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8 Novembre 2012

News

E.L.I.C.A. Escalier à Limon Invariable pre-Comprimé et Armé
Dallo stage didattico al brevetto

Lo stage
In questo articolo si dimostra come sia possibile rendere brevettabile e quindi commerciabile un manufatto architettonico nato all’interno di un’esperienza didattica universitaria evidenziando l’importanza della speculazione teorica a vantaggio di potenziali esiti pratici, riducendo ciò che più volte viene rimarcato come gap relazionale tra mondo universitario e realtà produttiva.
Il confronto dialettico tra le due realtà, l’una teorico/speculativa e l’altra pratico/commerciale, risulta essere reciprocamente feconda di sviluppo e progresso evolutivo indirizzato al mondo delle costruzioni.
Il corso di Storia della Stereotomia, modulo del quarto anno all’interno della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, prevede la partecipazione ad uno stage didattico in cui lo studente è messo di fronte alla concreta possibilità di realizzare un prototipo precedentemente progettato in tutte le componenti esecutive. Nell’anno accademico 2011/2012 lo stage si è svolto all’interno del laboratorio artigianale Tarricone Prefabbricati di Corato-Bari, specializzato nella realizzazione di manufatti artigianali cementizi prefabbricati di grande complessità geometrica. Lo scopo è stato quello di realizzare un manufatto di tipo stereotomico utilizzando la tecnica tradizionale dello stampo in cemento per l’ottenimento di una forma complessa. In questo caso l’attenzione è posta allo studio di una forma in negativo, lo stampo, da cui ricavare un’innumerevole quantità di oggetti per stampaggio.
La stereotomia classica, ovvero realizzata esclusivamente con materiali naturali, pietra e legno, per cui il raggiungimento finale della forma è dato esclusivamente dall’asportazione di materiale, si trasforma in stereotomia ri-composta per cui qualsiasi materiale “liquido” può “conformarsi” grazie ad opportuno stampo/matrice. Le problematiche geometriche connesse allo studio della forma, pur non mutando nella sostanza, assumono una duplice complessità: relativa allo studio della matrice e della forma che ne deriva. Questa esperienza didattica è stata così finalizzata, da un lato ad aumentare le variabili del progetto, le sue difficoltà tecnico/realizzative, e dall’altro a poter prefigurare il manufatto come composizione di una infinita gamma di composizione cromatica, materica e prestazionale.

L’obiettivo dello stage è stato mirato alla realizzazione in scala reale di un progetto, o di una sua parte significativa, preventivamente elaborato dallo studente sia in forma grafica (modellazione 3D) che tramite la realizzazione di una maquette in scala ridotta. L’oggetto della progettazione ha riguardato un piccolo organismo o un elemento architettonico, in pietra o legno, riconducibile ai temi proposti all’interno del corso di Storia IV – Stereotomia: muri, solai, sistemi voltati, etc. , con particolare predilezione al tema della scala elicoidale.

L’obiettivo formativo primario è stato quello di condurre ad un progetto complesso attraverso la metodologia proposta, nella duplice accezione estetico/strutturale, affrontato alle diverse scale dell’architettura: dal generale al particolare.

Il progetto scelto per la realizzazione al vero nei laboratori dell’azienda Tarricone Prefabbricati di Corato è stato una scala elicoidale con cosciale portante centrale e gradini a sbalzo, di cui si è realizzata una porzione di cosciale al vero, con la tecnica dello stampo in gesso scagliola.
Lo stage è durato un giorno lavorativo con una articolazione in quattro fasi:
1. Lavorazione in positivo del cosciale con le geometrie di progetto;
2. Realizzazione dello stampo (o matrice) sul positivo creato in precedenza;
3. Realizzazione di due cosciali successivi dallo stampo.
4. Assemblaggio dei due cosciali.

I concetti teorici affrontati nelle lezioni di modellazione virtuale hanno trovato qui i proprio duale reale rafforzando nella mente dello studente il principio secondo cui la forza dell’idea progettuale risiede nella sua possibile realizzabilità.

Il brevetto
Dalle riflessioni maturate in seno allo svolgimento dello stage è stato sviluppato dallo scrivente il progetto E.L.I.C.A. (dall’acronimo francese Escalier à Limon Invariable pre-Comprimé et Armé – Scala Armata Precompressa a Cosciale Invariante), ovvero la messa a punto di un modello di scala a rampa elicoidale portante (in funzione di cosciale) e gradini portati, declinabile in due sostanziali varianti: in pietra naturale massiva e in pietra ri-composta. Lo scopo è stato quello di mettere a confronto due tecniche costruttive, specifiche e differenti, per la realizzazione di un elemento architettonico definito da stesse regole morfologico/strutturali. I due prototipi di scale sono stati realizzati rispettivamente: in pietra, dall’azienda S.N.B.R. di Troyes (FR), specializzata in restauro e costruzione lapidee, e in prefabbricato cementizio, dall’azienda Tarricone Prefabbricati di Corato – Ba. Il prototipo in pietra, progettato con sistemi CAD/CAM e realizzato con macchine utensili CNC, è stato esposto alla mostra 100% Gravity organizzata da Vincenzo Pavan, all’interno della mostra Inside Marmomacc nell’ambito della 47a edizione di Marmomacc 2012; mentre il prototipo in prefabbricato cementizio è divenuto oggetto di uno specifico brevetto commerciale grazie alle sue intrinseche qualità di economicità del prodotto e di agilità e semplicità di messa in opera.

L’idea alla base di E.L.I.C.A. è nata dall’esigenza di risolvere, in maniera ottimale, il problema strutturale del collegamento mutuo dei gradini di una scala a sviluppo elicoidale ancorata esclusivamente nei suoi due punti estremi: primo e ultimo gradino. La simile esperienza maturata per la realizzazione dell’Escalier Ridolfi (C. D’Amato, G. Fallacara, L’Arte della Stereotomia. I Compagnons du Devoir e le meraviglie della costruzione in pietra. Librairie du Compagnonagge, Parigi, 2005), scala elicoidale precompressa in pietra armata a cavi di acciaio armonico post-tesi disposti secondo le direttrici elicoidali, aveva evidenziato la difficoltà della messa in tensione omogenea dei cavi elicoidali con conseguente sovradimensionamento dello stato tensionale in punti critici della scala e quindi la non ottimizzazione strutturale della stessa.
Si è quindi pensato, per E.L.I.C.A., di armare e precomprimere la scala con armature rettilinee e discrete (a comportamento ideale per la precompressione) disposte all’interno della massa della scala in maniera “reciproca”, ovvero in maniera che ogni serie di due barre d’acciaio fosse legata reciprocamente ad ogni gradino. In tale maniera l’intero funzionamento statico della scala è dato dal reciproco legame tra armatura metallica e gradino lapideo implicando direttamente il comportamento meccanico di tutti i componenti. Al pari di una catena, la forza della scala è direttamente proporzionale alla debolezza di uno dei suoi elementi componenti.

Al fine di contenere il fascio di barre per la precompressione all’interno del volume della scala, si è notato che la geometria che ottimizza la disposizione di tali elementi rettilinei in roto-traslazione verticale è l’elicoide tangenziale all’elica cilindrica che proporziona l’intera scala.
Tra le caratteristiche geometriche più importanti di tale superficie si sottolinea la proprietà di essere sviluppabile sul piano (unica per le superfici elicoidali) ovvero la possibilità di poterla spianare, senza “accartocciarsi” o “strapparsi”, e ottenere una perfetta corona circolare. Quindi la sua possibilità di poter essere realizzata con materiali in folio (lastre sottili di acciaio o altro materiale calandrabile) preventivamente disegnati in piano, così come mirabilmente realizzato da Ieoh Ming Pei per l’intradosso metallico della scala al centro della Piramide del Louvre a Parigi.
Per E.L.I.C.A., quindi, le barre di armatura tra i gradini sono disposte sulle generatrici della superficie tangenziale che ne conforma l’intradosso.
Ogni gradino è forato in tre punti per consentire l’alloggio delle tre barre di post tensione che seguono tre direzioni spaziali differenti secondo la geometria elicoidale. Ogni gradino sarà sostenuto da due delle tre barre mentre la terza serve di ancoraggio al terzo gradino i maniera reciproca e progressiva. Ogni singola barra filettata, a sua volta, è composta da tre elementi, giuntati con connettori, in modo da permettere il montaggio mutuo dei gradini. La barra tripartita viene messa in tensione parallelamente al montaggio progressivo della scala. Quest’ultima è quindi portante sin dall’assemblaggio dei primi gradini sino a metà dell’altezza dell’intera scala, necessitando di un supporto nel montaggio dalla metà sino all’ancoraggio al solaio di arrivo.
Da questo principio generale sono scaturite diverse varianti costruttive sia in pietra che in prefabbricato cementizio: a rampa portante e gradino portato (mono o bi-gradino), e a gradino e rampa solidale monoblocco.

