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9 Aprile 2014

News

Casone al Fuorisalone 2014
Milano Design Week, 8>13 aprile

In occasione del Fuorisalone 2014, è con piacere che Casone segnala la sua presenza in due scenari d’eccezione, attori vivaci della settimana milanese dedicata al design.

Presso lo showroom Bulthaup Porta Nuova, che per l’occasione rinnova la disposizionedei suoi spazi progettati da John Pawson, Casone esporrà alcuni nuovi vasi in pietra, oggetti di design classici, ma innovativi al contempo, in linea con la qualità sempre espressa da Bulthaup. La Pietra Forte Fiorentina di Casone riveste le pavimentazioni dello showroom, così come le scale, gli arredi, la zona wellness e i bagni e per la realizzazione dell’intervento l’azienda è stata affiancata da ArcStudio.

Informazioni di servizio
Bulthaup Porta Nuova,
via Antonio Locatelli 6

Per il Fuorisalone 2014 Casone presenta la nuova The Other Collection negli spazi di Interno 18 – spazio aperto e versatile in cui le idee si concretizzano grazie a una scelta selezionata di materiali. Il nuovo brand, commercializzato dall’azienda, rivisita la pietra in chiave contemporanea, eseguendo trattamenti di superficie che, cambiando la cromia consueta, regalano un nuovo aspetto al materiale, ma anche una notevole resistenza che lo rende particolarmente adatto all’utilizzo per pavimentazioni di ambienti molto frequentati.

Informazioni di servizio
Interno18 About Home,
via Solferino 18

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7 Aprile 2014

News

Territori di pietra
Apricena, Lesina, Poggioimperiale


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2 Aprile 2014

Pietre Artificiali

Artefatti laterizi e percorsi d’acqua*


Domus pompeiane ad atrio: Casa del Labirinto, Casa del Fauno, Casa di Apolline e Casa del Menandro. Da ZANKER (1993)

Abbiamo inteso collegare – attraverso un salto “acrobatico” – funzionalmente, o solo narrativamente, tutta una serie di artefatti edilizi o soluzioni applicative con impiego di prodotti laterizi che entrano in contatto con l’acqua, risorsa indispensabile di vita e assai scarsa nell’antichità.
L’approvvigionamento dell’acqua nelle civiltà antiche del Mediterraneo ha svolto un ruolo sempre centrale a cui ha corrisposto la ricerca di soluzioni e di dispositivi efficienti di captazione, conservazione e uso oculato.
È interessante seguire nel contesto italico-romano, in particolare campano dove abbiamo a disposizione un’ampia documentazione, i modi di tesaurizzazione e gli stessi “percorsi dell’acqua” a contatto con gli artefatti in laterizio – centrali nella nostra indagine – soprattutto nella fase antecedente alla realizzazione dei grandi e perfezionati acquedotti romani di età imperiale che hanno assicurato la captazione remota dell’acqua, il trasporto a distanza e la sua erogazione a pressione, in forma corrente, sia nella capitale che nelle tante città romanizzate.
A differenza dei territori dell’Italia settentrionale dove è stato più facile accedere alle falde acquifere a mezzo di pozzi realizzati spesso con grandi mattoni curvi in laterizio, nelle regioni meridionali la disponibilità della quantità di acqua necessaria alla vita dei nuclei familiari è stata legata – per molti secoli – alla captazione dell’acqua piovana accuratamente canalizzata ed accumulata in cisterne più o meno grandi. Raccogliere e tesaurizzare l’acqua piovana diventa nel territorio vesuviano – scarso di sorgenti naturali di superficie e con falde sotterranee posizionate al di sotto dei venti metri, oltretutto con presenza di banchi rocciosi duri di natura lavica – una operazione obbligata, la sola praticabile.


Restituzione grafica di domus vitruviana con atrio tuscanico. Da GROS (1997).

Una testimonianza di tale consuetudine è tangibilmente fornita dagli insediamenti della Campania dove gli scavi e gli studi delle città distrutte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. consentono una lettura completa delle soluzioni adottate.
Sono gli stessi organismi architettonici, mediante la loro concezione morfologica, ad offrire un contributo significativo alla raccolta dell’acqua; in particolare la casa ad atrio di epoca repubblicana, attraverso la sua specifica codificazione tipologica, ne è testimonianza tangibile.
È possibile valutare tale apporto attraverso l’analisi delle domus ad atrio di Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis fra i pochi centri – se non gli unici del mondo antico – di cui è dato avere testimonianze copiose e complete dell’abitazione nelle sue strutture di fondazione e di elevazione legate al modello della casa unifamiliare.
Le città seppellite e “congelate” materialmente alla data dell’eruzione del Vesuvio consentono – a fronte delle città romane europee che hanno restituito testimonianze limitate al solo piano terra delle abitazioni – di seguire le caratteristiche di partenza e le evoluzioni della casa italica attraverso più secoli di vita, certamente dalla fase finale della repubblica alla prima età imperiale.


Casa del Menandro a Pompei. L’atrio visto dall’ingresso, visione del peristilio e la sezione longitudinale della domus. Disegno da STEFANI (2003). (Ph. A. Acocella)

Si è di fronte, in particolare, ai microcosmi abitativi delle domus rappresentative di un modello dell’architettura domestica unifamiliare ampiamente diffuso nelle città della penisola romanizzata, rispetto al quale solo più tardi si differenzierà il modello tipologico dell’abitazione plurifamiliare – documentato soprattutto nella città di Ostia – legato alla concezione del caseggiato urbano, all’idea dell’insula.
La domus campana, da sola, ci aiuta a conoscere la casa italico-romana di città delle classi agiate essendo rimasti superstiti e documentati gli elementi della costruzione insieme agli apparati decorativi nel loro complesso; dalle redazioni pavimentali ai rivestimenti parietali, dagli alzati di facciata ai sistemi di copertura; questi ultimi, in particolare, costituiscono l’incipit – nella nostra trattazione – al tema del rapporto fra elementi in laterizio e percorsi dell’acqua.
La domus unifamiliare, cosi come la conosciamo dagli scavi delle città vesuviane, si definisce in particolare – lungo il III e II sec. a. C. – attraverso la soluzione distributiva dell’atrium quale spazio generativo centrale intorno al quale sono disposti gli ambienti residenziali che consentano lo svolgimento delle attività domestiche e pubbliche della famiglia.


