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26 Gennaio 2013

English

Sensorial spaces by Sibylle Schaschl

Versione italiana


Aurelio Hotel in Lech by Sibylle Schaschl. Detail of the swimming pool entrance with coverings in smooth Sahel stone and natural Namibia.

One of the key aspects in the 3rd-millennium global culture is the constant and specific attention on mental and body wellness; theories, practices and products aimed to mind and body care are peculiar of a new organicism, able to radically define sensorial and emotional experiences.
In this scenario spaces devoted to well being have substantially changed their structure and aspect: in particular the bathroom has become, both in private houses and public places, an environment devoted to wellness and body care practices overcoming the simple hygienic values and moving toward complex aesthetical and therapeutic functions, including personal entertainment. The bathroom expands its boundaries, the concept of its service purpose comes down, the environment merges with the bedroom, its walls get more rarefied and projecting it is as accurate as for sitting or living rooms; in the past it was a reserved and inscrutable space, now it becomes a place of exposed visibility, at the same time background and protagonist of new multi-sensorial rituals.


Aurelio Hotel in Lech. A swimming pool in the wellness centre with coverings in smooth or striped Grigio Tunisi stone and floorings in Pietra Senape.

It’s easy to understand that, in this context, stone materials get a privileged employment, spreading their qualities at full spectrum, stimulating vision, hearing, touch and smell; this happens in private bathrooms as well as in spas, wellness centres – both independent or integrated in complex systems as thermal environments or hotels.
In the renovated interior design of the body care spaces a synesthetic interaction opens new boundaries between human beings and stones: stone coverings, floorings, pool borders can be experienced with one’s naked body, they can be rough or polished, hot or chill, dry or humid; boulders or excavated stones can resonate differently according to the various forms of water (gentle flows, drops, pouring waterfalls); steamy stone materials, outdoor or indoor, surrounded by vapour, can contribute to olfactive stimulations.


Aurelio Hotel in Lech by Sibylle Schaschl. A jacuzzi in the wellness centre with coverings and floorings in Grigio Tunisi and Pietra Senape.

For a long time Austrian designer Sibylle Schascl has specialized in projecting interiors for high-quality houses and hotels in mountain locations, expressing a refined interpretation of this sensorial conception of stones. Shaschl’s settings re-interpret with a contemporary taste the Alpin building tradition and are characterized by simple shapes, light volcanic or greyish colours, vast natural coverings rich in tactile qualities.
Among his most recent works, we can find Aurelio hotel in Lech, a ski resort in the Rhaetian Alps, in the Western part of Austria; in this building the architect uses limestones, sandstones, marbles and quartzites with striped, smoothed or polished finishes, choosing from Pibamarmi’s and melStones’ collections of stones.


Aurelio Hotel in Lech. In the suite bathrooms there are settings in alternatively grey Vicenza stone and wood with natural finishes.

This hotel is an exemplary model of contemporary luxury hotelery, based on a renovated idea of hospitality developed in recent years and characterized by a continuous expansion of the spaces, both of the private ones as rooms or suites and of the shared ones (receptions, halls, dining rooms); environments for body care, meditation and meetings can also be added to the list.
Sibylle Schaschl’s works concretely realize the concept of global and complex hospitality place, equipped with a vast series of comforts and integrated services and structured as a temporary residence rich in significance and interpersonal values, able to become a must-see destination not only for winter sports tourism but also for a refined cultural, environmental and emotional wandering.


Aurelio Hotel in Lech by Sibylle Schaschl. An equipped wall in the wellness centre covered in polished Statuario Venato marble.

In this renewed typology hotels become “independent cities”, in which different spaces and aesthetics mix together and several overlapping functions are developed in the same structure. Here stones get the strategic and flexible role of a unique presence, or dominant if in association with other natural materials as wood.


Aurelio Hotel in Lech. View of a pool in the wellness centre with coverings and floorings in smoothed Gray and Sahel stones.

As mentioned above, the places where stone is used the most are the big bathrooms of the suites and the shared spaces for wellness and beauty treatments; here stone starts a direct sensorial relationship with the corporeity of Aurelio Hotel’s guests, underlining the renovated interest of the contemporary age for the natural and authentic qualities of the primeval stone essence.

by Davide Turrini

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melStones

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25 Gennaio 2013

News

Video intervista a Tobia Scarpa sul progetto realizzato per Testi Group sul tema di Marmomacc Meets Design 2012: “The colours of green: sustainable stone”.

©K+
Fonte: Umbrella
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22 Gennaio 2013

Design litico

Gli spazi sensoriali di Sibylle Schaschl

English version


Hotel Aurelio a Lech di Sibylle Schaschl. Dettaglio dell’ingresso alle piscine con i rivestimenti in pietra Sahel levigata e in Namibia naturale.

Uno dei tratti distintivi della cultura globale del terzo millennio è rappresentato dall’attenzione specifica e costante per la sfera della corporeità e del benessere psico-fisico; le teorie, le pratiche e i prodotti dedicati alla cura del corpo e della mente sono i caratteri peculiari di un nuovo organicismo, capace di ridisegnare radicalmente le esperienze sensoriali ed emotive dell’uomo.
In tale scenario i luoghi deputati al benessere subiscono mutazioni sostanziali nella struttura e nell’immagine: primo fra tutti il bagno che sempre più spesso, sia nella dimensione residenziale privata, sia in quella pubblica, diventa spazio dedicato a pratiche di wellness e di body care che superano le sole valenze igieniche di base per approdare a funzioni complesse, estetiche, terapeutiche e di intrattenimento del soggetto. Così il bagno si apre e si espande, il concetto di soglia del vano di servizio cade, l’ambiente si fonde ad esempio con la camera per il riposo, le sue partizioni si rarefanno, esso è destinatario di cure progettuali pari a quelle tradizionalmente dedicate alle zone di soggiorno e rappresentanza; se in passato era uno spazio riservato e non visibile, oggi si tramuta in luogo di esposta visibilità, che allo stesso tempo è scena e protagonista di nuovi rituali polisensoriali.


Hotel Aurelio a Lech. Una piscina del centro benessere con i rivestimenti in pietra Grigio Tunisi patinata o rigata e i pavimenti in Pietra Senape.

