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11 Maggio 2005

Eventi

Premio Internazionale Architetture di Pietra 2005

40a MARMOMACC – Mostra Internazionale di Marmi, Pietre e Tecnologie, Veronafiere, IX edizione

Promosso da Veronafiere nell’ambito delle manifestazioni scientifico-culturali della 40a MARMOMACC, il Premio Internazionale Architetture di Pietra è alla sua nona edizione. Istituito nel 1987, rappresenta oggi uno dei più prestigiosi riconoscimenti per quelle opere che, per significato architettonico e qualità tecnico-espressive nell’uso dei materiali lapidei, costituiscono gli esempi più rilevanti nel panorama internazionale. Il Premio Internazionale Architetture di Pietra costituisce inoltre l’avvenimento qualitativamente più alto del dialogo che, attraverso Veronafiere, si sta sviluppando da anni tra architetti e sistema imprenditoriale marmo-lapideo.
Anche per questa edizione sono state chiamate a formare la giuria personalità di grande prestigio a livello internazionale:
Alfonso Acocella, Facoltà di Architettura, Università di Ferrara;
Vittorio Magnago Lampugnani, ETH di Zurigo;
Werner Oechslin, ETH di Zurigo;
Vincenzo Pavan, co-director USA Institute Italy;
Antonio Pizza, Escuela Tècnica Superior de Arquitectura de Barcelona.


La riunione della Giuria (da sinistra: A.Pizza, V.Pavan, V.Magnago Lampugnani, W.Oechslin; B.Pineda segreteria; foto A.Acocella)

Nella riunione, tenutasi a Verona lunedì 18 aprile 2005 la giuria ha scelto di premiare, quali migliori realizzazioni degli ultimi anni a livello internazionale per l’uso dei materiali lapidei, le seguenti opere architettoniche:
Boston Public Library, Boston, Massachussets, USA, 1998-2001
di Rodolfo Machado & Jorge Silvetti Architects,
Motivazione: L’"Allston Branch" della famosa Boston Public Library riprende il concetto di "distribuire" la cultura – oltre alla sua solita collocazione centrale – nelle parti periferiche della grande città. Tale biblioteca riprende quindi il tema di ciò che è "pubblico".

Il compito degli architetti era perciò di corrispondere architettonicamente a tale situazione, definibile "periferica-pubblica". È questo che Machado/Silvetti hanno perfettamente intuito. Al carattere pubblico corrisponde sia la forma "altra" (volumetria, inclinazione all’inverso dei tetti) sia la materializzazione: la pietra indica chiaramente il carattere pubblico. Lo annuncia simbolicamente a chi si avvicina e – una volta di fronte all’edificio – al visitatore che è chiamato ad entrare senza dover "trasgredire" alcun ostacolo.
Machado/Silvetti hanno così saputo combinare in modo coerente il carattere pubblico della biblioteca con quello reso simbolicamente attraverso l’apparenza dell’edificio e la sua materializzazione lapidea.

Uffici per la Delegazione Provinciale della Salute, Almería, Andalucía, Spagna, 1999-2002
di Alberto Campo Baeza,
Motivazione: L’opera, metafora del blocco stereometrico di pietra, declina in modo rigoroso ed assoluto il tema del rivestimento sottile. Continuità, complanarità, omogeneità e monografismo litico ne rappresentano i valori materici protagonisti, in ultima istanza la cifra linguistica dell’architettura stessa.

Cimitero, Chiesa di Nostra Signora della Luce e Museo della Luce, Aldeia da Luz, Mourão, Portogallo, 1998-2003
di Pedro Pacheco e Marie Clèment,
Motivazione: Progetto che mira alla creazione di un microambiente di nuova fondazione in cui il museo assume un ruolo nodale, evidenziandosi quale nesso costitutivo in relazione con la chiesa e il recinto cimiteriale preesistenti, riproposti in un diverso contesto ambientale.
L’edificio museale è quindi da interpretare soprattutto come elemento di creazione paesaggistica; il materiale scistoso, adoperato nel rivestimento e nell’erezione di alcune murature, si confonde abilmente con i profili del terreno, in uno studiato contributo con il candore delle ricostruzioni e le forti variazioni luministiche, catturate e filtrate verso l’interno da "camini di luce", visibili da lontano.

Ensamble Studio, Centro di studi musicali, Finca Vista Alegre, Santiago de Compostela, Spagna, 1999-2003
di Antón García Abril
Motivazione: L’opera riunisce e salda in un unico gesto due aspetti oppositivi: l’essenzialità e la precisione assoluta della forma con l’irregolarità grossolana della materia litica allo stato delle prime fasi di estrazione. Il potente effetto di massa è frutto della razionalità costruttiva ottenuta attraverso la giustapposizione di lastre corpose sormontate come blocchi uniti nell’atto della loro prima messa in ordine sul piazzale di cava. Alla compattezza del volume esterno corrisponde una raffinata disposizione degli spazi e dei volumi interni, disegnati da una sapiente captazione della luce naturale.

Giorgio Armani Stores Parigi, Milano, Düsseldorf, Firenze, Mosca, Napoli, Boston, Chicago, Costa Mesa, Tokio, Atlanta, Atene, Vienna, Zurigo, Jeddah, Beijing, Dubai, Busan, Barcellona, Roma e Londra; Sao Paulo, Hong Kong, Seoul e Shangai, a partire dal 1999
di Claudio Silvestrin
Motivazione: Nel mondo globalizzato della moda e del commercio, i negozi Giorgio Armani disegnati da Claudio Silvestrin si distinguono per la sintonia tra l’immagine dei contenuti e quella dello stile del contenitore. La riconoscibilità del marchio non è ottenuta, come spesso avviene, attraverso il gesto eretico ripetuto con proterva indifferenza, bensì grazie alla duttile ripetizione di architetture silenziose e eleganti i cui spazi risultano unificati dal raffinato rivestimento in pietra naturale chiara.

Nella medesima occasione, la Giuria ha ritenuto di assegnare il premio "ad memoriam", dedicato ad un autore scomparso il cui contributo all’architettura di pietra sia stato particolarmente rilevante, a Franco Albini (1905-1977) per l’opera:
Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova, 1952-1956
Motivazione: Opera molto nota all’epoca della sua realizzazione (1952-1956), la cripta del Tesoro della chiesa di San Lorenzo può essere oggi riscoperta alla luce della nuova sensibilità verso gli aspetti costruttivi e percettivi del materiale lapideo che la compone. Questo lavoro, tra i più felici di Franco Albini, inserisce nel registro formale della modernità l’apporto prezioso e sapiente di maestranze espressione di una antica cultura costruttiva non ancora scomparsa.

Come nelle precedenti edizioni la forma del premio è costituita dalla pubblicazione di un prestigioso volume contenente un’ampia documentazione delle opere premiate, a cui faranno da cornice saggi critici e storici di eminenti personalità del mondo dell’architettura.
Durante la 40a MARMOMACC, il Premio Internazionale Architetture di Pietra sarà al centro degli eventi culturali programmati per "Marmo Arte Cultura" e verrà articolato in due eventi:
Cerimonia ufficiale di premiazione.
La consegna dei riconoscimenti avrà luogo sabato 1 ottobre 2005 alla Fiera di Verona in una cerimonia durante la quale saranno consegnati i diplomi agli autori, i quali illustreranno le opere premiate ad un vasto pubblico di architetti, ingegneri, mondo universitario, operatori del settore marmifero.
Mostra delle opere premiate.
Durante il periodo tra il 15 settembre e il 4 ottobre sarà organizzata una mostra dei lavori premiati presso la Fiera di Verona. Le opere, illustrate da disegni, foto e modelli, saranno esposte in un allestimento unitario insieme ad una campionatura dei materiali lapidei utilizzati.

