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9 Settembre 2013

Opere di Architettura

Torre Unipol a Bologna,
Italia Open Project


Complesso Unifim, Bologna (fotografie Giovanni De Sandre)

La chiave di lettura dell’architettura della torre Unifim, che s’ inserisce in un complesso di edifici multifunzione, è il connubio tra leggerezza e trasparenza, con materia e struttura. “Lo skyline degli edifici – spiegano i progettisti di Open Projectdetermina un primo fronte urbano nel quale la torre direzionale svetta sul resto del complesso, creando un traguardo ottico. L’intervento è pensato come un alternarsi di superfici opache e superfici trasparenti, sia nella sequenza della composizione generale sia nell’equilibrio delle parti che compongono i singoli edifici”. La contrapposizione materica è la caratteristica peculiare dell’edificio, che per la sua altezza è esso stesso metafora della tensione infinita dell’uomo verso il cielo. Il progetto sembra partecipare a un quadro più ampio, a scala nazionale, e che vede l’innalzarsi di monoliti trasparenti all’interno di grandi città italiane come Torino, con la torre progettata da Renzo Piano per Intesa San Paolo o come a Milano, con la torre disegnata da Isozaki e Maffei per il complesso dell’Expo 2015. Nell’esempio bolognese, Open Project rivela la particolare attenzione alla combinazione tra materiali e tecnologia, aspetti chiave della metodologia di progettazione dello studio, come fu per la sede del CNA di Roma e per la sede CC a Bologna, riqualificando e rendendo riconoscibile un’area di per sé periferica della città. Acciaio, vetro e pietra sembrano combinarsi per creare nuovi spazi di socializzazione e di lavoro, in una lettura minimale e riconoscibile. Con i suoi 125 metri di altezza la nuova torre costituisce un landmark nel paesaggio bolognese, relazionandosi visivamente alle vicine torri disegnate da Kenzo Tange per il distretto della Fiera. Il progetto, curato in tutti i suoi aspetti da Open Project e coordinato nelle strutture e impianti dagli studi Majowiecki e Betaprogetti, è stato impostato sin dall’inizio secondo i temi della sostenibilità, riduzione dei consumi e della progettazione di qualità degli spazi interni ed esterni.


Lo spazio pubblico e arredo urbano (fotografie Giovanni De Sandre)

Il disegno del verde, curato interamente da Frassinagodiciotto con lapidei de Il Casone, permette di creare ambiti di aggregazione sociale, grazie al suo articolarsi su diverse quote di sette aree verdi. La componente eminentemente formale dell’architettura del paesaggio è accentuata dall’utilizzo dei materiali dell’arredo urbano, dove prevalgono i colori della pietra forte fiorentina, del colombino e del corten, ad esaltarne i volumi. Il taglio squadrato che caratterizza le sedute lapidee viene ammorbidito dalla particolare finitura usata per la pavimentazione esterna in colombino e dalla combinazione delle lastre che, seguendo la linea spezzata del disegno, creano un forte dinamismo. L’attenzione alle declinazioni formali ed estetiche del progetto si affianca alla cura del dettaglio. Ciò accade quando la pietra si accosta ad elementi naturali come l’acqua e il verde ed è obbligata a modellarsi secondo le esigenze. L’alto livello di aggiornamento tecnologico, che permette alla torre di ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale LEED® Gold, si riflette negli spazi outdoor. Così le lastre di pietra forte fiorentina dei camminamenti che tagliano i prati disegnati, proposte con finitura bocciardata, vengono lavorate inferiormente con un trattamento impermeabilizzante, al fine di garantire la durabilità in diverse condizioni climatiche. Mutevolezza e tecnologia sono le parole chiave per lo sviluppo degli spazi interni. Il disegno frammentato delle pavimentazioni in pietra degli uffici, esaltato dall’accostamento con le luci al neon, smaterializza l’elemento lapideo reinterpretando il progetto classico o convenzionale degli spazi dell’ufficio. La scelta particolare del colombino lavorato con finitura levigata rende maggiormente confortevoli spazi che, per la loro funzione, sembrerebbero anonimi. La combinazione di materiali nettamente diversi tra loro, naturalmente in contrapposizione, avviene in armonia in questo monolite contemporaneo, espressione solenne di una moderna concezione del progettare.


Gli ambienti interni (fotografie Giovanni De Sandre)

[photogallery]unipol_album[/photogallery]

di Federica Poini

Vai al sito di Giovanni De Sandre
Vai al sito di Open Project
Vai al sito di Expo 2015
Vai al sito del Majowiecki
Vai al sito del Betaprogetti
Vai al sito di Frassinagodiciotto
Vai al sito del Casone
Vai al sito della certificazione Leed Gold

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5 Settembre 2013

News

Premio Internazionale Architetture di pietra
XIII edizione

Marmomacc 2013 ospita la XIII edizione del prestigioso Premio Internazionale Architetture di Pietra (International Award Architecture in Stone), il premio a cadenza biennale che celebra le migliori produzioni architettoniche realizzate mediante l’uso della pietra.
Il premio si avvale di una Giuria prestigiosa composta da autorevoli storici, critici e docenti di architettura: Klaus Theo Brenner (Facoltà di Architettura Potsdam), Alberto Ferlenga (Dipartimento di Architettura, Università Iuav, Venezia), Luis Fernández Galiano (Direttore di Arquitectura Viva), Fulvio Irace (Dipartimento di Architettura, Politecnico di Milano), Vincenzo Pavan (Dipartimento di Architettura, Università di Ferrara).
La Giuria, coordinata da Vincenzo Pavan, si è riunita a marzo e ha analizzato 29 opere architettoniche realizzate degli ultimi due-tre anni in undici diversi Paesi. Dopo approfondita analisi e ampia discussione, ha scelto le seguenti opere che, per qualità architettonica e uso espressivo dei materiali lapidei sono state ritenute rappresentative di un panorama significativo delle migliori realizzazioni a livello internazionale.
L’International Award Architecture in Stone rappresenta un’approfondita indagine che l’osservatorio Marmomacc svolge nel vasto panorama internazionale dell’architettura litica alla ricerca di proposte originali e innovative che sappiano interpretare con tecniche e linguaggi nuovi il mondo lapideo.
Le opere selezionate spaziano da esempi eccellenti di architettura urbana, come edifici cittadini e spazi pubblici, a progetti di recupero realizzati nel rispetto dell’ambiente sociale e culturale in cui sono inseriti, a opere significative realizzate in contesti difficili e marginali, senza trascurare quelle opere without architects scaturite dall’ingegno della tradizione costruttiva locale.
Le opere selezionate saranno illustrate e descritte in un prestigioso catalogo, che costituisce il premio stesso e saranno oggetto di una mostra di disegni, foto, video, modelli nonché dei materiali lapidei utilizzati nella costruzione allestita nei giorni del Salone all’interno del padiglione 7B. L’iniziativa sarà completata dalla cerimonia ufficiale di premiazione dei vincitori che si svolgerà mercoledì 25 settembre nello spazio culturale di Marmomacc alla presenza delle Autorità, degli autori delle opere selezionate, dei loro committenti, della Giuria e di un folto pubblico di architetti, personalità della cultura ed operatori del settore del marmo.