Casa del Menandro a Pompei. L’atrio visto dall’ingresso, visione del peristilio e la sezione longitudinale della domus. Disegno da STEFANI (2003). (Ph. A. Acocella)

Tale concezione tipologica della casa segnerà lungamente la storia della residenza unifamiliare urbana. Il suo schema spaziale e distributivo codifica e istituzionalizza un organismo edilizio introverso, chiuso perimetralmente verso strada da muri ciechi (o, tuttalpiù, dotati di aperture piccole come feritoie); l’entrata, attestata generalmente sull’asse centrale, conduce sempre direttamente nell’atrio in forma di corte interna – coperta al perimetro dalle falde del tetto e aperta al centro verso il cielo – su cui convergono tutti gli ambienti abitativi con il tablinium, lo spazio più nobile della casa, posizionato in asse alla porta di ingresso sul lato opposto.
L’atrio tuscanico – il più rappresentativo ed antico fra quelli citati da Vitruvio nel De Architectura (VI, 3,1) insieme al corinzio, al tetrastilo, al testudinato – rivela la centralità di una corte interna con apertura nel tetto quale fonte di luce, di aria e di captazione – non meno importante per la vita degli abitanti – di acqua.
È istruttivo seguire da vicino la morfologia del tetto a compluvium, i suoi elementi costitutivi, lo stesso rapporto ingaggiato con l’acqua piovana per apprezzarne completamente il suo significato e valore.
La copertura dell’atrio tuscanico, a forma di tronco di cono rovesciato, scarica tutto il peso del pesante manto di tegole e coppi laterizi e dell’orditura lignea sull’apertura centrale del compluvium; qui, a svolgere un ruolo strutturale, sono poste due grosse travi maestre – squadrate, di buona qualità e ben stagionate, a volte ottenute con l’accoppiamento di due travi soprattutto negli atrii di maggiore ampiezza – disposte nella direzione della larghezza dell’atrio.


Grande tegola angolare (84×90 cm), con canale di gronda e decorazione terminale a protome leonina, rinvenuta nella casa di C. Iulius Polybius (I sec. d. C.) a Pompei. Da CIARALLO (1999).

Queste travi, “incamiciate” negli incastri murari mediante grosse tegole di laterizio al fine di proteggerle dall’umidità (Vitruvio VI, 3, 1), sono irrigidite perpendicolarmente da traverse centrali che consentono di definire il compluvio. Dai vertici di quest’ultimo sono impostate, in pendenza, le quattro travi angolari necessarie a definire la struttura geometrica a tronco di cono rovescio del tetto; a completare il sistema di carpenteria lignea è disposta una serie di travicelli perpendicolari al compluvio e, infine, un eventuale tavolato su cui predisporre gli elementi laterizi di tenuta all’acqua.
Il manto di copertura, comunemente, è costituito da manufatti in terracotta – di cui gli scavi delle città vesuviane ci hanno restituito una grande messe – che, in relazione alla forma, collocazione e funzione, si dividono in tegole piane (tegulae bipedales e sesquipedales), coppi ricurvi (imbrices) e tegole speciali (tegulae colliciares) destinate ad essere collocate in corrispondenza delle linee di intersezione delle falde; inoltre, a caratterizzare i quattro lati del compluvium di numerose domus di Pompei – sull’influenza della tradizione greca ed etrusca – sono impiegate terrecotte architettoniche sotto forma di cassette di gronda, doccioni, antefisse con motivi vegetali o zoomorfi a chiusura delle testate dei coppi affacciati sulla linea di stillicidio dell’acqua piovana.
Un bell’esempio di tale specializzazione produttiva è il tegolone angolare, ritrovato negli scavi della Casa di C. Iulius Polybius, con gocciolatoio a protome leonina, contrassegnato da ragguardevoli dimensioni (84×90 cm).
Ecco allora precisarsi il ruolo ambivalente delle falde e degli artefatti in laterizio dei tetti che non si limitano a proteggere i volumi e gli spazi dell’atrio dagli agenti atmosferici (dalla pioggia in particolare); a questa funzione, si somma quella – altrettanto importante per la vita dell’abitazione antica – svolta dalla copertura a compluvio quale dispositivo di captazione e di direzionamento dell’acqua piovana, dall’alto verso il basso, all’interno del bacino centrale di raccolta rappresentato dall’impluvium.


Domus dei Ceii (II sec. a. C.) a Pompei. Visione di scorcio dell’atrio tetrastilo, dettaglio del pavimento laterizio e planimetria dell’abitazione. (Ph. A. Acocella)

Alla figura in quota del compluvium, quale linea di stillicidio delle acque meteoriche, corrisponde a terra quella dell’impluvium, sua esatta specchiatura geometrica; entrambe derivano etimologicamente il loro nome da pluvia (pioggia).
Compluvio, quindi, come linea in quota da cui la pioggia rifluisce in cascata verso il basso; impluvio come bacino centrale, a terra, in cui l’acqua cade e si raccoglie per proseguire, poi, ulteriormente il suo percorso.
L’impluvio presenta generalmente due fori; il primo alimenta la cisterna interrata a quota più bassa, proporzionata alle esigenze della famiglia; il secondo allontana ed evacua l’acqua (sia quella sporca delle fasi iniziali di pioggia, sia quella in eccedenza rispetto alla capienza della cisterna stessa) attraverso un condotto interrato che scarica su strada. A regolare i ritmi di raccolta o di allontanamento dell’acqua troviamo, spesso, sfere di pietra (o altri dispositivi) per la chiusura degli orifizi.
Dalla cisterna l’acqua è attinta attraverso la bocca di un pozzo (puteus), aperto a volte alla stessa quota del piano pavimentale, altre volte dotato di una vera (puteal) in tufo, marmo, terracotta al pari di quanto documentato nelle case a corte di Marzabotto.


Casa del Tramezzo di legno a Ercolano Il compluvium, visioni dell’atrio, e dettaglio dell’impluvium. (Ph. A. Acocella)

Differentemente dai tetti in laterizio che non sono percepibili e visibili se non nel loro affiorare lungo la gronda del compluvium, negli atrii delle domus di Pompei ed Ercolano la presenza della terracotta riemerge e si “materializza” a volte con forte evidenza nei piani pavimentali.
Ciò avviene soprattutto nei severi spazi degli atrii delle domus di età repubblicana – basti citare i più nobili esempi di Ercolano e Pompei quali la Casa Sannitica, la Casa del Bicentenario, la Casa del Tramezzo di legno – dove la rossa materia laterizia delle stesure pavimentali in cocciopesto è capace di “far brillare” al centro – per contrasto cromatico – gli impluvium, spesso di marmo chiaro, inondati di luce dall’alto.
Caso particolare, quasi un unicum, è rappresentato dalla Casa dei Ceii a Pompei in cui un laterizio di recupero (cocci curvi di anfore) è impiegato in una originalissima tessitura pavimentale che dagli spazi di distribuzione dell’atrio di spinge fino a rivestire l’intero bacino dell’impluvium.




