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19 Maggio 2014

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TRADIZIONE E INNOVAZIONE TECNOLOGICA
La filiera produttiva del travertino di Siena III parte


Scavo di un lavabo in travertino con una macchina a controllo numerico.

Lo scavo
Sotto la classificazione dello scavo si intendono descrivere tutte le azioni tese a scolpire, a modellare, a levigare la pietra con estese e consistenti riduzioni di spessore, in genere superiori ai 10 mm. Con lo scopo di pervenire ad una asportazione diffusa e profonda di strati di materia, tali operazioni sono frequentemente precedute da un taglio di sgrossatura e possono anche sfruttare l’azione di incisioni, più o meno sottili, ripetute e affiancate.
Attualmente lo scavo di pezzi caratterizzati da maggiore o minore sviluppo tridimensionale viene perlopiù operato da macchine a Controllo Numerico Computerizzato (CNC), la cui meccanica è guidata da software in grado di portare a termine una sequenza di lavorazioni programmate.
Le peculiarità di questi impianti sono la totale automazione, la notevole rapidità di esecuzione, la ripetibilità dei pezzi realizzati e la polifunzionalità che permette in genere di attuare, con una stessa macchina, diversi tipi di lavorazione. Per l’utilizzo di tali strumenti l’operatore, la cui formazione deve necessariamente sconfinare nel campo della programmazione informatica, deve predisporre una lista di azioni da svolgere, verificarne la fattibilità e l’esatta sequenza, per poi innescare l’avvio del processo produttivo.
Anche nella filiera produttiva del distretto lapideo di Rapolano Terme il passaggio dalle lavorazioni manuali o meccanizzate all’impiego dei macchinari a controllo numerico è avvenuto in modo graduale nel corso degli ultimi decenni, attraverso l’automazione progressiva applicata diffusamente a tutte le tipologie di macchine tradizionali e grazie all’introduzione contestuale di attrezzature di totale nuova concezione come i centri di lavoro pluriassiali. Un esempio emblematico di come le tecnologie CNC hanno modificato radicalmente l’operatività degli impianti tradizionali è rappresentato dalla storia evolutiva recente delle frese che, rispetto al passato, sono oggi connotate da fattori innovativi quali la possibilità di eseguire spostamenti velocissimi e di operare secondo assi multipli e controllati, a cui si aggiunge la totale programmabilità dei parametri e dei cicli di lavoro e la combinazione con altre funzioni non necessariamente di taglio.


Elementi torniti in travertino di Rapolano.

Tutti questi elementi hanno sensibilmente trasformato le frese in «macchine polifunzionali, capaci non solo di tagliare, ma anche di contornare, di sagomare, di tornire e, quindi, di avvicinarsi sempre più ai moderni centri di lavoro rispetto ai quali il confine è ormai abbastanza mal definito. Il controllo di più assi ha svincolato la macchina da quello che era un sostanziale movimento secondo una “rigida” terna di assi cartesiani […] e consente di operare tagli rettilinei, non-rettilinei, inclinati in qualsivoglia posizione […]; le lavorazioni in interpolazione consentono di ottenere con il disco diamantato pezzi di forma complessa […]. La programmabilità dei cicli di lavoro si esplica in forma a dir poco infinita; alcuni esempi sono: la possibilità di impostare svariate quote di taglio, differenti tra loro, con ripetibilità all’infinito; l’autoapprendimento elettronico dei fine-corsa di taglio ed il ritorno della testa porta-disco; l’esecuzione di tagli passanti od interrotti; l’esecuzione di profili laterali qualsiasi impostabili direttamente dalla tastiera PC […]. Il governo dei numerosi spostamenti è affidato alla meccanica di alta precisione delle guide prismatiche e delle guide a ricircolo di sfere, mosse da motori a velocità variabile; questo sistema praticamente azzera i giochi che possono presentarsi col tempo a causa dell’usura e, soprattutto, consente degli spostamenti ad elevata velocità con rampe di accelerazione e decelerazione molto brevi.
Tradotto in pratica, questo significa che il tempo di reale utilizzo della macchina è fortemente incrementato […]» 17.
È così che le frese, oltre ad essere impiegate per tagliare la pietra, sono utilizzate oggi, sempre più, come efficacissime macchine sgrossatrici e sagomatrici, per scavare e tornire pezzi massivi, grazie al montaggio degli usuali dischi o di mole di vari profili. Un ulteriore esempio di applicazione dei sistemi CNC ad attrezzature tradizionali è rappresentato dalle sagomatrici multiassiali a filo diamantato, particolarmente utili nella realizzazione di masselli e blocchi con forme tridimensionali articolate che si discostano da una geometria regolare.


Elementi torniti in travertino di Rapolano.

Le operazioni che si possono attuare con le macchine a CNC possono essere classificate in due tipologie fondamentali: lavorazioni di contorno per conferire ad elementi piani il perimetro desiderato e l’opportuna modellazione del profilo delle coste; lavorazioni di forma per eseguire sagomature, torniture, rastremature, raggiature e scolpiture di elementi massivi. Utilizzabili anche per le normali operazioni di taglio e incisione rettilinea di lastre e masselli, i centri di lavoro pluriassiali a controllo numerico esplicano al meglio le loro potenzialità in entrambe le tipologie di scavo, su elementi tendenzialmente piani e su pezzi pieni tridimensionali. Tali macchine, di concezione completamente innovativa, sono costituite da un basamento, da un piano di lavoro in genere inclinabile e delle dimensioni massime di 350×300 cm su cui viene fissato il pezzo (dello spessore massimo di 50 cm), da un elettromandrino, da un magazzino utensili capace di contenere fino a 40 teste utensili che la macchina può intercambiare automaticamente durante la
lavorazione senza l’intervento dell’operatore, da un quadro comandi per la programmazione e da un numero variabile di impianti idrici, oleodinamici e pneumatici per l’esecuzione dei movimenti.
La molteplicità di funzioni dei centri di lavoro CNC si esplica nella realizzazione di superfici curve (anche con raggi di concavità o convessità particolarmente ridotti), nella esecuzione di rilievi, sagome e profili, e nella foratura della pietra. Tutto ciò grazie alla straordinaria libertà di movimento della testa su più assi (da 2 a 5) e alla possibilità di montare numerosissime tipologie di utensili diamantati quali, mole da sbanco o da ribasso, mole piane o sagomate, frese, punte cilindriche e a profilo, foretti a corona.
Nel processo di metamorfosi della pietra per asportazioni profonde di materia si fanno rientrare anche le azioni tese a operare perforazioni e scavi puntuali o lineari, ottenibili ancora una volta con i centri di lavoro o con più tradizionali trapani o macchine kerfatrici o slottatrici 18, dotate di punte e dischi per la realizzazione di scanalature ed incavi. Per la copiatura e la riproduzione di pezzi a rilievo, più o meno spiccatamente tridimensionali, sono disponibili vari tipi di attrezzature integrabili con le diverse tipologie di macchine: si tratta dei più tradizionali copiatori con tastatore meccanico, dei pantografi o dei più avanzati sistemi di lettura e replicazione basati sull’utilizzo della scansione ottica o laser 19.
Tra le azioni di scavo e modellazione tridimensionale dei lavorati lapidei ha un particolare rilievo quella della tornitura di pezzi monolitici che presentano la conformazione volumetrica di solidi di rotazione. I torni necessari per tale tipo di lavorazione sono macchine costituite da un banco per l’alloggiamento del pezzo, da un motore che imprime la rotazione necessaria per la lavorazione e da un binario di scorrimento della testa utensile, dotata a sua volta di un ulteriore blocco motore.


Fasi di lavorazione di un camino in un laboratorio di Rapolano Terme.

Nei torni dedicati alla filiera produttiva dei lapidei si può arrivare a realizzare pezzi della lunghezza di circa 450 cm per un diametro di circa 110 cm, ma esperienze di lavorazione di pezzi più grandi (oltre i 5 m di lunghezza) sono state fatte con ottimi risultati utilizzando torni industriali meccanici. Per esemplificare un normale processo di tornitura del materiale lapideo si descrive di seguito l’esecuzione di una colonna in travertino monolitica con entasi, alta 4 m, con un diametro massimo di 50 cm, e del peso finale di circa 1,5 tonnellate. Il processo di produzione del pezzo è riassumibile nelle seguenti fasi:
– riquadratura del parallelepipedo di partenza con tagliatrici monolama o a filo;
– ulteriore processo di taglio con sega a disco per passare dal blocco parallelepipedo ad un prisma di base ottagonale in modo tale da asportare altro materiale accelerando così la successiva tornitura;
– posizionamento e fissaggio sulle teste del prisma di placche metalliche che recano il mozzo per l’alloggiamento del pezzo sul tornio;
– installazione del prisma sulla macchina e primo passaggio di sgrossatura della colonna. Il tornio in questa fase monta un disco diamantato che pratica tagli successivi e ravvicinati ogni 1,5 cm sul blocco; le lamelle che si vengono così a formare sono poi spezzate a percussione in modo da liberare il torsolo ancora grezzo da cui si ricaverà poi il fusto;
– ulteriori passaggi di tornitura non più con il disco ma con una mola che, seguendo con un tastatore meccanico una dima metallica del profilo della colonna finita, asporta strati sempre minori di materiale fino all’ottenimento del pezzo definitivo;
– levigatura superficiale. In questa fase il fusto continua a girare sul tornio mentre uno o più operatori passano manualmente abrasivi con grane sempre più fini sulla superficie litica;
– smontaggio e movimentazione della colonna;
– eventuale carotatura interna per l’inserimento di rinforzi metallici nel fusto. Tale lavorazione abitualmente eseguita con trapani verticali a pozzo per pezzi entro i 3 m di lunghezza, per elementi più lunghi può essere realizzata in orizzontale, grazie al montaggio di tubi a corona diamantata su normali frese a ponte con banco scorrevole.