LE OPERE VINCITRICI

ARUP ASSOCIATES | Druk White Lotus School | Ladakh, India, 2001-2013
Materiale: Pietra locale
Foto: © Christian Richters e altri

La Druk White Lotus School è il frutto di una collaborazione tra il governo della regione del Ladakh e lo studio Arup Associates, ed è economicamente sorretta da donazioni.
Il complesso scolastico presenta un insediamento articolato ai piedi dell’Himalaya indiano, dotato di una pianta fortemente influenzata dall’architettura di questa parte del mondo orientale e caratterizzato da una stretta relazione tra spazi interni e aree esterne.
Le condizioni climatiche e l’assenza di allacciamenti alle reti elettriche e idrauliche ha messo in primo piano il tema del risparmio energetico e dell’uso delle risorse locali. In questo quadro si colloca anche l’uso della pietra, attento alle tradizioni del luogo e declinato secondo le esigenze della sostenibilità, sia per gli aspetti costruttivi, sia per il rapporto con il paesaggio roccioso delle montagne e dell’altopiano di cui la scuola appare essere un completamento.

ALBERTO CAMPO BAEZA | Sede del Consiglio di Castiglia e Léon | Zamora, Spagna, 2007-2012
Materiale: Arenisca de Burgos
Foto: © Javier Callejas

Il complesso per uffici di Alberto Campo Baeza a Zamora è situato nel centro della città e si presenta come spazio recintato e completamente circondato da un alto muro in pietra che segue le tracce irregolari del lotto. Non solo i muri verticali di questo grande contenitore sono di pietra, ma anche il pavimento è dello stesso materiale. In questa “scatola” omogenea aperta verso il cielo è inserito un corpo di vetro che contiene tutti gli uffici. Oltre al contrasto radicale tra pietra e vetro che segna l’atmosfera dello spazio nel cortile, riveste un ruolo fondamentale l’irregolarità delle distanze tra la casa di vetro e l’anello di pietra. Allargandosi e restringendosi i vuoti sviluppano una tensione spaziale come luogo sociale il cui fascino si capta dall’esterno dell’edificio di vetro.
La radicalità minimalista del disegno e la perfezione del dettaglio creano una grande chiarezza concettuale nel contrasto dei due materiali.

MAX DUDLER | Centro visitatori del Castello | Heidelberg, Germania, 2009-2011
Materiale: Arenaria Rossa
Foto: © Stefan Müller

La pietra rossa di Heidelberg è da sempre il tramite attraverso il quale, nella città tedesca, si sviluppa il dialogo tra edifici di epoche differenti, dal castello secolare alle chiuse costruite da Paul Bonatz sulla Neckar.
Oggi il centro visitatori di Max Dudler aggiunge un altro frammento a questo complesso urbano in cui filosofia, architettura, storia, si fondono in un ambiente unico e dal particolare valore simbolico.
L’edificio è dedicato all’accoglienza dei turisti che in gran numero visitano il castello ed è collocato dentro la cinta muraria nel luogo degli antichi giardini che circondavano il monumento.
La sua struttura, di grande semplicità volumetrica, affida soprattutto all’uso della pietra locale la declinazione di un rapporto efficace con gli edifici e le rovine che occupano questa sorta di Acropoli della città. I grandi spessori murari, in particolare, ne fanno un edificio contemporaneo ma allo stesso tempo analogo a quelli storici rispetto ai quali diventa bordo, basamento e tramite con la città in un processo di completamento che rappresenta la miglior forma possibile di cura nei confronti di un luogo importante ed antico.

MIAS ARQUITECTES | Riqualificazione degli spazi urbani | Banyoles, Girona, Spagna, 1998-2012
Materiale: Travertino
Foto: © Adriá Goula

Questo intervento urbanistico unisce il recupero culturale dello spazio pubblico con la rigenerazione della rete di canali che sono all’origine della città. Banyoles si trova al bordo del lago naturale più grande della penisola iberica e, dalla sua fondazione ad opera di monaci benedettini del sec. IX, i canali di drenaggio e di irrigazione che sfociano nel lago hanno assunto una conformazione molto caratteristica. Degradati dal tempo e dall’impatto aggressivo del traffico, il progetto li ha rigenerati con una nuova pavimentazione nel centro storico medievale. L’intervento è stato realizzato con la pietra calcarea locale, chiamata anche Travertino di Banyoles, e la pedonalizzazione dell’area è stata resa compatibile con l’emergere puntuale delle canalizzazioni di acqua attraverso un disegno elegante e preciso. Questo nuovo tappeto di pietra, interrotto solo dalla presenza fisica e simbolica dell’acqua, conferisce nuovo significato al centro storico recuperandone il valore culturale e ristabilendone il rapporto con l’ambiente naturale.

CARL FREDRIK SVENSTEDT | Stone House | Lubéron, Francia, 2011
Materiale: Pietra di Pont du Gard, di recupero
Foto: © Hervé Abbadie, Eric Laignel

Inserita nel contesto del Parco Naturale del Lubéron la Stone House si lega in un rapporto dialettico con la griglia definita dalle rovine di una preesistente casa colonica.
Il materiale locale, una pietra calcarea tenera estratta nelle vicine cave fin dall’epoca romana, è stato usato in grandi lastre autoportanti nelle pareti perimetrali. La scansione sapiente dei blocchi costruisce i volumi dell’edificio alternando una sequenza di opacità e di trasparenze che da agli spazi un senso di fluidità e stabilità.
La sostanza organica che forma la texture del materiale litico, tagliato e posato in alcune superfici con scansione dinamica, dialoga con la pietra irregolare dei lacerti murari superstiti e con le recinzioni lignee.

MENZIONE SPECIALE

UFFICIO SASSI MATERA con Renato Lamacchia | Auditorium e Centro Culturale Casa Cava | Matera, Italia, 2007-2011
Materiale: Tufo
Foto: © Piermario Ruggeri

Ricavati nelle antiche cavità del Sasso Barisano, l’Auditorium e Centro Culturale “Casa Cava” di Matera è un omaggio alla significativa “restituzione” di nuova socialità a spazi altrimenti perduti di questa straordinaria città di pietra.
Nato dalla fortuita scoperta di una cavità sotterranea originariamente utilizzata come cava di tufo, il progetto collega gli spazi ipogei rendendoli accessibili al pubblico restituendoli quindi alla città. L’intervento testimonia nel contempo come l’impegno di una amministrazione possa ridare vitalità al patrimonio, saldando conservazione e valorizzazione.

PREMIO ALLA MEMORIA

ALESSANDRO ANSELMI (1934-2013) | Cimitero di Parabita | Italia, 1967-1977
Materiale: Carparo
Foto: © autori vari

Realizzato a partire dal 1967, il cimitero di Parabita è opera di straordinario interesse per la visionarietà della sua concezione e per il suo forte carattere ideologico nel panorama del dibattito architettonico italiano degli anni settanta. Coniugando geometria e storia, Alessandro Anselmi (capofila del gruppo romano GRAU) con Paola Chiatante, ha dato forma a una surreale città di pietra, dedicata ai morti, ma monito ai vivi a non dimenticare i temi del proprio tempo.
L’architettura come progetto di conoscenza trova così nella materia il suo congeniale medium espressivo, mettendone in luce la capacità di esprimere attraverso simboli la ricchezza e l’ansia sperimentale dell’ultima stagione d’oro dell’architettura italiana.