Dopo una serie di specifiche sperimentazioni effettuate si è giunti alla definizione di una scala oggetto di deposito di brevetto (n° deposito BA 20120000021) in cui si è puntato alla semplificazione delle fasi di costruzione degli elementi e di montaggio degli stessi, al fine di poter essere facilmente accessibile ad un mercato non esclusivamente elitario.

In questo brevetto la scala non presuppone la precompressione degli elementi che, invece, vengono resi solidali in maniera tradizionale tramite un getto di calcestruzzo armato gettato in opera. Si tratta di una scala elicoidale, a rampa portante e pedate portate, costituita da elementi modulari prefabbricati in calcestruzzo armato che fungono da casseforme a perdere, rifinite e a facciavista con graniglia di marmo bianco di Carrara lucidato, nel calcestruzzo armato gettato in opera. La rampa portante è definita, all’intradosso e estradosso, dalla geometria dell’elicoide sviluppabile. Le pedate sono elementi piani di geometria mistilinea che si incastrano negli appositi alloggi della rampa elicoidale. Gli elementi modulari che costituiscono la rampa elicoidale portante sono casseri a perdere manoportabili che permettono di alloggiare ermeticamente, a montaggio multiplo avvenuto, il getto di calcestruzzo e le apposite armature in barre di acciaio ad aderenza migliorata.
L’economicità dei materiali e la facilità costruttiva rendono degno di attenzione questo brevetto che, prendendo l’avvio dall’esperienza didattica svolta all’interno del corso di Storia IV Stereotomia della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, potrebbe costituire un ulteriore approccio della pratica stereotomica mediante una tecnica accessibile e veloce che ne ponga le basi per un’applicabilità su vasta scala.

di Giuseppe Fallacara
con Vincenzo Minenna e Claudia Calabria

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6 Novembre 2012

Interviste

Intervista a Kengo Kuma

L’intervista che segue si è svolta in occasione di Bologna Water Design 2012 presso l’opera Stonescepe, un progetto per Agape, Il Casone e Mapei.

Veronica Dal Buono: Ritroviamo nel suo lavoro non solo architetture monumentali ma anche interventi in scala ridotta e di più semplice – apparentemente – realizzazione. Qual é il suo approccio al design di strutture temporanee?
Kengo Kuma: Il progetti temporanei sono simili alle tea house giapponesi per la cerimonia del tè. Le case del tè giapponesi sono edifici molto piccoli e umili, luoghi di piacere dove si può avvertire la filosofia che vi è sottesa. Così, nel progetto di minuti padiglioni, cerco di tenere il medesimo atteggiamento del progettista delle case del tè.

V.D.B.: Che ruolo giocano i materiali e quanto sono importanti in tali progetti?
K.K.: I materiali sono il fondamento del design e cerco sempre di coglierne l’essenza nei miei progetti. Se sappiamo percepirne il cuore allora il progetto – l’architettura, il design – trovano un cuore anch’essi. Questo essenzialmente il mio approccio.

V.D.B.: Stonescape per Agape, Il Casone e Mapei, non è il suo primo progetto che gioca con elementi quali acqua e pietra. Come interpreta questa sinergia?
K.K.: La pietra, come quella utilizzata per Stonescape – la Pietra Forte Fiorentina – è una creazione dell’acqua stessa. L’acqua modella la pietra e la relazione che vi è fra i due elementi è così forte che sono indotto a fare ricerca con continuità su questi elementi. In Stonescape, specificatamente, ho lavorato alla combinazione di pietra, acqua e elementi di arredo per il bagno.

V.D.B.: Il bagno, soprattutto nella cultura giapponese, è uno spazio simbolico di relazione fra mente, corpo e superfici materiche. Come hai affrontato questi temi?
K.K.: In realtà il bagno è il centro della casa giapponese. É in tale spazio che le persone si ricongiungono con la natura e trovano armonia. Anche al presente le persone hanno compreso che l’equilibrio con la natura può costituire il punto centrale delle loro esistenze e questa è la ragione per cui nella società contemporanea il bagno sta occupando sempre più spazio, sta divenendo sempre più grande…

V.D.B: Crede che il design possa svolgere un ruolo nella contemporanea fase di “crisi” dell’economia?
K.K.: Penso che attraverso la crisi economica la gente possa scoprire l’importanza della relazione con l’ambiente e rendersi conto realmente della meraviglioso splendore che ci offre la Natura. Di conseguenza al momento di “crisi” l’uomo riscopre questo valore.

V.D.B.: Come legge il futuro dell’architettura nei paesi emergenti come Brasile, Russia, India e Cina?
K.K.: Sono paesi dove ancora è conservata la bellezza della Natura. Come processo di evoluzione sono paesi che dovrebbero preservare tale ricchezza e, se fossero abili a rispettare l’ambiente, potrebbero divenire modello per i nostri stili di vita futuri.

V.D.B.: Il Brasile per esempio è uno di essi. Come vedi la possibilità di lavorarci?
K.K.: Non ho al momento progetti in corso in Brasile. È un paese speciale e molti dal Giappone vi si stanno trasferendo, portando con sé la loro cultura. L’ho visitato più di vent’anni orsono e rimasi impressionato dalla bellezza naturale del paese. Le persone hanno mentalità aperta e una forte attitudine alla socializzazione. Potrebbero essere sviluppati nuovi modelli di cultura ispirandosi ad essi. Anche l’architettura contemporanea brasiliana è originale ed espressiva. Mi piacerebbe realmente, in futuro, lavorarci.

V.D.B. E in Italia al momento?
K.K.: Abbiamo un progetto a Rovereto e recentemente ho vinto il concorso per il terminal di Val di Susa. Nonostante la recessione economica questi progetti sembrano procedere in modo regolare…

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Material Design Lab ha curato per STONESCAPE il progetto di comunicazione visiva e svolge attività di Ufficio Stampa promuovendo con i media cartacei e digitali i contenuti testuali, iconografici e multimediali, legati al progetto. 
Videoediting, grafica e musica di “Stonescape. Alle origini dell’opera” e di “Intervista a Kengo Kuma” sono a cura di Lab MD

Un progetto per

Sponsor Tecnici Open Project, Frassinagodiciotto, Davide Groppi

Ufficio Stampa STONESCAPE
Lab MD | Facoltà di Architettura di Ferrara
Giulia Pellegrini materialdesign@unife.it

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5 Novembre 2012

News

SLABS


Mostra SLABS oggetti e piccoli arredi in marmo disegnati , da studenti di Disegno Industriale di Palermo e realizzati da LITHEA “le forme sensibili della pietra”, a cura di Viviana Trapani
Opening 09-11-12, Cavallerizza di Pal. Sambuca, via Vetriera 60/66 Palermo.

Gli studenti del corso di laurea di Disegno Industriale di Palermo hanno avuto l’opportunità di esplorare le possibilità costruttive ed espressive di un materiale senza tempo come il marmo, ampliate oggi dalle più recenti tecnologie di lavorazione; l’Università di Palermo e l’azienda LITHEA hanno infatti messo in atto un percorso di intensa collaborazione e dialogo che ha attraversato tutte le fasi del progetto di design, dall’elaborazione del concept alla produzione dell’oggetto. La disponibilità dei dirigenti dell’azienda, archh. Fabio Fazio e Patrizia Furnari e l’entusiasmo degli studenti del Laboratorio di Disegno Industriale II, coordinato da Viviana Trapani, con Veronica Di Salvo, Velia Genovese, Marianna Piscitello, sono stati gli elementi determinanti per arrivare alla presentazione di SLABS, una nuova collezione di oggetti ed elementi di arredo in marmo per gli spazi della casa. Si è centrato così l’obiettivo di stimolare, valorizzare e accogliere le capacità creative dei giovani designer, mettendo in contatto l’insegnamento del design con una realtà aziendale dinamica e innovativa come LITHEA, che ha già espresso con la qualità e il carattere dei suoi prodotti una grande attenzione al design e al suo potenziale di innovazione e di sviluppo. Le sperimentazioni degli studenti hanno disegnato un panorama domestico contemporaneamente inedito e familiare, in cui una materia intensa e ricca di riferimenti come il marmo è stata reinterpretata attraverso una ricerca di chiarezza costruttiva, di contrappunti formali/funzionali, di figurazioni lievi e giocose.
La mostra sarà aperta fino al 15 novembre, dalle 10.00 alle 20.00

Scarica l’invito

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2 Novembre 2012

News

Video intervista a Grafton Architects sul progetto realizzato per Pibamarmi sul tema di Marmomacc Meets Design 2012: “The colours of green: sustainable stone”

Fonte: Umbrella
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31 Ottobre 2012

Interviste

Intervista a Christian Pongratz

Incontriamo Christian Pongratz a Verona dove da diversi anni coordina il Summer Programs offerto dall’Istituto presso il quale è docente, guidando un gruppo di venti studenti statunitensi alla redazione di un progetto contestualizzato in Italia.
Christian è infatti Direttore e co-Fondatore del Dipartimento di Digital Design and Fabrication, inserito tra le specializzazioni del Master of Science presso il College of Architecture della Texas Tech University.