Un artigiano rapolanese scolpisce una mensola decorata in travertino.

Accanto ai torni tradizionali, ancora largamente impiegati, l’applicazione dei sistemi a controllo numerico rende disponibili anche torni automatici che possono operare con programmazione originale o per copiatura da modelli, con tre assi di movimento e su pezzi delle dimensioni massime di 300 cm di lunghezza e 120 cm di diametro.
All’interno del comparto lapideo rapolanese sono diffusamente praticate anche lavorazioni artistico-artigianali finalizzate a scolpire manualmente elementi architettonici e decorativi quali colonne, lesene, mensole, balaustre, modanature e cornici dai profili complessi. La conservazione dell’antico magistero di lavoro degli scalpellini porta alla realizzazione di pezzi in travertino a rilievo o a tutto tondo, dalle più comuni lavorazioni di bordo alle più sofisticate modellazioni di decorazioni architettoniche o figurate, con motivi geometrici o fitomorfi di grande raffinatezza.
Oggi tali attività vengono effettuate ancora con strumenti totalmente manuali o con l’ausilio di piccoli utensili elettrici portatili dotati di dischi taglienti o abrasivi, o di teste fresanti di diversa morfologia che ruotando ad alta velocità possono praticare incisioni rettilinee o curve, o vere e proprie asportazioni di materiale più o meno profonde.
Il processo produttivo dei pezzi scolpiti e finiti manualmente inizia negli uffici tecnici delle aziende, dove lavorano disegnatori specializzati in ornato che si occupano di sviluppare e tradurre schizzi e disegni di partiti architettonici e decorazioni in elaborati grafici esecutivi, dotati di quote dimensionali e schemi di connessione dei pezzi, e spesso corredati da dettagli al vero e modani per la realizzazione di rilievi particolarmente complessi o dei profili delle cornici. Il progetto esecutivo e le distinte dei pezzi da realizzare passano poi al laboratorio, dove gli scalpellini ricalcano i disegni dei rilievi sui semilavorati in travertino precedentemente tagliati a misura e iniziano le operazioni di modellazione con scalpelli, subbie e frese per giungere, infine, alle operazioni di finitura realizzate con lime, gradine, bocciarde, o utensili leviganti e spazzole.


Un artigiano rapolanese scolpisce una mensola decorata in travertino.

Nell’ultimo decennio numerose applicazioni meccaniche ed elettroniche sono state finalizzate alla realizzazione di impianti capaci di riprodurre, secondo gradi diversi di automazione, l’antico magistero artistico-artigianale dello scolpire manualmente elementi litici. Tali attrezzature si suddividono in varie tipologie. Le macchine più rudimentali sono le cosiddette scolpitrici automatiche elettro-idrauliche non assistite da software; esse consentono di posizionare in genere verticalmente i pezzi a tutto tondo da riprodurre, hanno un “tastatore” che passa sul profilo del modello da copiare e riproducono il pezzo in due fasi: una prima operazione di sgrossatura avviene con l’applicazione di teste utensili a disco; una seconda fase di finitura è realizzata grazie al montaggio di mole di varia morfologia. Il diametro massimo lavorabile è di 120 cm e l’altezza massima del pezzo è di 200 cm. Molto più avanzate sono le scolpitrici automatiche CNC fino a 8 teste di lavoro, con pezzi posizionati in genere in orizzontale, capaci di realizzare bassorilievi delle dimensioni massime indicative di 180×120×40 cm, e sculture e pezzi costruttivi a tutto tondo di 150 cm di lunghezza e 50 cm di diametro massimo.
In questo settore, sulle frontiere dell’innovazione più d’avanguardia, si collocano le macchine che hanno la denominazione commerciale di Robostone. Si tratta di veri e propri centri di lavoro a controllo numerico a 6 assi, dotati di un braccio snodabile robotizzato, guidato da software CAD/CAM per riprodurre in pietra un qualsiasi modello tridimensionale attraverso scanner laser integrati all’interno dell’impianto. Potendo montare svariate tipologie di teste utensili intercambiabili tali attrezzature, con un solo piazzamento del pezzo grezzo, possono realizzare fresature tridimensionali, sbancature su masselli, bassorilievi, pezzi sagomati e a tutto tondo. Il campo utile di lavoro dei bracci può raggiungere i 300 cm di altezza e i 600 cm di diametro.


Colonna di sinistra: travertino di Rapolano con finitura stuccata e levigata, bocciardata, sabbiata, spuntata.
Colonna di destra: travertino di Rapolano con finitura spazzolata, levigata e rigata, rigata e spazzolata, rigata e sabbiata.

Se le Robostone costituiscono uno dei più affascinanti scenari di sviluppo futuribile del settore lapideo, allo stato attuale esse presentano ancora criticità operative relative alla ripetibilità e alla precisione delle lavorazioni, tali da pregiudicarne l’impiego diffuso in quello che dovrebbe essere il loro campo applicativo d’elezione, cioè la replicazione su larga scala di pezzi più o meno spiccatamente tridimensionali. I fenomeni di flessione della struttura a braccio, separata in più tronchi semoventi con giunture, producono margini di errore dimensionale ancora alti, rendendo sconsigliabili tali impianti allorquando si devono realizzare pezzi seriali caratterizzati, ad esempio, da tolleranze di accoppiamento molto basse. Tali problematiche operative specifiche vanno inoltre considerate nel contesto in un giudizio più generale, che riguarda i valori intrinseci della cultura tecnica, artigianale ed artistica: se, infatti, scolpitrici e Robostone, grazie ad ulteriori perfezionamenti, potranno rappresentare in futuro nella sgrossatura un’alternativa privilegiata al lavoro manuale per la riproduzione di pezzi seriali tridimensionali, non riusciranno mai a sostituire il magistero inimitabile di uno scultore nel “dar vita” al modellato originale di un rilievo o di un’opera litica a tutto tondo.

di Davide Turrini

Il presente saggio è tratto dal volume Travertino di Siena a cura di Alfonso Acocella e Davide Turrini

Leggi anche
Tradizione e innovazione I parte
Tradizione e innovazione II parte

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15 Maggio 2014

News

La Idea Construida incontra il sole

Conferenza di Alberto Campo Baeza
Tempio di San Sebastiano
giovedì 15 maggio, ore 18.00

Il padiglione La Idea Construida, progettato nel 2009 da Alberto Campo Baeza per Pibamarmi, ha preso corpo a partire dalla valorizzazione del legame pietra-luce attraverso un apporto luminoso dinamico e mutevole. L’interno della struttura si è offerto al visitatore come uno spazio introverso, immerso nella penombra; una camera litica vuota destinata alla sosta e alla meditazione, foderata di marmo di Carrara e segnata dal passaggio lento di fasci luminosi sulla superficie naturale della pietra.

La struttura, pensata in origine come spazio espositivo indoor, è parzialmente ricostruita nell’ambito dell’iniziativa Mantova Architettura (9-25 maggio 2014), tra la Casa del Mantegna e il San Sebastiano, in un dialogo diretto con la Storia e con la luce del sole.

Nello stesso contesto di eventi dedicati all’architettura, Alberto Campo Baeza terrà una conferenza, giovedì 15 maggio, alle ore 18.00, nel Tempio di San Sebastiano.

