetti architetture
lectio magistralis
10 novembre 2011 ore 17.30
Palazzo Tassoni Estense
Salone d’Onore
via della Ghiara 36, Ferrara
Iscriviti alla Lectio magistralis
(fino ad esaurimento posti)
_________________________
Programma
17.15 Registrazione invitati
17.30 Introduzione
Alfonso Acocella
Facoltà di Architettura di Ferrara
17.45 Presentazione critica
Giuseppe Mincolelli
Facoltà di Architettura di Ferrara
18.00 Lectio magistralis
Massimo Iosa Ghini
PROMOTORI
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Architettura di Ferrara
SOSTENITORI GENERALI XFAFX
AHEC American Hardwood Export Council
Casalgrande Padana
Il Casone
Lithos Design
Pibamarmi
Giuseppe Rivadossi
Viabizzuno
PATROCINI E COLLABORAZIONI
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Palazzo Vecchio a Firenze
Il bugnato, dopo le applicazioni greco-romane, trova scarse riproposizioni fino all’epoca medioevale quando (fra il XIII e il XIV sec.) appare nuovamente in evidenza nelle architetture dei crociati e in quelle degli Hohenstaufen, in numerose fortezze e in alcuni palazzi pubblici e privati italiani.
Nelle città dell’Italia medioevale diverse fabbriche sono costruite con blocchi di pietra deliberatamente grezzi e massicci al fine di esprimere la loro forza a cui si associa il prestigio dell’occupante. Ma un uso sistematico del bugnato in architettura, declinato attraverso i caratteri del “grande stile” sarà un’acquisizione tipicamente rinascimentale quando si assiste al riemergere di una cultura antiquaria e di un’ammirazione delle opere degli Antichi; in particolare la ripresa e lo sviluppo del tema è frutto di ricerca del primo Rinascimento fiorentino dopo la lunga parentesi “artigianale” e “conservatrice” dell’architettura medioevale di pietra ben sintetizzata da Francesco Rodolico:
«Tutta di pietra di color ferrigno la città medievale riceve la più caratteristica impronta dall’uso larghissimo dell’austera pietraforte. Quel senso di concretezza che afferra chiunque guardi la mole del Palazzo Vecchio, viene raggiunto sfruttando appieno le doti di questa pietra; dalle grandiose muraglie bugnate, ai pilastri possenti eretti addirittura sul fastigio della torre. Se poi dalla suprema espressione dell’architettura civile fiorentina, volgiamo lo sguardo a tutto il nucleo, dovunque ritroviamo la pietraforte: nelle torri e nelle case, nei palazzi pubblici e privati (del Podestà, Frescobaldi, Spini, Mozzi, Davanzati ecc.) nelle chiese minori e maggiori (Santa Croce, Santa Maria Novella, Santa Trinita, San Remigio Santa Maria Maggiore, San Carlo ecc.). Dovunque le stesse murature a piccoli conci andanti di pietraforte disposti a “filaretto”, oppure a bei conci bugnati od altrimenti lavorati, e sempre in modo ineccepibile sotto l’aspetto tecnico (ad esempio, i pilastri ottagonali alti e sottili di Santa Croce, oppure quelli a fascio di Santa Maria Novella). Nelle fabbriche influenzate dall’arte gotica, la scolpibilità della pietraforte permise di eseguire nella stessa pietra le parti finemente decorative, (quelle ad esempio della Loggia dei Lanzi e d’Orsammichele». 1
Le condizioni particolarissime di disponibilità di pietre da costruzione ed ornamentali che contraddistinguono il territorio prossimo di Firenze fanno da sfondo alla rinascita – sotto nuove forme – del “muro bozzato”. Poche città europee godranno, nella fase di sviluppo fra medioevo e rinascimento, di una così facile accessibilità a cave di pietra. In particolare un calcare arenario conosciuto, nell’accezione comune, col nome di pietraforte sarà reperibile in grande quantità nelle colline che circondano Firenze e, fino agli inizi del Cinquecento, “cavabile” addirittura all’interno della cerchia medioevale nei pressi del giardino di Boboli. Con questa pietra sarà costruita la città medioevale e la parte prevalente – soprattutto l’edilizia monumentale privata – della Firenze rinascimentale che tutti ancora ammiriamo.
Placcatura marmorea bicromatica della Badia Fiesolana a Firenze
Alle risplendenti note bicromatiche dei rivestimenti “commessi” in marmi bianchi e verdi o alla più tarda declinazione policromatica (che mischia il rosso, al bianco Carrara e al verde serpentino) dell’architettura sacra romanica e rinascimentale – basti andare con la mente al San Miniato al Monte, alla Badia Fiesolana, al Battistero, a Santa Maria del Fiore – si contrappone il tessuto murario dell’edilizia civile maggiore contrassegnato dall’uso severo e costruttivo della pietraforte. Una pietra, quest’ultima, geologicamente assimilabile ad un calcare arenaceo a grana fine (e spesso finissima) piuttosto uniforme, con toni normali giallo-brunicci, attraversata da sottili fessure inglobanti calcite spatica che provoca sovente, nell’uso architettonico non accorto del materiale, il distacco di pezzi litici.
Ma se la pietraforte abbonda storicamente nelle colline che serrano Firenze da meridione, sul fronte contrapposto a settentrione – dove si impongono i contrafforti degli Appennini fra Fiesole e Settignano – si cava la pietra serena e, con essa, la più rara pietra bigia che con la prima esprime la varietà del litotipo di appartenenza: il macigno. La pietra serena rappresenterà, nel momento in cui entra nel tessuto edilizio di Firenze, un’innovazione tipica del genio brunelleschiano investendo, comunque, solo tardivamente l’edilizia abitativa e i prospetti su strada dei palazzi rinascimentali; rimarrà legata, per tutto il Quattrocento, al lavoro ornamentale dei lapicidi e alla riabilitazione degli ordini architettonici bisognosi, in molti casi, di grandi monoliti (come i colonnati di Santo Spirito o di San Lorenzo) che la pietraforte – per giacitura e struttura – è impossibilitata ad offrire.