PREMIO “ARCHITETTURA VERNACOLARE”

Architettura in pietra a secco del Mediterraneo: Taulas, Navetas, Barracas, Muragghi, Pagliari | Puglia, Sicilia, Spagna, Baleari
Materiale: Pietra locale
Foto: autori vari

Un filo misterioso e intrigante lega costruzioni megalitiche, come le Taulas e Navetas delle isole Baleari e i Nuraghi della Sardegna, celebrate nei tours archeologici del Mediterraneo, con le costruzioni a secco sparse in diverse località del meridione della penisola italiana. I Pagliari della Puglia e i Muragghi della Sicilia, come esito architettonico dell’opera secolare di spietramento delle campagne in diversi periodi storici, hanno lasciato un segno straordinario dell’ingegno costruttivo degli “anonimi architetti” nel paesaggio italiano. Ben prima dei più illustri Trulli che popolano la Valle d’Itria queste costruzioni a tholos e a spirale, sparse in diversi territori del Mediterraneo, testimoniano il legame tra il lavoro della terra e la forma dell’abitare nella sua fase “sorgente”.

a cura di Vincenzo Pavan

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7 Agosto 2013

Osservatorio Litico

TORRE BORACO
Recupero e riuso di una torre costiera del XVI secolo in Salento
Manduria (TA)


Vista da sud della torre e della nuova scala di accesso

In un momento in cui la condizione esistenziale degli strumenti e degli oggetti sembra essere quella della liofilizzazione, dell’assottigliamento, della perdita della massa, della densità e della complessità a favore della leggerezza, in un momento in cui perfino l’aria sta diventando un materiale attivo con cui fare architettura, in un momento in cui l’anoressia contagia l’architettura nel tentativo di svincolarsi dal peso e dal concetto di gravità, siamo disposti a ragionare con la massa, il peso, e la materia, in questo caso con la pietra?

La collocazione
Torre Boraco si trova in contrada Bocca di Borraco, a guardia del omonimo torrente di acqua dolce (e perciò molto appetibile per i rifornimenti dei pirati) in comune di Manduria. Leggermente arretrata rispetto al lido sabbioso, da cui dista circa m 250, sorge in posizione relativamente elevata a quota m 14 s.l.m.
Si raggiunge percorrendo la litoranea Taranto-Gallipoli a 4,5 km dall’incrocio con la strada per Maruggio ed in prossimità di quello per Manduria.
Nel sistema delle torri costiere ricadenti nella provincia di Taranto, la torre Borraco é compresa tra Torre S. Pietro, a 3,2 km verso Est, e Torre delle Moline, a 6 km verso Ovest. La differente distanza era in ragione del differente andamento della costa, ovvero di quanto questa fosse alta e frastagliata.


Vista del paesaggio dalla copertura | misuratore dell’orizzonte

Descrizione
Torre Borraco rappresenta il modello delle torri del regno costruite dopo il 1560. Di forma tronco-piramidale a base quadrata di 10,30 per 10,20 metri di lato, altezza di 12,10 metri, con muratura terminale in controscarpa e tre caditoie per lato. L’edificio poggia direttamente sulla roccia affiorante senza particolari opere di fondazione.
Le murature perimetrali sono costituite da corsi di conci di tufo carparo regolari in corrispondenza degli spigoli e dei beccatelli. Le parti restanti delle pareti esterne sono realizzate con pezzatura mista dello stesso materiale resa omogenea da un tenace intonaco di pozzolana.
A coronamento della torre un toro in carparo perimetra la terrazza dell’edificio dalla quale spicca il parapetto a tratti sagomato dal profilo curvilineo a difesa dell’archibugiere.
Il primo piano era voltato a botte. La volta, con imposta ad un’altezza di 1,70 m dal pavimento e chiave a quota 4,40 mt., e la cui linea generatrice è perpendicolare al mare, è costituita da conci di tufo e rinfianchi di materiale incoerente costipato. Dall’ambiente voltato, attraverso una scala posta nello spessore della muratura in prossimità dell’angolo Nord-Est si accedeva alla copertura protetta da un bolo impermeabile. Le finestre Est ed Ovest sono aperte sui lati di scarico della volta. Il fronte Sud e Nord sono costituiti dalle pareti di tompagno trasversali alla volta a botte. Nel muro a Nord sono ricavati, oltre all’ingresso dall’esterno anche le nicchie interne per il camino e la cisterna dell’acqua alimentata dalla copertura.
A differenza della maggior parte delle torri coeve non presentava una scala esterna di accesso all’unico vano di 5,45 x 5,60 m. circa, posto a quota + 5,50 mt., anche se di una scala c’è traccia nelle planimetrie catastali.


Stato dei luoghi prima dell’intervento di restauro | 2005

Stato di conservazione: “Il rudere”
La torre versava in un grave degrado: la parte basamentale dell’edificio ed in particolare i quattro cantonali esterni erano fortemente deteriorati e presentavano importanti sbrecciature ed ammanchi di materiale. Inoltre i crolli subiti dagli elementi di coronamento e di gran parte delle caditoie, così come l’implosione della volta e della copertura, avevano ulteriormente deteriorato la statica del manufatto evidenziando fenomeni di distacco delle pareti.
All’interno del vano al primo piano era cresciuta una rigogliosa vegetazione spontanea e addirittura un grande albero di fico.


Dettaglio della vista da Sud Est

Il restauro
Lo stato di rudere ed il crollo della volta hanno permesso di studiare e meglio comprendere le tecniche costruttive adottate per le torri costiere. Il materiale crollato ed accumulato alla base della torre e all’interno del vano è stato recuperato e selezionato per essere riutilizzato nel restauro ed ha rappresentato il modello di riferimento per la scelta del nuovo materiale integrativo.
I beccatelli crollati hanno messo in mostra la tecnica costruttiva della controscarpa: conci di tufo carparo sono stati collocati di testa nella muratura di parete formando l’ammorsamento per incastrare a spina i conci che completavano all’esterno la mensola di appoggio per la caditoia. La volta, ad un solo filare di tufo carparo posti di piatto, presentava sull’estradosso un riempimento di pietrame misto sciolto.
Nelle operazioni di restauro, si è inizialmente intervenuti sul piano fondale e risarcendo la muratura espulsa; si sono riconnessi i filari di tufo mancanti agli spigoli, punto di accumulo di tensioni, ammorsandoli alla base attraverso l’inserimento di conci nuovi e/o di recupero attraverso la tecnica del cuci-scuci.
Sulla base degli elementi ancora esistenti si è proceduto alla ricostruzione delle murature della controscarpa superiore e dei beccatelli, delle archibugiere e delle caditoie, nonché del toro marcapiano di coronamento. Laddove non si è potuto riutilizzare il materiale di spolio si è utilizzato tufo carparo di Alezio con stilatura dei giunti con malta di calce idraulica naturale, inerti silicei, polvere di tufo e cocciopesto. Una leggera velatura a latte di calce lievemente pigmentata e tonalizzata con terre esclusivamente naturali armonizza, pur senza mistificare la sua origine posteriore, il nuovo materiale con quello preesistente.
La pavimentazione della copertura è stata realizzata con lastre di Pietra di Cursi, mentre quella interna in battuto di cocciopesto.