Veronica Dal Buono: I programmi di insegnamento che tieni negli Stati Uniti intersecano architettura, ingegneria e scienza computazionale. Come ha preso origine questo ambito di ricerca così singolare e quali sono i presupposti che lo hanno reso possibile, soprattutto nel contesto degli States?
Christian Pongratz: L’origine potrebbe essere identificata con il Master che ho conseguito presso il Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles, durante il quale ho studiato nuove metodologie di design digitale e modellazione 3D di prototipi. Sono stato uno dei primi a svolgere una tesi progettuale interamente con l’uso del computer a metà degli anni ’90. Successivamente, ho lavorato alcuni anni presso lo studio Eisenman Architects, prima di insegnare alla University of Texas (UT) in Austin, dove nel 2000 ho preso la posizione di Marcos Novak, già pioniere della “virtual architecture”. Con un studente del Dipartimento di Engineering ho cominciato a scrivere un programma specifico per una macchina a controllo numerico computerizzato (CNC) per poterla utilizzare nei miei corsi di progettazione architettonica. É stata la prima occasione in cui ho messo in relazione i due ambiti di architettura e ingegneria.
Rientrato in Italia, ho collaborato fruttuosamente con industrie in particolare del territorio veronese nell’ambito della lavorazione dei materiali lapidei. Tornando negli States nel 2007, alla luce di queste esperienze professionali e di ricerca, ho avviato un programma nuovo, un Master of Science in Architecture con specializzazione in Digital Design and Fabrication, basato su tre interessi principali: progettazione computazionale, materiali e fabbricazione, metodologie di assemblaggio di componenti per l’architettura. Sono tornato negli Stati Uniti in quanto ho compreso che le aziende italiane non sempre possono sostenere sperimentazioni e insieme avere le occasioni di ricevere finanziamenti per consentire la ricerca; e ciò succede anche per le Università. Negli Stati Uniti mi è invece possibile attuare nuovi studi e sperimentazioni dove il piano professionale si intreccia con quello accademico. Alla Texas Tech University ho avuto l’opportunità di realizzare un laboratorio altamente tecnologico con strumentazione digitalizzata sofisticata per la prototipazione tridimensionale di strutture e componenti in diversi materiali. Il Dipartimento di Digital Design and Fabrication che ho fondato attrae un alto numero di studenti provenienti da varie parti del mondo, desiderosi di confrontarsi con metodi e tecniche avanzate di progettazione e di ricerca.

V.D.B.: La suddivisione didattica in tre campi già suggerisce come si svolga il processo di integrazione del design digitale, “computazionale”, con i sistemi di fabbricazione digitale degli elementi costruttivi. Puoi illustrarci in sintesi come si sviluppa?
C.P.: Ho fondato il programma di Digital Design and Fabrication (DDF) coinvolgendo fin dall’inizio Maria-Rita Perbellini, mia partner anche nell’attività professionale, e tre altri docenti si sono aggiunti subito dopo, ciascuno con un proprio personale percorso. Ho inoltre incluso un docente proveniente dalla Corea, con un forte background nei sistemi informatici. Siamo principalmente un team di sei ricercatori. Ognuno di noi insegna in uno o due corsi, a seconda della propria esperienza, relazionandosi con una delle tre tematiche enunciate prima. Tali corsi informano la programmazione didattica con diversi linguaggi di programmazione computerizzata e introducono all’uso dei software più avanzati, incoraggiando la sperimentazione su materiali intelligenti e innovativi. Gli studenti, attraverso l’uso di macchine specializzate, sono coinvolti in un percorso rivolto a tipi di fabbricazione digitale. Le logiche della modellazione digitale vengono sempre testate da modelli e proto-strutture reali.
Uno dei docenti nel programma di DDF si occupa di Design Build, in particolare di assemblaggio di componenti, procedendo dal modello fisico dell’elemento fino alla realizzazione di un piccolo edificio in scala reale. Due anni fa gli studenti hanno progettato e poi edificato autonomamente una prima abitazione per artisti, un nucleo abitativo ecosostenibile realizzato in ogni dettaglio costruttivo e relazionato ad un sito nella periferia di Lubbock, in Texas.
Lo studente, attraverso progetti costruiti, trova così un iter completo che si svolge in quattro semestri, impara i linguaggi della programmazione digitale, le diverse tecnologie di fabbricazione, conosce materiali nuovi e si spinge fino alla sperimentazione all’insegna del trinomio “modellazione, prototipazione e assemblaggio”. Il programma si conclude con una tesi finale che può essere teorica o pratica. Attuando una strategia di “cross-fertilization” con altre discipline, i nostri studenti possono scegliere di seguire corsi in altri Dipartimenti di discipline diverse che vanno dal bio-medical design, alle scienze dei materiali, fino all’ingegneria meccanica e civile, coinvolgendo nello specifico ricerche individuali all’interno di altre facoltà. Nel mio caso, il materiale di lavoro preferenziale è la pietra ma gli studi che svolgo con i miei studenti vengono realizzati coinvolgendo anche materiali plastici, compositi, conglomerati e smart materials .


Hyperwave Series, 2006, Azul Aquamarine

V.D.B.: Christian ha una formazione internazionale e la possibilità di verificare in parallelo le evoluzioni, lo status dei diversi paesi che ha la possibilità di frequentare.
Come leggi al presente il panorama scolastico rispetto allo studio ed uso di tali tecnologie innovative?
C.P.: Vi sono diverse scuole all’avanguardia. Negli Stati Uniti penso allo Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles; il Taubman College con il Digital Fab Lab presso la University of Michigan, senza dubbio il MIT Massachusetts Institute of Technology a Boston. In Europa, la fabbricazione digitale si studia presso il noto dipartimento di Architecture and Digital Fabrication dell’ETH Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, ma è anche importante il lavoro svolto alla University of Applied Arts e la Technical University in Vienna, o a Londra presso il Digital Prototyping Lab dell’Architectural Association, e in Germania presso l’Institute of Computational Design alla University of Stuttgart.
Sono le scuole che investono di più sia sulle tecnologie della computazione sia sulla prototipazione e fabbricazione industriale digitalizzata, tutto finalizzato a una ricerca applicata alle fasi di progettazione.


Fluxus, 2005

V.D.B.: Ritieni ci siano ancora margini di innovazione e ricerca sul tema delle superfici da rivestimento, sottili e a spessore, attraverso il disegno e la fabbricazione digitale?
C.P.: Nell’ambito dei materiali lapidei ho avviato, intorno al 2003, la ricerca sulle superfici lapidee nell’ambito della progettazione digitale. Sulla mia strada si sono ora collocati diversi designers e il campo di sperimentazione si è allargato.
Oggi guardo alle Nanotecnolgie e all’inizio di un percorso di ricerca molto stimolante che si muove dalle proprietà intrinseche e composizionali della materia. Il futuro è legato alla integrazione di queste scienze nello studio e nell’uso dei materiali. Il vero problema è che noi architetti abbiamo una conoscenza poco approfondita sulle caratteristiche e sulle performance dei materiali emergenti. Sicuramente l’ambito dei compositi e degli “smart materials”, ossia dei materiali interattivi, reattivi e rispondenti a stimoli esterni è quello che anche nei programmi delle scuole richiederebbe maggiori approfondimenti.