Per tutto il XIII sec. la pietraforte viene utilizzata prevalentemente sottoforma di pietrame informe o di blocchi appena sgrossati; la richiesta di “pietra rifinita” (limitata unicamente ai programmi costruttivi di chiese) a partire dagli inizi del XV sec. aumenta notevolmente sul piano quantitativo al punto da far assumere al settore lapideo locale un’importanza e una specializzazione produttiva notevolissima, quasi senza confronti nel resto dell’Europa. Il documentato spostamento di molti lapicidi fiorentini lungo il corso del XV sec. nelle principali città italiane contribuisce, inoltre, grazie alla trasmissione del mestiere e dei nuovi ricercati modelli artistici, alla diffusione e all’affermazione del gusto rinascimentale.
Lungo il Quattrocento vengono costruiti in Firenze più di un centinaio di palazzi residenziali privati signorili la cui bellezza ed originalità tipologica è subito colta dai viaggiatori contemporanei che giungono e sostano nella città protesa, coscientemente, a promuovere – attraverso intellettuali, artisti ed illuminati committenti – i valori estetici di un nuovo Umanesimo incentrato sul primato dell’Antico. Molti edifici, attraverso la continuità del tema costruttivo delle facciate in pietraforte, esprimono in un certo qual modo l’evoluzione dell’architettura medioevale (e del Palazzo dei Priori – l’attuale Palazzo Vecchio – in particolare, che dalla fine del Duecento offre una restituzione molto raffinata del bugnato rustico) contribuendo così all’affermazione definitiva di un gusto al “muro bozzato” nei ceti dirigenti fiorentini.
Palazzo Medici Riccardi a Firenze
Si tratta di quelle “fabbriche stupendissime fatte di bozze”, elogiate dal Vasari, costruite quali dimore imponenti di famiglie mercantili con aspirazioni “neoaristocratiche” (i Medici, i Pitti, i Rucellai, gli Strozzi) rappresentate da personaggi emergenti in forte competizione interna (ed anche esterna, soprattutto rispetto al primato di Roma) che nello “ngienerare e edificare” – come annota Giovanni Rucellai nel suo famosissimo Zibaldone – identificano i campi principali del confronto.
Gli architetti eruditi fiorentini riprendono a studiare la maniera classica del bugnato e gli schemi compositivi che a questo si accompagnano. Il tratto distintivo dei primi esempi rinascimentali è rappresentato dal trasferimento – rispetto alla tradizione medievale locale di cui assimilano comunque la lezione costruttiva, esecutiva – del bugnato rustico in composizioni architettoniche complessivamente più ordinate. La nuova fortuna dei paramenti si esprime inizialmente attraverso il trattamento rustico delle bugne, grandi come macigni, nella rinnovata tipologia residenziale del Palazzo promossa dalla più ricca borghesia mercantile urbana.
L’inedita tipologia abitativa, costituitasi in blocco edilizio autonomo, a formare unico isolato urbano, ricerca la sua qualificazione rappresentativa attraverso le accresciute dimensioni (basti l’esempio di Palazzo Strozzi che si sviluppa su una fronte di 40 m contro i 5-6 m delle case artigiane medioevali) e il disegno dell’architettura affidato non più alle maestranze della costruzione ma ad artisti-architetti che riinterpretano il tema del volume edilizio, dell’organizzazione spaziale, delle accresciute superfici murarie fra cui s’impone, per importanza gerarchica, la facciata principale su strada.
All’assetto frequentemente disarticolato dei palazzi medievali – segnati, spesso, unicamente da cornici lineari marcapiano e da semplici bucature delle aperture – subentra una nuova concezione avviata da Brunelleschi e da Michelozzo all’interno della quale la facciata, trattata nei casi più importanti a bugnato, diventa il principale elemento di qualificazione formale e, conseguentemente, di ostentazione sociale. Fra Quattrocento e Cinquecento il bugnato rustico, in particolare, acquista un rinnovato prestigio e una rilevanza architettonica grazie all’influenza esercitata soprattutto dai grandi palazzi fiorentini eretti all’interno delle mura medioevali: Palazzo Medici, Palazzo Rucellai, Palazzo Pitti, Palazzo Strozzi per citare solo gli esempi più emblematici. 2
La facciata e il cortile di Palazzo Strozzi a Firenze
La facciata di pietraforte trattata a bugnato costituisce uno dei tratti peculiari dei palazzi fiorentini che fungono da prototipi e, poi, da modello per la maggior parte delle grandi residenze urbane rinascimentali non solo italiane. La facciata rimane sostanzialmente una superficie muraria di pietra lasciata a vista: piena, possente, sviluppata su più piani. Disegno e carattere architettonico traggono alimento dal paramento rustico che viene gradatamente attenuato nelle dimensioni e nell’aspetto come pure nella forza materica del trattamento delle bugne man mano che si sale dal piano terreno (in genere legato ad attività di servizio) verso i piani superiori con destinazione di rappresentanza e di residenza vera e propria: tutto ciò con l’obiettivo di articolare il disegno di facciata evitando, all’insieme, un carattere di uniformità, se non di monotonia.
Appare indispensabile, a questo punto della nostra trattazione, soffermarsi ancora sull’analisi dei principali palazzi rinascimentali fiorentini per studiare con maggior approfondimento le loro facciate bugnate destinate a diventare, come detto, un indiscusso modello di riferimento internazionale per i secoli successivi.
Nella fase d’avvio del primo Rinascimento s’impone per novità d’impianto compositivo, per vigore e monumentalità architettonica il nuovo palazzo Medici intrapreso verso il 1445 da Cosimo dei Medici su progetto di Michelozzo. La soluzione tipologica e l’inedita restituzione “classicheggiante” degli alzati murari di facciata risulteranno decisive per la sua “fortuna” al punto da indicarlo subito come modello dell’edilizia residenziale cittadina per tutto il Quattrocento. L’incremento delle dimensioni del palazzo e il potenziamento della sua visibilità architettonica mediante un sostenuto decoro delle facciate in pietraforte trattate a bugnato sono in relazione allo status economico e alle ambizioni del committente.