Vai a Pibamarmi

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12 Maggio 2014

Opere di Architettura

PIETRA LIQUIDA. Il museo medievale di Waterford


ph. Philip Lauterbach

A Waterford, nell’Irlanda sud orientale, è stato realizzato il nuovo Museo d’Arte Medievale. L’edificio, inaugurato nel 2013, ospita la collezione d’arte medievale della città, costituita da importanti manufatti del XI, XII e XIII secolo.
Il nuovo museo tuttavia non è solo un contenitore, ma diventa uno strumento per esporre parte della storia della città durante il Medio Evo. Esso infatti è situato nel cuore dell’antica cittadina conosciuto anche come The Viking Triangle, e incorpora al suo interno l’edificio medievale della Choristers’ Hall, un antico manufatto che si addossava alle mura cittadine e che ora si trova sotto il livello del suolo nel nuovo museo. Il progetto si sviluppa su quattro livelli: quello interrato dove è visibile la Choristers’ Hall, ospita anche uno spazio polifunzionale, mentre al piano terra e al primo piano sono accolti gli spazi espositivi per i manufatti; le sale audiovisive e i servizi del museo sono ospitati al secondo ed ultimo piano.
Lo scopo del progetto è stato dunque duplice: al suo interno quello di valorizzare i resti della Choristers’ Hall e le raccolte cittadine, ma all’esterno l’edificio svolge un importante ruolo urbano. L’area di intervento infatti si colloca tra due piazze ed è caratterizzata dalla presenza dell’abside della cattedrale Neoclassica. Poiché il luogo è caratterizzato da edifici di diverse epoche, che vanno dal XVIII al XX secolo, e quindi da diverse geometrie, risultava molto difficile pensare un edificio mimetico o che cercasse in qualche modo di ricucire un tessuto così vario. I progettisti del Waterford City Council Architects hanno cercato di uscire da questa complessità realizzando un momento di rottura formale con il contesto ma riproponendosi allo stesso tempo di raccordare le differenti parti della città attraverso la nuova geometria.


ph. Philip Lauterbach

Il risultato di questa proposta è una facciata curva e cieca, la cui unica apertura è il taglio orizzontale dell’ingresso. La nuova geometria, risolve allo stesso tempo due situazioni: da un lato avvolge l’abside spigolosa della cattedrale, creandone il contrappunto, dall’altro consente il collegamento visivo tra le due piazze laterali. La scelta di un linguaggio fortemente diverso dal contesto è un modo per segnalare la presenza del museo in diversi modi, ma – coerentemente – sempre attraverso il contrasto: l’assenza di aperture della nuova facciata è in antitesi voluta con le molte finestre degli edifici sette e ottocenteschi ma richiama, senza citarli, l’orizzontalità delle aperture di quelli del Novecento.
Allo stesso modo l’utilizzo della pietra di Dundry, dal caratteristico colore dorato, è una decisa interruzione della geometria rigorosa delle facciate circostanti che pure sono realizzate con lo stesso materiale. La facciata svolge dunque questo ruolo urbano presentandosi come un elemento formalmente e costruttivamente autonomo dal resto dell’edificio: se al piano terra, dove è situato l’ingresso, la pietra è il rivestimento della muratura retrostante, man mano che la facciata sale, essa diventa un elemento autonomo, uno schermo rivestito in lastre tutte diverse tra loro che la fa diventare una grande scultura architettonica, come testimoniano i bassorilievi che caratterizzano i due prospetti laterali: l’uno con il nome del museo scolpito e l’altro che supporta l’immagine della Waterford Lady, realizzata dallo scultore Stephen Burke seguendo le linee di un reperto del XIII secolo rinvenuto nel luogo durante gli scavi.
Il progetto del Museo, oltre che un importante fatto urbano, ha costituito anche un interessante lavoro interdisciplinare, che ha visto lavorare insieme, oltre ai progettisti del Waterford City Council, gli ingegneri strutturisti di ARUP, artisti, storici, archeologi e, non da ultimo, la direzione del museo stesso.


ph. Philip Lauterbach

[photogallery]waterford_album[/photogallery]

di Angelo Bertolazzi

Scheda tecnica
Progettista/i: Waterford City Council Architects
Localizzazione: Waterford (Irlanda)
Gruppo di progettazione: Waterford City Council Architects – Rupert Maddock, Bartosz Rojowski, Agnieszka Rojowska. Currently Bartosz & Agnieszka form, ROJO-Studio
Pietra: Dundry Stone
Anno: 2013
Fotografie: Philip Lauterbach
Link: http://www.archdaily.com/487908/medieval-museum-in-waterford-rojo-studio-architects/
http://www.100objects.ie/portfolio_category/medieval-museum-waterford/
http://www.waterfordcity.ie/departments/corporate/architects.htm
http://www.rojo-studio.com/
http://3.plpix.com/

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8 Maggio 2014

Distretti lapidei

TERRITORI DI PIETRA
Apricena_Lesina_Poggioimperiale

workshop internazionale di progettazione
08-12 aprile 2014

Apricena, Lesina e Poggio Imperiale, i “territori di pietra” in cui si è tenuta l’edizione 2014 del workshop di progettazione. Cinquanta studenti provenienti dalle università aderenti alla Stone Academy, l’associazione impegnata nella formazione e la ricerca sull’architettura di pietra. Cinque giornate diversificate da visite guidate, conversazioni e lavoro sulle proposte da presentare.
Il programma del workshop, considerato il comparto lapideo nel quale ci troviamo, ha abbracciato tutte le tematiche possibili in questo territorio: dal paesaggio dell’area estrattiva (con la sistemazione ed il recupero di aree con cave dismesse), alla realizzazione di architetture per strutture di servizio (con la possibilità di interagire con il suolo di coltivazione delle cave), fino alla riutilizzazione dei materiali di scarto (investendo le intelligenze creative alla scala del design).

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In mostra quattro esposizioni, per meglio comprendere l’essenza del rapporto materia-contesto, che vanno dall’architettura (a cura di Domenico Potenza – La pietra armata) con le fasi del cantiere della chiesa di San Pio e i suoi disegni di progetto restituendo un quadro completo sull’opera visitata anche in occasione del viaggio degli studenti, alla fotografia (a cura di Sergio Camplone – Mainland, Paesaggi di cava) con alcune immagini sui territori delle cave, dal design (a cura di Opuntia Lab – Il giardino di Opuntia) con il riutilizzo degli scarti, all’arte (a cura di Gigliola Fania – Parco delle sculture) con il Parco a cielo aperto lungo le rive della Laguna di Lesina.
Nella prima giornata, gli ospiti sono stati accolti a Pescara, presso l’Università “G. d’Annunzio”, per ricevere i saluti dei direttori dei Dipartimenti di Ingeo e di Architettura di Pescara, della Stone Academy, di Marmomacc, dei responsabili scientifici del workshop e dei docenti delle università partecipanti.

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Inaugurato l’inizio dell’evento, e dopo il trasferimento al comparto lapideo di Apricena, Lesina e Poggio Imperiale, nella seconda giornata si è percorso l’itinerario che della pietra, in cui si è potuto osservare il materiale lapideo nel suo ciclo di lavorazione e di utilizzazione, dall’estrazione alla trasformazione. I grandi fronti di cava, i tracciati di terra battuta e polvere, i mezzi pesanti, i blocchi e gli uomini che li lavorano, tutto questo fino alla chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo, progettata da Renzo Piano, hanno mostrato come la potenza della pietra continui a scrivere anche la storia dei nostri giorni, quella contemporanea.
Nella seconda parte della giornata, dopo i rappresentanti delle istituzioni che hanno espresso le loro felicitazioni nel poter ospitare docenti e studenti di tutta Italia, Alessandro Reina, del Politecnico di Bari è intervenuto per illustrare i progetti in atto proprio su questo territorio, il P.R.A.E. in Puglia, evidenziando possibilità di recupero dopo l’abbandono.
A seguito Vincenzo Bagnato, dallo stesso polo universitario, ha illustrato il programma RECYCLE, mostrando come il progetto delle cave possa agire tramite strategie di riduzione del rifiuto e riduzione dello scarto.
Sui dati tecnici e sulle famiglie di appartenenza della pietra cavata in questo bacino marmifero, Nicola Sciarra ha tenuto una lezione intitolata “Pietre ornamentali” precedendo Francesco Girasante che si è espresso sugli errori frequenti della progettazione in pietra.

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Qualcuno afferma che le informazioni recepite dai materiali e dalle cartografie non comunicano ciò che poi si scopre quando si giunge sul luogo, che ha un potere molto più incisivo.
Gli studenti, quindi, dopo essere stati influenzati dalle immagini, ma anche dalle interferenze positive e dai percorsi di ricerca di Giuseppe Fallacara e Fernando Baldassarre, in gruppi diversi hanno lavorato presso la casa Matteo Salvatore ad Apricena, partendo da quelle suggestioni, guidati da docenti e tutor, alla ricerca di strategie che alle diverse scale hanno prodotto visioni possibili per lo sviluppo futuro di questi territori.

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Riassumendo le riflessioni prodotte in questi giorni, per ogni università sono stati individuati alcuni temi e possibili parole chiave, quali:

– “abitare la cava”_ (Università di Ferrara)
– “paesaggio come materia di progetto”_(Università “G. d’Annunzio” di Pescara)
– “la misura come progetto di trasformazione”_(Università degli Studi della Basilicata)
– “la trama e i ritmi del paesaggio”_(Università degli Studi di Roma “La Sapienza”)
– “l’architettura come luogo dell’incontro tra l’uomo e la natura”_(Università Europea del Design)
– “materia e identità dei luoghi”_(Politecnico di Milano).

Sugli stessi temi, i due cittadini onorari di Apricena Vincenzo Pavan e Carlo Pozzi, hanno tenuto due lecture distinte sui temi dei “Paesaggi di Pietra” (Vincenzo Pavan) e “Idee di pietra” (Carlo Pozzi ) in qualità di esperti studiosi della materia cavata in questo comparto lapideo, protagonista del workshop.

