Assonometrie di elementi architettonici in pietra. Dall’alto a sinistra in senso orario: G. Muzio, edicola della Sala dei Marmi all’Esposizione delle Arti Figurative di Monza (1930); M. Zanuso, rivestimento della Casa in Via Laveno a Milano (1965); C. Scarpa, davanzale della Banca Popolare di Verona (1981); I. Gardella, parapetto della Casa delle Zattere a Venezia (1957)1.
Il passaggio dal XIX al XX secolo è epocale, non solo per i mutamenti politici, economici e sociali che fa registrare, ma anche per le trasformazioni che investono la civiltà tecnologica e produttiva. Ciò è particolarmente evidente nel settore manifatturiero italiano, per molti versi ritardatario rispetto alle dinamiche di avvento dell’industrialesimo già vissute da altri paesi europei come la Gran Bretagna e la Germania tra Sette e Ottocento.
In tale scenario anche la filiera di trasformazione dei materiali lapidei vive profonde modificazioni: nei primi decenni del Novecento l’impiego delle tecnologie meccaniche e degli strumenti ad aria compressa supporta sempre più le lavorazioni manuali, inoltre l’utilizzo degli utensili al diamante consente di perfezionare e velocizzare le operazioni di taglio e fresatura. Tutto ciò ha ricadute importanti sulle dinamiche del lavoro e sull’organizzazione della produzione; d’altra parte, dall’inizio del secolo, il contributo delle cattedre di plastica decorativa e di scultura nei regi istituti e nelle accademie di belle arti di molte città italiane, è notevole nel formare non più soltanto artisti scultori, ma anche maestranze tecniche specializzate ed esperti artigiani che possano innalzare il livello qualitativo della produzione architettonica corrente.
Macchina multifunzione per la lavorazione meccanica di marmi e pietre pubblicizzata sulle pagine de Lo Scultore e il Marmo, febbraio 1933. Clicca sull’immagine per ingrandirla
Così, progressivamente e con grande frequenza, i laboratori di scultura e di artigianato lapideo si ampliano, aggiornandosi dal punto di vista tecnologico, e la pratica del modellare la pietra fuori opera, secondo disegni riconducibili a repertori tipologici ripetibili o secondo progetti a casellario, acquisisce connotazioni di carattere industriale. I centri di lavorazione lapidea sono sempre più delocalizzati rispetto ai cantieri di architettura e si concentrano in distretti specifici sviluppati principalmente nelle aree estrattive venete e toscane. Le nuove applicazioni litiche in architettura si diffondono negli esterni e negli interni, per la realizzazione di elementi strutturali, di rivestimenti e pavimenti, particolari decorativi, di fontane, scale e balaustre, di mostre, davanzali, marcapiani, targhe e insegne commerciali, piedistalli e basamenti qualificati dal punto di vista formale.
La sedimentazione di queste innovazioni nell’alveo del design moderno e contemporaneo degli elementi costruttivi consegna all’attualità delle applicazioni lapidee una molteplicità di approcci progettuali e di declinazioni produttive: se infatti, per il settore lapideo, il passaggio dalle arti decorative all’industria all’inizio del Novecento non significa un superamento totale di una realtà in favore dell’altra, ma un continuo processo di andata e ritorno tra dinamiche ideative e produttive sempre compresenti, così per tutto il secolo scorso e ancora oggi in apertura del nuovo millennio, marmi e pietre assumono configurazioni formali e costruttive che si muovono costantemente tra arte, artigianato tradizionale, piccola industria o artigianato avanzato post-indutriale; tra produzione manuale, assistita, parzialmente o totalmente automatizzata; tra “design anonimo”, totale controllo autoriale del progetto, o creatività di equipe.
Soluzioni tecniche alternative del brevetto Favetti per scale in marmo prefabbricate (1931).