L’isolamento dell’edificio, sia pur parziale rispetto al tessuto cittadino, e il suo impianto distributivo, incentrato su un asse principale con un fulcro spaziale a cielo aperto, codificano il caratteristico schema del palazzo rinascimentale assegnando alla residenza di Cosimo dei Medici il ruolo di prototipo indiscusso. La sequenza funzionale e rappresentativa del nuovo modo di abitare è organizzata attraverso una chiara matrice prospettica a partire dall’ingresso, coperto da una volta a botte, che confluisce nel portico ad arcate posto a perimetro del cortile interno; l’ampia corte con colonne riprende e ripropone i peristili o i quadriportici delle domus romane riconducendoli ai nuovi canoni estetici che si vanno progressivamente delineando con la fortuna della “casa degli antichi” sull’esegesi del testo vitruviano.
In esterno il massiccio e ben squadrato volume di pietra si ricollega, nell’intonazione complessiva, alla tradizione fiorentina medioevale (evidenti analogie sono rilevabili rispetto a Palazzo Vecchio) ma innovandone il disegno attraverso i canoni della regolarità compositiva, della simmetria, unitamente alle inconsuete dimensioni assegnate ad una residenza cittadina. L’insieme esprime magnificenza ed ostentazione privata e non più pubblica.
Le scelte nell’uso e nel trattamento del bugnato in pietraforte sono ora espresse da elementi e da un linguaggio di natura archeologizzante come testimonia l’enorme cornice a modiglioni che, per la prima volta nel Quattrocento, chiude in alto il potente volume murario. I vigorosi prospetti sono ricondotti ad una certa misura classica attraverso l’unificazione e l’equilibrata ripetizione delle aperture (intese come “sfondamenti” murari) che entrano nella composizione delle due fronti principali poste ad offrire una visione prospettica privilegiata dell’edificio.
Ai modi bugnati medioevali il paramento di Palazzo Medici, in qualche modo, sembra ricollegarsi ma qui, nella residenza di Cosimo, soprattutto nell’alto registro basamentale a gradi bozze rustiche, si respira per dimensioni e per trattamento delle bugne maggiormente la maniera romana (e la nostra memoria va in particolare alla muraglia del Foro di Augusto). Al senso primitivo e fortemente chiaroscurale delle grosse bugne rustiche del piano terreno, che inglobano i vigorosi archi a tutto sesto, segue in verticale una successiva bipartizione del volume superiore del palazzo, con fasce d’interpiano decrescenti, che adotta paramenti murari con un modellato più pacato e geometrizzato della pietraforte la quale registra una diminuzione del livello di “scabrosità” adottando soluzioni “quasi isodome” a bozze piane e , nel registro sommitale, addirittura lisce e complanari senza alcuna incisione superficiale.
Com’è noto una serie dei caratteri dell’opera di Michelozzo saranno ripresi in numerosi palazzi rinascimentali, anche fuori di Firenze; particolare fortuna spetterà proprio al tema della facciata a bugnato che, progressivamente, dalle forme primitive e grezze si porterà anche verso soluzioni di più spinta regolarità e modellazione plastico-geometrica come nei casi di Palazzo Rucellai e Palazzo Pitti in cui vengono proposte nuove ipotesi di “ordine”.
Palazzo Rucellai a Firenze
Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Quattrocento Giovanni Rucellai, privato cittadino fiorentino, lontano da ogni ruolo pubblico, concentra le sue grandi ricchezze in specifici programmi edilizi partecipando, con interesse e curiosità, al mondo dell’architettura e delle scelte connesse al progetto; accoglie con entusiasmo il “nuovo linguaggio” di Brunelleschi, partecipa alla riscoperta e al “godimento” estetico dell’Antico redigendo, nello specifico, in forma scritta, un taccuino delle visite ai monumenti romani effettuate durante il giubileo del 1450. Si tratta di uno Zibaldone in cui, fra le tante annotazioni inerenti le opere architettoniche di Roma, vi è anche un diretto riferimento al muro perimetrale bugnato del Foro di Augusto letto come “bozzato di fuori, con tre cornici, sanza finestre”, che lascia intendere un sottile ed arguto interesse dell’autore per tale tema.
Per Giovanni Rucellai, Leon Battista Alberti, in stretta collaborazione con il Rossellino, intraprende a metà del Quattrocento la prima costruzione per il facoltoso committente legata all’ampliamento della sua dimora cittadina insistente su via della Vigna. I lavori – posti a riunificare architettonicamente varie unità immobiliari progressivamente acquisite in vista della creazione di un “palazzo” signorile – sono avviati nel 1455 con l’obiettivo principale di conferire unitarietà e magnificenza al volto su strada della nuova residenza del Rucellai; l’ultima azione della proprietà – indirizzata ad acquistare un’abitazione per accrescere ulteriormente il piano murario di facciata – fallisce per la resistenza di chi dovrebbe cedere l’immobile; previsto a cinque campate e subito ampliato a sette assi di aperture il prospetto rimane così incompiuto.
Dettaglio della facciata di Palazzo Rucellai a Firenze
La facciata del palazzo Rucellai, realizzata completamente in pietraforte con una restituzione piatta del tema bugnato e un disegno del prospetto “scompartito” a mezzo di lesene, rappresenterà una novità nel panorama dei palazzi fiorentini, quasi ad identificare una terza ipotesi tipologica, destinata in effetti a non grande fortuna, posta a cerniera fra i palazzi “muniti” (a bozze rustiche) e quelli “fioriti” (ad intonaco affrescato).
L’impegno architettonico principale dell’Alberti è indirizzato all’invenzione di una “facciata di rivestimento” da sovrapporre ad unità immobiliari già esistenti; un’impresa simile a quella del Tempio Malatestiano di Rimini ma, in questo caso, sottoforma di schermo sottile, di “placcaggio” lapideo nobilitante un muro ordinario al fine di rispettare l’allineamento imposto dai regolamenti edilizi cittadini. Del palazzo Medici – iniziato solo un decennio prima, ma già modello di riferimento per i grandi palazzi fiorentini – si assimilano numerosi elementi dell’impaginato murario (cornicione aggettante, finestre composte a bifore entro archivolti a tutto sesto, bugnato piatto del piano nobile, e, infine, l’unificante distesa di pietraforte quale unico materiale caratterizzante la facciata); l’Alberti, allo stesso tempo, non rinuncia a mettere in campo scelte innovative.