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9 Maggio 2005

Recensioni

La recensione de Il Giornale del Marmo

Quest’opera, al pari di poche altre (Magenta, Repetti, Zaccagna), è destinata a rimanere nella storia del settore, perchè costituisce davvero una “summa”, che muove dalle origini dell’impiego nell’antico Egitto, per giungere, infine, alle tecnologie più moderne. In tale ottica, ogni recensione rischia di apparire riduttiva, ed allora, qualche numero può essere di aiuto: la bibliografia, riportata in rigoroso ordine cronologico, comprende citazioni di oltre 350 testi. Le fotografie, in larga maggioranza dell’Autore, raggiungono la bella cifra di 1830. I riferimenti a personaggi ed a luoghi, consultabili nei rispettivi indici, sono addirittura un migliaio.
Il prof. Acocella, che è Ordinario di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università di Ferrara, ha dedicato un intero quinquennio alla preparazione di questo prestigioso volume, in cui vive, al di là di una professionalità d’avanguardia, e di un esempio straordinario per quanti si avvicinano al mondo settoriale, il “mal della pietra” che coinvolge coloro che, a vario titolo, operano nel comparto con impegno genuino e con la forza trainante della volontà. In questo senso, i meriti dell’Autore sono davvero “top”, anche per avere dimostrato l’idoneità del marmo e della pietra ad esprimere il massimo, sia nel campo tecnico, sia in quello culturale.
A questi meriti si uniscono le benemerenze degli Editori, che hanno programmato con lungimiranza non priva di coraggio la pubblicazione di questa poderosa opera “in folio”, da raccomandare innanzi tutto a progettisti ed architetti, per l’esauriente trattazione di ogni categoria significativa d’impiego (muri, colonne, architravi, archi, superfici, coperture, pavimenti); ma anche ai marmisti, per il competente approfondimento tecnico, in funzione, tra l’altro, delle specifiche idoneità.
Un motivo di fondo che vale la pena di sottolineare è l’assunto secondo cui il prodotto lapideo risulta vincente nella prova più importante, quella del tempo: affermazione che, nell’opera di Acocella, risulta suffragata da una miriade di esempi probanti, e non certo da un giudizio sintetico a priori, tipico di ogni dogmatismo.
Da qualche tempo a questa parte si sente dire, sia pure in modo precettistico ed avulso da valide basi scientifiche, che marmi e pietre non sarebbero più attuali, anche nel confronto con taluni materiali alternativi. Ebbene, coloro che insistono a ruota libera in tale atteggiamento apodittico, sono pregati di rimandare il loro giudizio, e di consultare propedeuticamente il volume di Acocella, o quanto meno, di sfogliarlo. La forza del lapideo, del resto, non risiede soltanto nella sua tecnologia, ma prima ancora nella sua storia.
Per farla breve, il settore ha un grosso debito di riconoscenza nei confronti dell’Autore, e dei collaboratori che hanno contribuito alla stesura dell’opera (Gabriele Lelli, Davide Turrini, Alessandro Vicari), e dei traduttori (Alice Fisher e Patrick John Barr), tuttora impegnati per consentirne la più ampia diffusione internazionale. Certamente, in un lavoro come questo, non è difficile scorgere, per dirla con lo stesso Acocella, “l’anima che lo ha ispirato”. Quella stessa anima che, secondo Agostino Del Riccio, rende il marmo vivo, o meglio, eterno.

On a par with only a handful of others – Magenta, Repetti, Zaccagna – this book is set to go down in sectorial history. Indeed, it is an out and out summary, which starts with the origins of the use of stone in Ancient Egypt, following through to the most modern technologies. As a simple review of the book could appear restrictive, we decided to bring a few figures to the readers’ attention. The bibliography, listed in chronological order, comprises quotations from over 350 texts. The photographs, the overwhelming majority of which were taken by the author himself, total an amazing 1830. The references made to people and places, which can be consulted in the respective indexes, are an incredible thousand or so.
Professor Acocella, who has the Chair of Technology and Architecture at Ferrara University, dedicated five years to writing this outstanding book. Besides cutting-edge professionalism and an extraordinary example to those who are thinking of working in this sector, the book also describes “stone addicts”, namely those who work in the sector with genuine commitment and the driving strength of their own will. The author, therefore, deserves a top rating, especially because he managed to demonstrate that marble and stone are quality materials, both in the technical and cultural fields.
The Editors’ merit can be added to this, as they far-sightedly and indeed courageously planned the publication of this important “in-folio” book. They decided it be recommended first and foremost to designers and architects, because of the exhaustive reports about all the important categories of use (walls, columns, architraves, arches, surfaces, roofing, flooring); but also to marble-cutters, due to the competent and indeed thorough technical analysis according to specific fields of work.
One basic reason worth underlining is that stone products have passed the most important test, that of time. In Acocella’s work, this statement is backed by a myriad of probative examples, rather than the brief a priori opinions which are so typical of other publications.
For some time now, we have been hearing that marble and stone are no longer topical materials, although indeed these statements lack any valid scientific base, even in their comparison with alternative materials. Anybody insisting on this should be asked to defer their opinion, and carefully consult Acocella’s book, or at the very least leaf through it. Moreover, the strength of stone is not only in its technology, but more importantly in its history.
In short, the sector has a huge debt to acknowledge to both the author and those who contributed to drafting this book (Gabriele Lelli, Davide Turrini, Alessandro Vicari), as well as the translators (Alice Fisher and Patrick John Barr), who are still busy working to ensure the very widest international circulation. One thing is certain, however, in a book such as this, it is not difficult to discern, to use Acocella’s words, “the soul which inspired it”. That same soul which, according to Agostino Del Riccio, makes marble alive, or better, eternal.

(Il giornale del marmo n. 253, 2005)

(Vai al sito Giornale del Marmo)

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5 Maggio 2005

Recensioni

La recensione di Ottagono

La pubblicazione di numerosi saggi esplicativi, di disegni tecnici e architettonici, e di immagini fotografiche originali, si configura come un corpus disciplinare organico di informazioni utili, in ambito culturale e professionale, a proposito dell’uso della pietra in architettura.
Un approfondimento e una ricerca, esito di cinque anni di lavoro, destinati a tutti coloro che hanno l’esigenza o l’interesse di conoscere e sviluppare le diverse tematiche connesse all’utilizzo di questo materiale.
Una contestuale edizione inglese ha l’ambizione di raggiungere anche un pubblico internazionale, coloro cioè che guardano all’Italia come al paese che per tradizione e innovazione tecnologica rappresenta la realtà più all’avanguardia nell’offerta dei materiali, nella fornitura dei servizi connessi alla progettazione, all’esecuzione e alla realizzazione di programmi costruttivi in tutto il mondo.
L’obiettivo è dunque approfondire e sistematizzare attraverso un volume unitario le grandi potenzialità di questo materiale, dai marmi ai graniti ai travertini, enfatizzandone i suoi variegati ed inesauribili valori culturali, costruttivi, espressivi, cromatici, ambientali e di durata.

A rich collection of essays, guides, architectural and technical drawings and original photographs, this publication constitutes a complete disciplinary corpus of useful informations, both cultural and professional, on the subject of use of stone in architecture.
The result of five years of research, it will be of interest of anyone who needs or desires to increase his or her knowledge of of the various aspects of the use of this material.
A concurrent English edition aims to reach an international public that looks to Italy as the country which by tradition and technological innovation continues to be at the forefront of this field in terms of both supply of materials, and of services related to the design, execution and installation of stone in building programmes throughout the world.
The objective of the book is thus to provide complete information on the huge potential of the stone as a building material, from marble to granite and travertine, stressing its wide range of qualities and advantages in terms aesthetics, structure, durability, and environmental soundness.

Chiara Pilati
(Ottagono n. 178 2005)

(Visita il sito Ottagono)

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4 Maggio 2005

Recensioni

La recensione de Il Giornale dell’Architettura

Ritorna l’età della pietra.
Può un materiale "antico" come la pietra tornare a essere impiegato in misura consistente nella costruzione dell’architettura, delle sue strutture portanti oltre che dei suoi rivestimenti e in generale dei suoi elementi di finitura? È questa un’ipotesi plausibile, non solo dal punto di vista progettuale, ma anche dal punto di vista tecnico ed economico? Secondo Alfonso Acocella, docente di Cultura tecnologica della progettazione alla Facoltà di Architettura di Ferrara e instancabile sostenitore e studioso dell’impiego dei materiali tradizionali, l’ipotesi non solo è plausibile ma è anche auspicabile.
I segni di un rinnovato interesse per l’architettura lapidea, in ambito internazionale, sono d’altra parte negli ultimi anni sempre più evidenti: in Francia, sulle orme di Fernand Pouillon, Gilles Perraudin riscopre il sapore arcaico delle costruzioni a secco in blocchi di pietra massiccia, durevoli e compatibili con l’ambiente; tra le Alpi, Peter Zumthor sovrappone con metodo le sue quarziti rugose tagliate in lamine sottili; in Italia, Renzo Piano sperimenta l’arte antica della stereotomia tramite il ricorso a innovativi sistemi di taglio computerizzati.
Con il conforto di questi e altri numerosi indizi di una rinnovata sensibilità contemporanea per i materiali lapidei, e con il sostegno di Lucense, centro servizi nato per promuovere lo sviluppo economico della Provincia di Lucca, Acocella ha dedicato all’architettura di pietra un volume ponderoso, dalla raffinata veste grafica. Il libro sfugge, come lo stesso autore evidenzia, a una precisa classificazione di genere: nè trattato nè manuale, nè libro di critica o di storia nè repertorio di exempla, ma piuttosto tutte queste cose insieme, in un viaggio attraverso i secoli e i luoghi che parte dalle origini più remote e affascinanti dell’impiego della pietra per rintracciarne innanzitutto i fondamenti e gli "archetipi" costruttivi. Il riferimento al concetto di archetipo è utile all’autore per dar corpo, in modo anche didatticamente efficace, alla struttura del testo: muri, colonne, architravi, archi, superfici (intese come rivestimenti), coperture e suolo, diventano così le sette principali tappe del racconto, in altrettanti capitoli dedicati a illustrare modalità di organizzazione e prassi esecutive ricorrenti, nell’evoluzione dagli esempi più antichi alle riattualizzazioni odierne. Conclude il volume un approfondito capitolo che descrive i processi di escavazione e di lavorazione dei materiali lapidei.