Interno della torre. In primo piano la porta di ingresso e la scala di accesso alla copertura. In alto si intravvede la volta non intonacata

Il riuso
Completata la fase di restauro si è passati alla integrazione della preesistenza con un nuovo elemento costituito da un corpo scala per accedere alla quota +5,50 m.
Il nuovo intervento è stato concepito come un “blocco lapideo compatto” e riconoscibile nella sua forma, una sorta di “proliferazione” dalla “torre madre” da cui, prendendone la materia, se ne distacca fisicamente in maniera netta pur portandone con sé la traccia dell’inclinazione in alzato (parallelo alla torre) .
Due setti murari portanti, in blocchi di carparo posti di piatto, delimitano la sequenza di gradini a tutto masso di Bronzetto di Apricena, monoliti sagomanti in modo tale da essere sovrapposti uno all’altro a incastro in un’apposita sella di appoggio. Giunti alla sommità, la rotazione di 90° segna un cambio di materiale. Sulla mensola del blocco lapideo, costituita da una “piega” del blocco stesso, si àncora un ponte in acciaio COR-TEN, che irrompe fino all’uscio come materia viva, già corrotta dalla ruggine. Il cambio del materiale segna questa distanza tra i due elementi in dialogo e funge da “giunto” dilatato oltre misura.
Compreso tra lastre di acciaio da 8 mm di spessore e alte 120 cm il ponte, con doghe di larice, conduce all’accesso. Una prima porta/pannello, anch’esso in acciaio COR-TEN (scelta questa dettata, vista la localizzazione, dalle specifiche sue caratteristiche: lega speciale di Rame, Cromo e Fosforo, il COR-TEN garantisce notevoli prestazioni di resistenza alla corrosione (COR-rosion) e allo snervamento a trazione (TEN-sile), di gran lunga superiori ad un comune acciaio) è a protezione di una porta in acciaio e vetro. Questa, così come i due infissi delle finestre interne, è in lamiera di acciaio da 5 mm pressopiegata e saldata, realizzata su disegno, ed è in battuta contro lo stipite di pietra in modo da risultare invisibile dall’esterno.

L’ultimo intervento sarà affidato al tempo.
All’azione corrosiva e levigatrice del mare e del vento così come ai muschi ed il licheni che potranno proliferare sulla pietra, sul tufo e su tutta la materia viva che incontreranno.


Clicca sull’immagine per ingrandire

[photogallery]boraco_album[/photogallery]

SCHEDA TECNICA
Localizzazione: Torre Boraco | Manduria (Ta) | Italia
Coordinate GPS: 40°18’17.51″N 17°38’7.18″E
Committente: Privato
Progetto:
prof. arch. Lorenzo Netti
arch. Gloria Valente | Netti Architetti
arch. Vittorio Carofiglio
Direzione lavori:
arch. Gloria Valente | Netti Architetti
arch. Vittorio Carofiglio
Impresa esecutrice:
Moire Archeologia
Restauri e costruzioni SRL
Altamura | Bari
Cronologia
Progetto: 2008-2009
Realizzazione: 2010-2012
Riconoscimenti
APULIA MARBLE AWARDS 2013 Sezione Architettura Primo premio
Fotografie
© Vittorio Carofiglio
© Foto archivio Netti Architetti
Materiali
Lapidei: Carparo Leccese, Bronzetto di Apricena, Pietra di Cursi
Metalli: Acciaio Corten, acciaio
Legno : Larice

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5 Agosto 2013

News

Tensegrilithic

Il prototipo “Tensegrilithic” nasce dalla volontà di creare la prima tensegrità utilizzando materiali lapidei. Il termine inglese “Tensegrity”, coniato nel 1955 dall’architetto Richard Buckminster-Fuller, deriva dalla combinazione delle parole “tensile” ed “integrity”. Esso caratterizza la capacità di un sistema di stabilizzarsi meccanicamente tramite forze di tensione e di compressione che si ripartiscono e si equilibrano fra loro. Compressioni e trazioni si equilibrano all’interno di un sistema vettoriale chiuso.
Le strutture di tensegrità sono costituite da barre rigide e cavi flessibili. I cavi costituiscono una configurazione continua che comprime le barre disposte in maniera discontinua in seno ad essa. Le barre o puntoni litici, a loro volta, spingono verso l’esterno i cavi.
I vantaggi della struttura di tensegrità sono:
la resistenza dell’insieme supera di molto la somma delle resistenze dei singoli componenti;
la leggerezza: a parità di capacità resistenza meccanica; una struttura di tensegrità presenta un peso ridotto della metà rispetto a una struttura a compressione;
la flessibilità del sistema è simile a quella di un sistema pneumatico. Ciò consente una grande capacità di adattamento reversibile ai cambiamenti di forma in equilibrio dinamico. Inoltre, l’effetto di una deformazione locale, determinata da una forza esterna, viene modulato da tutta la struttura minimizzandone in tal modo l’effetto;
l’interconnessione meccanica e funzionale di tutti gli elementi costitutivi consente una continua comunicazione bidirezionale al pari di un vero e proprio network.

Azienda
Iannone Marmi Snc Corato
Via della Macina, 74 Corato Bari?
infoiannonemarmi@libero.it – tel. 080 872 2622

Progetto
Prof. Arch. Giuseppe Fallacara (Dipartimento DICAR – Politecnico di Bari)
Arch. Marco Stigliano (Dipartimento DICAR – Politecnico di Bari)

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2 Agosto 2013

News

Scala ricomposta

Il prototipo “Scala Ricomposta” è una scala elicoidale con cosciale interno portante e gradini a sbalzo costituita da elementi modulari, prefabbricati in calcestruzzo armato e granulati lapidei, che vengono opportunamente assemblati al fine di rendere autoportante la struttura. La morfologia del gradino presenta una complessità geometrica tale da giustificare l’utilizzo della tecnica dello “stampaggio”, in idonee casseforme, con materiale incoerente composto da specifici leganti e inerti lapidei.
Il progetto rientra nella più ampia ricerca relativa alla stereotomia ri-composta.

Azienda
TARRICONE PREFABBRICATI

Via Castel del Monte, 45 – Corato (BA) – www.tarriconeprefabbricati.it
Referente: Francesco Tarricone (info@tarriconeprefabbricati.it)

Progetto
Prof. Arch. Giuseppe Fallacara (Dipartimento DICAR – Politecnico di Bari)
Collaboratore: Arch. Anna Mangione

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29 Luglio 2013

Design litico

Un secolo di design litico in Italia.
Ricostruire il contesto del progetto contemporaneo

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Alberto Clementi, calamai in marmo, 1943

Il passaggio dal XIX al XX secolo è epocale, non solo per i mutamenti politici, economici e sociali che fa registrare, ma anche per le trasformazioni che investono la civiltà tecnologica e produttiva. Ciò è particolarmente evidente nel settore manifatturiero italiano, per certi versi ritardatario rispetto alle dinamiche di avvento dell’industrialesimo già vissute da altri paesi europei come la Gran Bretagna e la Germania nella seconda metà dell’Ottocento.
In tale scenario anche il comparto di trasformazione dei materiali lapidei, sviluppato principalmente nelle aree estrattive venete e toscane, vive profonde modificazioni: l’impiego delle tecnologie meccaniche e degli strumenti ad aria compressa supporta sempre più le lavorazioni manuali; inoltre l’utilizzo degli utensili al diamante consente di perfezionare e velocizzare le operazioni di taglio e fresatura. Tutto ciò ha ricadute importanti sulle dinamiche del lavoro e sull’organizzazione della produzione; d’altra parte, dall’inizio del Novecento, il contributo delle cattedre di plastica decorativa e di scultura nei regi istituti e nelle accademie di belle arti di molte città italiane, è notevole nel formare non più soltanto scultori, ma anche maestranze tecniche specializzate ed esperti artigiani che possano innalzare il livello qualitativo della produzione corrente.
Così, progressivamente e con grande frequenza, i laboratori lapidei artigiani si ampliano, aggiornandosi dal punto di vista tecnologico, e la pratica del modellare la pietra secondo disegni riconducibili a repertori tipologici ripetibili, più o meno sistematizzati, acquisisce connotazioni di carattere industriali; essa si diffonde in applicazioni di esterni e d’interni, nella realizzazione di elementi architettonici, di particolari decorativi, di fontane, vasche, scale e balaustre, targhe, insegne e mostre commerciali, oggetti d’uso qualificati dal punto di vista formale, lampade, piedistalli e basamenti.