Casa del Tramezzo di legno a Ercolano Il compluvium, visioni dell’atrio, e dettaglio dell’impluvium. (Ph. A. Acocella)

Nella domus la realizzazione dell’impluvium è affidata a cocci, per lo più frammenti di anfore disposte a coltello in un’apparente scrittura pavimentale irregolare, definita “vermicolato di cotto” dalla letteratura archeologica. Nei rimanenti ambienti ritroviamo pavimenti in cocciopesto a motivi lineari con inserimenti di tessere di marmo.
La Casa dei Ceii ci mostra un atrio tetrastilo in cui il dispositivo delle quattro colonne, poste in ciascun angolo dell’impluvium, regge il tetto compluviato consentendo di ridurre la lunghezza e la sezione delle travi portanti; insieme all’atrio corinzio – a sei o più colonne – è testimone dell’evoluzione registrata dalla casa italica e romana arcaica (priva di colonne) verso quella che adotta il peristylos nella versione del cortile colonnato tipico dell’abitazione ellenistica.
In alcuni casi le teorie di colonne saranno erette negli atrii principali di ingresso, altre volte alimenteranno la realizzazione di spazi secondari o di veri e propri peristili posti ad includere vasti giardini come nella famosa Casa del Fauno o nella Casa di Pansa a Pompei.
La domus ad atrio nella versione arcaica – chiusa e serrata nella sua organicità di spazio che vede nei giorni d’estate lo scontro fra la forte luce zenitale penetrante dal compluvium e la fresca ombra proiettata dalle falde della copertura – evolverà lungo il II e I sec. a. C. ampliandosi “alle spalle”, verso l’area dell’orto che sarà trasformato in giardino porticato sviluppando il modello del peristilio con stanze o interi quartieri residenziali disposti al suo intorno.


Tubi di scarico in terracotta a Pompei. Da ADAM (1988).
Discendenti fittili per lo scarico delle acque dal tetto. Pompei.

Anche nei peristili i costruttori saranno sempre attenti nell’orientare le falde dei tetti, ricoperti di tegole laterizie, con pendenze rivolte verso l’interno del giardino. L’acqua, scaricata lungo tutto lo sviluppo della grondaia o attraverso doccioni e discendenti puntuali, è raccolta al suolo attraverso canalette per essere poi scaricata in cisterne, dopo essere stata filtrata in vaschette di decantazione così come si nota nel grande peristilio della Casa del Fauno.
Strettamente legati ai percorsi dell’acqua – sia in discesa dai tetti che nel sottosuolo – troviamo tutti quei manufatti laterizi dalla configurazione cilindrica cava impiegati estesamente nell’antichità per la realizzazione dei discendenti dei tetti, per l’evacuazione dell’acqua sporca indisponibile all’uso, per le condutture idriche di reti ed acquedotti.
Frequenti ed evidenti in Pompei i tubi di laterizio per lo smaltimento delle acque piovane, incassati nelle pareti al fine di evitare ogni sporgenza dal piano murario, al pari dei discendenti legati allo scarico delle acque sporche delle latrine dei piani superiori delle case. In questi sistemi di condutture la conformazione geometrica dei singoli elementi laterizi prevede, nelle estremità, una riduzione di sezione al fine di poter conseguire efficaci giunzioni maschio-femmina sigillate eventualmente con malta di calce, questo specialmente nelle condutture idriche interrate.
A fronte dei procedimenti di raccolta e gestione dell’acqua piovana – caratterizzati dall’incerto ed imprevedibile approvvigionamento legato al regime delle piogge e dalla relativa comodità d’uso dell’acqua da attingere nelle cisterne – i romani, con grande ingegno ed impegno costruttivo, si dotano progressivamente di acquedotti con acqua corrente distribuita a pressione in ogni punto delle città; acqua proveniente da sorgenti, copiose e permanenti, spesso intercettate a molte decine di chilometri di distanza dagli insediamenti da servire.


Tubuli fittili per reti idriche di età romana. Museo archeologico nazionale di Sarsina.

Se nella fase centrale dell’impero Roma arriverà ad essere servita da ben undici acquedotti, è con la costruzione dell’Aqua Marcia (144 a. C.) che, per la prima volta, un acquedotto viene sopraelevato nel suo percorso mediante arcate diventando tema architettonico e di paesaggio. Assicurato il controllo militare dei territori che circondano Roma l’acqua può scorrere liberamente sopra la linea di terra utilizzando ampie e solide arcate in pietra o in laterizio, con luci standardizzate dell’ordine dei cinque metri.
La stessa grande quantità di acqua disponibile in Roma caratterizzerà le città della la Campania (fra le più ricche e densamente popolate regioni della penisola) dove s’impone territorialmente l’acquedotto del Serino posto ad approvvigionare Napoli, Cuma, Nola e la stessa Pompei. In posizione terminale è realizzata una grandiosa cisterna con una capienza di ben 12.600 metri cubi di acqua: la famosa Piscina Mirabile di capo Miseno, l’attuale Bacoli. Qui Agrippa, all’interno dell’imponente programma augusteo di opere pubbliche, costruisce un grande porto militare destinato a diventare la principale base navale di Roma nel sud dell’Italia; compito della cisterna è di assicurare una enorme riserva di acqua potabile per le esigenze dei militari e delle navi in partenza.