V.D.B.: Come si coniugano le ricerche che conducete con la direzione della “sostenibilità”?
C.P.: La sostenibilità affronta proprio i temi dei materiali di riuso, degli elementi riciclabili; non è distante dal tema dell’uso di materiali compositi ibridi e dall’inclusione delle nanotecnologie nella progettazione e concezione di materiali nuovi. In questo senso negli Stati Uniti si stanno muovendo importanti ricerche, anche a livello federale, che hanno investito la collaborazione di architettura e ingegneria. Sono anch’io attivamente impegnato in proposte di finanziamenti con progetti di ricerca legati a materiali intelligenti che coinvolgono più discipline.


HI-lo, 2006, Pietra di Vicenza

V.D.B.: Tra tutti i materiali possibili nella contemporaneità, le vostre ricerche, sia con lo studio professionale Pongratz e Perbellini che negli atelier universitari, si concentrano spesso e in particolare sul materiali lapideo, naturale o ricostruito. Quali sono le motivazioni? Quali le qualità che ne consentono la elaborazione “digitalizzata”?
C.P.: Ritornando con regolarità da Austin a Verona ho cominciato a realizzare progetti che coinvolgessero il materiale lapideo proprio perché geo-localizzati in uno dei contesti che tra i più in Italia sviluppa tale settore. I miei primi contatti li ho avviati almeno un decennio fa e mi sono subito interessato all’eterogeneità interna, alle molteplici risonanze legate alla pietra stessa che è in sè molti materiali differenti, per la sua lavorabilità, per come reagisce. È nato un amore per questo materiale e una sfida a capire come impegnarlo in modo innovativo, attuale, nell’architettura. Al momento ho progetti di ricerca in atto nel campo della pietra strutturale e sto studiando sistemi di “strutture superficiali” e “superfici strutturali”. Anche nei concorsi ai quali partecipiamo, cerchiamo di proporre sempre il materiale lapideo, spesso coniugato con altri materiali della contemporaneità. Mi piace ripensare la solidità familiare, nota, rassicurante della materia litica e investigarne l’espressività e le risposte legate alla leggerezza da sfiorare, alla translucenza, alle qualità sensoriali capaci di stimolare un effetto e un coinvolgimento emotivo, pur mantenendone vive le valenze tettoniche. La sfida è rappresentata dalla ricerca di nuovi percorsi immaginativi, trasformativi e ancora latenti, di quei caratteri del materiale ancora sfuggenti e insospettati.

V.D.B.: Conosci il territorio produttivo italiano e le realtà di produzione artigianali. Il sistema di progettazione digitale e quindi quello di fabbricazione computerizzata, che relazione tessono al presente con il contesto artigianale? Vi è una integrazione o i due campi si escludono vicendevolmente?
C.P.: Si tratta di contaminazione delle rispettive conoscenze. Mi piace parlare di artigianalità digitale, di digital craft, quando mi riferisco alla generazione che lavora con la programmazione digitale, composta anch’essa da artigiani che giocano con numeri, dati e parametri, in un processo di organizzazione, revisione, reiterazione con continue differenziazioni.
L’artigiano tradizionale si misura direttamente con la materia. Anche l’artigiano informatico apprende studiando il mestiere tradizionale che ha secoli di esperienza alle spalle. Vi è un continuo rimando tra i due mondi. È molto importante capire i parametri e le fasi della lavorazione, come si lavora il materiale per poterlo programmare bene. La generazione del design fabrication non vuole eliminare l’artigiano tradizionale, figura che è sempre utile. Anzi, si vuole supportare la qualità di questo know-how generato nei secoli ed avere entrambe le esperienze vive nel presente. Ciò ci riconduce al Deutscher Werkbund, al Bauhaus, alla Wiener Werkstätte, quando in Europa all’inizio del XX secolo prese avvio il rapporto tra artigianato e industria. Un percorso oggi quasi dimenticato, la cui relazione si può rinnovare proprio grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie.


Seoul Performing Arts Center, 2005, Azul Bahia Granite

V.D.B.: Proprio in questi giorni, in occasione del centenario dalla nascita, si è rinnovato il ricordo di Alan Turing, riabilitandone, fortunatamente, la figura. Turing andò ben oltre il modello matematico dal quale è nato il moderno computer verso formulazioni di “morfogenesi”, teorie matematiche per comprendere la formazione delle molecole viventi.
Riesci a prevedere fino a che punto ci si potrà spingere nel settore del design, del progetto, all’integrazione tra scienze matematiche, le intelligenze artificiali e le tecnologie applicate?
C.P.: Se parliamo di “morfogenetica” negli ultimi anni abbiamo visto ricerche che provano di nuovo ad avvicinare il campo dell’architettura alla natura. Questi studi cercano di capire come sono strutturati gli organismi viventi, i vegetali in particolare, come evolvono, come si adattano all’ambiente. Ciò si lega al “parametric design” che sfida i materiali sintetici in un percorso molto simile. Penso all’avanzamento della tecnologia cui assistiamo oggi, all’utilizzo delle piattaforme di software quali Building Information Modelling (BIM) e al design parametrico che vediamo applicato da grandi protagonisti dell’architettura quali Zaha Hadid e Patrik Schumacher. Quando questi approcci si coniugheranno alla nanotecnologia, sicuramente sarà possibile pensare di creare un “genetic design” – come dice Karl Chu proprio parlando di architettura, genetica e computazione – ovvero parametri matematici strettamente collegati alle informazioni derivanti dai materiali che possono rispondere in modo “incorporato”, assimilato alle leggi della natura. Osserviamo il modello presente in natura ove le piante, quando cambia il contesto, si adattano oppure si ibridano con altri esseri viventi, in relazione con diversi stimoli. Ecco, questo settore è molto interessante perché presenta regole che oggi sono studiate anche nel campo dell’economia e del business. Il digital design permette di coniugare campi molto lontani in un unico processo, svolgendo inter-operanti salti di scala con un software che noi stessi possiamo generare e che consente un controllo, una visione molto completa di come inizia, si sviluppa, e finisce il progetto. Questo è infatti ancora il problema odierno, dove i progetti di architettura sono condizionati da elementi e componenti che non sono del tutto digitalizzabili, sono ancora analogici, hanno difficoltà a comunicare tra loro e nella realtà fisica del settore delle costruzioni siamo ancora legati al passato.
Il digitale c’è ed è disponibile ma la “digital fabrication” dove è applicata? Solo in campi limitati dell’architettura come per esempio gli allestimenti temporanei, le istallazioni, realizzazioni di civic art, oppure, attraverso il processo BIM, in grandi progetti come quelli di Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Ben van Berkel, ma alla fine non abbiamo ancora soluzioni che siano capaci di coniugare al massimo e facilmente tutti i livelli di scala, i sistemi meccanici, i diversi materiali. Le pelli degli edifici sono ancora compresi come sistemi multistrati. È necessario anche investire nello studio dei materiali stessi. Gli elementi industrializzati oggi disponibili non sono sempre disegnati per noi architetti, da noi architetti. Sono disegnati dall’industria e noi dobbiamo investigare sul come e perché usare tali componenti, se siano realmente giusti e forniscano le migliori performance per il nostro progetto, se possono essere ottimizzati.
Il futuro prossimo dovrebbe prevedere proprio studi di integrazione tra materia, funzionalizzazione e macchine programmabili, studi che fino ad ora non sono entrati tout-court nell’ambito della progettazione architettonica. Ora come architetti abbiamo la possibilità di lavorare in team dove le diverse figure sviluppano con specifica competenza una parte di un sapere vasto e non affrontabile da un solo operatore, innestando un modo di lavoro “organico”, auspicando al miglior dialogo tra le competenze professionali.

di Veronica Dal Buono


Visita allo stabilimento di Laboratorio Morseletto, 2010, Summer Study abroad Verona

Vai a Prongratz-Perbellini
Vai a College of Architecture Texas Tech University

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29 Ottobre 2012

News

Design, artigianato, cultura del progetto e imprese del Made in Italy.

Sabato 3 novembre ore 15.30 – Venezia
Padiglione Italia alla 13a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia.

Il padiglione Italia alla “13 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia”, affidato al Curatore Luca Zei dalla Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee del Ministero per i beni e le attività culturali, è intitolato LE QUATTRO STAGIONI Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy.

Una collezione di vasi in maiolica offre l’occasione per trattare il rapporto tra cultura e impresa, tra la conoscenza progettuale disciplinare e la conoscenza del saper fare. Nel caso specifico partendeo dalla tradizione rinascimentale del vasellame tornito a mano, ancora mircaolosamente perpetuata nel borgo umbro di Deruta, il design attualizza le forme portando modernità.
Fondi e decori sono realizzati con colori che esulano dalla tavolozza tradizionale delle mauiliche, ma sono creati in quadricromia al computer e poi prodotti in uno dei laboratori più antichi di Deruta. Per l’occasione il Padiglione Italia ospita in mostra Maioliche Deruta 2012, forme e decori sperimentali disegnati dall’architetto Michele De Lucchi.