Tobia Scarpa, lampada Biagio per Flos, 1968

Tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’50, pietre e marmi trovano un impiego ampio e consistente in tutto il Paese, nell’architettura d’interni e nella produzione di arredi, complementi e oggetti d’uso. Emblematica in proposito è l’opera di importanti progettisti come Giovanni Muzio, Franco Albini e Carlo Mollino. Il rapporto tra la cultura nazionale artistica e artigianale e la produzione industriale diventa sempre più stretto: a manifestare un chiaro intento programmatico in tal senso sono gli scritti di Giò Ponti sulle pagine di Domus o nel volume La casa all’italiana pubblicato nel 1933 e, come dimostrano gli allestimenti navali e commerciali di Gustavo Pulitzer Finali realizzati a partire dal 1925, i livelli di qualità tecnica e formale raggiunti in alcune applicazioni specialistiche dei marmi sono notevolissimi.
La metà degli anni ’60 rappresenta il momento di avvio di un importante dibattito teorico-critico sulle possibilità di rinnovamento del design litico che porta rilevanti ricadute in termini produttivi e commerciali per tutti gli anni ’70 e gli anni ’80, fino alle realizzazioni contrassegnate da veri e propri marchi del design in pietra come Skipper, Up & Up, Casigliani, Ultima Edizione e Primapietra. Centrale per questo fenomeno è l’esperienza culturale e operativa di Officina, che nasce a Pietrasanta, ma si sviluppa in una prospettiva di contatti internazionali in cui si intrecciano le storie personali di Erminio Cidonio – a capo della sede apuo-versiliese della multinazionale dei lapidei Henraux per tutti gli anni ’60 – con quella di artisti, designer, galleristi e critici militanti come Pier Carlo Santini.
Nel contesto che si delinea a partire dalle sperimentazioni di Officina prendono avvio singoli percorsi progettuali, più o meno fertili, ma in ogni caso di importantissimo valore, come quelli di Angelo Mangiarotti, Mario Bellini, dei Castiglioni e di Tobia Scarpa, che portano a consistenti risultati in termini di innovazione formale e tecnologica del prodotto in pietra e che ancora oggi rappresentano un riferimento metodologico e operativo per le ricerche presenti e future sul design dell’oggetto litico.


Yoshimi Kono per Vignelli Ass., tavolo Tatti per Casigliani, 1989

La sedimentazione delle fervide sperimentazioni sviluppate per tutti gli anni ’80 nelle esperienze del design minimalista dei ’90, consegna infine all’attualità dei materiali lapidei una molteplicità di approcci progettuali e di declinazioni produttive: se infatti, per il design litico, il passaggio dalle arti decorative all’industria all’inizio del Novecento non significa un superamento totale di una realtà in favore dell’altra, ma un continuo processo di andata e ritorno tra dinamiche ideative e produttive sempre compresenti, così anche in apertura del nuovo millennio marmi e pietre assumono configurazioni formali e costruttive che si muovono costantemente tra arte, artigianato e piccola industria; tra produzione manuale, assistita, parzialmente o totalmente automatizzata; tra “artigianato anonimo”, totale controllo autoriale del progetto o creatività di equipe.
Quella del design litico italiano è insomma una storia sfaccettata, problematica e di lungo periodo, che non è mai stata ricostruita in modo sistematico; essa attraversa la modernità e arriva fino all’oggi caratterizzandosi per la straordinaria ricchezza di opere e di autori, nonché per la molteplicità di aspetti peculiari, per certi versi contraddittori, rispetto ai quali un bilancio complessivo deve ancora essere scritto. Chi scrive in questa sede, operando da tempo all’Università di Ferrara con progetti di ricerca specifici, intende ricostruire un quadro critico di tale storia, che possa contestualizzare le recenti esperienze di innovazione del prodotto lapideo, condotte a partire dalle più aggiornate tecnologie di lavorazione e motivate dalle più attuali istanze culturali e di mercato.

di Davide Turrini

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29 Luglio 2013

English

A century of Italian Stone Design.
Tracing the context of contemporary projects

Versione italiana


Alberto Clementi, marble inkwells, 1943

Turning from the 19th to the 20th century was a crucial passage not only for political, economical, and social revolutions, but also for the transformations involving technological and productive civilization. This is particularly remarkable in Italian manufactory, somehow behind time in comparison to the industrial dynamics already experienced by other European countries such as Great Britain and Germany in the second half of the 19th century.
In this scenario the domain of the stone materials manufactures significantly changed as well, being developed in particular in Tuscany and Veneto, next to the main quarries: the use of mechanical technology and of pneumatic implements was sustaining manual operations always more; in addiction diamond-equipped tools made cutting and milling quicker and more precise. This had important consequences on the organization of production and workforce; moreover the tenures in Decorative Art and Sculpture in royal institutes or Fine Arts accademie contributed at the beginning of the 20th century to train not simple sculptors, but technical specialists and expert artisans able to improve the productive quality of that time.
In this way, artisanal stone workshops became bigger and more technologically updated, while the practice of shaping stone with repeatable models from typological repertoires, more or less systematized, acquired industrial characteristics; it developed in interior and exterior employments, in the construction of architectonical elements, decorative details, fountains, pools, staircases and banisters, commercial plaques or banners, lamps, pedestals and bases.


Tobia Scarpa, Biagio marble lamp for Flos, 1968

Between the 1920s and the ‘50s, stones and marbles were widely and considerably employed throughout the country, in interior architecture and in the production of complement furniture and everyday objects. The work by relevant designers as Giovanni Muzio, Franco Albini, and Carlo Mollino was very representative of this phenomenon. The relationship between artistic and artisanal Italian culture and the industrial production got closer and closer: this was testified by Giò Ponti’s writings on Domus or in the book La casa all’italiana published in 1933, and by the commercial and naval settings Gustavo Pulitzer Final created starting from 1925, where the technical quality in some specific marble applications reached extremely remarkable levels.
The middle ‘60s represented the starting point of an important theoretical and critical debate about the possibility of renovating stone design, having notable commercial and productive consequences for all the ‘70s and ‘80s till the creation of stone-specialized brands as Skipper, Up&Up, Casigliani, Ultima Edizione, and Primapietra. A central cultural and operative experience in this context is Officina, born in Pietrasanta but developed on an international scale thanks to the contacts that Erminio Cidonio, at the head of the Versilian seat of the stone multinational Henraux in the ‘60s, personally weaved with artists, designers, art dealers, and radical critics as Pier Carlo Santini.
In the context so delineated, starting from Officina experimentations numerous individual paths developed, more or less fertile, but anyway of great value, as the ones by Angelo Mangiarotti, Mario Bellini, the Castiglionis, and Tobia Scarpa. They led to significant results in terms of formal and technological innovation of the stone products and still nowadays represent a methodological and operative reference for current and future researches on stone design.