Nella ricerca di elementi che potessero nobilitare secondo i nuovi canoni estetici la facciata del palazzo di Giovanni Rucellai da presentare come un “bel dono alla città”, l’architetto guarda da una diversa prospettiva – rispetto ad un Brunelleschi o un Michelozzo – l’antichità romana selezionandone temi compositivi utili al suo lavoro. L’introduzione di lesene lisce prive di scanalature, poste ad individuare tre livelli di ordini sovrapposti che organizzano figurativamente l’impaginato di facciata modulandolo su sette interassi, rappresenta la novità più evidente ed originale.
L’inedita sintesi, se confrontata rispetto alle soluzioni già codificate dagli architetti fiorentini, di un’intelaiatura di paraste “montate” in sovrapposizione per ben tre piani, è un dispositivo compositivo presente nelle opere antiche di Roma. L’Alberti, da profondo ed attento conoscitore delle vestigia romane, nell’impostare il disegno di facciata per il palazzo fiorentino, può aver guardato a due monumenti caratteristici della romanità: il primo, più noto ed appariscente all’interno della compagine urbana di età imperiale, è rappresentato dal Colosseo con gli ordini architettonici addossati alla muratura alternati alle lunghe teorie di archi; il secondo, meno rinomato, è l’Anfiteatro Castrense – tra l’altro menzionato dallo stesso Rucellai nel suo Zibaldone – dove paraste lisce appiattite sono utilizzate per i due livelli superiori.3
L’abbandono di bugne rustiche a forte spessore, a causa dell’esiguo spessore entro cui è possibile lavorare, spinge l’architetto a ricercare un’interpretazione originale del tema di progetto; la restituzione sostanzialmente “bidimensionale” della facciata non risulta affatto enfatizzata in quanto l’Alberti si impegna ad inscrivere gli elementi architettonici principali della composizione (lesene e superfici murarie) in piani differenziati di giacitura, sia pur giocati su pochi centimetri di profondità. A segnare orizzontalmente la facciata sono posti, con maggiore forza e valore plastico, il basamento – dotato di sedili continui con spalliere piatte trattate finemente con un motivo inciso ad opus reticulatum – ed, in alto, il grande cornicione fortemente aggettante.
«Il rivestimento in conci di pietra forte – precisa Roberto Gargiani – è addossato ai muri delle vecchie case e prosegue per un breve tratto sul fianco lungo via dei Palchetti dove è lasciato con ammorsature incompiute. I conci sono contornati da bordini molto arretrati ed hanno facce piane e spessore di circa diciotto centimetri (più tre di risalto delle facce) misurato nelle feritoie. Essi sono talvolta ancorati alla muratura mediante staffe di ferro. (…) Viene rinnegata la lavorazione scabra della superficie della pietra: “qualsiasi pietra levigata si salva dalla corrosione” scrive Alberti.
Disegno e taglio dei conci sublimano la possanza del bozzato in ombre a trama geometrica secondo quanto già sperimentato al primo piano di Palazzo Medici. (…) L’apparecchiatura reale non sempre corrisponde a quella disegnata dai bordini. (…) Se nei precedenti palazzi il disegno si identificava con il taglio e il montaggio delle pietre, in Palazzo Rucellai esso corrisponde alla distinzione ristabilita da Alberti tra “materia” e “disegno”, la quale pone le premesse per il tradimento dell’apparecchiatura del muro in pietra e della cultura degli scalpellini fiorentini se, come lui stesso scrive d’accordo con Nicolò Cusano, occorre “dar forma alla materia secondo il disegno”. Dalla tradizione degli scalpellini tradotta nell’ordine delle pietre di Palazzo Medici sta nascendo, ad opera di uno dei più grandi uomini di cultura del Quattrocento e di una bottega di scalpellini, un’architettura che tende a raggelare in termini di regola il rigore costruttivo della cerchia brunelleschiana e a unire in modo insuperato la ricercata casualità dei muri fiorentini e la raffinatezza di antichi ordini». 4
Dettaglio della facciata di Palazzo Pitti a Firenze
La famiglia Pitti, al pari delle altre ricche dinastie mercantili, concorre lungo il Quattrocento a consolidare l’immagine delle imponenti dimore fiorentine attraverso il celeberrimo palazzo affacciato sul giardino di Boboli voluto da Luca di Bonaccorso Pitti che inizia ad acquistare i terreni, ancora liberi da costruzioni, nel 1450. Controverse ipotesi filologiche attribuiscono la paternità ideativa dell’opera al Brunelleschi, all’Alberti, a Luca Fancelli. I lavori del palazzo iniziano intorno alla fine degli anni Cinquanta del Quattrocento e a metà del Cinquecento non sono ancora terminati quando la fabbrica viene acquisita dai Medici (con esattezza nel 1549) per farne una superba dimora “regale”. A questa data manca l’ultimo piano.
La facciata oltrepassa le consuetudini dell’edilizia fiorentina slanciandosi fino a 36 m di altezza (dieci metri in più rispetto a Palazzo Medici). L’uniforme rivestimento bozzato trae ispirazione dallo schema di palazzo della Signoria e il materiale lapideo viene estratto da vicinissime cave. Le enormi dimensioni dei corsi di bugne a baule irregolare che caratterizzano il pianterreno si attenuano, progressivamente, con l’incremento della quota. L’eccezionale vigore materico della muraglia si innesta con la rievocazione dei paramenti in pietra del tratto della cerchia comunale del XII sec. attigui al sito. La grande parete stimola, a sua volta, il confronto da parte di umanisti con le cortine bozzate dell’antichità romana.
Il prospetto bugnato è impostato a fasce, con vuoti e pieni modularmente disposti ed equilibrati, secondo cadenze classiche, regolari, seriali. Fanno spicco all’interno dell’impaginato bozzato, alcuni conci di inusitata dimensione (fino ad 8 m di lunghezza) soprattutto nella parte bassa della muraglia. Francesco Rodolico ci ricorda che palazzo Pitti è fatto tutto di pietraforte cavata sul posto, anzi che il sito stesso ove sorge la residenza è stato fino ad una certa data un piazzale di cava. Anche l’altro capolavoro della residenza cinquecentesca dei Medici, rappresentato dal cortile in opera rustica dell’Ammannati, è realizzato con pietra della cava della retrostante collina di Boboli riaperta appositamente per qualche anno allo scopo.
Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Francesco Rodolico, “Firenze” p. 244, in Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1965, (ed. or. 1946), pp. 501.
2 Per una trattazione dettagliata delle vicende dell’industria edilizia e dell’architettura dei palazzi bugnati fiorentini si veda: Richard A. Goldthwaite, La costruzione della Firenze rinascimentale, Bologna, il Mulino, 1984 (ed. or. The Building of Renaissance Florence, 1980), pp. 630.
3 Le probabili fonti antiche di riferimento sono avanzate da Howard Burns che, nell’offririci un’interpretazione della facciata del palazzo Rucellai quale “versione appiattita” del Colosseo, ne evidenzia contemporaneamente l’estrema raffinatezza compositiva e perizia tecnica. Cfr Howard Burns “Leon Battisti Alberti” pp. 114-165 in Francesco Paolo Fiore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Milano, Electa, 1998, pp. 563.
4 Roberto Gargiani, “La facciata di Palazzo Rucellai: disegno o materia” p.97, in Principi e costruzione nell’architettura italiana del Quattrocento, Bari, Laterza, 2003, pp. 729.
Palazzo Vecchio in Florence (ph. Alfonso Acocella)
After its Greek and Roman successes, rustication fell out of favour until the late middle ages (13th and 14th centuries), when it regained popularity during the Crusades and in the architecture of the Hohenstaufen, in numerous fortresses and in certain public and private buildings in Italy.
In Italian medieval cities, various buildings were constructed using large, deliberately rough-dressed ashlars, designed to express their strength and to underline the prestige of the occupier. However, the widespread, “grand style” use of rusticated masonry had to wait until the Renaissance, with the re-emergence of an ancient culture and the increase admiration for the works of the ancient architectural schools. In particular, this was the result of the architectural research conducted during the early years of the Florentine Renaissance, after the long interlude of conservative “artisan” stone architecture during the Middle Ages, succinctly described as follows by Francesco Rodolico:
Medieval towns and cities were characterised by their iron-coloured buildings of austere pietraforte. That feeling of solidity that you get when you look at the massive Palazzo Vecchio is the result of the full exploitation of the qualities of this stone; from the large rusticated walls to the strong pilasters erected, incredibly, on the pediment of the tower. If we then look around from this supreme expression of civil, Florentine renaissance architecture, we can see that the entire city centre is characterised by the use of this pietraforte, which was used to build towers and houses, public and private palazzi (Palazzi del Podestà, Frescobaldi, Spini, Mozzi, Davanzati etc.), as well as the city’s minor and major churches (Santa Croce, Santa Maria Novella, Santa Trinità, San Remigio, Santa Maria Maggiore, San Carlo etc.). In the case of those buildings influenced by Gothic style, the ease with which pietraforte can be sculpted led to it being used where fine decoration was called for (as can be seen in the Lanzi and Orsammichele Loggias). 1
The unique availability of building and ornamental stone in the area close to Florence greatly contributed towards the architectural renaissance, this time in new forms, of the rusticated ashlar wall. Very few European cities were able to benefit from such easy access to stone quarries during the period of development between the Middle Ages and the Renaissance. In particular, the local sandstone commonly known as pietraforte was readily available in the surrounding hills, and up until the early 16th century, could indeed be quarried within the medieval city walls near to Boboli Gardens. This stone was used to build the medieval city, as well as the majority of the renaissance Florence we admire to this day, especially its private monumental buildings.
Badia Fiesolana in Florence. Two-coloured marble plating (ph. Alfonso Acocella)
The splendid green and white marble (or the subsequent red, Carrara white and serpentine green marble) façades of the sacred architecture of the Romanesque and Renaissance periods (San Miniato al Monte, Fiesole Abbey, the Baptistery, Santa Maria del Fiore), was countered by the austere pietraforte of the city’s most important civil buildings. This latter stone, similar to a uniform fine-grained (often very fine-grained) sandstone, of a yellowy-brown colour and characterised by thin cracks containing sparry calcite, which often leads to the breaking off of fragments of stone if the material is used inappropriately. However, although this pietraforte is in plentiful supply in the hills to the south of Florence, two other varieties of stone are quarried on the northern side of the city, in the Apennines between Fiesole and Settignano: pietra serena and the less commonly found pietra bigia.
From the very moment it began to be used in the architectural fabric of Florence, the local grey stone pietra serena constituted a typical Brunelleschi innovation, although it was only used in the construction of residential buildings and the façades of renaissance palazzi much later on; during the entire 15th century, it was only used by stone-cutters for ornamental purposes and for the restoration of those architectural orders needing, in many cases, large monolithic blocks (such as those featured in the Santo Spirito and San Lorenzo colonnades) which pietraforte cannot provide (due to its structure).
Throughout the entire 13th century, pietraforte was used mainly in the form of irregular stones or roughly-cut blocks; demand for “finished stone” (for the construction of churches only), from the early 15th century onwards, increased so much so that the local stone industry was to become a significantly important and highly specialised sector with few real rivals in the rest of Europe. The well-documented movement of Florentine stone masons to the other main Italian towns during the course of the 15th century, moreover, contributed to the spread and the success of Renaissance taste, thanks to the transmission of their craft and of the new, highly refined artistic models they created.
During the 15th century, more than one hundred very elegant, private residential buildings were constructed: their beauty and original design was immediately noticed at that time by visitors to a city which was conscientiously attempting to promote – through intellectuals, artists and enlightened principals – the aesthetic values of a new Humanism focused around the primacy of the Ancient world. Many buildings, as a result of the continuity of the façades in pietraforte, express in a certain way the evolution of medieval architecture (Palazzo dei Priori – the present-day Palazzo Vacchio – in particular offered a highly-refined late 13th century example of rusticated ashlar), this contributing towards the definitive success of the “rusticated masonry wall” among the Florentine ruling classes.