Elementi costruttivi in pietra naturale
Con l’avvento del Moderno pietre e marmi trovano un impiego ampio e consistente in tutto il territorio italiano, nel progetto dello spazio pubblico, nell’architettura e nell’allestimento d’interni. Dagli anni ’30 del secolo scorso, prende avvio in particolare un primo dibattito relativo alle potenzialità tecniche ed economiche dei processi di prefabbricazione applicati anche alla produzione di elementi costruttivi in pietra; esso si concretizza in sperimentazioni significative e viene ripreso più volte fino agli anni ‘70.
Nel settembre del 1933 si tiene a Carrara il “I Convegno Nazionale dei Lavoratori del Marmo, Granito e Pietre Affini” e «la standardizzazione di alcuni elementi costruttivi con speciale riferimento a scale, rivestimenti, cornici, zoccolature, balaustre»2 figura ai primi posti nelle politiche di rinnovamento produttivo del settore lapideo auspicate nell’occasione. Dagli atti del convegno emerge con forza la visione di un approccio di tipo industriale, da promuovere attraverso accordi specifici tra produttori e associazioni degli ingegneri e degli architetti, finalizzati a realizzare concorsi di idee e studi tecnici ed economici congiunti sulla possibilità di produrre in serie opere statiche e decorative in marmo e pietra.
Il brevetto Favetti del 1931 è un esempio precoce dei risultati che la prefabbricazione industriale può dare al comparto lapideo: il sistema costruttivo è costituito da tre varianti dimensionali di gradini e pianerottoli in massello di calcare di Aurisina; gli elementi – standardizzati e prefiniti – possono essere applicati a molteplici morfologie di vani scala; lo studio della sezione dei gradini è ottimizzato per consentire il massimo alleggerimento degli elementi, con conseguenti economie di materiale e di peso per facilitare la movimentazione dei pezzi. Il sistema costruttivo è verificato dal punto di vista dei carichi di rottura con prove sperimentali di laboratorio3.
Vista e sezione costruttiva della passerella in marmo armato precompresso, realizzata a Carrara nel 1965.
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La metà degli anni ’60 rappresenta un importante momento di ripresa del dibattito teorico-critico e delle sperimentazioni sulle possibilità di rinnovamento della produzione lapidea in senso industriale, con una nuova attenzione riservata anche alla sfida della “pietra strutturale”, spinta – attraverso processi di prefabbricazione e precompressione – oltre i limiti naturali della scarsa risposta alle sollecitazioni a flessione.
Nel 1965, in occasione della “I mostra nazionale del marmo e delle tecniche d’impiego del marmo nell’edilizia industrializzata”, vengono realizzati a Carrara due prototipi di opere prefabbricate in marmo armato precompresso: una passerella pedonale con scale di accesso ed una trave della luce libera di 10 metri e dell’altezza di 25 centimetri4.
L’associazione marmo-acciaio è ottenuta attraverso leganti a base di resine epossidiche e le tensioni raggiunte ai lembi inferiori delle travi nelle fasi di tesatura sono di 510 kg/cmq (importanti se confrontate con i parametri del calcestruzzo). Si tratta di sperimentazioni che dimostrano un approccio avanzato di tipo prestazionale all’applicazione dei lapidei nell’architettura, mettendo in campo tecniche d’impiego razionali ed economiche basate sui presupposti di un’attenta verifica delle caratteristiche fisico-meccaniche in una prospettiva generale di controllo della qualità dei materiali e di innovazione formale e costruttiva.
Esempi come quelli dei brevetti e dei prototipi illustrati, oltre a prefigurare con largo anticipo esperienze attuali di applicazioni strutturali della pietra5, aprono in maniera decisiva un percorso di sviluppo dell’”industria lapidea”, che passa attraverso l’ulteriore rivoluzione dell’automazione e dell’informatizzazione degli anni ’80 e ’90, e che ancora evolve negli scenari post-industriali in parallelo rispetto alle produzioni litiche di impostazione maggiormente artigianale. Industria e artigianato infatti vivono nel cantiere dell’architettura lapidea del terzo millennio una relazione di compresenza, e a tratti di integrazione ricca di sfumature , che non ammette risposte univoche alla domanda posta in apertura di questo contributo.