Yoshimi Kono for Vignelli Ass., Tatti travertine table for Casigliani, 1989

These fervid experimentations developed for the entire ‘80s and their sorting out in ‘90s minimalist design have produced the current multiplicity of projecting approaches and productive variations of the stone materials: if the transformation of decorative arts into industrial production at the beginning of the 20th century hadn’t been so radical but rather a to-and-fro between the two tendencies, similarly in the starting years of the new millennium marbles and stones are used in formal and constructive configurations that constantly move among arts, handcrafts, and little industry; among handmade, assisted, and partially or totally automatic production; between “anonymous manufactory”, team creativity or total control by a single author.
The history of Italian stone design is consequently multifaceted, problematic and to be seen in a long-term perspective, but it has never been traced back in a systematic way; it has overtaken modernity being characterized nowadays by an extraordinary richness in works, author, and peculiar and somehow contradictory aspects, a summary of which is yet to be written. The author of these pages has worked for a long time at the University of Ferrara on specific research projects and wants to recollect a critical scenario of this history, in order to contextualize recent innovative experiences about the stone product, that are activated thanks to the most recent manufacturing technologies and driven by the latest commercial and cultural instances.

by Davide Turrini

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26 Luglio 2013

News

Ponte Flex e Marmomacc Lab

Il prototipo “Ponte Flex” nasce dall’idea di poter costruire un sistema voltato, impiegabile per vari scopi funzionali, in pochissimo tempo utilizzando materiali “poveri”. Il ponte è formato da due archi flessibili, su cui si montano le doghe lignee calpestabili, che si impostano su due spalle monolitiche parallelepipede. L’arco flessibile rientra nella casistica dei sistemi auto equilibranti ed è un arco armato messo in opera senza il bisogno di alcun sostegno, questo viene pre-assemblato a terra e poi issato e posizionato sui piedritti per mezzo di una gru. Si tratta di una nuova tecnica, già utilizzata per costruzioni in calcestruzzo, prende infatti le mosse da un sistema in cemento brevettato in Irlanda e messo a punto dalla collaborazione tra la Queen’s University di Belfast e la Macrete Ltd, ma mai prima d’ora sperimentata sulla pietra. La grande innovazione di questo nuovo sistema risiede nel fatto che in fase di costruzione non richiede l’uso di alcuna centina. Questo enorme vantaggio lo pone all’avanguardia sia per la sua rapidità e semplicità in fase di messa in opera, sia per il suo utilizzo in siti, come quelli archeologici, in cui sarebbe impossibile l’utilizzo di centine nella fase di cantierizzazione.

Enti
FORMEDIL VERONA Ente Scuola Provinciale per la Formazione Professionale in Edilizia della Provincia di Verona
FORMEDIL BARI Ente Scuola Provinciale per la Formazione Professionale in Edilizia della Provincia di Bari
Referente Formedil Verona: Ruggiero Tosi (3483675629)
Referente Formedil Bari: Luigi Aprile (laprile@formedilbari.it)

Progetto
Supervisione scientifica: Prof. Arch. Claudio D’Amato (Dipartimento DICAR – Politecnico di Bari)
Progetto: Prof. Arch. Giuseppe Fallacara (Dipartimento DICAR – Politecnico di Bari)
Supervisione e sviluppo: Mecastone di Luc Tamborero

MARMOMACC LAB
Marmomacc ripropone anche quest’anno Marmomacc LAB, un laboratorio sensoriale pensato per offrire alle aziende espositrici la possibilità di presentare i propri materiali e le proprie finiture in modo più immediato e interattivo, ribaltando la priorità di approccio, dal tatto alla vista.
Il progetto, organizzato in collaborazione con il Centro Servizi Marmo, si configura come una vera e propria esperienza “tecnico-didattica” in cui il visitatore potrà interagire direttamente con i materiali per comprendere il processo che porta alla trasformazione della pietra, partendo dalla fase creativa fino alla realizzazione del prodotto finito.
Attraverso un percorso guidato architetti, designer, studenti o operatori potranno dunque acquisire una maggiore consapevolezza sull’utilizzo dei materiali litici, senza trascurare gli aspetti produttivi legati al ciclo di trasformazione e ai sistemi di lavorazione e trattamento della pietra, con particolare attenzione alla versatilità di impiego delle varie superfici, in relazione alle specifiche proprietà tecniche.
L’obiettivo è quello di generare una relazione multisensoriale tra il visitatore e il materiale, attraverso un coinvolgimento che, partendo dalle sensazioni tattili arriva a quelle estetiche e tecnico-prestazionali dei singoli materiali.

Le aziende che partecipano:
Cave Marmi Ac, Essegi Marmi, Ge.m.e.g., Grassi Pietre, La Ponte Marmi, La Quadrifoglio Marmi e Graniti, Lavagnoli Marmi, Marini Marmi, Marmi Regina, Marmobon, Postumia, Quarella, Scandola Marmi, Sima, Stone Italiana

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24 Luglio 2013

Pietre Artificiali

I Mercati di Traiano


Mercati di Traiano: il Grande Emiciclo. Visione generale della facciata curva in mattoni a vista e vedute parziali dell’esedra. (ph A. Acocella)

La città di Roma sotto i principati di Domiziano e Traiano sfoggia nelle aree monumentali dei Fori imperiali e delle grandi fabbriche del Palatino i marmi policromi più preziosi che affluiscono nella capitale dalle regioni più lontane dell’Impero; all’opus testaceum, oramai ampiamente affermatosi come sistema costruttivo, spetta prevalentemente la funzione strutturale che rimane spesso obliterata sotto superfici architettoniche estetizzanti fatte di stucchi, affreschi, pietre e marmi rilucenti.
Agli architetti del principato di Traiano si deve però anche una innovazione specifica legata all’impiego dell’opus testaceum che da tecnica squisitamente costruttiva – posta a realizzare l’ossatura murale portante – viene spinta a ricercare un suo linguaggio che diverrà progressivamente, lungo il II secolo d.C., un vero e proprio stile architettonico attraverso la valorizzazione figurativa del materiale laterizio lasciato a vista.
L’opera posta a inaugurare in forma inedita il nuovo ciclo di vita dell’opus testaceum è il quartiere urbano della capitale comunemente conosciuto come i Mercati di Traiano (nome assegnato dall’archeologia contemporanea, visto che nella tradizione antica non è stato trovato nessun riferimento specifico in quanto, al di là dell’interesse tutto attuale, si trattava di un complesso utilitario unico nel suo genere e privo di valenze replicative, di valore come modello) caratterizzato da una particolarissima organizzazione dei volumi architettonici e degli spazi al punto da non poter essere codificabile sotto il profilo tipologico.
Realizzato da uno Stato centralizzato, l’articolato insediamento urbano è chiamato a dare risposte ad una serie variegata di esigenze (stoccaggio di merci, commercio, vendita di prodotti, svolgimento di attività amministrative).
Il sito scelto per la realizzazione dei Mercati di Traiano, in conseguenza delle sue peculiari caratteristiche topologiche (l’area è segnata da forti salti di quota dovuti alla presenza di una collina spianata per i lavori del Foro di Traiano), si presenta ad Apollodoro di Damasco – lo stesso architetto incaricato del progetto dell’ultimo dei fori imperiali – come particolarmente adatto ad una progettazione fuori dagli schemi convenzionali della simmetria assiale, sperimentando per l’occasione una composizione del tutto contemporanea ed innovativa.
La natura del luogo, in altri termini, sembra richiedere necessariamente un ingegnoso adattamento alla forte acclività del terreno e un’organizzazione più libera dei volumi architettonici e della stessa logica distributiva; a questa condizione si associa anche la particolare natura polifunzionale delle destinazioni d’uso connesse all’incarico.
Il programma assegnato ad Apollodoro è legato all’ideazione di un grande quartiere strutturato, inevitabilmente, su più livelli in risposta alle condizioni del ripido pendio che si erano venute a creare tagliando la sella posta originariamente ad unire l’Esquilino al Capitolino per ottenere una vasta superficie pianeggiante necessaria al complesso monumentale marmorizzato del Foro di Traiano.
Si ritiene che il forum Traiani e il quartiere dei Mercati siano conclusi contestualmente nel 112 d.C., data d’inaugurazione del Foro: il Foro, ricco d’influenze della tradizione greca; i Mercati che fondono con inventività ed originalità elementi di tecnica costruttiva tipicamente romana con la sensibilità progettuale sperimentale di Apollodoro da Damasco. I due interventi sono, comunqe, da considerarsi come facenti parte di un unico ed eccezionale piano urbanistico sia pur declinato con linguaggi architettonici e strategie di realizzazione diversificate.