Programma

SALUTI
Luca Zevi – Curatore del Padiglione Italia

INTERVENGONO
Luigi Rossetti – Regione Umbria – Coordinatore Politiche Industriali e Internazionalizzazione delle imprese

Alfonso Acocella – Presidente Corso di Laurea in Design del Prodotto Industriale. Dipartimento di Architettura di Ferrara

Angelo Micheli – In rappresentanza dello studio aMDL Architetto Michele De Lucchi

Andrea Margaritelli – Imprenditore, Direttore Fondazione Giordano

MODERA
Francesco Orofino – Vicepresidente IN/ARCH

L’accesso alle manifestazioni organizzate dal Padiglione Italia avviene acquistando il biglietto della mostra.

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23 Ottobre 2012

News

Acqua e pietra, design e cultura Stonescape di Kengo Kuma all’ex Ospedale dei Bastardini


STONESCAPE, vista di dettaglio dell’installazione. (Foto Giovanni De Sandre)

Si è conclusa con esiti d’eccellenza la seconda edizione di Bologna Water Design, un successo importante per la considerevole presenza di pubblico espressione e testimonianza della contemporanea attenzione alla cultura dell’abitare e di nuovi stili di vita.
Un risultato positivo e singolare in particolare per l’ex Ospedale dei Bastardini di via D’Azeglio, gioiello architettonico nascosto nel cuore della città storica che ha offerto l’estensione spaziale inattesa dei suoi interni, ad istallazioni, esposizioni, avvolgenti scenografie per collezioni e prodotti di design: un insieme di allestimenti realizzato grazie alla collaborazione di affermati progettisti con aziende leader invitate a rappresentare la cultura imprenditoriale del nostro Paese.
Un’effervescente serata inaugurale ha visto più di seicento visitatori affluire all’istallazione Stonescape di Kengo Kuma per Agape, Il Casone e Mapei.


STONESCAPE, vista di dettaglio (Foto: Giovanni De Sandre)

L’acqua, tema trasversale di riflessione ed elemento unificante dell’intera iniziativa, da silenziosa protagonista ha segnato il percorso degli spettatori che si muovevano ammaliati , ammirando i ricercati elementi d’arredo bagno di Agape installati tra le armoniose dune stratigrafiche in pietra Forte Fiorentina de Il Casone, rese possibili dalla tecnologia celata ma essenziale di Mapei.
Kengo Kuma ha saputo, come sempre, far lievitare il design dei singoli elementi d’arredo bagno – a firma di Angelo Mangiarotti per i lavabi e Giampaolo Benedini per le vasche – all’interno delle linee fluide e dell’avvolgente basamento litico.
Per l’occasione Philippe Daverio, ospite illustre e atteso della manifestazione, ha introdotto la serata inaugurale percorrendo con il consueto ricercato eloquio, non privo di curiosi aneddoti e intriganti ironie, la storia della stanza da bagno. La narrazione, fatta di sole parole ma evocanti vivide immagini, ha consegnato al pubblico un messaggio di positività e fiducia alla cultura progettuale d’interni del presente.


STONESCAPE, Kengo Kuma tra gli sponsor (Foto: Tommaso Petrella)

Continuo e copioso, anche nei successivi giorni all’inaugurazione, l’afflusso di visitatori a Stonescape ha innescato relazioni e dibattito tra architetti, specialisti dell’architettura, autorità cittadine, operatori della produzione provenienti da tutto il mondo, tra l’altro coinvolgendo al dialogo gli stessi residenti della città emiliana.
Segnale questo positivo, di conforto,di incoraggiamento in considerazione soprattutto del particolare clima economico che anima il Paese.
Grazie altresì alla qualità espressa dall’iniziativa, la manifestazione fieristica Cersaie ha riconosciuto a Bologna Water Design, “fuorisalone” bolognese, un importante stimolo partecipativo introdotto nel tessuto urbano, affermando la complementarietà dell’evento posto ad arricchire e approfondire i contenuti dell’esposizione.

di Veronica Dal Buono

Un progetto per

Sponsor Tecnici Open Project, Frassinagodiciotto, Davide Groppi

Ufficio Stampa STONESCAPE
Lab MD | Facoltà di Architettura di Ferrara
Giulia Pellegrini materialdesign@unife.it

Vai a Il Casone
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18 Ottobre 2012

Opere Murarie

Muri regolari fra oblio e riabilitazione*

English version


Palazzo postale (1933-36) di Piazza Bologna a Roma di Mario Ridolfi (foto: A. Acocella)

Vorremmo aprire quest’ultima sezione, inscritta nell’ampio capitolo sui Muri di pietra, con una lunga citazione legata alla riflessione teorica di un architetto che ci è stato idealmente vicino, con il suo insegnamento, con la sua posizione ostinata ed intransigente, a mantenere viva in noi la possibilità di una linea di ricerca difficile, che in certi momenti ci è apparsa isolata, inattuale, priva di prospettive in un’epoca autoreferenziale (poco interessata al passato come al futuro) ma che sentivamo, istintivamente, autentica e praticabile almeno all’interno del nostro particolare “laboratorio “ speculativo.

«Quando guardiamo le architetture del passato – afferma Giorgio Grassi – noi come architetti, senza eccezione credo, cerchiamo di penetrare il loro segreto. Parlo naturalmente delle buone architetture, di quegli esempi che s’impongono alla nostra attenzione e che la trattengono; di quegli esempi ai quali ritorniamo per riprendere fiducia nel nostro lavoro. E parlo anche di quel loro segreto che presuppone sempre però un disvelamento. (…)
A noi interessa il loro segreto, per così dire tecnico, c’interessano i criteri, le modalità, il loro come prima di tutto. E’ questo il carattere della nostra osservazione, guardiamo per imparare come si fa. E la prima cosa che impariamo, spesso a nostre spese, è che questo segreto non appartiene alla forma in sé. Anzi la forma in sé, la forma isolata, è sempre un enigma e come tale ci scoraggia. Invece il carattere positivo, d’incitamento che ha sempre in noi una buona architettura è qualcosa che è incluso certo nella forma stessa, ma che è altrettanto prima e dopo la forma, che precorre la forma e dalla forma si distacca.(…)
Attenendosi all’emergente aspetto tecnico-pratico della forma, a poco a poco annulliamo la distanza che la separa da noi. Pur consapevoli dell’importanza che hanno le condizioni storiche, culturali, sociali ecc. nella definizione delle forme dell’architettura, noi siamo attirati piuttosto dalle condizioni materiali, pratiche, siamo attirati dal loro lavoro, e questo ce li avvicina. Quando come architetti parliamo di astoricità delle forme architettoniche, intendiamo piuttosto questo, e parliamo di appropriazione più che altro nel senso del percepire, del condividere le ragioni pratiche di tali forme.
Questo modo specificamente tecnico di avvicinare la forma è anche il solo modo di tenere la forma alla giusta distanza. Impariamo a guardare, riconosciamo la precisione delle soluzioni, la linearità dei movimenti, a poco a poco acquistiamo la familiarità con gli elementi del lavoro, la costruzione ci appassiona non la forma.
Qui la nostra capacità di percepire è al sicuro e può lasciare ogni precauzione, guardiamo con l’occhio dell’apprendista, guardiamo con l’occhio attento al come».1


Casa a Senigallia (1998-2004) di Danilo Guerri (foto: A. Acocella)