Palazzo Medici Riccardi in Florence (ph. Alfonso Acocella)
These were the “wonderful buildings made of ashlars” praised by Vasari, the impressive homes of merchant families with “neo-aristocratic” aspirations (the Midic, Pitti, Rucellai and Strozzi families) represented by up-and-coming figures, competing with each other and with the outside world (Rome in particular), who competed mainly in “engineering and building”, as Giovanni Rucellai remarked in his famous work Zibaldone.
The erudite Florentine architects went back to studying the classical interpretation of rusticated ashlar and the compositional designs associated with it. The distinctive feature of the early Renaissance examples of rustication was its inclusion in more orderly architectural compositions. It initially took the form of enormous rusticated ashlars employed in the construction of the new type of residential “palazzo” for the members of the city’s richer merchants.
This innovative type of housing consisted of large detached residences (Palazzo Strozzi, for example, possesses a façade 40 metres long, compared with the standard 5 or 6 metres of medieval craftsmen’s dwellings) with a new architectural design entrusted no longer to masons and builders but to artist-architects, who reinterpreted the constructive volumes, spatial organisation and increased surface areas of the walls, with special importance being given to the main street-side façade.
The often informal arrangement of medieval buildings (frequently marked only by a cornice indicating floor divisions and by simple openings) was gradually replaced by a new conception introduced by Brunelleschi and Michelozzo, whereby the façade, which was rusticated in the more important cases, became the main element formally qualifying the building, and thus the focal point of social ostentation. Between the 15th and 16th centuries, rusticated ashlar in particular acquired renewed prestige and architectural importance thanks to the influence exercised by the grand Florentine palazzo constructed within the city’s medieval walls: Palazzo Medici, Palazzo Rucellai, Palazzo Pitti and Palazzo Strozzi, to name but the most symbolic.2
The facade and the inner court yard of Palazzo Strozzi in Florence (ph. Alfonso Acocella)
The rusticated pietraforte façade constitutes one of the principal features of the Florentine palazzo that were the prototypes, and then the models, for the majority of the grand city residences of Renaissance Europe. The façade remained basically a bare stone wall: a solid, massive construction rising the height of several floors. The architectural design and character were based on rustic facing which was gradually “softened”, in terms of size and appearance, and of the nature of the rustication, the higher up you went, from the ground floor (generally used for service purposes) up to the upper floors (housing the reception and residential areas): the purpose of this was to differentiate the facing of the façade, thus preventing the building as a whole from having a uniform, uninteresting appearance.
At this point in our study, we really need to look in more detail at the major Renaissance buildings (palazzi) in Florence in order to get a better idea of their rusticated façades which were to become an undisputable international benchmark for centuries to come.
During the early years of the Renaissance, Palazzo Medici was to constitute a point of reference in terms of its new compositional design, architectural vigour and monumentality: work was started in about 1445 by Cosimo de Medici, according to a design by Michelozzo. The chosen typology and unusually “classical-style” appearance of the façade walls were to prove decisive points in its favour, and it was to remain a model for other residential constructions in the city throughout the 15th century. The size of subsequent buildings and their architectural “visibility” deriving from the decoration of the façade in rusticated pietraforte, tended to reflect the economic status and ambitions of the owner.
The detached nature of the building and its layout – centred around a principal axis with an open-air spatial fulcrum– characterised the design of the typical Renaissance palazzo, with the residence of Cosimo de Medici clearly playing the role of indisputable prototype and model. The functional and representative sequence of this new way of living was organised according to a perspective framework, starting from the entrance, covered by a barrel-vault, which leads into an arched portico surrounding an inner courtyard; this large courtyard with its series of columns recaptured the concept of the peristyle or quadriporticus of the Roman domus, re-elaborated according to the new aesthetic canons gradually emerging with the success of the “ancient-style house” interpreted on the basis of Vitruvius’ treatise. On the outside, the massive, accurately squared volume of stone is in keeping with the medieval Florentine tradition (there are indeed clear analogies with Palazzo Vecchio), while updating the standard medieval design according to the canons of compositional regularity and symmetry, and to its unusual size for a city residence. The overall effect is an expression of private, rather than public, magnificence and ostentation.
The choices made regarding the use and treatment of the rusticated pietraforte ashlars were now expressed by elements and a style of a clearly classical nature, as can be seen from the enormous cornice supported by modillions which, for the first time in the 15th century, formed the upper boundary of the massive walled volume. The vigorous perspectives recall a certain classical measure, through the unification and the well-balanced repetition of the openings (perceived as a “cleavage” in the wall itself), which are part of the composition of the two principal façades specifically designed to offer the most attractive perspective view of the building.
To a certain degree, the façades of Palazzo Medici seem to reflect a medieval form of rustication; however, the rusticated masonry constituting Cosimo’s residence would appear to be closer to the Roman style, given the large size of the ashlars and the way they have been rusticated (especially in the higher section of the basement): in fact, it is somewhat reminiscent of the wall in the Forum of Augustus. The primitive, chiaroscuro appearance of the ashlars in the ground-floor section of the wall – which incorporate a series of strong round arches – is followed by a sub-division of the upper section of the building, featuring gradually narrower inter-floor bands where the pietraforte ashlars are dressed in a less rough, more geometrical – almost isodomic – fashion, and then by a final section of smooth, coplanar ashlars totally devoid of all superficial carving.
Several of Michelozzo’s characters were subsequently copied in the building of numerous other Renaissance palazzi, both in Florence and outside the city, and the rusticated façade was to prove particularly successful, as it evolved from its rougher form to much more regular, artistically refined versions: examples of the latter can be seen in Palazzo Rucellai and Palazzo Pitti, which are both characterised by new conceptions of the classical “order”.
Palazzo Rucellai in Florence (ph. Alfonso Acocella)
During the 1450s and 1460s, Giovanni Rucellai, a private citizen of Florence who did not hold any public position, invested his considerable wealth in a series of building projects (and was himself very much involved in the architectural choices made): he enthusiastically welcomed Brunelleschi’s new architectural vision, and was involved in the rediscovery of the aesthetic pleasures of Classical architecture. Indeed, he kept a diary of his visits to various Roman monuments during the Jubilee Year 1450: his Zibaldone (“Miscellany” – as his writings were called) contained a series of annotations regarding Roman architecture, including a direct reference to the rusticated perimeter wall surrounding the Forum of Augustus, seen as “rusticated ashlar on the outside, with three cornices and no windows”, which suggests the author’s amused interest in this topic.