Mercati di Traiano. L’Aula di testata del Grande Emiciclo; sullo sfondo la Torre delle Milizie realizzata nel Medioevo (XIII secolo). (ph. A. Acocella)

La sistemazione del Foro conteneva una grande Basilica (detta Ulpia), un tempio dedicato a Traiano, due edifici per le biblioteche (una greca e una latina) numerosi porticati e, al centro, la colonna istoriata con le gesta delle guerre con i Daci. Un universo monumentale, quello degli edifici e degli apparati plastico-scultorei del forum Traiani, costruito con stucchi, pitture, pietre e marmi policromatici risplendenti e rifrangenti di grande lusso che rappresentò sino alla tarda antichità la magnificenza di Roma i cui echi sono rintracciabili nella relazione di Ammiano Marcellino scritta nell’anno 356 in occasione della visita di Costanzo II.
Il Foro di Traiano volgeva letteralmente le spalle ai Mercati; a separare i due complessi era posto un alto e massiccio muro simile a quello che ancora oggi chiude, a nord-est, il Foro di Augusto.
Oltre il muro la facies dei Mercati mette in scena per la prima volta nella storia il nuovo stile architettonico tipicamente romano delle strutture in mattoni a vista murati con grande precisione da abilissime maestranze in un’opera pubblica realizzata nel cuore della capitale dell’Impero.
L’assenza di colonne in tutto il complesso e il grande dispiegamento di masse murarie legate all’opus testaceum con largo impiego di archi e sistemi voltati di calcestruzzo plastico testimoniano, a poche decine di metri di distanza dal Foro sotto la collina dell’Esquilino, la compresenza dialettica dei principi dell’architettura greca – trilitica e marmorizzata – e quelli stereometrici dell’ordine murario laterizio romano del tutto nuovi e originali.
Alle spalle della grande esedra circolare del Foro – rimanendone da questa largamente obliterato – e a ridosso del dirupo prodotto dal taglio della collina del Quirinale per un’altezza pari a quella della Colonna di Traiano, viene eretto il complesso architettonico a terrazze dei Mercati costretto ad adattarsi al terreno fortemente scosceso e tormentato. Ma Apollodoro da Damasco saprà mettere a frutto tutte le difficili condizioni topografiche del sito facendole diventare potenzialità per un progetto sperimentale, ardito ed innovativo.
Il complesso dei Mercati, articolato attraverso sei piani funzionali, è costituito da due settori principali posti a risolvere ed esaltare la forte acclività del terreno.
Il settore inferiore – organizzato su tre livelli – comprende il Grande Emiciclo (con le due Aule di testata alle estremità) e il Piccolo emiciclo.
Il settore superiore – separato e diviso da quello inferiore per mezzo di un’ampia strada urbana lastricata con basoli di lava dal nome tardo antico di via Biberatica – è formato dal Corpo centrale a quattro piani al quale si collega, a sinistra, il volume della Grande Aula; ancora più in alto si impone la Torre delle Milizie ma di costruzione notevolmente posteriore (XIII secolo).
A livello volumetrico il grandioso complesso urbanistico di Apollodoro si struttura attraverso una serie di corpi architettonici a gradoni con la sapiente valorizzazione di piani-terrazza sul modello delle coeve agorà commerciali delle città ellenistiche dell’Asia Minore, quali Perge o Hierapolis per fare solo qualche esempio.
Sei sono i livelli in cui si articolano gli spazi funzionali e le attività dell’organismo edilizio posti ad accogliere le diverse attività (tabernae, sale di incontro pubblico, uffici, amministrativi, spazi all’aperto); due le terrazze principali; tre le strade in dolce pendenza attestate sui contorni della collina con due scale posizionate nelle estremità del complesso che consentono il collegamento con il piano del Foro di Traiano.
Ai piedi del pendio, una strada lambiva il perimetro del Foro e della Basilica formando una curva in corrispondenza dell’esedra forense. Si affacciano su tale arteria i corpi architettonici del Grande Emiciclo: i primi due piani, ospitanti taberanae, caratterizzati in facciata dall’opus testaceum lasciato a vista; il terzo piano, anch’esso con botteghe, aperto solo sulla via Biberatica.
Se la forma del Grande emiciclo è in qualche modo condizionata da quella dell’esedra del Foro, il grandioso ed articolato blocco volumetrico compreso fra la via Biberatica e l’angolo settentrionale dell’area è concepito con grande libertà conferendo una grandiosità di tipo scenografico alle masse del fronte esterno affacciato sul Foro.


Il percorso con botteghe al primo piano del Grande Emiciclo. (ph. A. Acocella)