Maria Luisa Barelli

(Il Giornale dell’Architettura n. 27, 2005)
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1 Maggio 2005

Recensioni

La recensione di Domus



"L’architettura italiana continuerà a essere la fonte di ispirazione per il futuro": la citazione di una lettera di Louis Kahn stimola il discorso introduttivo a questo volume, frutto di ricerche e di studi lunghi cinque anni e che sono stati sostenuti con lungimiranza dalla Lucense (Centro servizi per l’economia – no profit – formatosi a Lucca nel 1984, per la promozione economica e della tradizione nell’area apuo-versiliese).
Il libro si apre con i ringraziamenti ai promotori e ai collaboratori, dopo che già nello scritto di controcopertina, l’autore (scrittore e tecnologo della Facoltà di architettura di Ferrara) aveva rivelato l’entusiasmo e l’impegno intellettuale e creativo ripostovi.
Nel saggio introduttivo espone poi la tesi della ricerca condotta: "gli archetipi, ovvero i nuclei fondativi dell’architettura litica" – tra cui il cumulo, il muro, gli elementi strutturali, quelli superficiali – "attraverso la loro permanenza, sostanziano l’idea della continuità, della ciclicità, dell’incessante ri-attualizzazione dell’architettura".
Inoltre: "il distanziarsi del Moderno dai colori, non ne ha comportato la morte. I colori non erosi dal tempo dei laterizi, delle pietre, dei marmi, contraddistinguono le opere maggiormente dotate di tenuta tecnologica e di fascino estetico".
Da ciò e anche dalla descrizione delle opere di Mies Van der Rohe e di Luigi Moretti consegue al lettore che il volume non è una celebrazione della pietra in sè e del passato, ma indica, per esempio, come la strada, oggi razionalmente intrapresa della semplificazione materica, formale, della riduzione linguistica, corrisponde al dare insieme continuità storica, eleganza e innovazione all’architettura.
I nove capitoli del libro, intitolati "inizi, muri, colonne, architravi, archi, superfici, coperture, suolo, materia", mettono in luce come la pietra sia stata protagonista nel definire all’origine le forme e gli elementi dell’architettura e come il suo uso diversificato ha saputo nel tempo reinterpretarli.
Il discorso storico è già condensato nel primo di essi, ove si dà conto delle origini dell’architettura, con una descrizione ragionata delle costruzioni dell’antico Egitto.
L’ultimo, "materia", sviluppa gli aspetti tecnologici, le fasi di estrazione, di cavatura, di lavorazione della pietra. I testi esplicativi delle vicende storiche e delle tendenze architettoniche, da esse derivate, che fanno da filo conduttore, nei vari capitoli, all’iconografia e alla sequenza di esempi progettuali e realizzazioni, non sono l’unico modo espressivo del libro, dal momento che ripetuti repertori a casellario, in cui si mettono a fronte disegni e foto, propongono anche le forme di utilizzo e le tipologie di lavorazione specifiche.
In tutti i casi, numerose sono le citazioni e i riferimenti illustrati a progetti antichi e contemporanei; inoltre per ciascun argomento vengono presentate, su più pagine, recenti e significative opere; così che il ritmo dell’esposizione letteraria varia e la recensione d’attualità prende il posto della trattazione e della descrizione tecnologica.
La ricchezza di illustrazioni di riferimento e la precisione descrittiva delle didascalie è un carattere di uniformità, in ogni pagina del libro.
Il volume è pertanto più cose insieme: è sicuramente un manuale, perchè delle pietre dice tutto, tipologie, generi, tecnologie lavorative, applicazioni.
E’ inoltre un trattato storico, perchè dà spiegazione delle origini dell’architettura, sia antica che primordiale, ripercorrendole con una sequenza innumerevole di esempi.
Cala il lettore nello sviluppo dell’architettura, negli aspetti dell’innovazione e nell’attualità dei progetti contemporanei.
E’ un’articolata esposizione di teoria e di tendenza, che non può che entusiasmare e indurre a un utilizzo consapevole del materiale, a modi insieme tradizionali e innovativi di esprimere il progetto; a proporre, nella semplificazione delle forme, l’essenza della materia e dei principi architettonici, rilanciando la cultura di quella costruttività (tipica del Mediterraneo) messa in ombra dagli "internazionalismi" e dalle mode dell’artificiale.
Inoltre esaurienti sono le spiegazioni tecnologiche, quelle degli aspetti geologici, le descrizioni delle modalità estrattive e di posa: sono esse una conferma del proponimento teorico, nella misura in cui consolidano e concretizzano il sapere.
Alcune delle opere contemporanee o dell’antichità, portate ad esempio, sono illustrate con abbondanza e originalità di dettaglio.
E’ il caso ad esempio del Colosseo, oppure della nuova "aula Padre Pio", a San Giovanni Rotondo di Renzo Piano, per le quali la descrizione strutturale, partendo dagli elementi lapidei, consente una spiegazione compositiva forse inedita.
Altre opere contemporanee meno note (ad esempio la piazza Caracciolo a Sammichele), presentate e contestualizzate al tema, appaiono gioielli architettonici da "scoprire" e valorizzare. Il repertorio bibliografico di manuali, saggi, articoli, monografie è ordinato con accuratezza cronologica.
C’è infine un indice degli autori delle foto (la gran parte sono dello stesso Acocella); un indice dei luoghi e dei nomi citati.
Anche il progetto grafico formulato da Massimo Pucci è originale e meritevole di attenzione: si è sottratto alla rigida e antitetica scelta fra composizione simmetrica (di matrice "classica") e composizione asimmetrica (di definizione contemporanea) e ha sviluppato una ricerca compositiva, che consente più opportunità, variazioni, nessi combinatori, gerarchie interne.
La sua struttura spaziale elegge, sulle due pagine di ogni "apertura" del libro, tre assi principali di composizione: due verticali centrali (rispetto ad ogni singola pagina) ed uno orizzontale che taglia in mezzeria le due pagine contigue.
Questi tre assi di natura simmetrica consentono di ordinare, orientare e declinare in modo estremamente variato il progetto grafico del libro, marcando, mediando o negando simmetria (o asimmetria) impaginativa.

Roberto Gamba

(Domus n. 879, 2005)

(Visita il sito Domus)

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Intervista a Alberto Bartolomei


Alberto Bartolomei Contitolare Il Casone s.p.a.

Davide Turrini: molti settori del mondo produttivo dei lapidei sono attraversati da una forte crisi. Qual è la situazione nel comprensorio estrattivo di Firenzuola?
Alberto Bartolomei: il nostro comparto è caratterizzato da un’estensione di ridotte dimensioni ed anche le sette aziende estrattive che vi sono insediate hanno strutture di taglio medio-piccolo. Tutti i produttori di lapidei che operano attorno a Firenzuola eseguono cicli di lavorazione completi, dall’estrazione in cava fino alla realizzazione del prodotto finito da destinare al mercato edilizio; così, col passare degli anni, non si è mai creata una dissociazione tra aziende specializzate eminentemente nell’estrazione ed operatori vocati esclusivamente alla trasformazione. Tutto ciò ha rappresentato certamente un punto di forza.
Inoltre, per un comparto così piccolo è stato abbastanza agevole muoversi con efficacia nel campo della promozione, ed oggi la nostra pietra gode di un momento di buona affermazione commerciale. La domanda internazionale del prodotto è cresciuta, soprattutto per quanto attiene al design e alla progettazione d’interni. Negli ultimi quattro anni il fatturato dell’intero comprensorio estrattivo è aumentato di circa il 40%.

D.T.: impieghi tradizionali in interventi di restauro e riqualificazione o applicazioni inedite per il progetto contemporaneo? Qual è il futuro della pietra di Firenzuola?
A.B.: sino ad ora, purtroppo, il nostro paese si è fermato troppo spesso ad un uso tradizionale di questa pietra e non ha accolto le applicazioni più innovative del prodotto, che già esistono e sono state impiegate all’estero con risultati più che soddisfacenti. Le concause principali di questo fenomeno sono due: le specifiche imposte dai necessari vincoli sugli abitati storici e i costi del materiale lapideo che non si adattano alle scarse risorse economiche dei programmi italiani di architettura contemporanea. A questi fattori si deve aggiungere una certa mancanza di coraggio progettuale dovuta fondamentalmente ad una cattiva conoscenza tecnica del materiale.
L’azienda cresce se c’è la domanda, se c’è la sfida di utilizzare un prodotto innovativo all’interno di un progetto dotato delle giuste risorse finanziarie. Ecco allora che si devono incontrare un committente, un progettista ed una azienda disposta a seguire nuovi percorsi di ricerca e di produzione. Io auspico che ciò possa accadere sempre di più, soprattutto in Italia. Solo in questo modo la pietra di Firenzuola, oltre a continuare ad alimentare i programmi di restauro dei nostri centri storici, potrà esplicare le sue potenzialità costruttive nel progetto contemporaneo.


Vista di Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste con la nuova pavimentazione in pietra di firenzuola fornita da Il Casone s.p.a. Progetto di Bernard Huet con Gaetano Ceschia e Federico Mentil.