Il come dell’architettura muraria ci mette indubbiamente di fronte al lungo bagaglio di esperienze, ai dispositivi tecnici di costruzione, alle regole, alla realtà di ciò che è insopprimibile e durevole. Soffermandosi sul come, sugli aspetti tecnico-pratici e permanenti della costruzione dei muri regolari s’impongono, pertanto, ancora una volta i modi assemblativi, “connettivi” rispetto ad ogni riflessione sul “dire figurativo” più generale ed inclusivo dell’opera muraria. Ci scusi il lettore se ripartiamo quasi da zero, a riprendere in mano ciò che – apparentemente – possiamo ritenere di sapere, di conoscere. Ma un’investigazione su ciò che saremmo inclini a dare per scontato ci consentirà di far nascere nuovi punti di vista.
E allora apriamo la questione che attiene al concetto di “regolarità”.
La caratteristica di fondo, indubbiamente, dei muri regolari è di utilizzare elementi litoidi, sottoposti ad un’accurarata lavorazione di taglio (conci, blocchi, listelli ma anche cunei, settori di cilindri, di coni, di sfere ecc.) al fine della prefigurazione di assetti murari fortemente definiti sotto il profilo del disegno di crescita in elevazione. Siamo di fronte al sostanziale trasferimento della materia litica dal regno delle cose “informi” della natura a quello dell’ordine geometrico dell’architettura attraverso il conferimento di misure, rapporti, ritmi impressi alle masse di pietra. Sverre Fehn ci ricorda come la pietra squadrata rappresenti la prima sicurezza dell’uomo in direzione della modificazione del paesaggio naturale.2
La modellazione esatta della materia litica – a cui si accompagna, in genere, la lavorazione accurata delle superfici – ha il sopravvento rispetto alla contingenza, all’eterogenità delle risorse litiche disponibili liberamente in natura che invece condizionano la realizzazione dei muri irregolari. L’esecuzione dei muri regolari obbedisce ad una precisa ed ordinata geometria configurativa che investe sia la morfologia dei singoli elementi di base che la concezione dell’ossatura murale generale.
La pietra non è più “materia informe” bensì “materiale formato” per finalità costruttive specifiche. La costruzione dei muri, nelle condizioni più ricorrenti, avviene per sovrapposizione progressiva di materiale organizzato secondo “corsi” o “filari”, formati da conci litici parallelepipedi, sfalsando i giunti verticali. Obiettivo architettonico è di pervenire ad un assetto complessivo del piano murario di natura eminentemente stratigrafica.
Si è di fronte ad una restituzione ordinata e geometrizzata dell’opera muraria in cui la complanarità della sezione murale, il parallelismo dei piani, l’equivalenza o – comunque – la confrontabilità morfologica e dimensionale dei singoli elementi costitutivi il dispositivo di apparecchiatura rappresentano fattori di spinto controllo architettonico. All’interno delle tecnologie tradizionali od innovate di lavorazione dei materiali lapidei è possibile selezionare i mezzi e i procedimenti idonei ad ottenere i componenti di base della costruzione in pietra da taglio che ancora oggi indichiamo con il termine di “conci”.
Tali elementi possono assumere forme anche molto particolari di cui nel passato si è occupata la disciplina della stereotomia (diventata presto una branca importante della geometria descrittiva) ed oggi è appannaggio delle avanzatissime macchine di taglio a controllo numerico. Le murature ottenute con grandi pietre squadrate sono state impiegate, con continuità, dall’antichità fino ai primi decenni del Novecento, alimentando la costruzione degli esempi più rappresentativi della grande architettura civile. Queste opere, ancora oggi, s’impongono per il loro valore estetico ed il loro stato di conservazione.


Dettaglio di facciata delle Poste di Piazza Bologna a Roma di Mario Ridolfi (foto: A. Acocella)

Nella recente tradizione, in particolare ci riferiamo alla seconda metà del XX secolo, la muratura in pietra da taglio ha ricevuto solo parziali valorizzazioni da parte delle principali tendenze della ricerca architettonica e, quasi sempre, con caratteri di eccezionalità; applicazioni sporadiche, in altri termini, all’interno dei programmi di costruzione almeno in Italia (e nei Paesi a più avanzato sviluppo industriale) dove l’affermazione dei materiali artificiali ha “marginalizzato” sul campo i cavatori, i produttori, i saperi e i magisteri costruttivi a base lapidea, gli ultimi architetti che hanno mantenuto in vita l’opera muraria regolare all’interno delle loro realizzazioni.
Ci dispiace registrare come cose familiari per studi, per valori riconosciuti ed acquisiti dal bagaglio culturale della disciplina, sono diventate estranee a gran parte dell’architettura contemporanea insieme alla consapevolezza di non poterne fare a meno, visto che fisicamente molti di noi continuano a vivere (o a cercare di vivere) in città storiche di pietra o di laterizio all’interno di manufatti con murature a forte spessore di cui riconosciamo valori figurativi, qualità ambientali che altrove (soprattutto nell’architettura delle nuove espansioni urbane) non riusciamo a rintracciare.
Tale eclissi, comunque, non sta a significare che la pietra sia stata completamente dimenticata nell’epoca recente; essa è sempre rimasta una risorsa di primo piano, impareggiabile per le sue intrinseche e variegate qualità, sia pur progressivamente indirizzati verso applicazioni che hanno teso sempre più a ridurre la massa, la forza dei muri a forte spessore.
L’opera muraria ci pone – oggi – concettualmente di fronte ad un linguaggio tradizionale, in qualche modo, respinto, tenuto a distanza da almeno cinquant’anni dall’architettura moderna. Non si è trattato di un processo naturale, di caduta in disuso per esaurimento delle sue potenzialità interne, ma esito di un abbandono, di un azzeramento brusco, intenzionale. Tutto è apparso come un universo ingombrante, un bagaglio di offerte convenzionali, già viste, capaci solo di rimandare le une alle altre.
L’opera muraria in pietra, da tecnica costruttiva e linguaggio aulico condiviso, ha cessato così – quasi d’un colpo – il suo ruolo, il suo servizio; è sembrata estranea all’architettura contemporanea, al pari della costruzione in laterizio.
Fortunatamente oggi è possibile notare – a fronte di un’evidente stanchezza soprattutto della cultura architettonica contemporanea che ha puntato tutto sui materiali artificiali, sulle tecnologie fortemente innovative – numerosi architetti che ritornano a prendere in considerazione i lasciti di questo statuto costruttivo. Il loro sforzo è chiaramente rivolto a fornire contributi individuali ma questi, valutati nell’insieme, ci parlano di una nuova possibile stagione – o quantomeno della “sopravvivenza” – dell’opera muraria posta al servizio del progetto contemporaneo.
Assumendo una certa distanza rispetto all’architettura omologata dell’oggi ci ha intrigato di rintracciare e ricollegare fra loro le esperienze recenti all’uso di una muralità di pietra; in particolare ci ha interessato “saggiare” e studiare i modi attraverso cui la contemporaneità ha declinato architettonicamente un tema costruttivo lungamente disatteso.
Ci siamo dati il compito di svolgere una lettura in qualche modo riunificante di tali esperienze saldando le une alle altre e, tutte insieme, all’esperienza storica precedente. Alle spalle abbiamo indubbiamente un passato con un orizzonte architettonico vasto, articolato e saturo di declinazioni, di temi compositivi e spaziali esperiti. La possibilità di mettere a confronto, di saldare le attuali riproposizioni dell’opera muraria rispetto ad una tradizione, ad un linguaggio in qualche modo consolidato e riconosciuto ci sembra un evento per certi versi salutare rispetto alla prassi più ricorrente dell’architettura contemporanea dove l’individualismo e la ricerca dell’innovazione fine a se stessa ha condotto spesso ad una indecifrabilità, ad una solitudine – nei casi migliori – anche delle opere più riuscite.