La Piscina Mirabile a Capo Miseno, (l’attuale Bacoli). L’interno ipogeo con i grandi pilastri cruciformi in tufo rivestititi di cocciopesto. (Ph. A. Acocella)

La Piscina Mirabile ci offre una spettacolare scenografia di teorie di arcate e pilastrate riunificate in sequenze prospettiche multiple. Siamo di fronte ad un magnifico e spettacolare spazio – alto 11,40 m con dimensioni in pianta di 25,45×66 m – coperto mediante arcate e volte poggianti, nella parte centrale dell’edificio, su quarantotto pilastri cruciformi in muratura costruiti con conci di tufo; sulle pareti e sui pilastri cruciformi è applicato l’insostituibile intonaco impermeabile in cocciopesto, ancora oggi perfettamente conservato sotto i depositi calcarei lasciati dall’acqua nei secoli.
La discesa nel suggestivo spazio ipogeo è resa possibile da due lunghe scalinate addossate ai muri perimetrali longitudinali, che consentono le periodiche opere di pulizia e di manutenzione. Al centro della cisterna è organizzato un bacino di decantazione dell’acqua dotato di una grossa apertura per lo svuotamento.
In questo nuovo contesto storico di abbondante disponibilità di acqua corrente anche in Pompei – dotata sotto Augusto di un acquedotto urbano – l’antica funzione dell’impluvium, quale dispositivo di raccolta dell’acqua, va progressivamente a perdere il suo originario significato funzionale mantenendo unicamente quello decorativo di bacino marmoreo arricchito da fontane e giochi d’acqua.


La planimetria generale della cisterna.

Con gli acquedotti non scompare però la necessità di cisterne; la consuetudine di rivestirle con intonaci impermeabili di cocciopesto, risultato dell’impasto di calce con granuli e polvere di laterizio, permarrà ancora lungamente.

di Alfonso Acocella

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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.

Leggi anche
I laterizi cotti della Cisalpina
L’industria laterizia di Roma
Il primato della tegola
Tegole e tubuli per pareti areate

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31 Marzo 2014

Opere di Architettura

Tra modernità e tradizione.
Casa ad Anavissos

Il progetto è una recente realizzazione dello studio Whitebox Architects, un gruppo nato ad Atene nel 2002 e formato da Panos Kokkalidis e Aliki Triantafillidoy, a cui si è aggiunta nel 2006 Anna Drella.
L’edificio si trova a Lakka, vicino a Theplotis, una località che si affaccia sul golfo di Anavissos, sulla punta orientale dell’Attica, prima di arrivare a Capo Sunion, il promontorio roccioso su cui si erge il tempio di Nettuno.
Il progetto nasce della natura aspra e sassosa del terreno su cui è stato edificato sia per la disposizione sia per il materiale con cui è stato costruito. L’edificio ricorda in questo della vicina casa Papapanayotou, realizzata da Aris Konstatinidis all’inizio degli anni ’60, anch’essa realizzata con il materiale trovato sul luogo.

Come nel caso del progetto di Kostantinidis, anche questo edificio cerca una mediazione tra la tradizione e l’innovazione, la prima rappresentata dalla pietra mentre la seconda dal cemento armato. Mentre in casa Papapanayotou il cemento era impiegato unicamente nella grande copertura, in questo caso il telaio in c.a., liberato in parte dalle sua funzioni statiche, consente di portare ordine nella composizione dei prospetti caratterizzati da pareti irregolari realizzate in pietra secondo tecniche arcaiche. Il contrasto tra la scabrosità del materiale litico e la levigatezza del cemento viene ripetuto anche all’interno dove il dialogo si arricchisce anche di nuovi elementi come il legno.

Il progetto risponde alle richieste della committenza per la realizzazione di una casa per quattro persone, con la possibilità di avere degli ospiti ma consentendo loro una certa autonomia rispetto al corpo principale, soprattutto durante le ore del giorno. Il piano terra è su due livelli che consentono all’abitazione di seguire la leggera pendenza del terreno verso il mare. Su questo livello sono presenti l’ampio soggiorno, la cucina, l’office e un bagno di servizio. All’estremità nord occidentale è situato un patio interno utilizzato per il pranzo, mentre sul lato opposto è posto il padiglione degli ospiti, con un piccolo soggiorno ed un angolo cottura. Al piano superiore sono situate tutte le stanze da letto, compresa quella degli ospiti, che durante la notte si ricongiungono con il resto della famiglia.

La lettura del luogo non è stata cercata solo attraverso il materiale e l’impiego di volumi stereometrici, ma soprattutto seguendo l’orientamento di tutti gli edifici del territorio di Anavissos. La sua forma ad L infatti consente di proteggere in questo modo la corte principale dai forti venti che soffiano ad Anavissos per gran parte dell’anno, ma allo stesso tempo costituisce il collegamento tra l’ala degli ospiti e la residenza della famiglia. Allo stesso tempo il volume è disposto in modo tale da consentire la vista sul mare a tutte e quatto le stanze da letto e di formare degli spazi privati all’aperto tali da poter essere utilizzati tutto il periodo dell’anno. La protezione contro il vento e il sole nelle diverse stagioni è ottenuta oltre che con la forma ad L, anche con la diversa apertura della casa: verso sud infatti prevalgono i vuoti delle grandi vetrate verso il mare, mentre verso nord e nord-ovest prevalgono i pieni delle murature di pietra, spesso accompagnate da brise-soleil fissi in legno. Questi vengono chiamati “sachnisi” e sono un lontano ricordo delle abitazioni degli immigrati greci che nel 1922 dovettero lasciare l’Asia Minore e che lavoravano nelle saline dell’Attica.

Anche le generose murature di pietra proteggono l’interno della casa e il patio dal vento: queste sono realizzate con muri portanti spessi 70 centimetri in blocchi di pietra di Lakka, un calcare locale; a tecnica è quella tradizionale della regione, anche se la pezzatura risulta più uniforme e regolare. A livello del piano terra la muratura è lasciata a vista, mentre al primo piano è stata ricoperta da un intonaco in alcune campiture lasciate dal telaio in cemento armato che non solo sorreggono le pareti verticali ed i solai, ma che servono anche a disegnare le pareti che racchiudono lo spazio interno.

di Angelo Bertolazzi

SCHEDA TECNICA
Progettista/i:
Whitebox Architects
Localizzazione: Anavissos, Atene (Grecia)
Gruppo di progettazione: Panagiotis Kokkalidis, Aliki Triantafillidoy, Anna Drella
Pietra: Pietra di Lakka
Anno: 2013
Fotografie: © George Fakaros

Vai a
http://www.archdaily.com/366590/stone-house-in-anavissos-whitebox-architects/
http://www.homedoo.com/stone-house-in-anavissos-by-whitebox-architects/
http://whitebox.gr/
http://fakaros.com/

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28 Marzo 2014

News

Recuperare architetture di pietra
Mezzi e modi di intervento


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28 Marzo 2014

News

aroundmorandi – natura morta con pane e limone
A tavola con Giorgio Morandi tra cultura, arte del cibo e design


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aroundmorandi – natura morta con pane e limone
A tavola con Giorgio Morandi tra cultura, arte del cibo e design
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
27 > 30 marzo 2014

Casone, tra gli sponsor dell’iniziativa, offre il suo know how per la realizzazione di originali oggetti in pietra disegnati da wonderingstars, di ispirazione morandiana, da esibire durante la performance la voce del maestro – dialogo tra Massimo Bottura e Carlo Zucchini.
Durante l’evento il pubblico assaggerà un piatto ispirato al mondo di Morandi, creato dal pluripremiato chef Massimo Bottura.

