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Casa a Cene (1993-95) di Antonio Citterio e Terry Dwan
Ci siamo chiesti, più di una volta, se è ancora di qualche utilità, di qualche senso architettonico, dare ascolto alla narrazione, allo spettacolo dei muri dell’antichità sin qui evocati valutandoli quali presenze utili al lavoro progettuale contemporaneo?
Abbiamo sollevato questa domanda prima di ogni ulteriore svolgimento sulla condizione del presente cercando di dare una risposta a noi stessi, per poi rivolgerci, eventualmente, al lettore al fine di consegnargli un orizzonte intellegibile entro cui collocare le possibili sorti delle risorse litiche ancora oggigiorno in disponibilità del progetto d’architettura. Lungo quest’azione di riflessione, nella prima parte del capitolo, ci siamo mossi a partire dalla pietra quale materia dell’architettura per esprimere le “formule” murarie degli Antichi, per ricongiungerle e confrontarle idealmente con quelle dell’esperienza contemporanea senza voler avanzare visioni nostalgiche, ma evitando al contempo la perdita dei significati, dei caratteri tecnici ed architettonici intensi ed autentici dei modi d’origine.
D’altronde il mondo attuale ha forse variato le caratteristiche costitutive della materia, della pietra in particolare? Riteniamo proprio di no. Seguendo il senso solo apparentemente provocatorio di un aforisma di Nietzsche, contenuto in Umano troppo umano, affermiamo attraverso le parole del filosofo: “La pietra è più pietra che una volta”. La materia litica si ripresenta a noi, in un eterno presente, riconoscibile ed identica a se stessa come quella del passato; pietra che attende di ricevere oggi – al pari di ogni passato – un’interpretazione, una modalità applicativa specifica, una valorizzazione.
In un’epoca in cui i materiali sembrano perdere ogni consistenza, assottigliandosi, alleggerendosi – a volte addirittura negandosi – la “pietrosità della pietra”, la sua materiale compattezza e pesantezza, sta ancora oggi a sostanziare un significato che può apparire scontato, ovvio, ma che in realtà ci restituisce il senso più autentico e peculiare della materia.
La logica combinatoria delle pietre, al di là di ogni specifica configurazione geometrica di partenza, è ancora oggi quella del “cumulo”, del “concatenamento” murario; ciò che conta, sotto il profilo statico, è che i materiali rispettino le regole di “legamento” collaudate e codificate dal tempo, da una secolare tradizione, da un canone costruttivo.
Ma se la logica assemblativa e la stratificazione della materia stanno a rappresentare il “dire costruttivo”, vi è sempre la necessità di “rappresentare” la strategia attraverso cui il muro viene fatto crescere verso l’alto, risolto verso gli angoli, articolato intorno ai vuoti; ciò che definiamo la figurazione del muro, ovvero il suo “dire architettonico”. Su questo “dire architettonico”, più che sulle regole di costruzione difficilmente trasgredibili od eludibili (più realisticamente da rispettare e perpetuare), si incentra il lavoro di aggiornamento dell’opera muraria in epoca contemporanea.
In via preliminare ci muoveremo, per dare visibilità all’orizzonte dell’architettura muraria dell’oggi, lungo i sentieri e le sorti della materia lapidea grezza, informe, povera per cogliere le permanenze e gli aggiornamenti in una visione unitaria. Le immagini di architetture attuali, a volte, ci aiuteranno lungo lo svolgimento di questa seconda parte del capitolo sui Muri di pietra a rafforzare, a “mettere in forma” il senso delle nostre tesi, mostrando ciò che spesso le parole – da sole – non riescono a dire o a comunicare.
Uffici giudiziari di Alba (1982-87) di Gabetti e Isola con Guido Drocco
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I modi attraverso cui la risorsa litica si è presentata storicamente all’uso murario esprimono ancora oggi tratti e valenze architettoniche dati in continuità di esperienza e di magisteri costruttivi.
La pietra come materia grezza – ovvero così come la si ritrova in natura, “brutale”, non lavorata e “raffinata” – ha continuato ad alimentare un lavoro costruttivo che la lascia allo stato d’origine, accettandola e valorizzandola per quella che è. In questo caso si rimane all’interno della concezione dei muri irregolari in cui gli elementi litoidi (con dimensioni e forme variabili derivanti da uno stato di completa naturalità o di minima modificazione) disattengono alla disposizione in filari orizzontali – come avviene invece per i muri regolari – per essere “combinati” e “correlati” fra loro nel modo più conveniente e specifico al fine di creare un “aggregato” con minor numero di vuoti.