ll Grande Emiciclo
Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, alla rappresentatività e al lusso dei marmi policromatici dei fori faceva contrasto il carattere eminentemente utilitario dei Mercati di Traiano espresso attraverso la libera composizione delle masse volumetriche e l’uso sobrio dei partiti architettonici ottenuti per mezzo dell’uso inedito del laterizio cotto lasciato a vista. Se si esclude il Grande Emiciclo tutte le superfici del complesso sono trattate attraverso un ordine murario severo e spoglio animato esclusivamente dai ritmi delle teorie di porte, finestre, balconi e terrazze.
E benché i due complessi commissionati da Traiano ad Apollodoro siano contigui e per certi versi reciprocamente concepiti tutto è organizzato come se l’architettura marmorizzata del forum Traiani dovesse ignorare e nascondere il complesso dei Mercati e il suo stesso carattere innovativo sia sotto il profilo morfologico e insediativo che linguistico affidato, quest’ultimo, all’opus testaceum a vista.
L’unico settore architettonico del complesso dove emergono forme di decorazione è il Grande Emiciclo la cui facciata non è, comunque, concepita originariamente per una fruizione frontale e totale – così come appare oggi – bensì destinata a svelarsi attraverso una visione prospettica di scorcio (e parziale), man marmo che si percorreva la strada in curva.
All’interno della composizione volumetrica spoglia e severa dei Mercati di Traiano la decorazione del Grande Emiciclo è affidata alla tonalità bicromatica dei laterizi e al rilievo leggero consentito dalla piccola modularità del mattone. Apparentemente si è di fronte ad un avvenimento secondario e nascosto, in realtà si tratta di una rivoluzione per l’architettura romana che fa crescere, attraverso la sperimentazione dell’ordine murario, il suo affrancamento dalla logica trilitica e marmorea alla maniera greca come evidenzia acutamente John B. Ward-Perkins proprio descrivendo i Mercati di Traiano: «Dopo secoli di deferenza per le proprietà della tradizione architettonica greca, Roma aveva finalmente conquistato un linguaggio architettonico proprio; e cominciava ad avere il coraggio di usarlo».1
L’esedra del Grande Emiciclo si eleva attraverso un impaginato parietale in curva composto da due ordini murari; a questi, più in alto, è sovrapposto un attico.
Il primo ordine è caratterizzato da una teoria di undici piccole botteghe indipendenti in forma di edicole scandite da piedritti e architravi di solido travertino, scavate nello spessore dell’ossatura murale posta a contrasto con la roccia retrostante della collina.
Il motivo di facciata del secondo ordine è simile a quello della Porta Palatina, ottenuto attraverso una lunga ed “insistita” teoria di ventiquattro aperture concluse ad arco ed inquadrate da lesene che sorreggono una cornice laterizia continua in aggetto; le lesene poggiano su basi di travertino e, in alto, sono arricchite da capitelli dello stesso materiale proveniente dalle cave di Tivoli. Le aperture illuminano un lungo e slanciato corridoio coperto a volta in calcestruzzo posto a servire le botteghe del primo piano dell’emiciclo.
L’attico di facciata altro non è che una fascia muraria sommitale con funzione di parapetto al camminamento superiore; in esso sono inseriti timpani e semitimpani modanati in alternanza di triangoli e segmenti di cerchi.
Due cornici continue e aggettanti sono poste, invece, a cesura fra primo e secondo ordine e, poi, in alto a conclusione della facciata del Grande Emiciclo. Attraverso il loro svolgimento continuo, solido, plastico – e in evidente contrasto cromatico rispetto alle cortine laterizie – tali modanature in solido riescono a riunificare il lungo e schiacciato prospetto controbilanciando il ritmo verticalizzante delle edicole e delle finestre. L’innesto in facciata degli inserti in travertino, l’altro grande materiale della tradizione tipicamente romana, riesce a stemperare l’eccessiva omogeneità del paramento laterizio a vista, impiegato per la prima volta con audacia in una così grande superficie parietale.
Oltre l’attico, un terzo piano – oggi quasi del tutto distrutto – era costituito da un percorso all’aperto in quota (sovrastante il corridoio del secondo ordine) e, alle spalle di questo, da una serie di botteghe chiuse verso il Grande Emiciclo e aperte sul lato opposto della via Biberatica.
Agli estremi due Aule di testata, caratterizzate in prospetto solo da sottili cornici aggettanti sotto forma di timpani curvilinei, chiudono il Grande Emiciclo. Ampie aperture (soprattutto quelle dell’Aula compresa fra le due curve della Basilica Ulpia e del Foro di Traiano che svuotano di due terzi la massa muraria, al limite delle esigenze strutturali per sorreggere la volta superiore) sono praticate nelle pareti di facciata al fine di illuminare con efficacia i profondi spazi voltati retrostanti.
Benché si utilizzi la stessa tecnica costruttiva dell’opus testaceum, rispetto agli spazi slanciati in altezza del Palatino o delle terme romane si avverte nelle proporzioni di queste Aule di testa (e della stessa Grande Aula del mercato) una sensibilità dell’architetto di Damasco del tutto particolare ed autonoma.


La Grande Aula. Visione dello spazio centrale strutturato su due livelli e planimetria del secondo piano con le botteghe aperte sul percorso in quota illuminato attraverso aperture praticate nella copertura piana. (ph. A. Acocella)

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La Grande Aula
Dove la via Biberatica piega verso nord si innesta una scala che porta al livello della Grande Aula del mercato in forma di sala rettangolare a doppia altezza attestata alla stessa quota di via Quattro Novembre; qui insiste un secondo ingresso al complesso monumentale dei Mercati di Traiano. La Grande Aula è posta a concludere architettonicamente il settore dell’area da urbanizzare che presenta minori problematiche topografiche.
L’ossatura muraria di sei tabernae – prospicienti la via Biberatica – funge da sostruzione al fronte occidentale di una piattaforma regolare, quasi rettangolare, ottenuta nel fianco della collina. Su quest’ultima è impostato il volume parallelepipedo concluso dalla Grande Aula che evoca un’aula basilicale coperta da una volta a sei crociere attestate su poderosi pilasti quadrangolari con mensoloni aggettanti di travertino.
La Grande Aula svolge un ruolo di primo piano all’interno del complesso architettonico dove, più che per la grandiosità o l’ampiezza delle dimensioni, è la logica innovativa della progettazione a rendere interessante questa parte della fabbrica di Apollodoro.
Le crociere consentono l’illuminazione dall’alto dello spazio centrale che nel livello inferiore dell’Aula, lungo i lati longitudinali, accoglie numerose tabernae a doppia altezza servite da scale interne.
Più dettagliatamente lo spazio voltato è funzionale a due ordini di negozi: in tutto sei coppie di ambienti commerciali per ciascuno dei due lati longitudinali; le botteghe del livello inferiore si aprono direttamente sullo spazio centrale della Grande Aula con accesso da via Quattro Fontane, mentre quelle del livello superiore si affacciano su un corridoio a galleria illuminato da lucernari aperti nel tetto a terrazza.
I Mercati di Ferentino e di Tivoli degli inizi del I secolo a. C., richiamati, spesso come antecedenti di riferimento, sono oramai una reminiscenza troppo lontana e sorpassata con i loro spazi bloccati e “cavernosi”. Nei Mercati di Traiano, complesso ardito e luminoso, è come essere in un grande bazar moderno con soluzioni utilitarie ed estetiche innovative, rese possibili dall’opus testaceum a vista che inaugura una nuova tradizione espressiva. Gli archetipi costruttivi di base erano già conosciuti e sviluppati dalla tradizione dell’architettura in pietra: il muro, la piattabanda, l’arco, la volta, le stesse partiture decorative; si tratta, d’ora in avanti, di tradurli e reinterpretarli attraverso le potenzialità geometriche e materiche del laterizio a vista.
La scenografia dei Mercati di Traiano è legata alla curva a gradoni del Grande Emicilco in cui s’impone l’unitarietà del tema figurativo avvolgente attraverso la lunga teoria di archi; l’arco che, oramai, non è più elemento singolo, ma tema di composizione architettonica.
Il mattone a vista contribuisce, anch’esso, col suo apporto costruttivo e il suo sobrio protagonismo estetico, all’affermazione della nuova architettura di Roma d’età imperiale.


Mercati di Traiano. Sezione trasversale in corrispondenza del Grande Emiciclo e della Grande Aula. (ph. A. Acocella)

di Alfonso Acocella

Leggi anche
Alle origini del mattone
I mattoni di Roma

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Note
1 John B. Ward-Perkins, Architettura Romana, Milano, Electa Editrice, 1979, p. 78.

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22 Luglio 2013

News

Lithic bridge

Il progetto “Lithic Bridge” è concepito per esplorare le potenzialità realizzative del marmo posato a secco e compresso. La struttura a ponte viene opportunamente tensionata da cavi in acciaio immersi nel marmo e tesi con un sistema a leva, in cui la gravità della massa marmorea degli elementi gradinati posti alle estremità è calcolata e dimensionata per fungere da elemento di trazione.
Il sistema vuole evidenziare le peculiarità del materiale lapideo che ben si presta alla compressione ed è caratterizzato dall’alto peso specifico unito alla possibilità di essere lavorato in modo massivo nonché dalla stabilità nel tempo ed agli agenti atmosferici.

“Lithic Bridge” è un progetto di design litico nel senso che abbraccia e si rapporta con le altre discipline coinvolte non ultima quella produttiva, che ha specifiche esigenze esecutive, di ottimizzazione dei costi di lavorazione e di contenimento dello scarto anche in vista di una possibile produzione seriale da immettere nel mercato.

Progetto: Raffaello Galiotto
Engineer: ing. Alessandro Serafini

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