27 marzo h 20:30 > 24:00
MAMbo – Sala delle Ciminiere

info@wonderingstars.it

Gli originali “aroundmorandi stones” saranno inoltre visibili, con altri oggetti inediti originali e oggetti ordinari di ispirazione morandiana, nei medesimi ambienti della Sala delle Ciminiere dal 27 al 30 marzo.

Per ulteriori informazioni
mambo-bologna.org
wonderingstars.it

Vai al sito Casone

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24 Marzo 2014

Opere di Architettura

Riqualificare innovando la tradizione.
Il progetto di recupero urbano dell’orto dei Minori Conventuali a Sora (FR)


Il sistema integrato muro–percorso–edificio come nuovo limite dell’ambito urbano

Il progetto di recupero dell’orto dell’ex Convento dei Minori a Sora, opera del gruppo MCM (Mario Morganti, Gianfranco Cautilli e Renato Morganti), intende riqualificare uno spazio urbano reinterpretando il significato di un luogo ed i mezzi della sua rivelazione: l’intervento restituisce alla città uno spazio pubblico, ricucendo il contesto urbano al paesaggio naturale, attraverso la rilettura di un materiale antico come la pietra, che si rigenera per mezzo del dettaglio costruttivo, rinnovandosi e rinnovando.
Collocato ai piedi del colle San Casto e Cassio, l’orto si concludeva con terrazzamenti delimitati da muri in pietra a secco, antefatto antropico dei numerosi sentieri che salgono verso la Rocca: un colle la cui morfologia ha condizionato il margine alto dell’edificato storico, almeno tanto quanto il fiume che scorre a poca distanza, di cui sembra voglia deviarne percorso. Le antiche case si snodano intorno alle sue pendici interrotte bruscamente dal taglio infertogli negli anni Trenta del Novecento per dare attuazione al Piano Regolatore, cui era immediatamente seguita la sistemazione dell’antico orto a spazio pubblico murato privo di qualsiasi connotazione architettonica. Alla fine degli anni Cinquanta interviene l’ultima significativa trasformazione: viene realizzato un cinema-teatro di ben 16700 mc che comporta un ulteriore taglio del fianco del colle, prossimo al precedente, necessario per consentire l’inserimento della torre scenica. Decisamente sovradimensionato, questo ingombrante oggetto rimarrà in uso per oltre venti anni per poi essere definitivamente chiuso, inglobando parzialmente l’antico muro a sostegno del primo terrazzamento a monte, rivestito in pietra locale apparecchiata a quinconce.
Il piano di recupero del centro storico elaborato e approvato nella seconda metà degli anni Novanta crea i presupposti favorevoli alla riqualificazione di questa sua porzione: “liberare il sito” voleva dire ripartire da uno “spazio vuoto” e farne altro, ma voleva anche dire “mettere a nudo” i danni inferti al colle dai processi di antropizzazione precedenti e, al tempo stesso, interiorizzarli ovvero metterli in evidenza solo “da dentro”. Il progetto propone un limite nuovo, in grado di ristabilire la connessione perduta: un segno netto, nitido ed equilibrato definisce un sistema integrato muro – percorso – edificio, capace di svolgere la funzione di mediazione tra città e colle, tra passato e presente, tra memoria e innovazione.
Un muro dalle linee spezzate con giaciture divergenti, tagli ed aggiunte, definisce il limite fisico intorno a cui si struttura il progetto. L’irregolarità del suo impianto pare trarre ispirazione da quella dei muretti a secco che si snodano sul colle delimitando sentieri e terrazzamenti, come pure dalla geometria di alcuni elementi architettonici della rocca posta sulla sommità: sul tratto più occidentale del percorso infatti, è possibile rileggere la forma stilizzata dei bastioni poligonali del castello sia in pianta che in elevato, dove gioca un ruolo centrale l’accentuazione del profilo a scarpa.
Nell’insieme, i setti murari formano un sistema complesso di superfici sovrapposte e sfalsate, rappresentando un elemento di cucitura e chiusura per lo spazio antistante, come fosse una quinta di fondo. Il minimalismo del segno architettonico esalta il portato tettonico dell’opera, reso evidente nella sua sostenibilità dall’uso di materiali locali: in particolare la pietra, evocata dai muretti dei sentieri e dei terrazzamenti e dalla nuda roccia del colle reciso, diviene materia del progetto, affidando al dettaglio costruttivo il compito di esaltare l’essenzialità del linguaggio figurativo. Il muro realizzato con setti in calcestruzzo armato, è interamente rivestito in spesse lastre di pietra locale, cavata a poche decine di chilometri dal cantiere e lavorata in città, disposte a quinconce e prive di malta sui giunti; una posta in orizzontale corona la parete con continuità rispetto alla linea verticale, così da far apparire il muro come una sequenza successiva di diversi monoliti.
La successione dei muri rivestiti in pietra costituisce un elemento di integrazione tra l’artificio e la natura, non solo formale ma anche funzionale, accogliendo i percorsi di risalita, che alternano gradinate a cordonate, assicurando l’ascesa al colle.