D.T.: mi pare che a questo punto del nostro dialogo si debbano affrontare due problematiche di grande attualità: la prima è quella della diffusione della conoscenza tecnica dei materiali lapidei; la seconda riguarda un settore in cui spesso l’innovazione è confusa con il mero ampliamento dell’offerta commerciale attraverso nuove cromie litiche o nuove finiture di superficie.
Come incrementare allora il grado di consapevolezza dei progettisti nei confronti delle reali caratteristiche dei materiali e come innovare in modo sostanziale il prodotto litico e le tecnologie costruttive ad esso connesse?
A.B.: credo che un rapporto stretto di collaborazione con i progettisti sia indispensabile per innovare realmente l’impiego dei lapidei naturali, che per loro natura lasciano pochi margini di “reinvenzione” rispetto, ad esempio, ai prodotti delle industrie laterizie o ceramiche. In pratica i risultati migliori si ottengono quando l’azienda opera come un vero e proprio ufficio tecnico del progettista.
In questo senso sono indispensabili investimenti consistenti nel campo della ricerca e della certificazione di qualità: le aziende del settore devono fornire al progettista un materiale di cui sono state completamente analizzate e chiarite le caratteristiche fisico-tecniche. Per suscitare un rinnovato interesse nei confronti dell’architettura contemporanea di alto profilo progettuale, il mondo dei lapidei deve rifondare la caratterizzazione del prodotto su basi serie ed aggiornate.
Spesso le specifiche tecniche richieste nei capitolati per i nostri materiali sono sbagliate, tuttavia come aziende non abbiamo voce in capitolo per ridiscuterle, non abbiamo credibilità poichè siamo i venditori del prodotto. Ecco allora che ci dobbiamo preoccupare di coinvolgere enti esterni, come ad esempio le Università o altri centri di ricerca, per studiare il nostro prodotto e per comunicare all’esterno dati attendibili.


Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste. Dettagli delle lavorazioni superficiali delle lastre in pietra di Firenzuola fornite da Il Casone s.p.a.

D.T.: al contrario di ciò che accade per le industrie del laterizio o del cemento, il quadro d’insieme delle associazioni di settore dei lapidei è estremamente frammentato. Su tutto il territorio nazionale esistono numerosi consorzi ed enti di promozione che operano con strategie molto diversificate, e non sempre efficaci per l’affermazione del prodotto. L’associazionismo di settore può rappresentare un punto di forza per il futuro del mondo dei lapidei?
A.B.: è vero che la frammentazione esiste e che costituisce certamente un aspetto di debolezza della nostra realtà produttiva. Credo che in questo campo sia necessario un lavoro enorme sì nei contesti locali ma, soprattutto, nel più ampio quadro nazionale, dove le associazioni dovrebbero finalmente diventare dei centri propositivi, capaci di gestire il rapporto col legislatore, per risolvere in modo organico e coordinato le problematiche specifiche delle attività estrattive.
In qualità di vicepresidente del COPSER, cioè del consorzio che riunisce i cavatori del comprensorio di Firenzuola e tiene i rapporti con le istituzioni, posso dire di credere molto in queste tipologie di enti, in cui le singole aziende si possono riconoscere e possono trovare strategie comuni. A livello locale abbiamo già lavorato molto e vogliamo continuare ad impegnarci.
Per l’esattezza nella nostra realtà coesistono tre enti associativi legati alla produzione della pietra: il primo è appunto il COPSER, un consorzio di servizi con magazzino centralizzato e macchine consortili che fanno lavorazioni per tutti gli associati; il secondo è il COREFA che si occupa del recupero e dello smaltimento dei rifiuti di estrazione e di lavorazione dei lapidei; infine esiste il Consorzio delle Città delle Pietre Ornamentali, che si occupa principalmente di promozione del prodotto ed è costituito dalle imprese e dai Comuni dei tre comparti delle pietre “minori” della Toscana, cioè pietra serena, travertino e alabastro.
L’esempio di Firenzuola è un esempio importante di funzionamento dei consorzi. Grazie alle sinergie che abbiamo creato con gli enti locali siamo riusciti a gestire in modo vincente il problema dell’impatto ambientale delle cave. Nel nostro Comune l’attività estrattiva è stata sempre e comunque salvaguardata; i luoghi di escavazione della pietra sono stati circoscritti ad un’area ben precisa, limitando al minimo le ricadute negative sull’ambiente e sul paesaggio.
Un altro risultato importante che abbiamo ottenuto grazie all’attività del Consorzio, è stato quello relativo all’ampia divulgazione di un corpus aggiornato ed attendibile di dati sulla qualità delle nostre pietre. Coinvolgendo le Università di Firenze e di Bologna, abbiamo pubblicato uno studio importante sulle caratteristiche fisico-meccaniche dei materiali che produciamo e sui requisiti minimi che le pietre possono garantire a seconda del tipo d’impiego. Il prossimo impegno del Consorzio è quello di studiare il marchio di origine e qualità per prodotto lapideo, per il quale stiamo già lavorando nell’ambito di una convenzione con il Politecnico di Torino e l’Università di Bologna; queste istituzioni redigeranno a breve il disciplinare tecnico indispensabile per ufficializzare poi la certificazione.

(Vai al sito Casone)

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Intervista a Guido Poccianti


Guido Poccianti Amministratore unico Sannini Project

Lo scorso 2 marzo, a Firenze, in occasione del convegno “Verso un Nuovo Rinascimento”, la redazione di architetturapietra2.sviluppo.lunet.it, ha incontrato alcuni partecipanti all’evento per una conversazione a più voci sui temi principali al centro del dibattito della giornata. L’editazione di questi dialoghi continua con l’intervista a Guido Poccianti.

Davide Turrini: la Sannini Project che lei rappresenta da molto tempo è impegnata in un processo di rinnovamento del cotto. Può riassumere le tappe del percorso che vi ha portato ad essere oggi una delle realtà d’avanguardia nell’innovazione tecnologica del questo prodotto, forse il più emblematico della tradizione costruttiva italiana?
Guido Poccianti: in questi anni abbiamo prima di tutto fatto ricerca, ci siamo aggiornati, senza rinunciare alla nostra identità, abbiamo rivisitato il nostro materiale “reinventandolo” per renderlo accessibile all’architettura contemporanea.
Lo sforzo più grande che abbiamo fatto è stato quello di cambiare mentalità per non rivolgerci solo al mondo del recupero e del restauro ma per offrire prodotti realmente innovativi al progetto contemporaneo, sia a scala architettonica che a scala urbana.
Ci siamo confrontati con campi applicativi molto difficili e la prima cosa che abbiamo capito è che essendo il cotto un materiale estruso che si produce in genere in consistenti quantità di elementi, allora potevamo facilmente ammortizzare la forma della filiera e potevamo dire ad ogni progettista “progettiamo insieme, disegna il tuo mattone”.
Ecco allora che gli architetti hanno cominciato ad arrivare in azienda per studiare con noi le forme e i colori dei loro nuovi mattoni e hanno lentamente cominciato a riconoscersi nella loro architettura, fatta di un cotto che attraverso il disegno della loro matita diventava sempre più contemporaneo. Si è trattato di un grande passo avanti. Mario Botta che oggi presenta il bel progetto del museo di Seul ha trovato in Sannini una organizzazione completa, che lo ha accolto e che ha piegato il materiale laterizio alle sue esigenze estetiche e costruttive: insieme abbiamo raggiunto risultati importanti.
Oltre a lavorare gomito a gomito con gli architetti abbiamo stabilito joint venture con altre aziende in un metodo di lavoro collaborativi che oggi è ormai alla base di tutto il nostro operare e di cui registriamo gli effetti benefici in termini di qualità del prodotto e di riverberazione reciproca di visibilità.
In proposito le cito alcuni esempi. Con la Stone Italiana abbiamo realizzato una lastra di cotto ricomposto delle dimensioni di 3 metri x 3.2 metri con numero limitato di agganci metallici. La tecnologia dei ricomposti ha permesso di ottenere elementi di grandi dimensioni, aumentando la versatilità dei pezzi utilizzabili per pavimenti galleggianti come per pareti ventilate, e riducendo i punti di ancoraggio con un notevole abbassamento dei costi di montaggio. Con la Metra, una delle più importanti aziende italiane di profilati metallici, abbiamo poi tentato di risolvere il problema dell’esclusione degli infissi in alluminio dai centri storici italiani. Rivestendo il loro materiale metallico con il cotto, abbiamo ottenuto una finestra con tutti i vantaggi dell’alluminio ed un’estetica esterna assolutamente inedita che le soprintendenze cominciano a guardare con interesse.