È facile comprendere che in questo contesto la materia litica trova un’applicazione privilegiata, dispiegando le sue qualità a tutto campo, a livello visivo, ma anche tattile, sonoro e olfattivo; ciò accade nei bagni privati, nelle SPA, nei wellness center autonomi o integrati in strutture più complesse per il termalismo o l’ospitalità alberghiera.
Nel nuovo interior design degli spazi per la cura del corpo si aprono inedite frontiere di interazione tra l’individuo e l’universo sinestetico della pietra: rivestimenti o pavimenti lapidei da praticare con il corpo nudo nelle vasche, o ai bordi delle piscine, possono presentarsi scabri o levigati, caldi o gelidi, secchi e ruvidi o lisci e bagnati; pietre cave o massive possono risuonare diversamente a seconda che l’acqua le lambisca delicatamente, o le colpisca goccia a goccia, o a pioggia, o scrosciando a cascata; o ancora, in ambienti chiusi e raccolti, materiali litici arroventati, dilavati, o avvolti dal vapore acqueo, possono contribuire alla sollecitazione olfattiva.


Hotel Aurelio a Lech di Sibylle Schaschl. Vasca idromassaggio del centro benessere con rivestimenti e pavimenti in Grigio Tunisi e Pietra Senape.

La progettista austriaca Sibylle Schascl da tempo si è specializzata negli interni di residenze e strutture ricettive di alto livello in ambienti di montagna, dimostrando di essere una raffinata interprete di questa concezione sensoriale della pietra. Gli allestimenti della Schaschl rileggono in senso contemporaneo i caratteri della tradizione costruttiva alpina e sono caratterizzati da forme semplici, da colori chiari e terrosi o grigi e vulcanici, da ampie stesure materiche naturali fortemente caratterizzate nelle qualità tattili.
Tra le sue realizzazioni più recenti l’hotel Aurelio a Lech, stazione sciistica sulle Alpi Retiche dell’Austria occidentale; in quest’opera l’architetto impiega calcari, arenarie, marmi e quarziti con finiture rigate, levigate o patinate, attingendo al campionario litico dei brand Pibamarmi e melStones.


Hotel Aurelio a Lech. I bagni delle suite dove si alternano allestimenti in Pietra di Vicenza grigia e in legno con finiture naturali.

L’albergo è un esempio emblematico della luxury hotelery contemporanea, basata su di una rinnovata idea di accoglienza maturata negli ultimi lustri e portatrice di una continua espansione degli spazi; di quelli privati come le stanze e le suite e di quelli collettivi tradizionali della reception, dell’attesa e della ristorazione; a questi si aggiungono i nuovi ambienti per il benessere, la meditazione e l’incontro.
L’opera di Sibylle Schaschl materializza appieno infatti il concetto di luogo dell’ospitalità globale e complessa, dotato di una vasta gamma di comfort e servizi integrati e configurato come una residenza temporanea carica di significati e valori aggregativi, capace di assurgere allo status di destinazione obbligata non solo per il turismo dedito agli sport invernali, ma anche per un “nomadismo” di atmosfera, ad un tempo culturale, ambientale ed emozionale.


Hotel Aurelio a Lech di Sibylle Schaschl. Una parete attrezzata del centro estetico rivestita in marmo Statuario Venato con finitura patinata.

In tale mutazione tipologica l’hotel si configura come una “città autonoma”, caratterizzata dall’ibridazione spaziale ed estetica e dalla molteplicità di programmi funzionali sovrapposti e contemporaneamente sviluppati nella medesima struttura. Qui la pietra ricopre un ruolo strategico e con flessibilità è declinata come presenza unica, o prevalente, o in associazione paritetica con altri materiali naturali come il legno.


Hotel Aurelio a Lech. Vista di una piscina del centro benessere con rivestimenti e pavimentazioni in pietre Gray e Sahel levigate.

Come detto i luoghi dove si concentra la materia lapidea sono i grandi bagni delle stanze e delle suite e gli spazi collettivi per il benessere e le cure estetiche; in questi ambienti la pietra si offre ad un rapporto sensoriale diretto con la dimensione corporea degli ospiti dell’hotel Aurelio, a suggellare il rinnovato interesse della contemporaneità per le qualità naturali più autentiche dell’essenza litica primigenia.

di Davide Turrini

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21 Gennaio 2013

Post-it

Stonescape di Kengo Kuma. L’intervista

Stonescepe. Un progetto per Agape, Il Casone and Mapei.
Bologna Water Design, September 25-29, 2012
Veronica Dal Buono: Ritroviamo nel suo lavoro non solo architetture monumentali ma anche interventi in scala ridotta e di più semplice – apparentemente – realizzazione. Qual é il suo approccio al design di strutture temporanee?

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21 Gennaio 2013

Post-it

Sulle tracce della Digital Fabrication. A colloquio con Christian Pongratz

Incontriamo Christian Pongratz a Verona dove da diversi anni coordina il Summer Programs offerto dall’Istituto presso il quale è docente, guidando un gruppo di venti studenti statunitensi alla redazione di un progetto contestualizzato in Italia.
Christian è infatti Direttore e co-Fondatore del Dipartimento di Digital Design and Fabrication, inserito tra le specializzazioni del Master of Science presso il College of Architecture della Texas Tech University.

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21 Gennaio 2013

Post-it

Intervista a Diébédo Francis Kéré e cronaca lectio magistralis

Nell’ambito degli eventi celebrativi del ventennale della Facoltà di Architettura di Ferrara, il 4 Giugno i prestigiosi ambienti di Palazzo Tassoni hanno ospitato la lezione dell’architetto africano Diébédo Francis Kéré. Un occasione per avvicinarsi all’opera di un professionista che rappresenta il più mirabile esempio di self made man, dal villaggio tribale in cui è nato nel Burkina Faso 45 anni fa allo studio berlinese, da cui oggi opera in tutto il mondo.

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21 Gennaio 2013

Post-it

Intervista a Matteo Thun

Veronica Dal Buono intervista Matteo Thun in occasione della Lectio Magistralis XfafX tenuta a Palazzo Tassoni Estense il 10 maggio 2012.
Le riflessioni muovono da tema della lectio “Wood Works”, concentrandosi sulle qualità, caratteristiche, prospettive per il materiale legno.
A seguire della lectio Matteo Thun si è fermato a conversare con Nicola Leonardi, direttore della rivista The Plan, e David Venables, direttore europeo di Ahec American Hardwood Export Council, animando la discussione sul palcoscenico di Palazzo Tassoni Estense.

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21 Gennaio 2013

News

Video intervista a Setsu&Shinobu Ito sul progetto realizzato per Grassi Pietre sul tema di Marmomacc Meets Design 2012: “The colours of green: sustainable stone”.