I connettivi integrati con le pareti verticali ma da essi distaccati

I percorsi, contenuti all’interno dello spesso sistema murato, presentano un distacco dai setti murari che li accolgono: i gradini hanno una larghezza più contenuta del percorso sicché è possibile leggerne la geometria. La pietra è la stessa utilizzata per il rivestimento dei muri, ma diversa per dimensioni, lavorazione e posa in opera in modo tale che, estesa anche allo spazio antistante, faccia percepire i percorsi come un naturale sviluppo della piazza verso il colle. Su questa, il sistema murato si raccorda al suolo con lo stesso dettaglio di impercettibile distacco che enfatizza la forza dell’elemento verticale, mentre le sedute, assecondando l’andamento planimetrico delle pareti, sono messe in evidenza dalle lunghe aiuole verdi retrostanti.
Il segno continuo del muro viene interrotto da tagli netti e decisi, segnalati da lastre in acciaio cor-Ten che lasciano intendere che, al di là il sistema murato, c’è dell’altro. Questi inserti annunciano la permeabilità del muro, un dentro, oltre che un fuori, che ne suggella la sua tridimensionalità: all’interno, il sistema integrato muro -percorso – edificio accoglie una sala polivalente confinata verso la parete rocciosa, ma da essa distaccata. Una luce zenitale filtra nell’intercapedine creata, illuminando la roccia ed esaltandone la stereotomia.
La sala presenta una geometria irregolare, che in relazione al colle si adegua alla giacitura ortogonale del taglio, ricordando, nella innaturale regolarità, la ulteriore e, forse, ancor più drastica, recisione della propaggine del colle.
La pietra rappresenta anche all’interno il materiale per eccellenza con cui definire il rapporto con il suolo: il pavimento in lastre delle stesse dimensioni di quelle esterne piega e asseconda l’andamento irregolare di una sorta di suolo artificiale che fa da basamento continuo ai cavalletti in acciaio a sostegno della copertura finita a verde e si fa rivestimento. Sul suolo artificiale la parete d’improvviso si smaterializza e diventa courtain wall, involucro trasparente aperto sulla ferita inferta al colle, le cui colmature altro non sono che i resti del muro di contenimento in calcestruzzo aderente la roccia con, in primo piano, il groviglio inestricabile delle armature.
La fluidità della sala polifunzionale viene apparentemente messa in crisi dalla presenza di due oggetti diversi, entrambi affidati all’acciaio cor-Ten. Il primo, solo in parte interno, oltrepassa la parete e interrompe la continuità del rivestimento in pietra del muro esterno; il secondo è tutto contenuto all’interno. Entrambi chiudono parzialmente la vista della grande vetrata e concorrono decisamente all’articolazione dello spazio affidando la loro coerenza alla complessità delle geometrie; la diversa disposizione rispetto al suolo è resa possibile dall’introduzione della tecnica della sospensione diretta chiamata in causa per sostenere il soppalco in aggetto dal muro di quinta, nascondendone la scala di accesso. Le coppie di tiranti rigidi diversamente inclinati accentuano la tensione dello spazio in verticale.
All’antico orto è stato conferito un limite nuovo, che allo stesso modo di quello esistente prima degli interventi del Novecento, separa avvicinando, distingue gli ambiti integrandoli l’uno con l’altro: un unico segno per definire le vicissitudini del più recente processo di antropizzazione; un unico materiale che fa dell’eccezione ferrigna un mezzo con cui confermare le potenzialità espressive della pietra. In tal modo il progetto recupera non solo uno spazio fisico ma anche temporale, evocando tradizioni locali nel tentativo di rigenerare innovando un materiale così antico e familiare per la città.


Il suolo artificiale della sala polivalente

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Di Laura Ciammitti

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20 Marzo 2014

News

Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino
Edizione 2014

Il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino è una campagna di studio e di cura rivolta a un luogo particolarmente denso di valori di natura, di memoria e di invenzione, promossa e organizzata ogni anno, dal 1990, dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche.
Nel 2014, anno della xxv edizione, la giuria ha designato un luogo nell’area geografica, storica e culturale della Bosnia Erzegovina, nei dintorni di Srebrenica, nel quale la bellezza della natura contrasta con i segni del trauma recente, e dove è in corso un esperimento agro-silvo-pastorale di piccole dimensioni e di alto significato.

PROGRAMMA

Martedì 25 marzo
La Triennale di Milano, saletta lab, ore 11

conferenza stampa internazionale di presentazione

Giovedì 8 maggio
Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche, ore 12

conferenza stampa di presentazione degli eventi in programma

Venerdì 9 maggio
Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche, ore 18

conferenza pubblica dedicata ai primi venticinque anni del Premio Carlo Scarpa e inaugurazione della mostra della xxv edizione

Sabato 10 maggio
Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche, ore 9.30-13.30

seminario sul luogo designato nel 2014
Treviso, Teatro Comunale, ore 17-19
cerimonia pubblica di consegna del Premio ai responsabili del luogo

La campagna di attenzioni del xxv Premio Carlo Scarpa proseguirà con altre iniziative pubbliche nel corso dell’anno, oltre che a Treviso, in Bosnia Erzegovina, a Bolzano, Trieste, Venezia, le cui date saranno comunicate al più presto.

La giuria del Premio:
Domenico Luciani, architetto, paesaggista, Venezia, presidente
Luigi Latini, Università Iuav di Venezia
Monique Mosser, Scuola superiore di architettura di Versailles, cnrs
Lionello Puppi, Università Ca’ Foscari di Venezia
José Tito Rojo, Università di Granada
Massimo Venturi Ferriolo, Politecnico di Milano;
membri onorari:
Carmen Añón, Università di Madrid
Thomas Wright, Università di Londra.
Coordinamento del Premio:
Domenico Luciani con Patrizia Boschiero.

Si prega di confermare la presenza a Evelina Bazzo, Umbrella, Public relation & Press office,
evelina.bazzo@umbrella.it, tel. 0422.305442.

Il premio è promosso e organizzato da
Fondazione Benetton Studi Ricerche
via Cornarotta 7-9, Treviso, tel. 0422.5121, fbsr@fbsr.it, www.fbsr.it

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17 Marzo 2014

Pietre Artificiali

Il primato della tegola*


27 Frammento di tegola romana con bollo laterizio di fabbricazione: “Faustino et/Rufino con(n)s(ulibus)” 210 d. C. Museo della città, Rimini.