Alfonso Acocella, Involucri in cotto (5 ed., 2005, con Guido Bondielli Sannini Project)

D.T.: vorrei ritornare in chiusura al tema centrale del convegno di oggi. Quali sono i vostri obiettivi e le strategie future per portare questo importante progetto del “Nuovo Rinascimento” ad una reale presa sulla cultura italiana?
G.P.: questo progetto nasce da un sogno, da un forte desiderio che accomuna progettisti e realtà aziendali che credono negli stessi valori e “parlano la stessa lingua”. È vero che il Rinascimento del passato è stato un fenomeno unico e irripetibile, ma anche quella “rinascenza” nasceva da una comunità d’intenti, da un comune desiderio di un piccolo gruppo di protagonisti che, sapendo miscelare le loro singole specificità intellettuali e operative su un progetto comune, hanno dato vita ad un movimento culturale dalla carica dirompente.
Ecco allora che si impone una prima riflessione, e per farla voglio partire dalla mia esperienza personale. Dirigendo l’azienda Sannini entro quotidianamente in contatto con il mondo dell’architettura e mi rendo conto che l’architettura contemporanea italiana è in una situazione complessiva peggiore di quella del resto dell’Europa, per disponibilità di risorse e livello qualitativo generale.
In paesi come l’Inghilterra, la Germania, la Francia e la Spagna da molto tempo attraverso le architetture contemporanee si ridefinisce di continuo l’identità delle città. Pensando all’immagine di Parigi, oltre ai monumenti del passato, oltre a Notre Dame, ci passano davanti agli occhi la Tour Eiffel, il Centre Pompidou, la piramide vitrea del Louvre, in una concatenazione di “eventi architettonici” contemporanei che di volta in volta hanno marcato in modo indelebile, al pari e forse più delle grandi architetture antiche, l’immagine urbana e più in generale quella nazionale. Se pensiamo alla Germania ricordiamo Potsdamer Platz che ogni anno raggiunge quasi lo stesso numero di visitatori di Piazza del Campo a Siena; l’immagine della Spagna contemporanea è inscindibilmente legata al Guggenheim Museum di Bilbao le cui collezioni non eguagliano certo quelle degli Uffizi o dei Musei Vaticani, ma in soli 10 anni di vita, il museo di Gehry ha consolidato un numero di visitatori annuali in grado di competere con le realtà italiane che hanno centinaia d’anni di storia alle spalle.


I nuovi formati della Sannini. Da Involucri in cotto (5 ed. 2005)

Il nostro rischio è che la “prima industria” nazionale, cioè il turismo, entri in crisi, perdendo larghe fette di introiti soprattutto legati a quel turismo di qualità che si informa, che è colto e curioso, e che cerca nuovi itinerari di offerta culturale. E’ giunto il momento che anche in Italia l’architettura contemporanea diventi un polo di attrazione per il turismo, una molla per il suo rilancio. Per troppo tempo ci siamo adagiati sugli allori, oggi con il “Nuovo Rinascimento” vogliamo inaugurare una nuova stagione di dinamica progettualità culturale ed imprenditoriale.
Lo scopo principale del convegno di oggi è quello di far capire alla gente che si può tornare a credere in una architettura italiana di qualità, in una architettura che si può inserire a pieno titolo nella contemporaneità pur non rinunciando all’identità dei suoi materiali: il marmo, la pietra e il cotto. Avere il coraggio di riscoprire le nostre radici e riproporle in chiave contemporanea non vuol dire essere retrò, essere nostalgici, ma significa ritornare ad essere competitivi.
I progetti che vengono presentati oggi dimostrano che questa architettura in Italia esiste ed è realizzata da maestri come Mario Botta, Boris Podrecca, e da giovani progettisti come Marco Casamonti, che nella cantina Antinori di Bargino ha siglato, in un certo senso, il manifesto costruito di questo “Nuovo Rinascimento”, quindi l’utilizzo dei materiali della tradizione come il cotto, la pietra ed il marmo in chiave contemporanea.


Edificio a Milano di Maurice Kanah. Da Involucri in cotto (5 ed. 2005)

(Vai al sito SANNINI)

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Intervista a Marco Casamonti


Marco Casamonti Architetto e Direttore della rivista Area

Il contesto dell’intervista. Il Progetto per la cantina Marchesi Antinori a San Casciano Val di Pesa di Archea Associati (studio fondato da Laura Andreini, Marco Casamonti e Giovanni Polazzi), recentemente presentato al Convegno fiorentino “Verso un nuovo Rinascimento”, è il tema centrale, ma non unico di questa intervista.
La possibilità di fare domande a Marco Casamonti – animatore di Archea e custode di tutti i suoi “segreti” – ci consegna l’opportunità di effettuare un confronto non convenzionale sulla disciplina (visto in questa occasione specifica attraverso la prospettiva di un singolo progetto) iniziando una discussione che avrà sicuramente altri momenti di approfondimento.
Internet non pone problemi al progetto editoriale che ci siamo dati. La rete è generosa di spazi editoriali, esonerata com’è dai costi legati al consumo di carta, al confezionamento, alla spedizione dei media tradizionali. Ecco allora che le nostre domande, più che mirare alla costruzione del consenso intorno agli intervistati, diventano in parte assertive e ricercano sempre il confronto critico.
Dunque, apriamo la questione.

Alfonso Acocella. Il 1993 è l’anno in cui conosco Marco Casamonti, giovane dottorando di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Genova; nell’incontro mi consegna – insieme a dei fotocolor di opere di Aurelio Cortesi – delle lastre professionali inerenti una ristrutturazione di casa colonica realizzata da Archea. Per me è l’anno di “Tetti in laterizio”.
Poco più di dieci anni dopo – ovvero oggi – ritrovo Marco Casamonti professore ordinario al centro delle decisioni “orientative”, “selettive” di riviste periodiche: direttore di “Area”, condirettore di “Materia”, “animatore” di “d’Architettura” per il gruppo Federico Motta Editore all’interno del quale svolge anche il ruolo di direttore editoriale e scientifico del settore architettura.
Un percorso nel mondo editoriale, professionale, accademico, “rapidissimo” ed intenso, ricco di risultati e riconoscimenti.
Ecco allora la domanda: fortuna, o talento, o capacità strategica – tutta giocata, quest’ultima, all’interno di un mix di comunicazione, coinvolgimento di enti, istituzioni e aziende, con una sintesi convergente nel “personale” ed “altrui” progetto d’architettura?
Marco Casamonti. Credo che nel percorso professionale di un architetto conti molto anche la buona sorte, ovviamente si tratta di un’opportunità che non ti libera dal dovere di una intensa attività di ricerca da condurre con attenzione e pervicacia, ma è certo che ci sono dei passaggi nella vita in cui occorre avere un po’ di fortuna e ciò è capitato più volte nella mia vita. Certamente occorre, come in tutti i campi, farsi trovare nella situazione in cui la fortuna possa far sentire i propri effetti, tuttavia se questo è vero sul piano delle opportunità e del mestiere non vale sul piano culturale e sulla capacità di elaborazione che rimane appannaggio del lavoro, dello studio e della ricerca, attività a cui ho sempre dedicato molto tempo e grandi energie.
Per quanto riguarda l’attività editoriale posso dire che è nata da un interesse verso la critica di architettura e nella convinzione che l’architettura prima che una professione, un mestiere, sia una disciplina di straordinaria tradizione, un ambito di indagine di valore collettivo a cui è collegata una bellissima storia delle teoria architettonica in continuo divenire. Pertanto ho sempre ritenuto necessario fino dagli anni universitari lavorare sul progetto considerandolo, sì come un’ attività operativa, ma anche come strumento di conoscenza e di ricerca connesso all’indagine teorico-critica. Tutto ciò porta inevitabilmente a leggere moltissimo e anche a scrivere su e di architettura, ovvero a svolgere un’attività che ho iniziato con entusiasmo prestissimo per alcune riviste disponibili ad accogliere testi e scritti di un giovane studioso. Tra le diverse opportunità, durante gli anni del dottorato di ricerca, ho trovato nella Progetto Editrice, il vecchio editore proprietario della testata Area di cui il direttore era Giovanni Baule, uno spazio per scrivere di architettura e poter pubblicare parte del mio lavoro. La fortuna è stata che la casa editrice aveva limitati mezzi finanziari ed io ero disponibile a scrivere quasi gratuitamente e sobbarcarmi viaggi e la realizzazione delle immagini di architettura che facevo con Laura Andreini divertendoci moltissimo; ho quindi trovato uno spazio, una possibilità ed una strada che oggi mi pare oggettivamente più chiusa; in ogni caso, evidentemente, c’era la volontà di fare questo percorso. L’altro aspetto, quello che non riguarda la sorte, o meglio ciò definisce che poi “non tutto è fortuna”, coincide con la volontà di essere sempre se stessi tentando di fare ciò di cui si è capaci, senza esagerare ma anche senza timori: non credo che le vicende biografiche possano essere preordinate attraverso un’abile costruzione della vita delle persone fatta a tavolino; il segreto, che poi non è un segreto, coincide con la volontà di essere autenticamente se stessi accettando limiti e difetti del proprio agire. Personalmente ho sempre cercato di fare ciò che mi interessava senza eccessivi compromessi, ho iniziato a progettare e scrivere con grande passione poi è accaduto che sono diventato direttore della rivista ma anche questo è avvenuto per caso. L’editore aveva la necessità di cambiare il direttore responsabile per farne una rivista meno legata al design, settore che in quegli anni attraversava una certa difficoltà, e non avendo le economie e le finanze per scegliere un direttore di chiara fama ha puntato su un giovane. Io ero lì a disposizione, scrivevo articoli, quindi sono stato scelto onestamente senza particolari meriti. Ecco tornando all’ipotesi di prima si tratta della fortuna di esserci ma anche dell’impegno con il quale si svolge un’attività. Lo stesso vale per tutte le altre cose che abbiamo fatto, e sottolineo abbiamo, perchè devo moltissimo all’enorme lavoro svolto con i miei compagni di viaggio dello studio con cui condividiamo praticamente tutto. Se il mio percorso nel mondo dell’architettura nasce da interessi specifici, anche la linea editoriale portata avanti da Federico Motta Editore, si sviluppa attraverso interessi personali. Avendo una formazione da progettista, ho pensato che non avesse senso che il settore architettura della casa editrice da me diretto sviluppasse temi di ricerca legati alle monografie di autori e protagonisti del dibattito architettonico, compito che credo debba essere riservato ad uno studioso cultore di storia dell’architettura. Correntemente, forse con un atteggiamento pragmatico e realista, ho deciso di realizzare delle collane che si occupassero dei diversi aspetti del progetto, di tipologie ad esempio, di aeroporti, di stazioni, di cantine, di parchi, di biblioteche… volevo insomma che il tema centrale non fosse l’architetto e la ricostruzione storico-critica di una carriera, ma l’architettura.
Ho cercato sempre di lavorare su ciò che mi interessava e su ciò che pensavo potesse riuscirmi senza rischi ma soprattutto senza rischiare di sottrarre risorse ed energie alla mia attività di architetto. Fatalmente questo ha incontrato, e qui ci vuole un po’ di buona sorte, alcuni percorsi che hanno avuto un certo credito. Un altro aspetto fondamentale su cui rifletto spesso è che nella mia vita non c’è mai stata una distinzione tra il lavoro, gli hobby, il divertimento, le frequentazioni. Ho concluso gli studi universitari ma non ho smesso di studiare e, sinceramente non mi sono accorto di iniziare a lavorare. Studiavo dalle dodici alle quindici ore al giorno, spesso di notte, mentre di giorno utilizzavamo tutto il tempo per fare concorsi. Quando abbiamo aperto lo studio niente è cambiato. Continuavo a frequentare l’Università, continuavo a fare i concorsi, a lavorare di notte, continuavo a scrivere. Non mi sono mai accorto nè di essere cresciuto, nè di essere cambiato, ho sempre continuato a lavorare per i miei interessi specifici che oggettivamente erano e sono monodirezionali.
I risultati, ognuno li può giudicare positivamente o negativamente e penso anche che a volte abbiamo anche avuto dei percorsi sfortunati, o dei mancati riconoscimenti: ad esempio al concorso dello IUAV, vinto da Miralles, secondo Van Berkel, siamo arrivati terzi anche se penso che quel progetti meritasse molto di più. Al concorso per la sede dell’ASI, vinto da Fuksas, siamo arrivati secondi, forse scontando una oggettiva condizione ambientale. Tuttavia se metto sul piatto della bilancia gli aspetti positivi e gli aspetti negativi delle nostre vicende penso senz’altro di non potermi lamentare.