Il carattere dei muri – in tale ipotesi di lavoro costruttivo – è fortemente influenzato dalla tipologia della roccia selezionata, dalla sua costituzione mineralogica e geologica, E’ la natura della pietra, più che la sua lavorazione o la sua disposizione-combinazione, a produrre specificità e figuratività architettonica che vengono trasferite alla stratificazione parietale o, più precisamente, all’aggregato murario (termine che, secondo noi, esprime con maggiore efficacia il dispositivo tecnico che presiede all’opera irregolare).
La pietra usata nelle sue configurazioni naturali, grezze, offre molteplici possibilità nell’alimentare una concezione costruttiva composita, affatto codificabile secondo canoni fissi. Attraverso la compenetrazione, la sovrapposizione, l’adiacenza dei bordi degli elementi litici – dove i margini a volte si toccano, si mescolano, altre si allontanano – vengono composte unità geometricamente indeterminate dove le pietre irregolari (in genere diverse l’una dall’altra, dotate di singolari “personalità”) nell’insieme formano strutture eterotopiche di stratificazione e di interconnesione reciproca.
Da questo carattere di irregolarità, di relativa “instabilità” deriva la condizione inderogabile per l’opera rustica di uno spessore, di una sezione strutturale maggiore che finisce per conferire massa e profondità reale dei manufatti trasmessa, anche visivamente al fruitore dell’opera, attraverso i vuoti delle porte, delle discontinuità delle aperture in genere.
Biblioteca di Morbegno (1965) di Luigi Caccia Dominioni
Nell’opera irregolare si assiste, in particolare, al “racconto” delle pietre, al discorso originato dalle caratteristiche geologiche del luogo in cui la costruzione attinge i propri materiali di base.
Ci si trova in questi casi di fronte alla “generosità” della natura, alla variegata offerta di “scapoli”, di “scheggioni” a spigoli vivi (erratici o derivanti dalla frantumazione di cava), di massi con facce perfettamente parallele, o ancora – nei territori attraversati da torrenti e fiumi – di grossi ciottoli morbidamente modellati e arrotondati dall’acqua.
Il carattere rustico che contraddistingue l’opera irregolare mostra frequentemente figure murarie in cui è la materia, la pietra, ad esprimere il “valore” architettonico attraverso la costitutività formale dei litotipi d’origine, le compenetrazioni reciproche, la tessitura del disegno d’insieme. Semplicità e naturalità dei dispositivi connettivi, più di ogni altro carattere, stanno a “segnare” questa famiglia variegata ed allargata di muri dotati di minore aulicità, ma non certo privi di carattere e di vigore architettonico.
Il fascino che contraddistingue i materiali litici più poveri – frequentemente di estrazione locale, fortemente rappresentativi del senso del luogo, dei valori paesaggistici formatisi nella lunga durata – viene consegnato spesso, senza clamori, a queste figurazioni sobrie dell’opera muraria in pietra; tale bellezza è difficile da descrivere e raccontare. Forse è per questo motivo che nei manuali, nei trattati di progettazione non se ne parla (se non incidentalmente) relegando tali modi costruttivi prevalentemente al mondo appartato e periferico dell’architettura “minore”; di quell’edilizia spontanea inscritta nei territori collinari, montani ricchi di pietre o di quelli rivieraschi – più limitati – dove le rocce strapiombano sul mare.
Chiaramente, nell’evidenziare i caratteri salienti dell’opera rustica, non ci si può fermare all’aspetto litologico, alle sole configurazioni del materiale grezzo; altri elementi emergono nel suo farsi figura architettonica; fra questi, in particolare, le implicazioni di maestria connesse al savoire-faire costruttivo.
Il vocabolario dell’opera irregolare – versione moderna degli opus murari romani, a loro volta evoluzione dei dispositivi megalitici di tradizione greca – è sempre quello della messa in valore della materia lapidea grezza, della disposizione informale dell’apparecchio, dell’incisione lungo i bordi delle pietre a mezzo del contrasto delle giunzioni di malta (queste ultime spesso intenzionalmente “scavate” o “riportate” in aggetto, per risultare evidenti ed autonome rispetto al valore espresso dalla liticità).
La selezione delle forme delle pietre, la loro disposizione come “ordine costruttivo” – che diventa, allo stesso tempo, “partitura” architettonica – alimenta la passione per la figurazione del muro rustico, brutale, essenziale, sincero. Ciò che si conserva è quel carattere primitivo, grossolano, di massa, di chiusura; l’essere del muro rustico, più che articolazione delle parti, è generalmente omogeneità pesantezza, spessore.