©K+

Fonte: Umbrella
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15 Gennaio 2013

Opere Murarie

Piani murari, spazio e luce*

English version


Parete di cava (ph. A. Acocella)

Ci saranno sempre coloro – fra i critici, i teorici, gli architetti a noi stessi vicini per età, per formazione (e sicuramente saranno la larga maggioranza) – i quali sosterranno che l’architettura contemporanea è oramai qualcosa di inevitabilmente e totalmente diverso, rispetto a quella che è stata fino alla generazione dei nostri padri; un’architettura il cui linguaggio è da leggersi, esplicitamente e definitivamente, attraverso la “distanza”, la “frattura”, la “contrapposizione” rispetto ad ogni passato, ad ogni tradizione anche recente.
Noi questo non lo condividiamo, non lo accettiamo come un esito obbligato ed inevitabile per ogni programma costruttivo del presente; quantomeno riteniamo ci possano essere situazioni tali da consentire, da suggerire, strategie alternative alla prefigurazione dell’opera di architettura che pur iscritta nella contemporaneità – cioè aggiornata nei suoi tratti linguistici, portatrice di una sensibilità estetica attualizzata – sia in qualche modo ricollegabile alla tradizione, ai tratti fondativi della stessa disciplina. Riteniamo, in tale direzione, che la concezione muraria possa essere ancora un’ipotesi attuale di lavoro, offrendo un orizzonte promettente e non scontato per il progetto d’architettura.
La radicalità del muro inteso come barriera, come argine protettivo rispetto ad un ambiente costruito sempre meno esaltante, d’altronde, è riemersa con forza, recentemente, grazie a contributi progettuali di grandi architetti che hanno declinato il tema murario attraverso gli apporti di materiali anche molto diversi fra loro (laterizio, pietra, terra, calcestruzzo come nel caso della ricerca di Tadao Ando).
La muralità è ritornata, in molti casi, ad essere valore.
Sarebbe possibile indicare numerosissime opere contemporanee – alcune delle quali sono illustrate in questa stessa sezione del volume – alimentate da una composizione architettonica giocata sulla logica, sulla forza della parete chiusa protesa ad avvolgere spazi fisicamente e psicologicamente isolati come nell’esperienza passata. Riteniamo, comunque, vi sia ancora molto da approfondire sulla muralità riproposta quale mezzo costruttivo ed espressivo per l’architettura contemporanea. La cultura muraria – nel momento in cui se ne voglia offrire una interpretazione aggiornata – va studiata nei suoi tratti fondamentali distillandone l’essenza, i valori costitutivi di base ancorando la ricerca ai principi fondativi del muro stesso quali l’elevarsi, il gerarchizzarsi, il chiudersi e l’aprirsi.
Vi è un modo d’intendere, di sentire il muro – a cui siamo molto legati – indirizzato ad esaltare, ad enfatizzare il carattere omogeneo, severo, egualitario, delle pareti racchiuse nell’assolutezza del loro rigore, dove ciascun elemento della costruzione abbandona ogni specifica individualità fondendosi nell’effetto d’insieme. La scelta architettonica di fondo è di mostrare il muro nella veste più sobria ed essenziale, orgogliosa unicamente della sua logica costruttiva. In questa concezione – in cui si legge una muralità severa, senza tempo, dove ad imporsi è l’effetto di solidità, di massa, di volume – i singoli elementi dell’opera muraria si fondono in un’omogeneità di trattamento, senza ricercare contrasti o incisioni troppo evidenti.



Schizzi e vista del Museo di Gibellina (1981-87) di Francesco Venezia (ph. A. Acocella)

La massa, la pesantezza nell’architettura di tradizione è virtù antica, quanto scontata; nell’architettura contemporanea tale qualità è, invece, ancora ampiamente da riscoprire e riconquistare. Tale visione dell’opera muraria va in genere di pari passo con l’abolizione di ogni forte distinzione tra il basso e l’alto, fra il centro e i margini laterali.
L’essere del muro è allora omogeneità, unitarietà e non articolazione; un muro portante (o che vuole, comunque, “apparire” portante) indirizzato ad esplicitare chiaramente il suo modo d’essere, la sua sottomissione alla legge di gravità, al procedimento di costruzione attraverso il quale viene realizzato. Un elemento d’architettura, privo di sottolineature, che propone e valorizza superfici litiche continue entro cui le stesse aperture sono limitate e spesso ottenute a filo delle pareti.
Se nella sua essenza fisica, insediativa, il muro è confine volumetrico dell’architettura posto a definirne lo spazio interno, nella sua identità bidimensionale rimanda al mondo delle superfici. Molto del dire figurativo del muro di pietra appartiene allo svolgimento del tema parietale. Riconosciamo che il significato dei piani consiste prevalentemente nel loro diverso interpretare l’atto del raccordo con il suolo, dell’elevarsi verso il cielo, del chiudersi o dell’aprirsi verso l’esterno.
Una parete affinché non risulti una superficie inerte deve assumere delle direzioni di svolgimento, deve proporre un’interpretazione del tema murario. La figurazione, innanzitutto, deve prendere in considerazione la diversa accezione di significato fra l’orizzontalità e la verticalità al fine di erigere strutture inscritte in tensioni e ritmi chiari e ben sviluppati. Già la sola relazione tra lo sviluppo in elevazione e l’estensione longitudinale di una parete determina un primo carattere dell’opera artificiale.
L’alzato, nel suo sviluppo verso il cielo, si propone spesso attraverso un’organizzazione gerarchizzata che, anche quando non enfatizza in modo evidente tale strutturazione, può essere letta a partire da una fascia basamentale (lo “zoccolo”, a contatto con il suolo), per proseguire con una zona intermedia (la “cintura”) e, infine, concludersi con una fascia sommitale (il “coronamento”).
La fascia basamentale ha interpretato frequentemente nel passato il senso di solidità attraverso l’ispessimento costruttivo della sezione resistente; la denuncia della sua destinazione specifica del reggere, del sopportare i carichi dell’intero edificio, fa sì che difficilmente essa si sia sottratta alla condizione che l’ha vista associata ad un’immagine vigorosa, saldamente radicata al suolo.
Al capo opposto leggiamo, invece, nella “linea di coronamento”, la saldatura, il confine, fra la figura muraria e il cielo; qui vengono a contatto due mondi. La maggiore o minore sottolineatura di questa fascia superiore (al cui modellato plastico si accompagna l’effetto dell’ombra, del chiaroscuro) assume un ruolo di grande incidenza figurativa.
Al movimento ascendente della logica di costruzione del muro corrisponde la discesa, la “messa a terra” dei carichi operata dalla legge di gravità che condiziona i dispositivi assemblativi dei conci, dei blocchi di pietra riuniti a sistema nell’opera muraria. In questo dialettico ed elementare movimento di crescita verso l’alto e di messa a terra dei pesi risiede il segreto più arcano ed intimo dei muri indirizzati alla “fondazione” dello spazio architettonico.