A. A. Editoria cartacea. Nella biografia scientifica di Marco Casamonti il 1999 è l’anno in cui la rivista “Area” viene editata dalla Federico Motta Editore. Ma, se non ricordo male a proposito delle vicende di”Area”, Marco Casamonti come direttore editoriale, arriva prima dell’acquisizione della testata da parte della nota casa editrice milanese, priva a quella data, di una rivista di architettura.
Allora la domanda è: la Federico Motta Editore ha scelto Marco Casamonti o Marco Casamonti ha scelto la Federico Motta Editore?
M. C. Sono vere un po’ tutte e due le cose, nel senso che quando ho accettato di fare il direttore di Area per la Progetto Editrice – con un’azione volontaristica legata alla sola condizione di poter portare la redazione a Firenze e trasformare la rivista da trimestrale in bimestrale – , dopo il primo anno di lavoro, mi sono reso conto che la testata, nonostante le capacità del vecchio editore, non poteva crescere senza adeguati investimenti finanziari e senza che ci fosse una casa editrice forte alle spalle. Per quanto noi lavorassimo con impegno, per quanto la rivista ottenesse riscontri, costruissimo rapporti e relazioni solide con gli studi più importanti e conosciuti, la testata non riusciva a concretizzare uno sviluppo coerente poichè non poteva corrispondere alla necessità di una maggiore tiratura, di una migliore distribuzione, di un rinnovamento nella grafica e della realizzazione in proprio di immagini e servizi. Conseguentemente, grazie alla comprensione ed alla disponibilità del precedente editore abbiamo iniziato a contattare diverse case editrici per verificare se c’era interesse ad acquistare la testata: tornando ancora alla battuta iniziale occorre fortuna, ma bisogna cercarsela. Siamo andati a Basilea a parlare con Birkhauser, uno dei più apprezzati editori di architettura a livello internazionale, ho scritto e telefonato a Vitta Zeltmann di Skira poichè, dopo la cessione di Electa a Modadori, erano rimasti senza le riviste storiche e pensavo potessero avere interesse a riprendere ciò che avevano lasciato. Zeltmann mi rispose che, dopo aver editato Casabella per tanti anni, di riviste di architettura non ne voleva più sentir parlare. Insomma, dopo aver fatto il giro di mezza Italia e di mezza Europa, ed aver spedito collezioni intere della rivista in giro per il mondo, Federico Motta ci ha chiamati poichè, apprezzando il lavoro svolto, pur non essendo interessato all’acquisto della testata, era alla ricerca di un direttore editoriale per i volumi del settore architettura. Naturalmente risposi che ero legato alla rivista e non avevo nessuna intenzione di svolgere il ruolo di direttore editoriale; successivamente, poichè la situazione non accennava a sbloccarsi Federico Motta è stato … diciamo “costretto”, o meglio convinto a prendersi, con me, l’onere della testata. In effetti la casa editrice aveva iniziato una collaborazione con Pierluigi Niccolin che lavorava contemporaneamente come direttore di Lotus per Electa, avevano quindi un consulente che lavorava necessariamente per un’altra casa editrice. Probabilmente, nonostante la bella e raffinata collana di architettura avviata da Pierluigi, cercavano un direttore editoriale che lavorasse in esclusiva per la casa editrice. Fortunatamente la rivista, appena è stata presa in mano da Motta, ha avuto quello slancio e quel supporto editoriale che ci immaginavano e nel giro di quattro, cinque anni è cresciuta moltissimo. Posso dire che inizialmente avevamo meno di seicento abbonati e oggi ne abbiamo oltre seimila, questo significa che in pochi anni, senza contare il primo periodo di avvio, diciamo … dal 2000 al 2004, la rivista è cresciuta nel numero degli abbonati oltre dieci volte il dato iniziale e ancora di più è cresciuta dal punto di vista delle vendite in libreria ed edicola e nelle adesioni del mercato pubblicitario. Per ciò che interessa strettamente a me, Area è cresciuta moltissimo nella considerazione e nell’attenzione degli architetti conquistando un proprio ruolo all’interno del dibattito contemporaneo sul progetto di architettura, ciò mi ripaga di tanti sacrifici anche personali. A onor del vero deve essere ricordato che tali risultati dipendono principalmente dall’attività e dalle capacità di un editore, Federico Motta, con cui è stimolante e divertente collaborare, una persona lungimirante e, a differenza di me, pragmatica e razionale, un amico a cui devo moltissimo della mia crescita umana e professionale. Certamente, se la rivista fosse rimasta in mano al precedente editore, un simile exploit, nonostante i buoni propositi, non si sarebbe potuto verificare.
D’altra parte ho sempre continuato chiaramente a fare l’architetto e ho sempre pensato che ciò che facevo per Motta, in quanto direttore di Area fosse un hobby, un lavoro straordinario ma complementare, mentre il mio centro di interesse doveva rimanere da un lato l’università, cioè la ricerca in ambito accademico – prima attraverso il dottorato, poi al post dottorato, successivamente come ricercatore, associato, ed infine come professore di prima fascia – , dall’altro ho sempre considerato il progetto come collante e matrice di ogni agire. Pensandoci, forse i compiti più difficili e complessi riescono bene proprio perchè li svolgi serenamente, senza obblighi. Forse, la fortuna, nel senso dei buoni risultati raggiunti dalla rivista, è legata anche al fatto che Area non è al centro assoluto dei miei interessi, ma rappresenta una grande straordinaria passione che mi consente di continuare a fare costantemente ricerca sul progetto. Il centro assoluto dei miei interessi è l’architettura e la possibilità/felicità di costruirla, a quello ho dedicato tutte le mie energie, chi legge la rivista è un architetto e probabilmente condivide più o meno consapevolmente queste aspirazioni sentendo Area vicina e utile, proprio come accade a me.