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Il workshop è stato accompagnato da un percorso enogastronomico tematico che alla fine di ogni giornata ha permesso di arricchire la conoscenza del territorio anche attraverso i prodotti che questa terra offre, saperi e sapori: “La pietra e l’ulivo”, “La pietra e i pascoli”, “La pietra e la vite”, “La pietra e il grano”.
L’appuntamento si rinnova per il prossimo settembre quando, in occasione della Mostra Internazionale di Pietre Design e Tecnologie – Marmomacc 2014 a Verona, gli studenti esporranno le proprie riflessioni, che a partire dalle considerazioni fatte durante il workshop saranno elaborate nelle proprie sedi universitarie nei mesi che li separano fino alla Fiera di Verona.
Lavorare su questi “Territori di pietra” significa innanzi tutto riconoscere la forza di un paesaggio “altro”, un paesaggio inteso non solo come morfologia alterata del territorio, ma come occasione di una sua possibile trasformazione a partire proprio dalla natura del materiale e della sua forza espressiva.

di Nicola Violano

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29 Aprile 2014

Pietre Artificiali

Tegole e tubuli per pareti areate*


Terme Stabiane a Pompei. In evidenza le tegulae mammatae. (ph. A. Acocella)

Impiego innovativo dei laterizi cotti ne fanno ben presto i romani per creare pareti cave areate sia ai fini di eliminare l’umidità da pavimenti e pareti, sia per realizzare sistemi di riscaldamento delle abitazioni signorili e, soprattutto, degli edifici termali. Per queste applicazioni particolari le fornaci laterizie romane di fine repubblica e, poi, d’età imperiale mettono a disposizione dei costruttori manufatti speciali quali possono essere considerati le tegulae mammatae o i cosiddetti tubuli fittili cavi.
Al fine di eliminare l’umidità dalle pareti soggette ad infiltrazioni d’acqua (che avrebbe pregiudicato sia la fruibilità degli spazi sia la conservazione delle finiture decorative) sin dalla tarda repubblica si impiegano elementi lastriformi dotati di sporgenze (in forma di protuberanze simili a delle mammelle, da cui deriva il nome di mammatae) in corrispondenza o in prossimità degli angoli; tali elementi, collocati verticalmente di costa l’uno sull’altro in posizione avanzata rispetto alle pareti murarie da bonificare, consentono di creare una intercapedine cava (in genere di 4-5 cm) fra il muro portante e le superfici di intradosso delle tegulae mammatae.


Tipi di tegulae mammatae per la formazione di pareti areate. Da LUGLI (1957).

Bocche d’aria, adeguatamente predisposte in basso e nella parte alta della parete cava, assicurano l’attivazione di movimenti d’aria e, conseguentemente, l’eliminazione (o quantomeno la riduzione) dell’umidità delle pareti esposte a settentrione o di quelle contro terra. La particolare soluzione costruttiva a camera d’aria impedendo, in ogni caso, all’umidità di raggiungere la parete più interna formata dalle tegole mammatae consente a quest’ultima di ricevere intonaci e decorazioni senza pericolo di un loro deterioramento.
Vitruvio, nel capitolo del De Architectura dedicato all’isolamento dei rivestimenti parietali in ambienti umidi, svolge un’accurata e precisa trattazione del procedimento costruttivo:
«Sin autem locus non patietur structuram fieri, canales fiant et nares exeant ad locum patentem. Deinde tegulae bipedales exuna parte supra marginem canalis inponantur, ex altera parte bessalibus laterculi pilae substruantur, in quibus duarum tegurlarum anguli sedere possint, et ita a pariete eae distent ut ne plus pateant palmum. Deinde insuper erectae hamatae tegulae ab imo ad summum ad parietem figantur, quarum interiores partes curiosius picentur ab se respuant liquorem. Item in imo et in summo supra cameram habeant spiramenta».


Terme del Foro (I sec. a. C.) a Pompei. Visioni dello spazio del calidarium coperto a volta e dettagli della parete ventilata ottenuta a mezzo di tegulae mammatae. (ph. A. Acocella)

«Ma se lo spazio non consentirà la realizzazione di un secondo muro, si costruiranno canali con gli sbocchi all’aria aperta. Quindi da un lato verranno collocate sull’orlo del canale tegole di due piedi, dall’altro lato verrà costruita una base di pilastri fatti con mattoni di otto pollici, sui quali possano poggiare gli angoli di due tegole, e queste siano ad una distanza di non più di un palmo dal muro. Poi al di sopra verranno poste verticalmente tegole uncinate fissate al muro dal fondo alla cima, le cui parti interne saranno spalmate di pece con molta cura, in modo da respingere l’umidità. Dovranno inoltre essere dotate di aperture in basso e in alto al di sopra della volta».1


Terme con Heliocaminus di Villa Adriana (118-138 d. C.) a Tivoli. Visione della cupola emisferica e planimetria dell’impianto termale. (ph. A. Acocella)

Ambienti con pareti ad intercapedine che impiegano tegulae mammatae a fini di difesa nei confronti dell’umidità, sono attestati nella casa del Fauno a Pompei (dove una stanza fra l’atrio e il peristilio è tutta ”placcata” con tegole marginate – utilizzando il risvolto laterale delle stesse per effettuare il distacco), nella Casa di Livia e nella Domus di Tiberio sul Palatino, in varie case di Ostia.
A Sirmione nelle Grotte di Catullo sono, invece, stati rinvenuti mattoni di grandi dimensioni – nella tradizione della regione Cisalpina – ridotti nel loro spessore preoccupandosi di lasciare delle sporgenze in prossimità degli angoli e nel mezzo, adeguate ad effettuare il distacco rispetto alle pareti umide da bonificare.
L’evoluzione del sistema di riscaldamento degli ambienti nell’architettura romana produce – a partire dal I sec. a. C. – una specializzazione morfologica degli elementi in laterizio finalizzati alla realizzazione di pareti cave per il passaggio di aria calda.


Spaccato costruttivo e sezione della cupola emisferica delle Terme con Heliocaminus di Villa Adriana (118-138 d. C.) a Tivoli. Da GIULIANI (1990).

Se lungo tutta la fase arcaica e repubblicana le abitazioni romane sono solo parzialmente riscaldate nei periodi invernali attraverso focolari e bracieri trasportabili alla bisogna nei vari ambienti, a partire dalla tarda fase repubblicana si registra l’innovazione del riscaldamento alimentato da grandi focolari predisposti allo scopo.
La nuova soluzione è quella degli ipocausti – ovvero del riscaldamento effettuato “dal di sotto” dei pavimenti – a cui si collegano ben presto, in prosecuzione verticale, pareti ad intercapedine che evolvono, in qualche modo, l’esperienza accumulata nella costruzione di pareti in tegulae mammatae contro l’umidità.
Il sistema di riscaldamento è alimentato da un focolare (praefurnium) – sistemato in ambiente a quota più bassa, se non addirittura nel sottosuolo – in cui è possibile stoccare una notevole quantità di combustibile di origine legnosa.
Il calore prodotto dal fuoco è trasmesso direttamente – o, più frequentemente, in modo indiretto attraverso pareti che impediscono il passaggio dei fumi e dei gas tossici – negli spazi vuoti ricavati sotto i pavimenti (in genere alti fra i 40 e i 75 cm) e da questi, poi, lungo i cavedi delle pareti ottenute grazie all’impiego di tegulae mammatae e, successivamente, di tubuli laterizi cavi.


Tubuli fittili per la realizzazione di pareti areate. Da LUGLI (1957).

Il procedimento realizzativo degli ipocausti è ampiamente noto per le numerosissime attestazioni dei siti archeologici. Sul piano di fondazione è collocato un primo strato di tegulae bipedalis (ovvero mattoni quadrati delle dimensioni di circa 60×60 cm); nei punti di incrocio di tali elementi si innalzano tanti pilastrini di mattoni quadrati per un altezza compresa fra i 40 e i 75 cm; sulla teoria di pilastrini è posizionato un nuovo strato di bipedali che va a formare il piano di appoggio per un getto di cocciopesto, malta e la realizzazione dell’ultimo strato di rifinitura (in genere mosaico o lastricato di marmo).
L’altezza complessiva dell’ipocausto (spazio cavo più la stratificazione pavimentale) si attesta, comunemente, fra 80-90 cm.
In alcuni casi i pilastrini sono realizzati mediante l’impiego di laterizi circolari (la curva degli elementi, molto probabilmente, è ritenuta più idonea alla diffusione dell’aria calda) conclusi superiormente da 2-3 piccoli mattoni quadrati maggiormente funzionali al posizionamento dei bipedali superiori; è il caso delle attestazioni archeologiche di Veleia (Cagnano Varano, Foggia), S. Biagio (Messina). In siti di area campana (bagno della casa del Fauno, casa di Fabio Rufo, terme di Baia) sono documentati anche pilastrini in forma di colonnine cave, d’un solo pezzo di terracotta, con le estremità espanse al fine di avere una maggiore superficie di appoggio.