«L’architettura – non dimentichiamolo – non si limita a dare una forma ai muri; essi non hanno altra ragion d’essere se non quella di comporre uno spazio entro la loro prossimità reciproca. Muro e spazio non sono dissociabili; insieme costituiscono il binomio pieno-vuoto. Nell’interazione tra muro e spazio, la massa del muro possiede una forma propria in virtù dell’accordo che si stabilisce tra altezza, lunghezza e spessore; lo spazio architettonico, invece, deve trarre la sua forma da quella del muro».1


“Espaces rythmiques” (1909) di Adolphe Appia

Così Van der Laan c’introduce all’immaterialità, per certi versi ineffabile, dello spazio architettonico quale entità in negativo dell’inviluppo murario derivante dalla giustapposizione di pareti poste a formare chiusure, barriere, filtri fra esterno ed interno.
Questi muri sono concepiti, dimensionati, modellati, lungo piani ascendenti verso l’alto, ma anche saldati alla superficie terrestre. Ci parlano spesso di differenziate logiche insediative (con composizioni a celle o a setti indipendenti, con pareti spezzate, curvate ecc.), di orientamenti prevalenti (verticali, orizzontali), di assetti equilibrati (quando a prevalere è la figura del quadrato), di scalarità dimensionali capaci di fissare il carattere dello spazio (misure “funzionali” a scala umana; misure “rappresentative”, portatrici di un certo effetto architettonico; misure grandiose con intonazioni monumentali).
Se il vuoto trova la sua “materializzazione”, la sua stessa esistenza nei muri entro cui nasce, si può notare che quanto più quest’ultimi sono concepiti attraverso i caratteri fisici dello spessore, della massa, tanto più lo spazio che ne risulta intercluso si manifesta con i caratteri di un blocco, di un’entità che s’impone attraverso una forma evidente. La fisionomia dello spazio interno dell’architettura muraria in pietra si presenta, prevalentemente, con accenti di solida configurazione quali quelli delle corti, delle aule, delle sale, delle stanze avvolgenti che raccolgono con maggiore o minore forza e suggestione l’apporto valorizzativo della luce e delle ombre.
L’architettura di pietra ha promosso, in linea generale, una composizione protesa ad individuare spazi fisicamente e psicologicamente enucleati, ma non necessariamente isolati e separati dal mondo esterno in quanto l’intersezione dei muri, la loro chiusura o la loro apertura, produce diversissime declinazioni ed accenti nel rapporto integrazione-separazione fra l’interno e l’esterno.
Orizzontalità e verticalità, come pure cubicità e curvilinearità del blocco murario rappresentano modi molto diversi di restituzione dei caratteri spaziali dell’architettura litica. Una soluzione congeniale alla logica costruttiva dei muri (tipica e ricorrente nell’esperienza moderna e contemporanea) è quella di conferire il massimo risalto alla direzione longitudinale, assegnandole il ruolo di direttrice dominante della composizione architettonica. In questa ipotesi i piani murari si distendono lungo la direzione del suolo e qualsiasi integrazione sotto il profilo verticale ne risulta sempre subordinata. La fronte orizzontale, le stesse prospettive che si attivano lungo le prossimità dei muri, rimangono le caratteristiche principali di tutta la composizione; lo spazio interno che ne corrisponde è partecipe di tale interpretazione distesa, direzionata del blocco murale.


Monumento ai caduti della prima guerra mondiale (1930-31) nelle Neue Wache a Berlino, di Heinrich Tessenow

Non privo di suggestione è lo spazio architettonico caratterizzato dalla direzione verticale, benché questo normalmente avvenga in modo meno naturale di quanto non si ottenga in “orizzontale”.
Il dispiegamento dell’inviluppo murario può essere organizzato anche attraverso l’interruzione della continuità della maglia strutturale, lavorando in direzione della giustapposizione di diverse “sezioni di muro”. Allora la disposizione della massa litica si fonda sull’alternanza di parti chiuse e parti aperte; tale variazione di ritmo ha sempre contraddistinto la possibilità di articolare la composizione del blocco murario che necessita di soglie, di varchi finalizzati all’interconnessione distributiva o all’ingresso di luce e di aria.
Chiaramente, fra il distendersi in orizzontale di pareti murarie “completamente” chiuse e la soluzione con sezioni murarie distinte, esiste una profonda differenza di restituzione dello spazio. La continuità della parete – in questa seconda ipotesi – viene interrotta, frazionata, perdendo ogni carattere di assolutezza, di omogeneità e acquistando, in antitesi, l’euritmia di un sistema discontinuo quale può essere considerato il risultato derivante dall’impiego del sistema trilitico. Si annunciano, in questo caso, disposizioni murarie in cui successioni di pilastri, di sezioni murarie, tendono a definire, a caratterizzare la forma di una spazialità più articolata, meno bloccata e chiusa. Siamo qui di fronte a più muri aperti e interconnessi spazialmente.
Recenti realizzazioni dell’architetto francese Gilles Perraudin esplicitano meglio di ogni discorso la riproposizione di tale ritmo spaziale con accenti di sapore primitivo e megalitico. Ricompare in queste opere la pietra a grandi massi squadrati con ruolo strutturale: siamo di fronte ad un recupero del principio di massa, per assecondare una richiesta specifica di elementi chiudenti di grande inerzia termica. In linea generale la composizione muraria – ottenuta attraverso la giustapposizione di estese sezioni parietali variamente articolate – corrisponde alla duplice esigenza di assicurare fruibilità allo spazio architettonico e, dall’altra, consentire l’afflusso negli interni di aria e di raggi solari. La luce è sempre stata fondamentale per l’architettura muraria diventando, essa stessa, prezioso materiale di valorizzazione dell’opera.
Il bilanciamento, all’interno dello spazio architettonico racchiuso dai muri, di una forza attiva (la luce) e di uno stato passivo (l’oscurità) ha rappresentato uno degli aspetti che maggiormente ha influenzato storicamente l’evoluzione stessa dell’architettura. Libera, diffusa, pervasiva negli esterni la luce è, invece, “captata”, “indirizzata”, “qualificata” negli interni attraverso il progetto delle aperture, dei tagli , delle “incisioni” praticare sul corpo degli edifici. Lo spazio architettonico non avrebbe mai assunto le qualità variegate che gli sono propri senza la presenza della luce.
La luce in architettura e all’origine di tutto.
La formalizzazione e l’illuminazione dello spazio compreso entro i limiti murari di un edificio è da secoli il problema di fondo dell’architettura europea. Ben conscio di questo fattore valorizzativo appare Tadao Ando quando afferma:

«L’architettura occidentale ha impiegato massicce murature in pietra per separare gli interni dagli esterni; le finestre, ritagliate in murature così spesse da apparire come veri gesti di un rifiuto del mondo esterno, erano di piccole dimensioni e possedevano forme severe.
Queste aperture ancora più che consentire alla luce di entrare brillavano intensamente sostituendosi così alla luce stessa; esprimevano, probabilmente, l’aspirazione alla luce di uomini condannati a vivere nell’oscurità. Un brillante raggio di luce attraversando quell’oscurità poteva suonare come un’invocazione e le finestre erano concepite non per il piacere del vedere, ma semplicemente per consentire l’ingresso della luce nella forma più diretta. Una luce, questa, che perforando l’interno dell’architettura produceva spazi di solida e risoluta configurazione. Le aperture realizzate con simile severità segmentavano il movimento della luce con precisione e lo spazio era modellato, quasi in maniera scultorea, da linee luminose che spezzavano l’oscurità e la cui configurazione mutava in ogni momento.
In epoca moderna l’architettura ha liberato le finestre da ogni costrizione strutturale e ha consentito a queste di assumere qualsiasi configurazione. Naturalmente ciò non ha comportato la liberazione della luce, bensì l’opposto; della sua energia, una volta oggetto d’infinite attenzioni, ora invece accolta indifferentemente, si è perduta la percezione.
L’architettura moderna ha prodotto un mondo eccessivamente trasparente, omogeneamente illuminato, unicamente brillante, privo di oscurità. Questo mondo su cui la luce diffonde il suo alone ha decretato la morte dello spazio e dell’oscurità».
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Domus Aurea neroniana a Roma (ph. A. Acocella)

Storicamente, invece, modi più articolati di captazione della luminosità solare hanno giocato un ruolo fondamentale nella caratterizzazione degli spazi dell’architettura.
Il tipo di luce – orizzontale, diagonale, verticale – è conseguenza, chiaramente, del reciproco rapporto esistente fra la posizione del sole ed i piani murari involucranti lo spazio interno; in particolare grande importanza ha assunto la luce “diagonale” e, soprattutto, quella “zenitale”.
La luce “verticale”, in discesa a pioggia dall’alto, si ottiene attraverso tagli operati nelle coperture (siano esse volte, tetti a falda, solai piani). Quella “orizzontale” è prodotta dai raggi solari che raggiungono l’interno attraverso le aperture (in genere finestre) praticate nelle pareti dell’involucro edilizio. Infine la luce “diagonale” è frutto di una modulazione del flusso luministico attraverso i piani murari e quelli di copertura.
Sono stati i romani a valorizzare, per primi, i caratteri dello spazio esaltandoli, oltre che dimensionalmente e morfologicamente, anche luministicamente, con luce in discesa dall’alto. In particolare l’architettura di epoca imperiale, indirizzata allo sviluppo di una concezione spaziale originale, pone il problema di una sofisticata captazione della luce naturale codificando particolari “incisioni” delle strutture di copertura (ritaglio delle falde dei tetti, traforo di strutture voltate, creazione di cannocchiali di luce). E’ in questo periodo che, per la prima volta nella storia dell’architettura, si valorizza la qualità enigmatica della luce zenitale assunta come materiale di progetto dello spazio interno.
La luce, frequentemente, nella “nuova”architettura romana si diffonde fino al suolo lambendo le superfici intradossali delle grandi cupole che ne guidano la discesa; quasi che gli architetti abbiano voluto, coscientemente, rinunciare all’illuminazione orizzontale valutata come distruttrice della qualità solida del blocco spaziale interno che proprio nella chiusura dei perimetri murari basamentali trova massima enfatizzazione.


Domus Aurea neroniana a Roma (ph. A. Acocella)

Con la Domus Aurea neroniana (64-68 d.C.), dopo le prime sperimentazioni pionieristiche in area campana, siamo già di fronte alla codificazione matura della nuova sensibilità spaziale e della scenografica captazione luministica soprattutto negli ambienti più rappresentativi della residenza imperiale sull’Esquilino. L’esterno è un semplice contenitore dalle facciate rettilinee, l’interno – affatto preannunciato dalla soluzione volumetrica d’insieme – è una concatenatio spaziale inedita centrata sulla grande sala ottagona che produce, in chi vi accede, un senso di sorpresa e di meraviglia.
Abbandonata definitivamente la concezione costruttiva alla maniera greca – evolutasi sui principi elementari del sistema trilitico dove l’illuminazione svolge un ruolo secondario, se non addirittura marginale – gli architetti Severus e Celer nella Domus Aurea accentuano il protagonismo e le direttrici dello spazio grazie proprio al grande apporto della luce.
La più importante innovazione è costituita dalla sala ottagonale circondata su cinque lati da stanze radiali, mentre i restanti tre lati si aprono direttamente sul portico frontale. La sala centrale è coperta da una volta ottagonale (che si approssima, superiormente, a sezione semisferica) forata con un oculo rotondo centrale per il passaggio della luce. Finestre strombate – aperte nello spazio compreso fra l’estradosso della cupola e l’estensione in verticale dei muri dell’ottagono interno – completano l’ingegnoso dispositivo utile ad illuminare, sempre con luce dall’alto, i cinque ambienti posti a corona della sala ottagonale e ad essa direttamente collegati.
La luce zenitale, con la Domus Aurea, entra quale “materiale vivo” nella concezione architettonica romana – di soli sessant’anni più tardi è il Pantheon adrianeo – e tale lezione non sarà mai più dimenticata. Ancora in epoca recente – riteniamo – si registrano gli echi, le influenze di tale lezione.
Ci sembra che i risultati raggiunti dai romani rappresentino i riferimenti, le fonti di tanta architettura moderna e contemporanea; bisogna ritornare a guardare queste opere antiche per capire Le Corbusier, Alvar Aalto, Louis Kahn o più recentemente Rafael Moneo, Mario Botta o Tadao Ando, Kengo Kuma, Jorn Utzon, Sverre Fhen, Alberto Campo Baeza, Peter Zumtor. L’importanza della luce quale materiale di progetto è sottolineata, con grande enfasi, proprio da Alberto Campo Baeza:

«Quando, infine, un architetto scopre che la luce è il cardine dell’architettura, solo allora inizia a capire qualcosa, ad essere un vero architetto. La luce non è un’entità vaga, diffusa, che si dà per certa perché è sempre presente. Il sole non sorge invano per tutti i giorni. Al contrario la luce, con o senza teoria crepuscolare, è qualcosa di concreto, preciso, continuo, certo. E’ materia misurabile e quantificabile, come ben sanno i fisici ma sembrano ignorare gli architetti.
La luce, così come la gravità, è una realtà inevitabile. Fortunatamente inevitabile, poiché, in definitiva, l’architettura si è sviluppata nel corso della Storia grazie a questi due elementi primigeni: luce e gravità. Gli architetti dovrebbero sempre portare con sé una bussola (per la direzione e l’inclinazione della luce) e un fotometro (per misurarne la quantità), così come si ricordano del metro, della livella e del piombino. Se la lotta per vincere, piegare la gravità si realizza in un dialogo che genera l’architettura, la ricerca della luce e la relazione che con essa si instaura sono i fattori che portano tale dialogo ai livelli più sublimi. Si scopre allora, felice coincidenza, che la luce è in verità la sola in grado di vincere la gravità. Così, quando l’architetto riesce a ingannare il sole, la luce perforando lo spazio creato da strutture più o meno massicce, rompe l’incantesimo e fa si che tale spazio fluttui, leviti, voli».
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Corte interna della DZ Bank (1994-2001) a Berlino di Frank O. Gehry (ph. A. Acocella)

Guardando a ritroso il percorso intrapreso dall’architettura contemporanea dobbiamo invece evidenziare come la ricerca di un accrescimento smisurato delle aperture, in vista di un contatto diretto fra spazio interno ed esterno, ha condotto ad una difficoltà (che alla fine, è diventata un’incapacità) di modulare la luce, di attingere a quel mondo magico alimentato dal dialettico rapporto fra luce ed oscurità.
Siamo così, oggi, di fronte ad una prassi progettuale che non sa più controllare la luce, che non sa selezionare cosa mostrare aprendo solo parti significative dell’involucro murario. La stessa logica di modulazione della luce offerta dalle finestre tradizionali (che alternavano alle superfici trasparenti vitree, le gelosie, gli “scuri”, gli sguinci murari) è condizione irrimediabilmente perduta.
Oggi sembra che un’apertura, una finestra, possa essere solo un poco più grande o un poco più piccola, tagliata a filo di involucri sottili mostrando subito la propria leggerezza e fragilità. Il valore “selettivo” nei confronti della luce, dell’aria, delle porzioni di esterno che si possono far partecipi dello spazio interno è frequentemente disatteso con una evidente, quanto ingiustificata superficialità.
Ad offrirci, in controtendenza, un messaggio estremamente convincente sono poste le opere di Jorn Utzon e Peter Zumthor documentate in questa sezione del volume che, per la loro chiarezza spaziale e d’uso della luce, esprimono quanto di meglio ci è dato segnalare nel riconsiderare con profondità il valore della pietra, del blocco murario, della luce, quali fattori di sublime ricerca architettonica.
Queste opere vorremmo anche eleggerle a modello di scrittura progettuale contemporanea contro ogni posizione che giudica l’architettura muraria di pietra inevitabilmente chiusa all’interno del linguaggio di tradizione, delle “cose già viste”.

Alfonso Acocella

Note
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Dom Hans van der Laan, Lo spazio architettonico (ed. or. L’espace architectonique, 1989) p.166, in Alberto Ferlenga e Paola Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 201.
2 Tadao Ando, “Luce” (ed. or. “Licht”, 1993) p.470, Francesco Dal Co, Tadao Ando, Milano, Electa, 1994, pp.519.
3 Alberto Campo Baeza, “Architettura sine luce nulla architettura est”, Domus n. 760, 1994, p.2.

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15 Gennaio 2013

English

Walls, space and light*

Versione italiana


Quarry face (ph. A. Acocella)

There are always going to be some critics, theoreticians and architects of our age, with our kind of education and training (undoubtedly the majority of the total), who are going to claim that present-day architecture is inevitably totally different from what it was like up until our fathers’ generation: they see it as breaking with, or juxtaposed to, all past tradition.
We, on the other hand, do not share this same view: we do not accept it as the inevitable starting point for any present-day construction programme, nor do we believe that situations exist justifying the creation of architectural designs – albeit with a clearly contemporary character (that is, updated in terms of their architectural language and aesthetic rationale) – that are in no way linked to the fundamental, traditional traits of this subject. In our view, the concept of the stone wall can still be part and parcel of contemporary architectural projects.
Indeed, the radical nature of the wall – conceived as a barrier, as a protective boundary around an increasingly less exciting built environment – has strongly re-emerged in recent years, thanks to the considerable contribution of certain great architects, who have designed the wall using a variety of different materials (brick, stone, earth and concrete, for example, in the case of Tadao Ando).
Such walls have in many cases regained their rightful status.
A considerable number of contemporary creations could be cited here – some of which are in fact included in this very section of the present volume – all of which feature an architectural composition based on the logic and strength of the wall that physically and psychologically encloses isolated spaces, as in the past. However, we believe that further analysis of the wall as a constructive and expressive feature of contemporary architecture is still required. There is a vision of the wall – which we strongly share – which places the emphasis on its homogeneous, stark, egalitarian character, whereby each component of the construction loses its individuality and merges into the overall creation. The basic architectural choice is that of displaying the wall in its most sober, essential form, boasting nothing more than its own constructive logic. This severe, timeless conception of the wall, characterised by its solidity, mass and volume, its individual elements blend together to give a homogeneous effect, without any clear contrasts or engravings.



Project drawing and view of Gibellina Museum (1981-87) designed by Francesco Venezia (ph. A. Acocella)

The bulk and heaviness of traditional architecture is an ancient, ever-present virtue, whereas in present-day walls, such qualities have to be rediscovered and re-acquired.
This vision of the masonry wall is generally accompanied by the abolition of any strong distinction between top and bottom, between the centre and the edges. The essence of the wall is homogeneity and unity; a load-bearing wall (or a wall that is designed to appear as such) that aims to express its way of being, its subjection to the law of gravity and to the constructive process underlying its formation. An architectural element, devoid of all underscoring, that offers and valorises continuous stone surfaces within which the openings themselves are often limited, and are created flush to the surface of the walls.
While the physical essence of the wall is that of the volumetric boundary of architectural constructs, defining the internal spaces of buildings, its two-dimensional identity recalls the superficial sphere. The figurative character of a wall is largely given by the design of its surfaces.
We acknowledge that the meaning of planes consists mainly in their different ways of interpreting the connection with the ground, the rising up towards the sky, the opening and closing towards the outside world.
A wall, in order not to appear as a completely inert surface, has to be given a certain direction, a certain pattern. Figuration must primarily take into account the difference between horizontality and verticality, in order that structures are built with clearly developed rhythms and tensions. Indeed, the relationship between the elevation and the longitudinal extension of a wall already gives an initial appearance to any artificial construction.
The elevation of the wall, as its rises vertically skywards, often involves the hierarchical organisation of the structure: this starts from the basement level (the “base” of the structure that is in contact with the ground), followed by an intermediate zone (the “belt”), and ends in the upper band (the “crown”).
In the past, the basement gave an impression of considerable solidity in that it was often thicker than the rest of the wall; given its role as supporting element for the weight of the entire construction, it was required to be particularly strong and soundly anchored to the ground on which the building rose.
At the other end of the wall, the “crown line” constituted the upper boundary, a demarcation line separating it from the sky above. It was here that the two worlds met. The lesser or greater emphasis given to this upper band (whose plastic moulding was accompanied by shadow, giving it a chiaroscuro appearance) was of considerable figurative importance.
The upward movement of the construction was accompanied by a descent, the “earthing” of the gravitational load, which significantly conditioned the assemblage of the stone ashlars joined together to form the structure of the masonry wall. This dialectical relationship between the upward “growth” of the wall and the downward gravitational load encompassed the most ancient and hidden secret of those walls destined to constitute the “foundations” of a given architectural space. As Dom Hans van der Laan observes in his celebrated work “Architectural Space”:

We should not forget that architecture is not limited to giving walls a shape; the latter’s raison d’être is that of composing a space within their reciprocal proximity. Wall and space cannot be separated; together they constitute the combination full-empty. In the interaction between wall and space, the wall’s mass possesses its own form as a result of the agreement between height, length and thickness; the architectural space, on the other hand, has to base its form on that of the wall.1


“Espaces rythmiques” (1909) by Adolphe Appia

Van der Laan thus introduces us to the rather ineffable idea of the immateriality of the architectural space as the negative result of the walled envelopment resulting from the juxtaposition of walls to form barriers or filters between the exterior and the interior.
These walls are created, sized and modelled along an upward plane, while at the same time being solidly anchored to the ground beneath them. They often reveal diverse forms of architectural logic (featuring cell-like arrangements, or separate independent structures, with broken walls, curved walls, etc.), of prevalent direction (vertical, horizontal), of balanced layouts (when, for example, the square is the dominant geometrical figure), of dimensional scales capable of “fixing” the character of the space (functional measurements designed for use by Man; “representative” measurements designed to give a certain architectural effect; grandiose sizes of more monumental works).
If the empty space is “materialised”, that is, is given its own existence within the walls giving rise to it, the greater the thickness and bulk of these walls, the more the said space resembles a block – that is, an entity with a clear shape and identity.
The physiognomy of the stone-walled inner space is prevalently that of solid configurations such as courtyards, classrooms, reception rooms and other rooms that incorporate to a certain degree the contribution and fascination of light and shadow.
Stone architecture has in general promoted a form of composition designed to establish physically and psychologically enucleated spaces, but not ones that are necessarily isolated from the outside world, given that the intersection of walls, together with their opening and closing, produces a variety of forms of integration-separation of outside and inside.
The horizontality and verticality of walls, together with their cubicalness and curvolinearity, represent very different aspects of the spatial character of stone architecture. One congenial device used, in particular, in modern and contemporary architecture, is that of emphasising the longitudinal nature of the wall by granting it the role of guiding principle of architectural composition. Thus walls are built with little or no vertical additions to break with their clean-cut horizontal development along the ground. The horizontal façade, the very perspectives that emerge close to walls, remain the principal characteristics of the entire composition; the inner space corresponding to this horizontal extension of wall is involved in this extended design of the walled block. The architectural space characterised more by its verticality is also fascinating, although such constructs are less commonly found than those with a primarily horizontal character.


Worl War I Memorial (1930-31) Berlin, Neue Wache. Designed by Heinrich Tessenow

The way that the walls of a structure envelop their inner space may involve an interruption in the continuity of the walls themselves, and feature the juxtaposition of different “sections of wall”. In this case, the arrangement of the stone mass is based on the alternation of closed and open sections; this variation in rhythm has always accompanied the composition of walls that require entrances and openings designed to guarantee the interconnected distribution of different spaces or to ensure the entry of light and air.
Of course, there is a considerable difference in spatial terms between a horizontal extension of solid, completely “closed” wall, and an arrangement characterised by separate distinct sections of wall. The continuity of the wall in this latter hypothesis is interrupted, thus depriving it of its absolute, homogeneous character, which is replaced by the rhythmic quality of a discontinuous system such as the result of the utilisation of the trilithic system. In cases of this kind, the walled structure features a sequence of pilasters and masonry sections which characterise a more complex, less block-like spatial arrangement.
Recent works by the French architect, Gilles Peraudin, give a clearer idea of recent developments in this direction, with the focus very much on creations of a distinctly primitive, megalithic flavour. His works reveal, once again, large squared ashlars employed in a structural role: this represents the renewal of the principal of mass in response to the need for enclosing elements offering considerable thermic inertia.
Generally speaking, the composition of the wall, obtained by juxtaposing extensive sections of masonry structured in various different ways, is designed to meet two requirements: it enables the architectural space to be used, while at the same time enabling light and air to flow into the resulting structure. Light has always been of fundamental importance for the architecture of walls, and in itself contributes to the valorisation of the entire construction.
Within the architectural space enclosed by the walls, one of the features that has had the greatest historical influence on the development of architecture itself has been the equilibrium between an active force (light) and a passive state (darkness). Free to pervade external spaces, light is, on the contrary, “captured”, “directed” and “qualified” within interior spaces, as a result of the openings and cuts made in the body of a building. The architectural space would never have taken on the varied qualities it indeed possesses had it not been for the presence of light.
Light is at the origin of everything in architecture.
The shaping and illumination of the space within the walls of buildings has for centuries been the principal concern of European architecture. Tadao Ando seems well aware of this question when he affirms that:

Western architecture employed massive stone walls to separate interiors from the world outside; windows, cut out of walls so thick that they appeared to constitute a rejection of the outside, were of a small size and an austere shape.
These openings, more than allowing in light, shone intensely thus replacing the light itself; they probably expressed the desire for illumination of people condemned to live forever in obscurity. A bright ray of light cutting through this obscurity could have seemed like an invocation, and windows were not designed for the pleasure of looking through, but simply to let in light in the most direct manner. This light, which perforated the interior of the architecture, produced solid, resolute spaces. Such openings, created in this severe manner, segmented the incoming light so as to model, almost sculpt, the space from luminous lines that cut through the darkness and whose shape changed continuously.
In modern times, architecture has freed windows from all structural constraint, and has allowed them to take all manner of shapes. Of course, this has not meant that light itself has been freed; on the contrary, its energy, which was once the object of never-ending attention, is nowadays greeted with indifference.
Modern architecture has produced an excessively transparent world, one that is illuminated in a totally homogeneous, bright manner, and thus devoid of all obscurity. This world, over which a halo of light shines, has decreed the end of space and of obscurity.
2