A. A. Editoria digitale: 2001. Anche qui Marco Casamonti gioca d’anticipo rispetto a chiunque altro, almeno in Italia. In avvio di millennio, nell’età di internet, Motta edita il portale digitale “Archinfo”. Qui però, almeno mi sembra, non è boom. Cosa pensa Marco Casamonti dell’editoria elettronica al confronto con quella tradizionale cartacea?
Faccio questa domanda non per trovare, o sottolineare, uno dei pochi cedimenti nel percorso strategico di Marco Casamonti, ma perchè il mio progetto editoriale architetturadipietra.it riparte da quello stesso territorio strumentale e informazionale – sia pur guardandolo da una diversa prospettiva e per altri fini – per tentare lentamente di ridare senso alla comunicazione d’architettura, di “innovarla”, riconsegnandole un senso civile, autenticamente critico. Vorremo trovare la via giusta. Riflettere sulle esperienze di chi ci ha preceduto è cosa sempre intelligente. Qual è l’esperienza. Quali le tue considerazioni al riguardo?
M. C. Intanto non è vero che Archinfo non sia un successo; dal punto di vista commerciale si può dire che Archinfo non ha avuto una crescita così forte come Area, o meglio ha avuto uno sviluppo buono ma inferiore alla speranze che tutti avevano riposto nei progetti digitali, progetti che sembravano inizialmente facili e semplici iniziative capaci di attrarre qualsiasi risorsa pubblicitaria mentre il mercato è stato meno generoso rispetto ad attese che comunque, è bene ribadirlo, erano esageratamente ottimistiche. Dal punto di vista dei contatti, del bacino di utenza e della penetrazione all’interno del mondo dell’architettura, Archinfo si è consolidato come strumento importante a cui hanno aderito oltre 35.000 utenti registrati che generano quasi un milione di contatti l’anno. Detto ciò è evidente che si tratta di uno strumento digitale, di un’editoria diversa e particolare. Inoltre è bene sottolinearlo se l’idea di realizzare un portale sul tema della costruzione, degli elementi e componenti per l’architettura, appartiene alle iniziative da me avviate per la casa editrice, oggi è seguita e gestita da uno staff completamente indipendente che sta lavorando molto bene offrendo una quantità rilevante di attività e informazioni. Dal punto di vista di quella che è davvero la realtà della rete, cioè la possibilità di connettere e collegare, è oggi realmente un grande successo, mentre dal punto di vista dei benefici finanziari direi che l’esperienza, non solo per Archinfo ma per tutti i portali digitali, ha dimostrato che le aziende, non sono ancora pronte per recepire internet come un mezzo di comunicazione diretto. Inizialmente tutti pensavano che le riviste cartacee con l’avvento di internet sarebbero finite e invece è successo esattamente il contrario, si sono rafforzate utilizzando la rete come strumento complementare.
Una rivista digitale non potrà mai sostituire tout-court una rivista cartacea, perchè gli architetti che rimangono magari, dieci, dodici ore davanti al computer per lavorare, quando la sera si vogliono rilassare, leggere e aggiornarsi, non si mettono a sfogliare pagine internet davanti ad un monitor e preferiscono invece sfogliare una bella rivista di architettura, studiando immagini e disegni stampati a tutta pagina. La rivista è anche un momento di contemplazione che nella vita si accompagna ad un momento di rilassamento. Certamente esiste un piacere un po’ voyeuristico di navigare in internet per vedere questo o quello, ma si tratta di informazioni fugaci. Il digitale, secondo me, deve essere usato per dare informazioni rapide, non troppo complesse, perchè gli approfondimenti si possono svolgere con maggior efficacia attraverso un libro, così come tu insegni con la pubblicazione del volume sull’architettura di pietra di oltre seicento pagine; ma come si potrebbe metterlo in internet? E chi potrebbe mai prendere visione, dalla rete, di quelle pagine che invece con un colpo di mano si possono sfogliare direttamente? Finisce che lo strumento cartaceo, per la consultazione e la contemplazione complessiva dell’opera, quando le informazioni sono moltissime, è ancora più veloce di internet. Per sfogliare mille pagine su internet impiego un’ora, per sfogliare mille pagine su un libro ci metto sessanta secondi, soffermando lo sguardo la dove mi interessa. Viceversa, se la ricerca contiene informazioni inquadrabili all’interno di un database, ecco allora che lo strumento digitale, dotato di un efficace motore di ricerca, diventa indispensabile. Il problema non è se internet sia più o meno efficace del cartaceo poichè sono strumenti dotati di ambiti e di servizi diversi. L’errore è quando si confonde e si portano sul digitale aspetti e metodi di studio che sono invece prettamente legati al mondo cartaceo; il libro non è sostituibile se non quando si edita una volume che dovrebbe contenere approfondimenti e contenuti e invece sembra un portale internet perchè contiene solo foto, immagini e informazioni di rapida consultazione. Credo che ogni strumento debba avere la sua collocazione, la sua identità, e funzionare esattamente per lo scopo che si prefigge. Le mie considerazioni al riguardo collocano lo strumento digitale nell’alveo degli strumenti fondamentali per certi tipi di ricerche e per offrire servizi che non richiedono particolari approfondimenti; non saprei prendere un aereo o fare il biglietto di un treno se non avessi internet, però non mi sognerei mai di comprare dei mobili o un’auto per via digitale. Mentre comprare un ticket non presenta variabili, esiste un prezzo e il biglietto arriva direttamente a casa, quando devi comprare un bene particolare hai necessità di discutere con chi lo vende, hai bisogno dell’assistenza perchè quel bene può variare nel tempo. Per tutto ciò che è fugace, istantaneo, che non lascia adito a dubbi, l’informazione digitale è fantastica, mentre, ripeto, per tutto ciò che richiede approfondimento, studio, ricerca, attenzione, sfumature, posizioni diverse, ecco allora che serve uno strumento di valutazione lento ed oggettivo quale, ad esempio, il libro. Insomma, nonostante crescano le mediateche, le biblioteche non finiranno mai.


Sezione trasversale delle Cantine Marchesi Antinori.