Terme del Foro a Ostia (II sec. d. C.). Visioni del calidarium con pareti cave per il riscaldamento realizzate con tubuli fittili e planimetria generale dell’impianto termale. (ph. A. Acocella)

Oltre al riscaldamento del piano pavimentale – soprattutto negli edifici termali – l’aria calda in movimento è convogliata, ascensionalmente, all’interno di pareti cave – proseguendo, in casi particolari, anche nello spessore delle superfici voltate.
Si tratta di intercapedini, dell’ordine di pochi centimetri, comprese fra il muro portante e una parete sottile laterizia in forma di schermo avanzato autoportante; in genere tale diaframma cavo è dotato, in alto, di bocche d’aria per il tiraggio dell’aria e l’espulsione dei fumi.
Per la realizzazione di queste pareti areate le fornaci romane immettono sul mercato tipi speciali di laterizi lastriformi a configurazione quadrata o rettangolare muniti, su una faccia, di quattro (o cinque) protuberanze; le più comuni e ricorrenti sono assimilabili a delle “mammelle”, da cui il nome di tegulae mammatae. Tali elementi sono istallati in verticale, ricorrendo a lunghi chiodi o graffe metalliche per l’ancoraggio ai muri portanti retrostanti.
Numerose tegulae mammatae sono state rinvenute negli scavi di bagni privati e pubblici. La forma più diffusa è quella con quattro sporgenze a tronco di cono disposte in prossimità degli angoli (Casa di Livia, Castel Porziano; altri tipi presentano sezioni di tronchi di piramide posizionate negli angoli che consentono una più stabile connessione (Villa dei Sette Bassi a Roma, Basilica di Treviri) nella formazione della sottile parete di laterizio.



Terme del Foro a Ostia (II sec. d. C.). Visioni del calidarium con pareti cave per il riscaldamento realizzate con tubuli fittili e planimetria generale dell’impianto termale. (ph. A. Acocella)

Con l’evoluzione degli stili di vita e della tecnica costruttiva lungo l’età imperiale è sviluppata, dalla metà del I sec. d. C., la produzione di nuovi manufatti laterizi per il convogliamento dell’aria calda al fine di un migliore riscaldamento delle pareti.
Nelle soluzioni realizzate con tegulae mammatae – a causa delle numerose protuberanze che interrompevano la continuità dell’intercapedine – può essersi registrata una non perfetta circolazione dell’aria calda, con creazione di vortici e ritorni all’indietro, al punto da suggerire di canalizzarla più efficientemente attraverso cavedi verticali “compartimentati”.
Potrebbe giustificarsi, così, la produzione dei tubuli (mattoni forati di forma parallelepipeda) molto variabili nelle dimensioni: da formati 9×13 cm a formati 14×25 cm. Tali elementi montati l’uno sull’altro, a volte anche l’uno nell’altro, consentono di realizzare pareti cave con condotti rigorosamente verticalizzati per il movimento ascensionale dell’aria calda; alcuni tipi di tubuli sono dotati di fori laterali per consentire – anche trasversalmente – la diffusione dell’aria calda da un cavedio all’altro assicurando un’uniforme temperatura delle pareti.
Gli elementi tubolari – incisi, a volte, nelle loro facce esterne con piccoli solchi per una migliore aderenza con gli strati di rivestimento – sono resi solidali ai muri portanti mediante malta; nei giunti di malta, fra tubulo e tubulo, spesso vengono inserite delle grappe metalliche a forma di T capaci di serrarli due a due.

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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.

1 Vitruvio, De Architectura (libro VII, c. 4, 13).
La citazione è tratta dall’edizione del De Architectura curata da Pierre Gros per i tipi di Giulio Einaudi Editore, Torino, 1997, voll. II.

Leggi anche
I laterizi cotti della Cisalpina
L’industria laterizia di Roma
Il primato della tegola
Artefatti laterizi e percorsi d’acqua

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26 Aprile 2014

News

KENGO KUMA
Power of Place
Lectio magistralis


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KENGO KUMA
Power of Place
Domenica 4 maggio 2014 alle ore 11.00

Museo di Castelvecchio di Verona
Sala Boggian

Domenica 4 maggio 2014 alle ore 11.00, presso il Museo di Castelvecchio di Verona, Sala Boggian, si terrà la Lectio Magistralis dell’architetto giapponese Kengo Kuma dal titolo Power of Place.
L’evento è organizzato da Veronafiere nell’ambito delle attività culturali della 49° Marmomacc in collaborazione con il Comune di Verona, Direzione Musei d’Arte e Monumenti e l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona.
Già insignito a Verona dell’International Award Architecture in Stone di Marmomacc per l’opera Stone Museum di Tochigi, Kengo Kuma è figura di spicco nel panorama internazionale. Egli elabora le proprie architetture dalla trasformazione creativa in senso poetico dei materiali. In particolare le sue opere in pietra, elemento costruttivo che più di altri richiama la massività e la gravità, comunicano attraverso un processo di smaterializzazione un’idea di leggerezza affine agli origami. La filosofia che sta alla base del suo operare tende a produrre una architettura che stabilisce relazioni tra spazi, luce, forme e materia quasi a dissolversi nel paesaggio.
La Lectio Magistralis sarà preceduta dagli interventi di saluto del Comune di Verona, di Veronafiere, dell’Ordine degli Architetti di Verona, e introdotta da Vincenzo Pavan, coordinatore degli eventi di architettura di Marmomacc.

Scarica l’invito

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KENGO KUMA
Biografia

Nato nel 1954 nella Prefettura di Kanagawa, si laurea presso la Facoltà di Architettura della Graduate School of Engineering di Tokyo. Dal 2001 è professore presso la Faculty of Science and Technology della Keio University di Tokyo. Nel 1987 Fonda lo Spatial Design Studio e nel 1990  lo studio Kengo Kuma& Associates. Nel 2008 fonda la Kuma & Associates Europa.
Numerose le opere riconosciute a livello internazionale:
l’Osservatorio Kiro-san, Yoshiumi, Ochi-gun prefettura di Heime, terminato nel 1994; la Casa Water/Glass, Atami, prefettura di Shizuoka, terminata nel 1995; la Casa River/Filter, Tama Kawa, terminata nel 1996; il Teatro Noh nella foresta , terminato nel 199; il Kitakami Canal Museum a Ishinomaki nel 1999. E poi ancora il Museo della Pietra  a Nasu Tochigi nel 2000; il Food and Agricolture Museum a Setagaya Tokyo nel 2004; le sedi per la Luis Vuitton One Omotesando a Tokyo nel 2003 e Chuo Ward a Osaka nel 2004; il museo d’arte  Masanari Murai  a Setagaya Tokyo nel 2004; il Complesso Ginzan Onsen Fujiya nella prefettura di Yamagata nel 2006; l’Edificio Z58 a Shangai nel 2006; il Chokkura Plaza & Shelter nella prefettura di Tochigi nel 2006; il Municipio di Yusuhara nella prefettura di Kochi nel 2006; il museo d’arte Suntory a Tokyo nel 2007; il GC Prostho Museum Research Center  nella prefettura di Aichi nel 2010; lo Yusuhara Wooden Bridge Museum  a Yushuara nel 2010; l’Asakusa Touristic Informatin Center a Taito Tokyo nel 2011.
Vincitore di numerosi premi internazionali:
1995 Grand Prize for “Kirosan Observatory”, JCD Design Award 1995, Cultural/Public Institutions
1997 Architectural Institute of Japan Award for “Noh Stage in Forest”
First Place, AIA DuPONT Benedictus Award for “Water/Glass”
2000 Grand Prize, Prize of AIJ, Tohoku Chapter, for Design for “River/Filter”
Grand Prize, INTER INTRA SPACE design selection for “Kitakami Canal Museum”
2001 International Award Architecture in Stone for “Stone Museum”, Italy;
Togo Murano Award and Architectural institute Award for “Museum of Hiroshige Ando”
2002 Spirit of Nature Wood Architecture Award, Finland
2008 Energy Performance + Architecture Award, France
2009 Decoration Officier de L’Ordre des Arts et des Lettres, France
2010 Mainichi Art Award for “Nezu Museum”
2011 The Misister of Education, Culture, Sports, Science and Technology’s Art Encouragement Prize for “Yusuhara Wooden Bridge Museum”

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22 Aprile 2014

Distretti lapidei

Territori di pietra

Si è appena conclusa la prima fase del workshop Territori di Pietra che in settembre porterà alla fiera Marmomacc di Verona sei studenti selezionati all’interno del laboratorio di progettazione del secondo anno del corso di Design del Prodotto Industriale, tenuto dai professori Vincenzo Pavan e Raffaello Galiotto. Gli esiti progettuali di questo workshop, svoltosi tra l’8 e il 12 aprile tra i comuni di Lesina, Apricena e Poggio Imperiale (FG), e che ha riguardato anche gli studenti di altre 9 università italiane aderenti a Stone Academy, verranno ripresi ed ampliati in seno alle singole università nel corso dei prossimi mesi.