Deposito di canoe a Pontecuti (1993-95) di Francesco Cellini
Agli apporti della forza materica della pietra, della tessitura combinatoria, nell’opera irregolare si associa un carattere complementare, ma decisivo sotto il profilo figurativo, derivante dalle modalità di esecuzione dei giunti, delle “commessure”, dello “spazio” di cesura compreso fra i diversi elementi costitutivi della struttura muraria. Lo stesso “rilevante” spessore da assegnare ai giunti – al fine di assorbire le tolleranze dimensionali e la singolarità degli elementi di pietra – fa si che la loro incidenza visiva sia maggiore che in qualsiasi altra tipologia di muro.
La malta può risultare “arretrata” ma anche essere “stesa” in modo che sporga rispetto al perimetro delle pietre o, addirittura, che ricopra (come avviene nella tecnica della muratura a “rasapietra”) ampie porzioni del piano litico. Mostrarsi, in sostanza, in rilievo proponendo un’accentuazione del disegno complessivo della rete dei giunti (anche attraverso la caratterizzazione cromatica della malta) oppure – assecondando un atteggiamento oppositivo – “ritirarsi” verso il nucleo interno del muro, segnando in negativo e in profondità i giunti stessi, capaci così di catturare la luce e le ombre che ad essa sempre si accompagnano. Nel momento stesso in cui evidenziamo la forza espressiva, dei giunti ci preme, comunque, sottolineare anche la loro latente, pericolosa invadenza; sia il rilievo che l’incisione sottraggono sempre qualcosa alla forza della pietra; è auspicabile, conseguentemente, evitare, in generale, un’eccessiva enfatizzazione dei giunti di malta.
In queste particolari condizioni di lavoro – a differenza di quanto normalmente avviene nei muri a conci squadrati che si presentano attraverso rigorose e controllate geometrie definite in fase di progetto architettonico – è evidente come il vero protagonista della scena risulti l’esecutore di cantiere, il “maestro” muratore che scandisce i ritmi costruttivi e l’assetto morfologico di crescita dell’opera muraria.
«Il muro in opus quadratum, sia isodomo che pseudoisodomo, – avverte Antonino Giuffré – è definito in modo preciso. Il taglio parallelepipedo delle pietre, le loro dimensioni, la loro posizione nel muro, sono regole non modificabili. Il compito del costruttore consiste nel precisare questi dati con riferimento alla geometria complessiva dell’opera e poi rispettarli con scrupolo. (…)
Le pietre del muro medioevale e moderno sono ben altra cosa, non partecipano al disegno complessivo come i conci pentagonali degli archi del Colosseo, e non richiedono difficili operazioni di stereotomia per essere tagliate e collocate, come i conci degli acrobatici intrecci di nervature nelle strutture gotiche. Il muro di pietra grezza non è progettato dall’architetto assieme all’opera architettonica, ma è formulato, pietra dopo pietra, dal muratore la cui cultura, pur digiuna di geometria, procede sul filo di una logica organica.
Prima di mettersi al lavoro egli osserva il mucchio delle pietre con le quali dovrà lavorare e ne fissa in mente le forme e le dimensioni: quella piatta, quella oblunga, quella informe. E in cima al muro realizza la sua opera di incastro, richiamando per ogni figura in muratura che la posa gli propone la controforma positiva che aveva scorto nel mucchio; e compone il suo discorso alternando la pietra posta “di fianco” a quella sovrapposta di “punta”, colmando un vano irregolare con il pezzo lasciato in disparte in attesa della sua occasione, recuperando il piano con i frammenti e il tegolozzo.
Il muro cresce tanto più compatto e ordinato quanto più il muratore è padrone della sua arte; arte di esprimere con elementi rozzi ma vari il discorso del monolitismo e dell’orizzontalità che è requisito fondamentale di una corretta muratura». 1
Gli aspetti sinora evidenziati rappresentano alcuni dei caratteri generali dell’opera rustica. Risulta di qualche interesse – a questo punto – avvicinarsi maggiormente ai diversi tipi di muri irregolari per segnalare peculiarità e regole specifiche di costruzione portatrici nel loro insieme di espressioni architettoniche distinte.
Alfonso Acocella
Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Antonino Giuffré, “La regola d’arte” p.27, in Lettura sulla meccanica delle murature storiche, Roma, Edizioni Kappa, 1991, pp.86.