Museo della Pietra (1996-2000) a Tochigi di Kengo Kuma

Se oggi ritorniamo di nuovo ad avvicinarci alle regole, agli statuti consolidati, alle convenzioni costruttive sedimentate nei diversi contesti geografici, evocando l’esperienza dell’opera muraria più o meno remota, questo non vuol dire rinunciare ad una linea di ricerca, di aggiornamento, di attualizzazione del linguaggio dell’architettura di pietra.
La tradizione si offre ai nostri occhi come orizzonte intellegibile di riflessione che ci “ammonisce”, ci “frena” indubbiamente per certi versi, ci fa crescere facendoci vedere com’è stata, come potrebbe essere ancora riproposta l’opera muraria in pietra. Lo sguardo all’indietro allora assume il ruolo di confronto affinché il lavoro del presente possa mostrarsi all’altezza di quello di ieri; non già per cercare rifugio, consolazione nel passato.
La tradizione – sull’insegnamento di Giorgio Grassi – com’eredità pratica operativa da cui partire per far evolvere il lavoro progettuale in direzione dei problemi, delle aspettative, delle sensibilità dell’oggi. L’ipotesi di una riconsiderazione del muro quale elemento di progetto non deve impedire di valutare come le permanenze, l’Antico, siano esperienze trascorse. Della lunghissima tradizione storica è fondamentale il senso del materiale, la concezione architettonica di fondo (solida, corposa, stabile, duratura), i suoi insegnamenti pratici piuttosto che i tratti formali o stilistici.
Un ascolto proteso a cogliere l’estesa gamma di potenzialità della pietra, la sua virtualità d’uso indirizzabili verso inedite ipotesi applicative, al fine di far emergere nuove ipotesi, risultati inaspettati.
Il tentativo di far arretrare lo sguardo verso il passato, dal punto di vista pratico può voler dire ricondurre ad un grado zero la costruzione stessa rivalutando l’architettura attraverso i suoi dati eterni: gli elementi e gli archetipi fondamentali, gli assetti compositivi, Vorremmo, in questa direzione di riflessione, ritornare ai valori delle figure murarie, dello spazio, dei volumi primari della composizione architettonica.
Un’architettura, in altri termini, che ritorni a confrontarsi con le esigenze essenziali, cercando di dare risposte adeguate (che poi sono quelle di sempre) attraverso opere destinate a durare, a parlare a più di una generazione. E’ frustante notare oggi quanto assai poco conti, nella pratica realizzativa, la buona esecuzione, l’evidenza e la semplicità dei mezzi (cioè l’importanza del sapere costruttivo, della realizzazione a regola d’arte) in vista di un risultato compiuto, risolto con chiarezza.
Questo, certo, non illudendoci che la tradizione dell’opera muraria in pietra possa essere riproposta in forma generalizzata quale tecnica “redentiva” ma ritenendo, quantomeno, che sia da tenere presente in certe occasioni, in specifici contesti territoriali, dove esista la possibilità di far riemergere dal suolo con dignità un materiale che sicuramente può continuare a dar un suo contributo significativo all’architettura contemporanea.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Giorgio Grassi, “Questioni di progettazione”(1983) p. 226 in Giorgio Grassi. Scritti scelti, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 403.
2 “All’inizio le dimensioni erano la caverna stessa e la terra. Il pavimento aveva lo spessore della terra e i muri della caverna si rompevano dove iniziava il mare. Quando la nostra visione del mondo comprendeva l’infinito, nessuna dimensione della realtà era definita. L’unico confine, l’unica cosa che ci ancorava saldamente all’universo era l’animale ucciso davanti all’antro della caverna. E la carogna di quell’animale veniva fatta risorgere sulle pareti della caverna. Si cercava una dimora nella dimora dell’animale.
Non so quanti anni siano passati prima che, di fronte all’antro della caverna, nascesse la dimensione “autonoma” (…) la pietra, forgiata in un volume rettangolare. Altezza. Lunghezza. Larghezza. Quanto deve essere stato oscuro il lavoro di creazione in questa limitata quantità malleabile! La più grande manifestazione poetica in forma definita. La prima sicurezza, il primo segno impresso nel paesaggio, segretamente riposto nella rozza pietra squadrata.” Sverre Fehn, “Come sono nate le nostre dimensioni (ed. or. “How our Dimensions are Born”, 1992), Area n.46, 1999, p.2.

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18 Ottobre 2012

English

Regular walls – between oblivion and resuscitation*

Versione italiana


Post office building (1933-36) in Bologna square in Rome designed by Mario Ridolfi (photo: A. Acocella)

We would like to begin this final section of the chapter on stone walls with a lengthy quote from Giorgio Grassi, an architect whose ideas and teachings have been of considerable importance to us; his intransigence and obstinacy in trying to sustain a difficult stand – which at times has appeared to us to be rather isolated, old-fashioned, devoid of any real future in an age when there seems to be little interest in either the past or the future – is something that in the end we instinctively felt to be authentic and of practical value within the framework of our own speculative “laboratory” of ideas.

When we look at architecture from the past, we architects (I think without exception) attempt to reveal its innermost secrets. When I say “architecture” I am talking, of course, about good architecture, about those constructions that come to mind and help us to continue having faith in our work: I am also talking of that secret of theirs which always, however, presupposes its own disclosure (…).
We are interested in their so-called technical secret, that is, their criteria, their methods, their very essence, first and foremost. This is what our observation consists in: we observe in order to learn how things are done; and the first thing we learn, often at out own expense, is that this secret does not belong to the style itself. On the contrary, the style itself, the isolated style, is always an enigma, and as such it discourages us. On the other hand, the positive character of good architecture is something that is part of the style, but also something that exists before and after the style, that precedes the style but also stands out from the style (…).
By sticking to the emergent technical-practical aspect of style, we gradually close the gap that separates it from us. Despite being aware of the importance of the historical, cultural and social factors in the definition of architectural styles, we are more attracted towards the material, practical conditions, towards their operation, which brings us closer to such conditions. When, as architects, we talk of the ahistorical nature of architectural styles, this is what we are really talking about; we see appropriation as the perceiving and sharing of the practical reasons for adopting such styles.
This specifically technical approach to style is also the only way of keeping style at a safe distance. We learn to admire it, to recognise the precision of architectural constructs, the linearity of movement, and we gradually acquire familiarity with the various aspects of a given work; it is the construction, not the style, that moves us.
Our ability to perceive is safe here, there is no need for caution – we observe architecture with the eyes of the apprentice, intent on its practical features, that is, on how it has been designed and built.


House in Senigallia (1998-2004) designed by Danilo Guerri (photo: A. Acocella)

Any understanding of the “essence” of walled architecture inevitably requires a consideration of considerable historical experience, of technical building methods and rules, in other words, of something that is both insuppressible and long-lasting: this, in turn, brings us to the question of how materials are assembled and joined, compared with the more general figurative character of walls. We apologise to the reader for the fact that we are beginning once again almost from the very start, and taking into consideration things that we apparently already know; however, an investigation of what we tend to consider to be acquired knowledge will give us the chance to see things from a different point of view. We are going to start this final section with an analysis of the concept of “regularity”.
The basic characteristic of regular walls is the use of stones that have been accurately cut and dressed (ashlars, blocks and listels, as well as quoins and sections of cylinders, cones and spheres) so as to give clearly-defined walls (in terms of their vertical elevation). This characteristic is based on the transformation of the material from the world of “shapeless” objects to be found in nature into that of the geometrical order of architecture – whereby stone is subjected to a series of specific measures, ratios and rhythms.
Sverre Fehn reminds us that squared stone represented Man’s first step towards the true modification of the natural environment.
The precise modelling of this stone, generally accompanied by the accurate dressing of its faces, takes precedence over the contingent, heterogenic nature of those stone materials to be found in nature and used in the construction of irregular masonry walls. The building of regular masonry walls generally involves the superimposition of the material in “courses” or “rows” composed of parallelepiped stone ashlars and characterised by the staggering of the vertical joints between adjacent stones. The architectural objective is to create an overall wall design of a basically stratigraphic nature.
This orderly, geometrical arrangement of stones is further characterised by the coplanar facing of the wall, the parallelism of the courses, the equivalence – or comparability – of the individual constituent elements in both morphological and dimensional terms. Traditional and modern methods of working the stone involves a series of procedures and instruments suitable to the creation of the basic elements needed for stone construction, which to this day are known by the name of “ashlars”.


Façade detail of the Post office building in Rome designed by Mario Ridolfi (photo: A. Acocella)