Elementi modulari per pavimenti in marmi ricomposti, brevetto Fulget (1955-56).
Moduli per rivestimento in lapidei ricomposti
È ancora una volta nel 1933, con il “I Convegno Nazionale dei Lavoratori del Marmo” di Carrara, che si analizzano in maniera sistematica le produzioni della pietra ricomposta o artificiale, in una prospettiva che dà conto per la prima volta di un ulteriore importante filone di sviluppo dell’industria lapidea.
Nell’occasione del convegno si citano6:
– lastre e mattonelle di vari formati in granulati di marmi con legante cementizio;
– ardesie artificiali brevettate per la prima volta all’inizio del Novecento dalla ditta austriaca Hatschek; si tratta di impasti di cemento, amianto e colori minerali, lavorati con un processo produttivo simile a quello della carta a formare fogli stratificati anche di grandi formati per coperture e rivestimenti;
– calcestruzzo traslucido sperimentato in Francia intorno al 1906 (cemento armato con inclusioni di blocchetti di vetro multicolori, multiformi e disposti secondo schemi decorativi di varia tipologia, per pareti, cupole e solai)7;
– piastrelle in terraglia e in gres ceramico;
– marmoridea o marmorina (impasti di gesso, calce, silicato e colori minerali applicati in opera come intonaci e poi lucidati);
– marmi artificiali ottenuti con trattamenti speciali di vetri e specchi;
– linoleum marmorato, linoleum granito e linoleum a intarsi;
– masonite colorata ad imitare marmi e mosaici lapidei.
Inserzione pubblicitaria dei pavimenti in ciottoli ricomposti del brevetto Fulget (Stile Industria, n. 17, 1958)
Prescindendo in questa sede dai prodotti ceramici imitativi della pietra, che si evolvono nel corso del secolo in maniera sostanziale per giungere all’attualità in una prospettiva decisamente alternativa e concorrenziale rispetto a quella dei lapidei naturali, è certamente la tipologia delle lastre modulari in granulati litici ricomposti a costituire uno dei temi di maggiore interesse per osservare le linee di sviluppo prevalenti dell’industria lapidea nel Novecento. Tale tipologia si afferma nel secondo dopoguerra, dimostrando interessanti ed inedite capacità di rilettura dei materiali litici tradizionali.
I tavelloni in marmi ricomposti Fulget, brevettati nei primi anni ’50 dall’azienda Fratelli Capoferri di Bergamo, sono un esempio emblematico di tale produzione: i moduli sono normalmente del formato 40×40 cm, in ciottoli di marmi colorati sezionati, dispersi in impasti leganti di vari mix cromatici e materici; dal 1958 il marchio comprende nuove serie di formati 60×60 cm con tessere di marmo unite a comporre tessiture geometriche astratte, disegnate da Giò Ponti e Gianfranco Frattini.
Sulle pagine del numero 278 della rivista Domus, nel gennaio del 1953, si sottolinea la particolarità del prodotto Fulget, che coniuga «l’effetto astratto e puramente grafico» con «la ricchezza del prezioso e inimitabile frammento naturale».
Efficace è il tentativo di conferire una nuova estetica al materiale litico, partendo dalla valorizzazione delle sue qualità espressive naturali e dotando il prodotto del valore aggiunto del progetto di design; innovativi sono gli standard di qualità prestazionale degli elementi, raggiunti attraverso un processo di “metabolizzazione” industriale che omogeneizza le caratteristiche estremamente variabili connaturate all’origine dei diversi litotipi.
Esperienze produttive come quella rappresentata dal brevetto Fulget si consolidano in modo soltanto rapsodico fino agli anni più recenti, conservando a tutt’oggi importanti margini di sviluppo inespresso.