Non potendo qui trovare spazio il doveroso elenco degli enti promotori, delle aziende partner e soprattutto delle persone che con il loro lavoro hanno reso possibile l’organizzazione di questa importante esperienza di formazione e di progetto, si rimanda alle prime due immagini dell’articolo, lasciando qui scritto, come in una nota, che il ringraziamento di chi ha rappresentato l’università di Ferrara durante questa prima fase di lavori, va a ciascuna delle persone il cui nome compare nel manifesto e nel programma.


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La non ordinarietà di questa esperienza è da ascriversi in prima istanza alla natura di questi luoghi, i quali fanno parte di un comparto marmifero (ove marmo è da intendersi in senso commerciale e non geologico *ndr) unico per la sua diffusione e secondo in Italia per volumi estratti solo al comparto di Carrara.


L’intero comparto marmifero di Apricena così come appare da Google Earth


Cava di proprietà di Passalacqua Marmi. Sono visibili infiltrazioni rosse di marna e banchi orizzontali di pietra di Apricena, un calcare compatto e impermeabile all’acqua. Questa impermeabilità comporta il ristagno delle acque piovane di cui talvolta si rende necessario il pompaggio.


Una delle cave più estese, di proprietà del gruppo Franco Dell’Erba (quella che ha dato il marmo per il santuario di San Pio progettata da Renzo Piano).


Il paesaggio di cava: un ravaneto a ridosso della grande cava del gruppo Dell’Erba.


Piccoli blocchi in attesa di essere ridotti in lastre presso uno dei laboratori vicini ai siti di estrazione (foto di Antonio Stante).


Macchinari per la segagione della pietra di Apricena (foto di Antonio Stante).


Filo diamantato per il taglio della pietra (foto di Antonio Stante).


I celebri archi strutturali in bronzetto di Apricena progettati da Renzo Piano per il santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, (visitato durante il secondo giorno di workshop).

Sotto la guida del docente organizzatore prof. Domenico Potenza, originario di questi luoghi, i docenti, gli studenti ed i tutor che hanno preso parte al workshop sono divenuti testimoni di una attività estrattiva con oltre un secolo di vita la quale ha interessato fino ad ora una superficie di oltre 14 km quadrati. Le foto documentano la presenza di cave abbandonate negli anni 60 (quando le gru Derrick non consentivano di approfondire gli scavi oltre i 30 metri) di numerose cave attive che solcano la crosta terrestre anche per un centinaio di metri in verticale, di frantoi per la riduzione degli inerti che vengono poi impiegati nella costruzione di sottofondi stradali e di enormi ammassi di blocchi di scarto e frammenti di roccia di ogni dimensione che prendono il nome di Ravaneti.


I ravaneti, visibili anche dall’autostrada Adriatica, per quanto mutevoli e provvisori per loro stessa natura, costituiscono quasi in un paradosso, uno degli elementi fondanti di questo paesaggio.


Frantoi

La ragione per cui sono stati concentrati in questo luogo tanti docenti e ricercatori, assieme agli studenti di 10 università italiane, è quella del superamento di una concezione ormai anacronistica della gestione del territorio: il quadro normativo di riferimento è infatti fermo al regio decreto 1443 del 1927 che per i comparti estrattivi (la nomenclatura fa in verità uso del termine “miniere” *ndr) prevede un ripristino, dal punto di vista del paesaggio, delle condizioni precedenti all’avvio delle attività di cavatura, principale motivo per cui gli scarti vengono ammassati per decine di anni a ridosso delle cave in attesa di rinterro. Terre e rocce da scavo sono tra l’altro ancora classificate come rifiuti, mentre la loro natura, o non foss’altro la loro commerciabilità, mostrano come siano da considerarsi al più un sottoprodotto dell’attività estrattiva.
Numerosi altri elementi concorrono a dimostrare la debolezza di questa antica concezione di ripristino del paesaggio: ad esempio il fatto che cave “esauritesi” negli anni ’60 divengano oggi nuovamente utilizzabili grazie alle nuove tecnologie, ma anche la vastità stessa del territorio interessato dalle trasformazioni e l’amplissimo arco di tempo all’interno del quale esse stanno avvenendo (non è ad oggi possibile effettuare alcuna previsione giacché il materiale lapideo nel sottosuolo abbonda e i ritmi dell’estrazione sono regolati dal mercato).


Cava abbandonata negli anni ’60 e parzialmente ricoperta (zona Tre Fossi).

La mira di chi opera per la salvaguardia del territorio, ma anche nell’interesse delle aziende di questo comparto, che costituiscono colonna portante dell’economia locale, è quella di progettare l’attività estrattiva come un ciclo di vita culminante non con una sorta di rattoppo paesaggistico deciso a priori, decine di anni a monte della cessazione delle operazioni di estrazione in un dato luogo, ma con progetti di scala territoriale e architettonica che possano crescere e vivere in queste aree alimentando il comparto stesso.
Alessandro Reina, docente presso il politecnico di Bari ha presentato un nuovo strumento urbanistico ancora in fase di elaborazione del quale è uno dei principali redattori: il PRAE.
Tramite il PRAE (piano regolatore delle attività estrattive) verrà regolamentata l’attività di estrazione e resa possibile la realizzazione di un sistema di progetti, quali quelli che sono stati chiamati a delineare gli studenti delle 10 facoltà ospitati ad Apricena.
Il professor Reina, il quale auspica che tramite questo strumento possa essere messo in atto un cambio di paradigma da “riqualificazione del territorio” a “riciclaggio del territorio”, ha indicato come linea guida di questo pensiero il motto Recycle Reuse Reduce.
Questa è dunque la materia sulla quale gli studenti sono stati chiamati a produrre le loro considerazioni, perseguendo l’elaborazione di strategie per ridurre il consumo delle risorse, per il riutilizzo e il recupero dei bacini e a sostegno di un ciclo economico che possa prevedere svariate possibilità di evoluzione, ma che non possa in alcun modo significare un mero e miope consumo di risorse.
Sperando di riuscire a suscitare l’opportuna curiosità nei confronti di questi progetti, che per quanto frutto delle riflessioni maturate nell’arco di pochi giorni hanno beneficiato di numerose e illustrissime revisioni, ci si astiene dalla pubblicazione dell’ottimo materiale prodotto ad Apricena invitando i lettori a visionarlo tra qualche mese, quando sarà stato affinato ed implementato, in occasione di Marmomacc (24/27 settembre 2014).
A risarcimento simbolico di questa voluta omissione, un’ultima galleria fotografica che documenta, al di là degli aspetti paesaggistici e geologici fin qui illustrati, l’aspetto umano, di condivisione e partecipazione che ha caratterizzato le intense giornate di lavoro tra Lesina, Apricena e Poggio Imperiale.


Il professor Potenza introduce la presentazione della tesi di laurea degli architetti Nicola Violano ed Erika Pisa.


Fasi di lavoro all’interno di Casa Matteo Salvatore (Apricena), che ha ospitato gran parte delle attività diurne.


Momenti di revisione con l’architetto Fernando Baldassarre, autore di una lezione durante il workshop.


Revisione dei progetti con il professor Vincenzo Pavan.


La mattinata dell’ultima giornata di workshop è stata dedicata alla presentazione delle analisi e dei progetti elaborati ad Apricena.


Foto di gruppo scattata presso la cantina vinicola Passalacqua che ha ospitato docenti e studenti in occasione della lezione dell’architetto Carlo Pozzi.

Per un approfondimento si rimanda all’articolo del professor Vincenzo Paolo Bagnato su fupress.

di Gianluca Gimini

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16 Aprile 2014

News

Un logo per IBO Italia
Concorso di Graphic Design


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14 Aprile 2014

PostScriptum

TRADIZIONE E INNOVAZIONE TECNOLOGICA
La filiera produttiva del travertino di Siena
II parte


L’ugello della macchina water jet crea un taglio circolare in una lastra di travertino senese.