According to Giovanni Rucellai, Leon Battista Alberti (working closely with Rossellino) began work on the first construction for the wealthy owner in the mid-15th century, involving the extension of the latter’s existing Florentine residence in Via della Vigna. Work, which consisted in incorporating a series of buildings acquired by Rucellai into one aristocratic “palazzo”, got underway in 1455: the principal objective of the project was create a magnificent, unified principal façade for Rucellai’s new residence. The owner’s final act, that of trying to purchase another building in order to extend the palazzo further, failed due to the resistance of the person who was asked to sell the said building; thus the façade, originally planned to feature five bays, subsequently extended to seven, was never finished.
Detail of the facade of Palazzo Rucellai in Florence (ph. Alfonso Acocella)
Palazzo Rucellai’s façade, built completely from pietraforte and featuring smooth rusticated ashlar and a perspective design “sub-divided” by lesenes, was something of a novelty among Florentine palazzi, a kind of third-way, somewhere between the “fortified” rusticated ashlar building and the “ornate” frescoed palazzo.
Alberti’s main architectural aim was to create a “cladding façade” to superimpose on existing buildings; an enterprise something akin to that of the Tempio Malatestiano (the Church of St. Francis) in Rimini, although in this case a thin stone cladding was employed to ennoble an ordinary wall in accordance with the town’s building regulations at the time. Numerous elements of the wall (protruding cornices, mullioned windows inside round archivolts, smooth rustication of the upper storey and, finally, the unifying extension of pietraforte – the only material characterising the façade) were taken from Palazzo Medici (work on which had started only ten years before, but which had already become a model for other Florentine palazzi). Nevertheless, Alberti did not hesitate to include a number of novel ideas in his projects.
In looking for elements that could ennoble the façade of Palazzo Rucellai, according to the new aesthetic canons of the Renaissance, in order to present it as a “beautiful gift to the city”, the architect adopted a different approach to Roman antiquity than that of Brunelleschi or Michelozzo, choosing those of its compositional ideas which he saw fitting for his particular project.
The introduction of smooth lesenes with no fluting, designed to distinguish the three levels of superimposed orders composing the façade, arranged along seven interaxes, is the most clearly evident and original feature.
The unusual structure (compared with the styles already standardised by Florentine architects) consisting of a framework of parastatae “mounted” in a superimposed manner to a height of three storeys, was a compositional device used in ancient Rome. Alberti, a man well-versed in Roman architecture, may have observed two characteristic Roman monuments when designing the façade for the Florentine palazzo: the first, the more famous of the two imperial constructions, is the Coliseum, with its alternating architectural orders and arches, built against the outside wall; the second, less famous monument is the Castrensian Amphitheatre – mentioned by the same Rucellai in his Zibaldone – where smooth, flat parastatae are employed to face the two upper storeys. 3
The demise of thick rusticated ashlars, due to the limited thickness that such cladding could have, led the architect to devise an original design for the project: the basically two-dimensional restoration of the façade is not really evident, since Alberti manages to arrange the main architectural elements of the composition (i.e. the lesenes and the wall surfaces) in different levels, albeit with a difference of just a few centimetres in depth. The horizontal plane of the façade is emphasised by the basement – featuring a continuous bench with a flat backrest engraved with a delicate opus reticulatum motif – and the large, projecting cornice at the top. In the words of Roberto Gargiani:
Pietraforte cladding is fixed to the walls of the old houses and continues for a short distance along Via dei Palchetti, and then terminates in unfinished scarfing. The ashlars are bordered by deep-set bands, have flat faces and are some eighteen centimetres thick (plus a further three for the relief of the faces). They are sometimes fastened to the walls by means of iron rods (…) There is no rough dressing of the surface of the stone: “any smooth stone is exempt from corrosion” writes Alberti.
The design and cut of the ashlars sublimate the power of rustication in a geometrical lattice of shadows as previously experimented on the first floor of Palazzo Medici (…) The real pattern does not seem to correspond to that designed by the joints (…) While in previous palazzi the design was defined in terms of the dressing and laying of the stones, in the case of Palazzo Rucellai it corresponds to the distinction reintroduced by Alberti between “material” and “design”, which lays down the basis for the betrayal of masonry wall as such and of the work of the Florentine masons if, as he himself wrote in agreement with Nicolò Cusano, that there is a need to “shape the material according to the design”. From the betrayal of the Florentine masons resulting from the choice of stones used for Palazzo Medici, an architecture is emerging – the work of one of the most learned men of the 15th century and of a group of local stone masons – that tends to break with the rules of the constructive rigour of the Brunelleschi school, and unite in an unsurpassed way the sought-after randomness of Florentine walls and the refined nature of the ancient orders.
Detail of the facade of Palazzo Pitti in Florence (ph. Alfonso Acocella)
The Pitti family, like the other wealthy merchant families of their time, significantly contributed towards consolidating the image of the imposing Florentine residences during the course of the 15th century, with their famous palazzo looking out over Boboli Gardens, commissioned by Luca di Bonaccorso Pitti, who began buying up the land (yet to be built upon) in 1450. According to which of the various different hypotheses one believes in, the idea behind the project was that of either Brunelleschi, Alberti or Luca Fancelli. Work on the palazzo got underway towards the end of the 1550s, but had still not been completed by the mid-16th century when the building was purchased by the Medici family (in 1549), in order to create a superb “royal” residence. At that time, the top storey has still to be built.
The façade went well beyond the customary height for such Florentine palazzo, rising up to 36 metres (10 metres higher than Palazzo Medici). The uniform rusticated cladding was modelled on that of Palazzo della Signoria, and the stone used was from nearby quarries. The enormous size of the courses of rusticated, irregular “chest-shaped” ashlar that characterise the ground floor, is gradually attenuated as you move up the façade of the building. The exceptional vigour of the material blends in well with the stone facing of the section of city wall dating from the 12th century adjacent to the site. The large wall, in turn, invites the comparison by humanists with the rusticated walls of ancient Rome.