28 Tipi di tegole e coppi romani. Da LUGLI (1957).

Il modello di origine di vari tipi di laterizi cotti romani – in particolare il caratteristico mattone quadrato di età imperiale – è da rintracciare nelle grandi tegole da tetto.6
Le tegole piane, insieme ai coppi (imbrices), rappresentano anche per i romani – al pari di altre civiltà mediterranee – i più antichi prodotti di argilla cotta usati nell’architettura. Da questi elementi, con notevole ingegno e creatività, gli ingegneri e i costruttori di Roma ne derivano la nuova idea di mattone e la stessa opera muraria composita dell’opus testaceum che renderà grandiosa e spettacolare l’architettura imperiale.
È da precisare come nel mondo romano il termine tegula (dal verbo tegere, indicante l’atto del ricoprire) sia impiegato per designare qualunque tipo di manufatto laterizio sottoposto alla cottura in fornace.
Lungamente presso i romani la tegula è stata ad indicare tanto la comune tegola da tetto quanto la lastra di laterizio cotto funzionale alle più varie esigenze costruttive; con i termini tegulae mammatae e tegulae tubulatae si indicano, ad esempio, tipi speciali di artefatti utilizzati rispettivamente per le intercapedini murarie dei sistemi di riscaldamento e per lo scolo delle acque piovane dei tetti.



Terme Stabiane di Pompei con interventi edilizi che vanno dal II sec. a. C. al I sec. d. C. Visioni dell’ipocausto e planimetria dell’impianto termale. (Ph. A. Acocella)

In un passaggio famoso del De Architectura di Vitruvio scritto in avvio del principato di Augusto – in un’era in cui l’opus testaceum ancora non si è affermato – si coglie l’uso estensivo e generalizzante del termine tegula (con l’unica aggiunta delle misure: bessales, sesquipedales, bipedalis) riferito, nel caso specifico della citazione vitruviana, ad elementi di laterizio cotto impiegati per la realizzazione di pavimentazioni sopraelevate nei calidari dei bagni:
«Suspensurae caldariorum ita sunt faciendae, ut primum sesquipedalibus tegulis solum sternatur inclinatum ad hypocausim, uti pila, cum mittatur, non possit intro resistere, sed sursus redeat ad praefurnium ipsa per se; ita flamma facilius pervagabitur sub suspensione: supraque laterculis bessalibus pilae struantur ita dispositae, uti bipedales, tegualae possint supra esse conlocatae. Altitudinem autem pilae habeant pedes duo; eaque struantur argilla cum capillo subacta, supraque conlocentur tegulae bipedales, quae sustineant pavimentaum. Concamarationes vero si ex structura factae fuerint, erunt utiliores, sin autem contignationes fuerint, figlinum opus subiciatur…».
«I pavimenti sospesi dei calidari debbono essere fatti in modo che in primo luogo il suolo sia rivestito di tegole di un piede e mezzo, inclinato verso il calorifero sotterraneo, cosicché una palla se vi è deposta non possa star ferma all’interno ma invece essa da se stessa scenda fino all’anteforno. Così la fiamma si diffonderà più facilmente nell’intercapedine. E al di sopra con mattoncini di due terzi di piede siano eretti pilastri disposti in modo che tegole di due piedi possano essere collocate al di sopra. I pilastri poi abbiano per altezza due piedi ed essi siano foggiati con argilla impastata con pelo, e al di sopra siano poste tegole di due piedi che sostengano il pavimento. Le volte certo se saranno fatte in muratura, saranno più utili, se invece saranno in travature, vi si ponga sotto un rivestimento di terracotta…».7


Sacellum a Paestum. Visione d’insieme, planimetria generale del recinto e vedute di dettaglio delle grandi tegole laterizie (75×110,05 cm). (Ph. A. Acocella)

Il termine tegula, quindi, in ambito romano è impiegato sia per indicare la tegola nell’accezione di elemento posto a protezione degli edifici dalla pioggia, sia per designare laterizi cotti destinati ad impieghi costruttivi speciali. Resta, comunque, centrale ed estensivo l’impiego di tegole per la formazione dei manti di tenuta all’acqua negli edifici romani sia d’età repubblicana che imperiale.
Presso i romani viene definito tectum qualsiasi soluzione costruttiva idonea alla chiusura superiore e alla protezione degli edifici sia civili che sacri; con tale termine si indicano tutte le coperture (piane, voltate, a falde inclinate) anche se, col tempo, questa denominazione diventerà sinonimo del classico tetto a spioventi coperto da elementi in laterizio.
Il tetto con struttura portante in legno e manto di tenuta in tegole laterizie è di gran lunga il più adottato nell’edilizia romana a fronte delle più complesse ed onerose coperture a volta che saranno impiegate prevalentemente nei piani inferiori; in ambito italico non presenterà una pendenza elevata a causa delle scarse precipitazioni, attestando fra i 18 e i 33 gradi le inclinazioni delle falde.


Sacellum a Paestum. Vedute di dettaglio delle grandi tegole laterizie (75×110,05 cm). (Ph. A. Acocella)

Nelle città della regione vesuviana – in particolare Pompei, Ercolano, Stabia – è stato possibile mettere in luce, con estrema precisione, le caratteristiche costruttive dei tetti. Jean-Pierre Adam fornisce, nel suo L’arte di costruire presso i romani, i dati salienti degli elementi e dei modi costruttivi dei tetti:
«La maggior parte dei tetti delle case di Pompei, a uno o due spioventi, conserva uno schema piuttosto semplice: gli elementi orizzontali, le travi di colmo (gli arcarecci, catenae) vanno da un muro maestro all’altro; su queste travi s’impostano i puntoni che risulteranno sporgenti dal muro (…) e sui quali verranno appoggiate le cantinelle (templa); su questa fitta orditura verranno disposte le tegole, o ancor meglio, secondo norme dettate da Vitruvio, prima di disporre le tegole si sovrapporrà un altro strato di travicelli, tenendo presente che ad ogni nuova sovrapposizione i travicelli vengono ruotati di 90° rispetto a quelli dello strato precedente. Carpenterie elementari di questo tipo erano quelle più frequentemente usate nelle abitazioni private, che non disponevano di ambienti molto grandi e le cui coperture potevano facilmente essere divise da tramezzi».8


Casa di Cosca Longus a Pompei. Le terrecotte e i gocciolatoi del compluvium. (Ph. A. Acocella)