Incisione
L’azione dell’incisione si attua con una decisa penetrazione nel corpo solido della pietra, attraverso solchi sottili e profondi; se l’incisione è passante diviene taglio, cioè separazione, distacco di un elemento più piccolo a partire da una massa litica maggiore. I passaggi successivi di tale processo portano in genere ad una regolarizzazione dei pezzi attraverso la formazione di facce, bordi, spigoli, linee e piani geometricamente definiti. Incidendo e tagliando si asporta irrimediabilmente anche una minima parte di materia, che viene polverizzata e si disperde.
Lastre, filagne, masselli, conci, marmette 9, vanno a costituire le diverse famiglie di semilavorati e prodotti finiti della filiera lapidea realizzati attraverso azioni di taglio e rappresentano, nel loro insieme, il risultato variegato di una metamorfosi che si sviluppa per progressive riduzioni e regolarizzazioni della pietra. L’avvio di tale processo si ha sul luogo di estrazione, nel giacimento dove la pietra viene dissepolta emergendo dal sottosuolo, allorquando essa viene separata dal fronte di cava e i blocchi vengono isolati e squadrati raggiungendo volumetrie più o meno regolari.
I siti estrattivi dei travertini sono per la maggior parte situate in pianura e sono localizzati spesso in depressioni dove i banchi del litotipo non superano i 12-15 metri di altezza. Il travertino senese in particolare si cava mediante il taglio e il ribaltamento di bancate dello spessore di circa 150 cm, con una lunghezza indicativa di 15 metri per una altezza che va dagli 8 ai 15 metri; le bancate, assimilabili per forma a vere e proprie grandi “fette” di materiale lapideo, vengono poi suddivise in blocchi delle dimensioni commerciali massime di 300 cm di lunghezza, 150 cm di larghezza, 180 cm di altezza. Dopo aver operato la separazione della bancata dal giacimento attraverso tagli con fili diamantati e segatrici a catena, essa viene ribaltata, tramite l’inserimento alle sue spalle di martinetti o cuscini dilatatori, su di un letto di detriti che agiscono da strato ammortizzatore; cadendo, la bancata si frattura nei naturali punti di debolezza del materiale, e successivamente, dopo un’attenta analisi da parte del personale di cava della situazione strutturale e dell’aspetto dei pezzi che si sono formati, si procede ad un ulteriore frazionamento con la prima riquadratura dei blocchi da instradare verso le catene di trasformazione e lavorazione. In questo primo passaggio la selezione del materiale porta a scartare in genere una quota che va dal 60 al 70% del travertino staccato dal giacimento. Poi, per passare dal blocco al prodotto finito, si perde un ulteriore 50-60% di pietra a seconda della dimensione, del formato e della tipologia di finitura dell’elemento di arrivo.
La prosecuzione della metamorfosi del materiale avviene poi con il taglio primario: tramite telai mono e multilama, o macchine a filo, o ancora frese a disco gigante, si ha la segagione del blocco in lastre, oppure, attraverso tagliablocchi o centri di taglio coordinato è possibile ottenere filagne per avviare il ciclo di trasformazione che consente di dar forma ai prodotti seriali (marmette). È in questa fase che assume una particolare importanza la giacitura dei piani di taglio del materiale che può portare alla realizzazione di lastre profondamente diverse per aspetto tessiturale anche all’interno di uno stesso blocco di provenienza. Se infatti la segagione procede perpendicolarmente all’andamento stratigrafico sedimentario del litotipo, il taglio del materiale è detto “contro falda” (o anche “al contro”) e si ottiene una esaltazione della venatura della pietra; se il frazionamento è invece parallelo alla stratigrafia del deposito travertinoso il materiale è tagliato “in falda” (o anche “per falda”) e il suo aspetto sarà più fiorito e caratterizzato da una tessitura di areole nuvolate. Ovviamente tale distinzione è estremamente importante per i materiali fortemente venati e segnati da una consistente variatio cromatica, mentre è pressoché trascurabile per i travertini poco porosi e di cromia omogenea.


Taglio di semilavorati con seghe a disco in uno stabilimento di Rapolano.

Dopo il taglio primario, grazie all’impiego di frese o attraverso attestatrici, scoppiatrici, o taglierine brandeggiabili, si opera il cosiddetto taglio secondario, con cui, in diversi passaggi di taglio a misura e rifilatura, si convertono lastre e filagne di travertino nella morfologia dei manufatti finali 10. Tali operazioni si attuano dopo le fasi di finitura superficiale dei semilavorati e possono pervenire alla realizzazione di lavorati standard, come anche di elementi singoli cut-to-size, cioè aventi uno specifico disegno di progetto, oppure ancora di pezzi da casellario, cioè caratterizzati da morfologie strumentali alla loro ricomposizione in un pattern originale di montaggio 11.
L’avvento, dalla metà degli anni ’60 del Novecento, delle tecnologie di produzione di lame diamantateper il taglio dei lapidei ha soppiantato totalmente e rapidamente le vecchie tecniche di segagione manuale, o con filo elicoidale, acqua e sabbia. Grazie a metodi produttivi sempre più perfezionati di deposizione elettrolitica dei cristalli di diamante e di sinterizzazione 12, i processi di incisione e taglio possono disporre da circa vent’anni di una vasta gamma di utensili diamantati quali lame rettilinee, dischi, fili 13, teste di varia morfologia, capaci di produrre tagli rapidi, complessi e sempre più precisi.
Anche il distretto lapideo rapolanese ha fatto sue le tecnologie più aggiornate di taglio della pietra specializzandosi da un lato nell’impiego degli utensili diamantati e dall’altro nell’applicazione di innovativi sistemi informatici avanzati di programmazione, automazione gestionale e controllo ex-post delle lavorazioni, con notevoli ottimizzazioni in termini di concatenamento delle fasi di carico, fissaggio dei pezzi ai piani di lavoro, velocità di taglio, scarico dei lavorati e riduzione degli sfridi. L’introduzione di tutto ciò ha permesso un’accelerazione dei cicli produttivi e una aumento della precisione del lavoro, con la possibilità di impostare e controllare, attraverso sensori e software specifici, parametri operativi anche estremamente avanzati come la velocità di calata delle lame o la soglia massima di assorbimento della potenza del motore, come anche di ottenere un monitoraggio statistico in continuo della produttività delle macchine.
Tale processo di aggiornamento delle lavorazioni tradizionali ha investito diffusamente tutte le fasi del taglio primario e, soprattutto, del taglio secondario, con una particolare concentrazione per ciò che attiene l’operatività di macchine come tagliablocchi, attestatrici e soprattutto frese.
A continuare ad essere protagoniste del processo di taglio secondario sono infatti queste ultime macchine a disco, ancora distinguibili come in passato in due tipologie principali: le frese a ponte dove l’utensile è montato su di un carrello che scorre lungo un binario fissato “a ponte” tra due sostegni verticali; le frese a bandiera, per lavorazioni più flessibili e meno standardizzate rispetto alle precedenti, dove l’utensile è montato su di un braccio mobile.


Taglio di lastre di travertino senese con telai monolama e multilama.

Per entrambe le tipologie il banco di lavoro su cui viene fissato il pezzo da tagliare può essere fisso o semovente. Le dimensioni massime dei pezzi lavorabili per le macchine a ponte sono di 380×350 cm con uno spessore limite di taglio di 40 cm. Per le frese a bandiera questi standard sono di poco inferiori.
Accanto alle frese tradizionali, ancora largamente utilizzate e perlopiù gestite oggi da sistemi informatici, si sono evolute catene automatiche multidisco (fino a 12 dischi) per il taglio secondario continuo, caratterizzate da scanner posti alla partenza del processo di lavorazione in grado di leggere la conformazione delle lastre per ottimizzarne poi, attraverso software, il posizionamento e conseguentemente per ottenerne la riduzione in passate successive con un notevole abbattimento degli sfridi. Tali attrezzature possono essere di due tipi: il primo dotato di una batteria di dischi fissa per il taglio longitudinale e di una ulteriore serie di lame su ponte mobile per l’attestatura finale, cioè per il taglio trasversale; il secondo con unica batteria di dischi e banchi automatici girevoli. In quest’ultimo caso i pezzi subiscono una prima strisciatura sotto la serie di lame e poi, con la rapida rotazione del piano di lavoro, possono essere ripassati per l’attestatura. Entrambi i tipi di catene possono essere completati in sequenza da linee di imballaggio dei prodotti finiti.
Oltre che con le lame diamantate di varia morfologia l’azione dell’incisione sul corpo della materia litica può essere praticata anche tramite la tecnologia water jet, sviluppata a partire dagli anni ’70 del secolo scorso come metodo innovativo di taglio, trattamento superficiale e deformazione dei materiali, applicabile all’industria aerospaziale, a quella meccanica, automobilistica ed elettrica, alla produzione di circuiti elettronici stampati e, più in generale, al frazionamento di metalli, materie plastiche, materiali compositi fibrosi, ceramiche, vetri, pietre, carta, tessuti, tessuti non tessuti, generi alimentari. Tale sistema si basa sull’emissione di un getto d’acqua ad alta pressione, semplice o additivato con polveri abrasive, senza necessitare di alcun apporto termico, neanche per i materiali più duri come l’acciaio o il titanio.
Un impianto water jet di base è costituito da un generatore di pressione; da una lancia con ugello terminale da cui fuoriesce il flusso d’acqua ad alta pressione e a velocità supersonica 14; da un sistema per il dosaggio e l’alimentazione della polvere abrasiva; da un piano di lavoro con sottostante vasca di raccolta dell’acqua e da una centralina elettronica per il controllo delle operazioni di lavorazione. Le dimensioni più usuali dei piani di lavoro sono di 3×2, 3×4, 3×6, 2×4 metri. In realtà le case di produzione rendono praticabile la personalizzazione di tali dimensioni fino addirittura a 7-8 metri di lunghezza e possono realizzare anche macchine con tavoli di lavoro circolari rotanti, con piani a rulli scorrevoli continui e con teste di taglio multiple (fino a 4 ugelli).


L’ugello della macchina water jet crea un taglio circolare in una lastra di travertino senese.