Domus Aurea in Rome, Emperor Nero’s residence (ph. A. Acocella)

Historically speaking, on the other hand, more complex methods of capturing the sunlight have played a fundamental role in the characterisation of architectural spaces.
The type of light – horizontal, diagonal or vertical – is clearly a consequence of the reciprocal relationship between the sun’s position and the walled planes enveloping the interior spaces; in particular, great importance has been given to diagonal light, above all that of the zenithal variety.
Vertical light, descending from above, is obtained by holes made in the covering (be this a vaulted ceiling, a sloping roof or a flat floor).
Horizontal light, on the other hand, is produced by the sun’s rays shining through openings (in general windows) situated in the walls of the building’s shell.
Finally, diagonal light is produced by the modulation of light coming in through openings in the wall or in the roof. The Romans were the first to valorise interior spaces by exalting them not only in terms of their shape and size, but also in terms of their luminosity, with the introduction of light from above. In particular, the architecture of the Imperial age, characterised as it was by the development of an original conception of space, saw the introduction of sophisticated systems for the capture of natural light, featuring special “incisions” in the roof or the vaulted ceiling and the creation of spy-holes of light. It was during this period that, for the first time in the history of architecture, importance was given to the enigmatic quality to zenithal light as a design feature of interiors.
The “new” Roman architecture often saw the projection of light down to the ground, licking the intrados of the great cupolas that accompanied it on its downward journey; it was as if the architects had deliberately decided not to use horizontal light, seen as a destructive influence on the solid interior block which was indeed emphasised to the utmost by the closed character of the surrounding walls.


Domus Aurea in Rome, Emperor Nero’s residence (ph. A. Acocella)

After the initial pioneering experiments conducted in the Campania region, Nero’s Domus Aurea (64-68 A.D.) represented the advanced codification of the new perception of interior space and of its scenographic illumination, especially in the case of the more important reception rooms of the imperial residence situated on the Esquilino Hill. The outside of the building is merely a series of rectilinear façades containing the all-important interior: a veritable spatial concatenation of a highly original character, centred around a large octagonal room which is truly marvellous to perceive.
Having finally abandoned the Greek constructive style, based on the trilithic system in which illumination plays a minor (sometimes altogether marginal) role, the architects Severus and Celer accentuate the importance and the directrices of space thanks, in fact, to the considerable contribution made by light.
The most important innovation consists in the octagonal room surrounded on five sides by rooms radiating off, while the remaining three sides open out directly onto the frontal portico. The central room is covered by an octagonal vault (the upper section of which resembles a semi-spherical section) featuring an oculus at its centre designed to let light into the room. Splayed windows – situated in the space between the extrados of the dome and the vertical extension of the walls of the internal octagon – complete the ingenious system, using light from above, illuminating the five rooms radiating off from, and directly connected to, the octagonal room.
With the construction of the Domus Aurea, zenithal light became a “raw material” of Roman architecture (only sixty years later, Hadrian’s Pantheon was to be built), and the lesson learnt was never to be forgotten thereafter. In fact, the echoes and influences of this “discovery” are still to be seen today.
We believe that the results achieved by the Romans constitute the source of inspiration of much of modern and contemporary architecture; we ought to look back at such ancient works if we are to really understand Le Corbusier, Alvar Aalto and Louis Kahn, or more recently, Rafael Moneo, Mario Botta, Tadao Ando, Kengo Kuma, Jorn Utzon, Sverre Fhen, Alberto Campo Baeza and Peter Zumtor. The importance of light as a design material is clearly emphasised by Alberto Campo Baeza, when he writes:

When an architect finally discovers that light is the focal point of all architecture, then, and only then, does he really begin to understand things and become a true architect. Light is not a vague entity, one to be taken for granted because ever-present. The sun does not rise every day for nothing. On the contrary, regardless of crepuscular theory, light is a concrete, precise, continuous, definite thing. It is a measurable, quantifiable material, as all scientists know but as numerous architects choose to ignore.
Light, like gravity, is an inevitable fact of reality; fortunately for us, since at the end of the day, architecture has developed over the course of time thanks to these two primary elements – light and gravity. Architects should always carry a compass with them (showing the direction and angle of the sun’s rays), together with a photometer (with which to measure the quantity of light), and not only their spirit level, tape measure and plumb-line. While the battle to overcome gravity lies at the roots of architecture, the pursuit of light and the relationship with it that is created, constitute the two factors that lead the creation of architecture to a sublime level. Thus it is that one discovers, by pure coincidence, that light is in truth the only element capable of overcoming the force of gravity. Therefore, when an architect succeeds in tricking the sun, the light perforating the space created by generally massive structures, breaks the spell and helps the said space to rise and fall, to levitate and fly.
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Inner courtyard of DZ Bank (1994-2001) in Berlin. Designed by Frank O. Gehry (ph. A. Acocella)

Looking back at the development of contemporary architecture, we see that, on the contrary, the excessive growth in the size of openings, designed to create a more immediate degree of contact between interior and exterior, has created a difficulty (which in the end has become an incapacity) with regard to the modulation of light, and to access to that magical world fed by the dialectic relationship between light and darkness.
Thus we find ourselves today faced with an architectural praxis incapable of controlling light, one that does not provide for any selection of what to show by opening just one part of the enveloping wall. The same modulation of light offered by traditional windows (which combined transparent panes of glass with shutters and window splays) has been lost forever.
Nowadays, it would seem that windows may be only smaller bigger, surrounded by a thin coplanar frame that immediately reveals their fragility. The ability to “select” light, air and portions of the outside world that can be part of the interior space, is often overseen in a clearly, unjustifiably superficial manner.
However, contrary to this general tendency, the works of Jorn Utzon and Peter Zumthor provide a convincing argument for a review of such contemporary developments. These works are amply documented in the present section of the book, as their spatial clarity and use of light express to the full the combined value of stone architecture, of solid masonry walls and of light.
We would also like to propose the latter works as a model of contemporary architectural design capable of countering the position adopted by those who judge masonry walls and stone architecture in general as merely things of the past, part of traditional architectural language and nothing more.

Alfonso Acocella

Notes
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.
1 Dom Hans van der Laan, “Architectonic space” (original title L’espace architectonique, 1989), in Alberto Ferlenga and Paolo Verde’s Dom Hans van der Laan. Works and words, Milan, Electa, 2000, p. 166.
2 Francesco Dal Co, Tadao Ando, Luce (original title Licht, 1993) (Milan: Electa, 1994), p. 470.
3 Alberto Campo Baeza, “Architettura sine luce nulla architettura est”, Domus n. 760, 1994, p.2.

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