The rusticated perspective is arranged in bands, with a well-balanced pattern of alternate empty and full spaces producing a classical, regular cadence. A number of unusual-sized ashlars (up to 8 metres long) characterise this rusticated framework, particularly in the lower section of the wall. Francesco Rodolico reminds us that Palazzo Pitti is built entirely of pietraforte quarried in situ; indeed, the site on which the building stands was up until a certain date a quarry yard. The other masterpiece of the 15th century Medici residence – Ammannati’s rusticated courtyard – was also built using stone from the quarry situated on Boboli hill, which was re-opened for a few years specifically for this purpose.
Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Francesco Rodolico, “Firenze”, in Le pietre delle città d’Italia (Florence: Le Monnier, 1965) (first published 1946), p. 244.
2 For a detailed history of the construction industry and of the architecture of the Florentine rusticated palazzo, see: Richard A. Goldthwaite The Building of Renaissance Florence, (Baltimore: J. Hopkins University Press, 1980).
3 The probable ancient origins are suggested by Howard Burns, who in describing the façade of Palazzo Rucellai as a “flattened version” of the Coliseum, highlights its extremely refined composition and superb technical qualities. See Howard Burns “Leon Battisti Alberti” in Francesco Paolo Fiore (ed.), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento (Milan: Electa, 1998), pp. 114-115.
4 Roberto Gargiani, “La facciata di Palazzo Rucellai; disegno o materia”, in Principi e costruzione nell’architettura italiana del Quattrocento (Bari: Laterza, 2003), p. 97.
Dall’esterno e dall’interno le differenze fra architettura modernista ed addizione contemporanea.
Quella della glasswood house è la storia di due approcci di progetto completamente differenti: l’approccio di progetto di John Black Lee e l’approccio di progetto di Kengo Kuma.
John Black Lee è un architetto americano, locale, espressione della cultura progettuale modernista sin dagli anni ’40 di secolo scorso quando, assieme a colleghi del calibro di Philip Johnson e Marcel Breuer, ha improntato ai dettami dell’international style il proprio lavoro e, con esso, il rinnovamento dell’immagine architettonica della cittadina di New Canaan. In un bosco d’aceri secolari e abeti allestisce un padiglione abitativo in sottili montanti d’acciaio e curtain-wall, padiglione che pare essere semplicemente appoggiato a terra, come per un tempo finito e non per sempre. Pure verso una natura sontuosa quale quella posta oltre i grandi cristalli perimetrali, il Moderno si propone con un atteggiamento di superiorità. La cifra esplicita della volontà di controllo sul mondo naturale è segnata dal calpestio rialzato dal suolo. Il tema è ben spiegato da Waro Kishi in Storia e contemporaneità nell’era moderna, fra le pagine della monografia personale dedicatagli da El Croquis: non si ricerca la continuità con la madre terra, ma ci si distacca e ci si eleva. Le forme sono squadrate, la planimetria di progetto è simmetrica, la struttura è chiara, i solai si distendono piani e bianchi, tutto secondo copione.
Tra Lee e Kuma stanno moltissime cose, tra cui cinquant’anni di storia, un oceano, ed un retroscena culturale completamente differente. Con riferimento al progetto, tra i loro due interventi stanno anche i contributi di Toshiko Mori e Thomas Phifer. Il dettaglio degli eventi è puntualmente spiegato da Architectural Record, da cui liberamente estrapoliamo e traduciamo un commento di Lee all’intervento di Kuma: “è ben inserito nel paesaggio”, pronunciamento con il quale coglie forse la dote principale del progetto, come pure spiega la Committente nel video disponibile in rete.
Se l’accostamento fra il Kuma di oggi ed il Lee di allora è stato possibile senza traumi, molto merito va alla sottile, delicata sensibilità dell’architetto giapponese, poiché in realtà la diversità ci appare totale e dirompente.
La naturalità dell’intorno e quella ricostruita fra le pareti domestiche.
Kuma affianca ad ovest del padiglione originario una nuova ala indipendente; scardina così la rigorosa simmetria centrale del primo impianto introducendo nel progetto temi di direzione e movimento. Insegue il bosco come a volerci entrare, finendo per elevarsi rispetto al suolo ancor più della quota di partenza segnata da Lee, ma ingaggiando in realtà un articolato gioco di relazioni fra calpestio naturale ed artificiale: ora via via più distanti, ora addirittura radenti. I montanti verticali chiari del padiglione si tramutano in elementi scuri nell’addizione, col risultato della mimesi nella visuale d’insieme, in cui si confondono i montanti ed i tronchi delle alte alberature. L’intradosso dei solai è paragonabile solo per la scelta del colore chiaro a contrastare i toni scuri del parquet pavimentale, ma il divario è per il resto notevolissimo fra l’orizzontalità perfetta di partenza e la nuova sequenza ordinata di esili lame in legno lamellare. Una breve passerella conduce da un mondo all’altro, per così dire: da una parte i dogmi assoluti ed immutabili del modernismo più forbito, dall’altra, come per i templi scintoisti, il senso di transitorietà delle cose materiali ed il rapporto di delicata simbiosi con l’intorno. Lo stesso Kuma propone il paragone del genkan giapponese per il ribassamento del primo tratto di passerella di collegamento.
I montanti verticali perimetrali dell’addizione arretrano completamente rispetto all’involucro, consentendo alle specchiature in cristallo di estendersi in lunghezza senza alcuna soluzione di continuità. In esse magicamente si riflettono e moltiplicano le meraviglie naturali circostanti. L’architettura si carica sulle spalle la responsabilità altissima di farsi specchio della natura, o di esserlo essa stessa, e forse per questo cerca, tramite il suo progettista, di epurarsi di ogni componente superflua d’inopportuna artificialità. Entro tale scenario di legni e cristalli Il Casone è chiamato a realizzare il nuovo essenziale ambiente cucina nelle tonalità liquide delle arenarie appenniniche. Superata con successo la prova estrema dello stone pavilion la conoscenza del materiale è ormai tale da parte dell’architetto, da riproporlo all’opposto ora secondo linee massimamente basiche. Unica eccezione ai parquet dei calpestii, appena oltre la discesa alla nuova espansione dell’abitazione, i lapidei offrono asilo in mancanza di sicurezze e solidità.
Due scorci dello spazio dedicato alla preparazione dei cibi.
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