Lo spessore dei materiali posizionabili sotto il getto va da 0 a circa 20 cm; gli ugelli si possono muovere e possono ruotare fino ad un massimo di 5 assi di libertà. Il limite attuale della più alta pressione operativa continua del getto è di circa 4.000 bar. Tutte le water jet sono guidate da sistemi CAD/CAM 15, quelle più avanzate inoltre sono gestite da software capaci di scegliere automaticamente i parametri di lavorazione a partire dal semplice inserimento del tipo di materiale, dello spessore e della qualità di taglio desiderata. Se la tecnologia water jet nasce per tagliare i materiali con il semplice flusso d’acqua, in realtà, oggi, per aumentare la forza e la velocità del getto, l’acqua viene usualmente additivata con polveri abrasive silicee o di altra natura sintetica o metallica. È importante sottolineare che quanto più elevata è la velocità di passaggio del getto, tanto maggiore è il peggioramento della precisione dei bordi del taglio.
Se si analizza in specifico l’applicazione delle macchine water jet al settore dei lapidei in generale, e dei travertini in particolare, essa presenta numerosi vantaggi rispetto ai tradizionali sistemi di incisione e taglio. Innanzitutto con un solo utensile è possibile tagliare o perforare tutte le tipologie di materiali dai più morbidi ai più duri; poi si assiste ad un notevolissimo abbattimento delle tensioni e delle microlesioni indotte sulla pietra, nonché all’assenza assoluta di zone rovinate o alterate dal calore d’attrito (che è del tutto trascurabile rispetto ai normali metodi di segagione con lame o fili). Inoltre il processo riduce drasticamente l’emissione di polveri e rumore, ha limitatissima usura degli utensili e, soprattutto, garantisce una altissima precisione dei pezzi tagliati con tolleranze dell’ordine di ± 0,04 mm.
Se opportunamente programmate, le macchine ad idrogetto permettono non solo di effettuare tagli passanti ma anche di tagliare parzialmente lo spessore del pezzo litico in lavorazione, ottenendo incisioni, scavi e rigature di larghezza e profondità variabile. Le innovazioni più recenti nel settore delle macchine water jet hanno riguardato l’allineamento più preciso dei vari componenti della lancia di emissione dell’acqua; ciò ha permesso di ottenere un getto ancor più coerente e concentrico migliorando ulteriormente la già minima conicità del taglio che in tal modo procede in profondità nella pietra perfettamente rettilineo e ultrasottile. Tali macchine, inoltre, hanno reso certi processi di separazione della pietra molto più veloci e ripetibili,
aumentando la competitività del sistema produttivo. I cospicui ordini di vantaggi rispetto alle tecnologie tradizionali delle lame diamantate sono indubbi: «La tecnologia water jet consente di tagliare forme complesse caratterizzate da raggi di curvatura non raggiungibili dalle tecnologie tradizionali (fino a 1 mm) con una riduzione maggiore del 50% degli scarti di lavorazione, conseguente alla riduzione del 50% della larghezza del solco di taglio (si passa da 3 mm a circa 1 mm in termini di larghezza del solco di taglio). La qualità delle superfici tagliate con la tecnologia water jet è in accordo con le specifiche richieste nella produzione di pavimenti e decorazioni, in termini sia di conicità del solco di taglio, sia di presenza di scheggiature lungo gli spigoli a vista, sia infine di errori dimensionali del profilo generato. L’incremento della velocità di taglio del 100% su spessori di 10 mm porta, di conseguenza, una riduzione dei costi di lavorazione pari al 60-80% rispetto alla tecnologia tradizionale (si passa da 150 mm/min a 300-500 mm/min). In sintesi, dunque, i vantaggi competitivi connessi all’utilizzo della tecnologia di taglio a getto d’acqua ed abrasivo risiedono nella possibilità di realizzare decorazioni caratterizzate da sagome complesse, di elevata qualità ed in tempi estremamente contenuti» 16.


Un operaio specializzato di un’azienda rapolanese modella un elemento tridimensionale in travertino.

Proprio la riduzione della conicità del solco di taglio non compromette la successiva giustapposizione dei pezzi tagliati a formare disegni musivi, limitando gli errori e conseguentemente gli scarti, e rendendo l’applicazione dell’idrogetto ad alta pressione particolarmente utile per la realizzazione di elementi decorativi a traforo e ad intarsio, ad esempio realizzati sfruttando le diverse tonalità cromatiche dei travertini senesi. L’accelerazione nel perfezionamento delle water jet ha fatto sì che oggi si possano realizzare trafori e intarsi per i quali la necessità di rifinitura meccanica o manuale dei pezzi è sempre più ridotta, anche per ciò che riguarda gli elementi più minuti. Ciò non significa che in tali lavorazioni si possa comunque prescindere dall’intervento creativo e artigianale dell’uomo: la scelta cromatica delle pietre legata alla conoscenza della loro struttura fisica, la distribuzione e la composizione dei pezzi in base alla giusta interpretazione delle venature, il lavoro di montaggio e accostamento degli elementi e di successiva eventuale stuccatura con la predisposizione di un amalgama dall’adeguato tono colorico, rimangono appannaggio esclusivo di operatori specializzati, capaci di mettere in campo un elevato e consolidato magistero applicativo.

di Davide Turrini

Il presente saggio è tratto dal volume Travertino di Siena a cura di Alfonso Acocella e Davide Turrini

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Tradizione e innovazione I parte

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10 Aprile 2014

Opere di Architettura

Complesso residenziale a Bodrum

Sulle coste turche del mar Egeo, presso la città di Bodrum, l’antica Alicarnasso, si trova il villaggio di Gümüslük, un tranquillo insediamento posto sulle alture che sovrastano la grande insenatura del porto.
In questo luogo ricco di storia e a contatto con la natura lo studio Cirakoglu Architects di Istambul è stato incaricato di realizzare cinque ville di circa 390 mq. Il complesso si situa lungo le pendici della collina in questo modo tutte le residenze godono di una visuale libera verso il mare. Se però da un lato dal complesso il paesaggio può essere osservato liberamente, allo stesso tempo esso si integra con il paesaggio: la scelta di assecondare l’inclinazione del pendio, la disposizione libera nel lotto e la scelta di utilizzare il materiale locale per le murature minimizza il loro impatto nell’ambiente.

L’idea fondamentale nella composizione è quella di definire ciascuna unità residenziale sulla base di un quadrato. Questo viene scomposto in nove parti uguali che, raggruppate in tre elementi vanno a definire i differenti ambienti della casa. Il blocco verso la baia è il più basso e accoglie la terrazza e la piscina, quello centrale, quasi del tutto svuotato costituisce il soggiorno. Il terzo invece rivolto verso il pendio accoglie la zona notte, costituita da una camera matrimoniale con bagno e da una camera doppia e un bagno esterno. Al piano inferiore, sempre sfruttando l’irregolarità del piano terreno è ospitato un appartamento di servizio formato da un soggiorno con angolo cottura e da due camere, una matrimoniale e una singola, con due servizi e un bagno più ampio.

La composizione per volumi è articolata in modo tale che lo scostamento tra i tre blocchi consente la creazione di due ambienti di passaggio, dei filtri tra la terrazza e la zona giorno (il portico) e tra questa e la zona notte (corridoio). Il volume originale a base quadrata è riportato all’unità grazie alla copertura che sovrasta tutti e tre i volumi. Questa è realizzata con un telaio metallico che disegna nove campate, ciascuna delle quali è coperta con un incannucciato leggero che serve a riparare dal sole le sottostanti coperture piane dei due ambienti chiusi. Il fatto che ci sia un vuoto tra le due coperture consente il passaggio dell’aria e quindi un ulteriore raffrescamento delle stanze della casa.

La particolarità di questi edifici è costituito dall’uso di materiali antiche insieme a quelli moderni: la copertura in acciaio infatti si appoggia su dei formati da possenti murature portanti costruite in pietra locale senza l’utilizzo di muri in cemento armato. Le murature infatti sono piene e i blocchi lapidei irregolari sono legati tra di loro da malta e il loro spessore consente di ridurre gli sbalzi termici tra il giorno e la notte e durante, fornendo una più che adeguata coibentazione. La presenza di un basamento lapideo associato ad elementi leggeri che coprono la parte sommitale dell’edificio è una citazione decisamente chiara della casa turca tradizionale, dove la parte inferiore in muri di pietra, generalmente chiusa, era sovrastata da una parte lignea caratterizzata invece da ampi loggiati che consentivano alla residenza di aprirsi sul paesaggio.
Questo progetto è testimone di come gli architetti di quest’area geografica siano in grado di far dialogare i materiali e le tecniche tradizionali con quelli della contemporaneità.

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SCHEDA TECNICA
Progettista/i:
Cirakoglu Architects
Localizzazione: Gümü?lük (Turchia)
Gruppo di progettazione: Alisan Cirakoglu, Ilgin Avci, Deniz Yazici, Asli Ingenc, Digdem Angin
Pietra: Pietra locale
Anno: 2014
Fotografie: © Cemal Emden
Link: http://www.archdaily.com/488291/gumus-su-villas-cirakoglu-architects/?ad_medium=widget&ad_name=featured_loop&ad_content=488291
http://www.cirakoglu.com/
http://www.cemalemden.com/

di Angelo Bertolazzi

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