These elements may take various forms, and in the past these forms were the subject of stereotomy (soon to become an important branch of descriptive geometry): today, they are provided by highly advanced numerically-controlled cutting machines.
Walls built from large square ashlars were a feature of stone architecture from the very earliest times right up to the early years of the 20th century, and such works are still as impressive as ever, in terms of both their aesthetic value and their excellent state of conservation.
Recent tradition (in particular that of the second half of the 20th century) has seen a decline in the popularity of stone walls among architects, which have almost always been used in exceptional circumstances: they have made but sporadic appearances in construction programmes (at least in Italy and the more advanced nations) dominated by artificial materials, as a result of which quarrymen, stone producers, the knowledge and constructive skills centred around the working of stone, and the remaining architects to keep alive regular stone walls within their creations, have all been “marginalised”.
We are of course sorry to see familiar objects of study – objects that are part and parcel of our common cultural baggage as architects and citizens – largely disappear from contemporary architecture, together with the knowledge that we cannot do without the stone constructs that surround many of us in our everyday lives (given that many people continue to live – or try to live – in historical towns and cities made of stone or brick, within thick walls whose figurative value and environmental worth we readily recognise, and which cannot be found elsewhere (and which is particularly absent from the architecture of urban expansion).
This decline, however, does not mean that stone has been completely forgotten in recent years; it has always remained a material of prime importance, one that offers unique qualities, albeit within the context of an architecture that has tended to reduce the mass and the strength of the thick stone walls of the past.
Today, the masonry wall represents a traditional architectural vision that has been largely rejected over the past fifty years or so in favour of more modern architectural concepts: this process hardly represents a natural decline deriving from the exhaustion of the material’s inherent potential; on the contrary, it has been more a case of the sudden, intentional abandonment of stone as a major building material. It is as if it were seen as extraneous to modern architecture; that is, a material which, together with brick, has ceased to play its part. However, we are fortunately witnessing numerous architects tiring of the strongly innovative artificial materials, which in modern times have all but replaced stone, and rethinking the role that stone can play in their creations. Their efforts are clearly centred around the making of individual contributions, but taken together, these individual contributions may well auger the beginning of a new season for – or at least the continued survival of – masonry walls within contemporary architecture.
In distancing ourselves from the standardised architecture of today, we have found it intriguing retracing and linking once again contemporary experiences of masonry wall construction; in particular, we found it interesting “sampling” and studying the ways by which present-day architecture has interpreted this long-forgotten building method.
We have set ourselves the task of in some way reunifying such experiences, and linking them with past architectural traditions. The architectural horizon is a vast one, full of styles, models, spatial and compositional themes. The opportunity to compare past and present experience seemed to be a healthy one compared with the more common praxis of contemporary architecture, where individualism and the search for innovation for the sake of it has often led to the undecipherable character – or at the very best to the solitude – of even the most successful of architectural works.
If we now go back to the rules, that is, to the tried-and-tested standards and conventions that have characterised diverse geographical areas throughout history, this does not mean renouncing the updating and modernisation of the language of stone architecture.
Tradition constitutes an intelligible horizon of understanding which undoubtedly “informs” us, to a certain degree, of what masonry walls were like, and “suggests” what they could be like in the future. The comparison with the past thus helps us understand how present architectural projects can in fact attain the qualitative heights of the past, rather than constituting the pursuit of a nostalgic return to traditional models and methods.


Stone Museum (1996-2000) in Tochigi by Kengo Kuma

Tradition, as Giorgio Grassi tells us, should be seen as the working basis for the development of the architect’s projects in accordance with present-day problems, expectations and sensitivity. The idea of rethinking the wall as an architectural element should not prevent ancient tradition and experience from being evaluated for what it is. Centuries of tradition have taught us the importance of materials and the basic architectural concepts of solidity, stability and longevity: these practical teachings, in fact, are more important that the formal or stylistic features of historical architecture.
Stone can be employed in a vast range of architectural projects, and can give perhaps unexpected results within a contemporary framework. The purpose of returning to its origins is to retrace the timeless features of architecture: that is, its fundamental elements, archetypes and compositional designs. In this present section, therefore, we would like to return to the essential value of walled constructions, of space and of the primary volumes that make up architectural compositions.
In other words, we wish to portray an architecture that goes back to satisfying essential requisites, one that provides satisfactory solutions (the same ones as ever) in the form of constructions designed and built to last for several generations. It is frustrating to see just how little importance is afforded today to well-built constructions made from simple materials (that is, to building know-how and state-of-the-art structures).
While we are fully aware that the traditional masonry wall cannot be re-proposed as a generalised “redeeming” technique, we do believe that it should be taken into consideration on certain occasions, in specific local contexts, where stone can make a significant contribution to contemporary architecture.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006.

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12 Ottobre 2012

Opere di Architettura

Museo delle culture a Basilea,
Svizzera Herzog & de Meuron


L’espansione del museo e la sua veste splendente dominano la visuale dall’alto (fotografie di Duccio Malagamba, courtesy Il Casone)

L’architettura conventuale ha spesso ispirato grandi architetti. Molti interventi hanno segnato indelebilmente la storia della disciplina del progetto, al passato ed al presente, sia per nuove costruzioni, sia per recuperi e trasformazioni significative, frequenti nei centri cittadini. Viene subito alla mente Le Corbusier a La Tourette, e rimanendo in tema di Charles Jeanneret, pure il convento delle Clarisse a Ronchamp, a firma di Renzo Piano. Per le trasformazioni, è recente il completamento dell’ex convento di San Bernardo a Tavira, su progetto di Edouardo Souto de Moura. Se restringiamo il campo alle applicazioni lapidee rilevanti, fra le nuove opere ricordiamo il monastero per le monache cistercensi sull’isola di Tautra in Norvegia, vincitore del Premio Internazionale Architetture di Pietra nell’anno 2007; nel progetto gli affacci sono essenzialmente risolti dalla sola variabilità delle cromie dell’ardesia. Dello stesso Souto de Moura la trasformazione in pousada del convento di Santa Maria de Bouro si distingue per la sensibilità anche restaurativa, ad esempio mostrata nelle fasi di cantiere dei disfacimenti e rifacimenti di alcuni camminamenti e piazze esterni, così come nelle misurate integrazioni lapidee a raggiungere la nuova vasca all’aperto.
Pur con stratificazioni del passato meno altisonanti di quelle del convento domenicano di San Marco a Firenze, realizzato su progetto di Michelozzo e arricchito dagli affreschi di Beato Angelico, anche il Museo delle culture di Basilea è convertito in museo etnografico a partire dal 1849, quale trasformazione di un’originaria architettura conventuale.
In una città difesa dalle montagne, per di più a cui si pervenga superando differenze di quota sostenute, e risalendo cime per poi ridiscendere a valle, il cosiddetto roofscape assume valore assai rilevante, poiché è il quinto affaccio ben visibile degli edifici, o della città nel suo complesso, verso il cielo. A Basilea Herzog & de Meuron realizzano l’espansione museale richiesta dal programma, facendo proprio affidamento al tetto: ne scardinano le geometrie tradizionali, ma senza tradire i segni caratteristici del contesto. La copertura luccica, ripensata in materiale ceramico cangiante ai raggi incidenti del sole.


La scala storica e le nuove pedate lapidee (fotografie di Duccio Malagamba, courtesy Il Casone)

Dall’alto, lo sfondo al quinto affaccio scintillante dell’edificio è il suolo; esso discende secondo una pendenza lieve al nuovo ingresso del museo, ed appena oltre i grandi cristalli di piano terra si distende in una pavimentazione lapidea omogenea, cerulea, vellutata, costante. Alla soluzione sommitale di esiti eloquentemente tridimensionali, risponde a terra un calpestio compostamente bidimensionale; ai colori mutevoli e splendenti del coperto, segue la scelta stabile per gli orizzontamenti, di una superficie opaca capace di assorbire i riflessi dell’intorno; ad un ruolo di spicco delle nuove falde nel panorama cittadino, fa eco la componente pavimentale, che si fa sfondo rispettoso degli allestimenti e delle opere esposte all’interno. Al piano terra in particolare, ribassato rispetto all’esterno, il progetto pare mettere a nudo ed impiegare quale calpestio la roccia, di cui sono costituite le montagne: sia in sommità, sia a terra dunque, si esprime il rapporto con il luogo. Addomesticata alle volontà dell’uomo, la pietra è prima di tutto piano orizzontale, poi scala, e nelle rampe storiche permette al fare artigiano di esibirsi in riproduzioni consone alle stratificazioni passate dell’edificio. Ai piani superiori le lastre lapidee si diffondono dai pianerottoli di sbarco sino alle finestre, estese a terra, ove raccolgono morbidamente le tonalità della città, via via sfumandole verso il cuore delle sale espositive. Le forniture lapidee sono de Il Casone di Firenzuola, essenzialmente di colombino dell’appennino tosco-emiliano.
Il Museo delle culture di Basilea denuncia un simile approccio al tema della trasformazione dell’antico, rispetto al Caixa Forum di Madrid degli stessi architetti: la base visibile del fabbricato è sagomata e ribassata al calpestio, per indurre i flussi pedonali a convergere all’interno, e per ricercare rapporti di complicità con gli spazi pubblici circostanti; il “fusto” della preesistenza, secondo la tripartizione classica degli elementi architettonici, è pressoché confermato, seppur con la chiusura delle molte aperture, a guadagnare superficie muraria utile per gli allestimenti, così come ad ottenere il dosaggio più controllato della luce naturale negli spazi espositivi; le aperture delle bucature rimaste punteggiano in modo asimmetrico le facciate; il coronamento, volumetricamente molto articolato ed imponente, costituisce la vera espansione dell’edificio museale; infine si conferma anche la componente di verde verticale, che a Madrid veste un’intera quinta urbana, mentre a Basilea solo tre montanti d’ordine gigante a fianco dell’ingresso.


L’insieme, con le preesistenze, lo scivolo d’ingresso ed il verde verticale (fotografie di Duccio Malagamba, courtesy Il Casone)

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di Alberto Ferraresi

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