Inserzione pubblicitaria di Eclissi, pavimento in marmi ricomposti disegnato da Giò Ponti per Fulget (Stile Industria, n. 19, 1958)
Quella dei lapidei ricomposti, che ha dimostrato – seppur occasionalmente – interessanti proprietà anche nel campo del design di prodotto per l’arredamento8, è infatti una delle applicazioni d’elezione, in cui il prevalere di una prospettiva industriale, o meglio ormai post-industriale, può esplicare al meglio, al presente e al futuro, notevoli potenzialità nell’assicurare ai materiali litici naturali un rinnovato valore; una qualità inedita secondo cui gli aspetti materici concreti non sono più soltanto un dato precostituito, accettato e valorizzato per la sua originalità, ma entrano a far parte di un processo dinamico di rielaborazione creativa, che può anche evolvere verso risultati molto distanti rispetto ai caratteri degli ingredienti iniziali.
In tutto ciò la pietra, al pari di tutti gli altri materiali della contemporaneità, può divenire più che mai viva, adattabile, versatile e disposta a parlare molteplici linguaggi, ad interpretare variegate proiezioni culturali e progettuali nelle quali aspetti espressivi e prestazionali sono “ridisegnati” all’insegna della più totale flessibilità tecnologica.
L’universo dei ricomposti, è insomma una frontiera da esplorare ancora in maniera sistematica, poiché ricca di nuclei problematici aperti, sottesi ad una vita della materia sempre più sospesa tra valori della tradizione e nuove icone della modernità. Tessitura cromatica, geometrica e grafica; traslucenza e leggerezza; morfologia bidimensionale o tridimensionale; sono le categorie secondo cui il design di frazionamento e ricomposizione può dare alla pietra nuove vite estetiche e funzionali, a partire ogni volta dalla valorizzazione delle sue qualità naturali e dei suoi caratteri “genetici” più o meno latenti.
di Davide Turrini
Note
1 I disegni sono tratti dal volume Marmo.Tecniche e cultura, Milano, Promorama, 1983, pp. 103, (catalogo della mostra tenuta all’Arengario di Milano nel dicembre 1983).
2 Giovanni Bruni, “I rimedi alla crisi del marmo nel pensiero della confederazione”, p. 405, in Atti del primo convegno nazionale dei lavoratori del marmo, granito e pietre affini, Carrara 16-17 settembre 1933, Roma, F.lli Damasso, 1933, pp. 510
3 Il brevetto Favetti (Aurisina, Trieste) è analizzato in Pasquale Marica, “Le scale”, Marmi, pietre, graniti, n. 1, 1931, pp. 27-33.
4 Sulla passerella e sulla trave realizzate a Carrara nel 1965 si veda Brunetto Cartei (a cura di), 1a mostra nazionale del marmo e delle tecniche d’impiego del marmo nell’edilizia industrializzata, Massa e Carrara, Camera di Commercio Industria e Agricoltura, 1965, pp. 159 (in particolare si segnalano le pp. 70-73).
5 Sulle sperimentazioni attuali in pietra precompressa si rimanda a titolo esemplificativo al post http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=1694
6 Per un quadro completo sulle tipologie produttive dei lapidei artificiali in Italia all’inizio degli anni Trenta del Novecento si veda Salvatore Bruno, “L’uso dei conglomerati di cemento, del vetro e della ceramica in sostituzione dei marmi”, pp. 328-339, in Atti del primo convegno nazionale dei lavoratori del marmo, granito e pietre affini, op. cit.
7 Come opera emblematica dell’applicazione del calcestruzzo traslucido Salvatore Bruno cita la cupoletta dell’aula centrale della Casa dei Mutilati di Roma.
8 Emblematici in proposito i tavolini Nara e Kyoto di Shiro Kuramata per Memphis (in conglomerato di cemento e vetro, 1983); il tavolo Artifici di Paolo Deganello per Cassina, (con base in graniglia di quarzo e marmo agglomerati con resina poliestere, 1985); il tavolo Artù di Kuno Prey per Zanotta (con base in conglomerato di marmo, 1992).