I manti di copertura utilizzati dai romani – derivati indubbiamente da quelli greci ed etruschi, in particolare dal modello “siculo” – prevedono un unico tipo di apparecchiatura: le tegole piatte, dotate di alette laterali, vengono posizionate sull’ordito ligneo, in direzione longitudinale della falda, sovrapponendosi parzialmente nel senso della pendenza del tetto; i coppi di forma generalmente curva, sono posati a coprire le connessioni aperte fra tegola e tegola al fine di evitare passaggio di acqua e di infiltrazioni.
Per quanto riguarda la morfologia delle tegole romane è da evidenziare come la forma trapezoidale sia abbastanza generalizzata e di uso comune; meno frequenti le tegole rettangolari, rare quelle esagonali.
Molto variabili sono le loro dimensioni. Possiamo indicare, a titolo di esempio, le misurazioni di Jean-Pierre Adam in alcune città italiane: Roma (49×66; 39×46 cm); Ostia (48×72; 45×60; 41×57; 40,5×53 cm); Pompei (69×47,5; 52,5×66; 47,5×64; 50×59 cm); o ancora quelle di Giuseppe Lugli (effettuate sempre ad Ostia): 42×57; 44×57; 45×60; 46×59; 49×65, 47×66; 48×72 cm con spessori che variano da 2,8 a 4 cm e con bordi alti da 6 a 7 cm.
In assoluto le tegole più grandi rinvenute sul territorio italico appartengono al sacellum di Paestum: 75×110,5 cm.
Considerando il significativo spessore delle tegole (oscillante, in genere, fra i 2,5 e i 4,5 cm) s’intuisce il notevole peso esercitato da tali manti di copertura che comporta l’adozione di robusti orditi strutturali in legno.
L’intensa colorazione rosso-bruna dei manufatti da tetto è dovuta ad una prolungata e forte cottura al fine di rendere i prodotti in laterizio (porosi per loro natura) il meno assorbenti possibile nei confronti dell’acqua meteorica.


Tegola piana romana di ampie dimensioni. Da Pompei. (Ph. A. Acocella)

Per alcuni secoli, prima di impiegare mattoni espressamente prodotti per la formazione di cortine murarie, si “spezzano” le tegole da tetto per la costruzione di muri scegliendole fra quelle con spessore maggiore e più regolare. Al fine del loro utilizzo, eliminati i margini laterali sporgenti, si procede – poi – al taglio della lastra residua in due rettangoli nel senso della larghezza e, infine, a ridurla in quattro triangoli secondo le diagonali, queste ultime incise con la punta di una picozza.
«Poiché le tegole non hanno una misura costante – precisa Giuseppe Lugli – non si possono stabilire con precisione le misure dei triangoli, tanto più che la frattura avveniva quasi sempre in modo imperfetto. La misura più comune delle tegole è di cm 57×41, per cui i rettangoli risultano in media di circa 41×28,5 e i triangoli circa cm 32×28,5×20,5. Naturalmente queste sono le misure massime e molto approssimative; quelle reali si mantengono parecchio al di sotto e non seguono una norma costante, per cui non si può fissare nessun criterio di datazione.
Le differenze fra i mattoni e le tegole consistono nello spessore, nel colore e nell’impasto. Lo spessore delle tegole difficilmente supera i cm 3,5 e non è uniforme per tutta la lunghezza del frammento; il colore è rosso vivo, o rosso bruno, a causa di una forte cottura della creta per una migliore resistenza agli agenti atmosferici; l’impasto è assai compatto, con grana fine, poche scorie e quasi nessuna porosità. Al contrario, il mattone da paramento nell’età migliore, si mantiene fra i cm 3,5 e 4,5; ha un colore piuttosto giallo, a causa di una minore cottura; è più poroso e non di rado contiene granuli di sabbia. Questa sua maggiore porosità favorisce l’assorbimento della malta, creando con essa una coesione perfetta».9
Va evidenziato come le officine laterizie romane, sull’influenza della tradizione greca ed etrusca, producono elementi speciali per il completamento dei manti di copertura.


Tegola speciale per il passaggio dell’aria e dei fumi di cucina rinvenuta a Pompei. Da CIARALLO (1999).

Oltre agli embrici di colmo, con dimensioni maggiori e con lati longitudinali sagomati per accogliere e coprire i coppi di arrivo delle falde, si possono citare le varie tegole di forme speciali che permettono il passaggio dell’aria e della luce; si tratta delle cosiddette tegole con oculus – circolare o quadrangolare – e orli sporgenti per evitare le infiltrazioni d’acqua, alcune delle quali con “cappuccio” superiore protettivo.
In genere nelle cucine delle abitazioni romane, prive di veri e propri camini, sono istallate sulla superficie del tetto una o più tegole dotate di comignoli con funzione di piccole cappe, capaci di assicurare la fuoriuscita dei vapori di cottura, degli odori, dei fumi e consentire anche l’entrata di qualche raggio di luce. Integra e ben conservata è una tegola da cucina, datata I sec. d. C., proveniente da Pompei: rettangolare nella sua parte basamentale, lunga ben 65 cm ed alta 34 cm. L’artefatto in laterizio presenta un ampio foro circolare centrale con orli sporgenti sormontato da una “corona” conica, con aperture rastremate verso l’alto; un disco, con pomo centrale, sormonta il tutto impedendo in qualche modo il passaggio dell’acqua piovana.
Altri elementi speciali in terracotta prodotti dalle fornaci sono quelli per il completamento funzionale e la caratterizzazione ornamentale del tetto lungo la linea di gronda dove ogni fila di coppi, spesso, è conclusa da antefisse decorative. A Pompei è ampiamente documentato come la linea di gronda del compluvium riceverà una particolare attenzione mediante un ricco repertorio di antefisse (a decorazione vegetale o con figure mitologiche o protomi di animali molto “fantasiosi”), lastre di arresto e doccioni per il deflusso delle acque meteoriche.

di Alfonso Acocella

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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.

1 Questo paragrafo del saggio propone una rielaborazione e un ampliamento della sezione tematica “Tectum” contenuta in Alfonso Acocella, Il tetto. Elemento di architettura, Milano, Brianza Plastica, 2013, pp. 182.
2 Vitruvio, De Architectura (V, 10, 2).
La citazione è tratta dall’edizione del De Architectura curata da Pierre Gros per i tipi di Giulio Einaudi Editore, Torino, 1997, voll. II.
3 Jean Pierre Adam, “La carpenteria di copertura” p.224, in L’arte di costruire presso i romani, Milano, Longanesi, 1988 (1° 1984), pp. 367.
4 Giuseppe Lugli, “Tipi e forme di mattoni”, p. 545 in La tecnica edilizia romana, Roma, G. Bardi, Editore, 1957 (1998 ristampa anastatica), pp. 742.

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Tegole e tubuli per pareti areate

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14 Marzo 2014

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Stage di Stereotomia 2014


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