A. A. Siamo così giunti all’ultima domanda relativa al Progetto per la cantina Marchesi Antinori a San Casciano Val di Pesa inscritta nel paesaggio toscano. Quel paesaggio che è oramai, valore ambientale ed economico allo stesso tempo, irrinunciabile.
La trasformazione (ogni trasformazione) rischia di avere armi spuntate rispetto all’equilibrio, alla misura, alla dolcezza del modellato collinare che si distende in questo lembo di terra fra Firenze e Siena. Un gioiello, fra i tanti, di quell'”entroterra” italiano di cui ci ha parlato in forma sublime Yves Bonnefoy, nel suo saggio L’Arrière-Pays, di recente tradotto e pubblicato dall’Editore Donzelli.
La domanda sul progetto per la cantina dei Marchesi Antinori si declina attraverso tre scalarità (che sono scalarità concettuali oltre che dimensionali).
Quali i caratteri generali – o se si vuole – lo stile del progetto?
Quali le scelte spaziali?
Infine chiediamo dove quei materiali tradizionali iscritti nel sottotitolo del convegno del “Nuovo Rinascimento” – su cui tanto abbiamo lavorato per restituirli alla contemporaneità – trovano accoglienza, un linguaggio aggiornato? Cosa offrono alle soglie del terzo millennio?
M. C. Questo argomento mi interessa molto di più dei precedenti perchè, come ti ho detto, rappresenta il centro dei miei interessi, ovvero l’architettura propriamente costruita, il progetto, e non un’attività legata allo sviluppo degli strumenti di divulgazione della critica che rappresenta il mezzo e non il fine per approfondire il tema dell’architettura. Inoltre il modo migliore di fare ricerca è, per l’architetto, la sperimentazione che egli può mettere in campo attraverso il progetto. Sono poi particolarmente legato a questa proposta per la cantina Antinori poichè il progetto affronta temi di straordinaria complessità, dal paesaggio, alle tecniche costruttive, ai materiali; inoltre l’ultimo progetto contiene le fatiche e le sperimentazioni che senti più presenti e vicine, più attuali e incisive, l’ultimo lavoro è conseguentemente sempre “il più interessante” e se aggiungi che ho iniziato a lavorare al progetto quando non era ancora andato in stampa il libro sulle cantine a cui ho lavorato per oltre due anni, puoi capire quanto per noi sia importante questo lavoro. É un progetto che pone un rapporto dialettico con il paesaggio, nè subalterno, nè arrogante, che individua una relazione diretta con la storia e con la tradizione rifiutando contemporaneamente, tanto la nostalgia, quanto il nuovo per il nuovo, non rappresenta quindi, nè un rifugio nel passato, nè una fuga in territori inesplorati, piuttosto direi un’immagine consapevole delle condizioni operative e del contesto letto ed interpretato come quadro di riferimento. Si tratta ancora di una risoluzione architettonica che attraversa un rapporto sincero con il territorio naturale e con i materiali che lo modificano mediante un atteggiamento nè eccessivamente contemplativo, nè totalmente virato verso lo stupefacente che certamente è parte della proposta ma rimane celato, come il vino, all’interno della terra da cui proviene. É quindi un progetto che pone momenti di riflessione che rappresentano, almeno per quanto ci riguarda, il punto di partenza e di arrivo di un percorso attraversato dall’architettura italiana; percorso che su tali problematiche ha costruito uno specifico ambito d’azione delle proprie speculazioni conoscitive, penso in particolare alla straordinaria stagione degli anni cinquanta e sessanta. Il progetto è ancora un’ipotesi di superamento di una modernità indifferente; una prova che gli architetti italiani avevano già compiuto e maturato, penso a questo proposito a figure come Gardella, penso ad Albini, a Rogers, Michelucci, ovvero autori e conseguentemente progetti, che in qualche modo tentavano di lavorare oltre la contemporaneità, sull’attualità, sul quotidiano, con un atteggiamento improntato ad un realismo che riusciva a non disperdere il grande valore e gli apporti di una tradizione che la cultura italiana porta inevitabilmente con sè. Se ci riflettiamo con attenzione si tratta di un passaggio di eccezionale significato che non ha caratterizzato, nel periodo postbellico, nessun contesto, movimento, o dibattito culturale ad eccezione del nostro, ecco perchè in quegli anni tutti guardavano con attenzione verso l’Italia e agli architetti italiani. A titolo meramente esemplificativo basta guardare all’influsso che la cultura italiana ha esercitato in quegli anni su quella spagnola, pensiamo a Coderch che incontra Ponti e si impadronisce di Gardella, pensiamo quanta importanza e quanto seguito avessero gli editoriali di Ernesto Rogers su Casabella. Credo che dobbiamo tornare a guardare con attenzione ai risultati conquistati in quegli anni, a quella capacità di essere contemporaneamente antichi e moderni, contemporaneamente proiettati verso il futuro ma solidamente radicati alle proprie tradizioni. Questa è stata la caratteristica centrale di ogni epoca in cui la cultura e segnatamente l’architettura italiana, ha palesato tratti di assoluta originalità così come è avvenuto a cavallo tra il quattrocento e il cinquecento a Firenze, anche se il titolo del covegno a cui ci riferiamo: ” Verso un nuovo Rinascimento” mi sembra eccessivamente retorico e sinceramente irriverente. Tuttavia il Rinascimento e la sua figura principe, Filippo Brunelleschi, che era al tempo stesso architetto di straordinaria modernità ma anche interprete in grado di dialogare con la classicità, costituisce un esempio per niente desueto, anzi mostra per i suoi contenuti artistici e spirituali il paradigma di ogni cambiamento. La sequenza di archi e colonne dell’Ospedale degl’Innocenti costruisce allo stesso tempo uno spazio straordinariamente nuovo ed un’interpretazione di moduli e modelli desunti senza remore dall’antichità. Con tutte le differenze e le distanze che ci separano da queste vicende, ritengo che la cultura italiana abbia una chance di eccezionale interesse da giocare sul piano internazionale: quella di essere autenticamente originale per la sua vera sostanza che è conoscenza, sapere, teoria, scienza. Per essere autenticamente se stessi, gli architetti italiani non possono far altro se non fare riferimento alle proprie conoscenze, alla specificità di una cultura traboccante di modelli da interpolare con le esigenze e le istanze di un mondo che si trasforma e globalizza distruggendo differenze e specificità. Non c’è nessun’altra via alternativa per cui un architetto italiano possa avere un riscontro sul piano internazionale se non quello di essere interprete della propria identità. Su questo, posso sbagliarmi, ma al momento non ho dubbi … . Se fossi un grande committente di una qualsiasi multinazionale e volessi un progetto ad alto tasso di spettacolarità, espressionista e decostruito, non chiamerei mai un architetto italiano. Se volessi un’opera icastica e minimalista chiamerei Alvaro Siza, o un architetto che fa della riduzione formale la propria cifra, forse Powson, non chiamerei certo un architetto italiano. Cosa potrebbe chiedere il mercato ad un architetto italiano? Quello che ho sostenuto in precedenza, ovvero di essere contemporaneamente capace di innovare la propria tradizione, di conoscere e interpretare i fatti urbani , secondo una lezione ed un insegnamento, quello che attraversa il pensiero rogersiano fino ad Aldo Rossi, legato all’opportunità di “saper vedere” e costruire l’architettura della città, saper fare riferimento ai modelli, alla cultura, alla teoria, alla disciplina che in Italia trasuda in ogni edificio di rilievo.
Anche Renzo Piano, l’architetto italiano più conosciuto a livello internazionale, a ben vedere è un misto di artigianalità, di legame con le tradizioni e desiderio di innovazione, e certamente, più approfondisce il proprio lavoro, più il suo sguardo – inizialmente virato su di una deriva dell’immaginario fantascientifico degli Archigram – più introduce l’uso di materiali tradizionali, come l’uso del cotto, a Berlino, della pietra, a San Giovanni Rotondo per Padre Pio, o del legno come in Nuova Caledonia. Sembra anzi che col passare degli anni che il suo sguardo si rivolga con sempre maggiore frequenza verso tradizioni e radici lontane. Ciò non significa che abbia un atteggiamento nostalgico, ma che oggi il suo rapporto con la storia è assolutamente libero, esplicandosi, con la materia, attraverso un passato che nessuno può tacciare di storicismo. Questo atteggiamento maturo è la sostanza più importante del modo con cui un architetto italiano può osservare la realtà questo sguardo accompagna, almeno mi auguro, la sostanza del progetto della cantina Antinori. Volevamo infatti costruire un’ipotesi che fosse in grado di interpretare i luoghi, le tradizioni ed un modo di abitare proprio del Chianti, volevamo esprimere un modo di pensare e di agire che utilizzasse un linguaggio assolutamente contemporaneo, aggiornato, il linguaggio del nostro tempo ma che, contemporaneamente, fosse in grado di esprimere e valorizzare quelle istanze che il visitatore va ricercando nel paesaggio Toscano.


Visioni interne delle Cantine Marchesi Antinori.

Questa missione è stato detto, con un paragone forse eccessivamente azzardato, è la stessa miscela che si ritrova nei buoni vini, frutto a loro volta di un intenso lavoro di ricerca e sperimentazione, di innovazioni costanti benchè il vino sia sempre prodotto a partire dalla stessa materia prima: la terra. E proprio di terra, di terracotta è il cuore del nuovo edificio concepito come una sequenza di volte e navate incassate nella terra e costruite a partire da un drappeggio di cotto che ne colora la luce interna. La facciata dell’edificio, tema per cui inizialmente eravamo stati chiamati, non esiste, il prospetto è la collina stessa, è lo stesso vigneto che si distende sopra la copertura dell’intero manufatto. Strade, piazzali di carico e scarico delle merci, parcheggi, impianti ed ogni altro elemento accessorio che potrebbe recare danno al paesaggio, utilizzano il sottosuolo per dimensionare il proprio impatto sottoforma di un incisione, anzi per l’esattezza, due incisioni sul fianco della collina che permettono alla luce naturale di penetrare all’interno. In fondo l’ipotesi complessiva rimanda ad un progetto non disegnato ma semplicemente plasmato dall’andamento delle curve di livello che, tagliate in orizzontale, disegnano e caratterizzano il terreno.

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29 Marzo 2005

Interviste

Intervista a Boris Podrecca


Boris Podrecca Architetto e Direttore dell’Istituto di Progettazione Architettonica del Politecnico di Stoccarda

Davide Turrini: negli ultimi tempi l’architettura delle cantine vinicole è oggetto degli interessi di numerosi progettisti, come lei chiamati a rispondere alle istanze di una committenza che in questo "tempio del vino" concentra risorse e aspettative, sia sul versante della razionalizzazione del processo di vinificazione di qualità, che su quello del rilancio dell’immagine aziendale, e più in generale dell’identità di un prodotto di punta della tradizione italiana.
Quali sono state le linee guida con cui ha affrontato questo tema progettuale?
Boris Podrecca: la cantina di Bric, che presento a questo convegno, sorge in un territorio di confine tra Slovenia, Croazia e Italia, tra culture molto diverse. Dagli spazi aperti che circondano l’edificio si possono scorgere in lontananza i campanili di Grado, il porto di Trieste, Piancavallo, la costa slovena e dalmata. Così questa cantina è per me una sorta di autoritratto e non rappresenta semplicemente un’opera di architettura ma assume il valore di una importante opera di archi-cultura.
Mi spiego meglio: si tratta di un progetto con una forte valenza ripropositiva di una cultura architettonica che si rischia di perdere, cioè quella basata sul concetto archetipico, fondativo, della costruzione muraria a secco. In questo edificio, in polemica con l’abbandono dell’idea della muralità classica, io propongo murature massive in pietra, accostate a quelle pannellature leggere in legno che Otto Wagner ha già proposto più di un secolo fa.
Ed è proprio riallacciandomi a concetti espressi da Wagner che voglio sottolineare che per parlare oggi di "nuovo rinascimento" bisogna riflettere sul concetto di nascita, di origine, della identità di un luogo, di una tradizione architettonica: nel mio intervento per il convegno di oggi, che ho voluto intitolare Il consolidamento della Storia attraverso la Contemporaneità, cercherò di affrontare questa riflessione.

D.T.: che tipo di rapporto ha avuto con il committente della cantina di Bric?
B.P.: si è trattato di un committente che non faceva una cantina per puro piacere, ma ha da subito affrontato il problema del rilancio di un intero comprensorio, attraverso un progetto complesso e di vasta portata. Tutto un territorio ed un sistema produttivo si sono andati a ricostituire attorno alla cantina vera e propria dove si produce e si commercializza il vino, ma anche attorno ad un albergo per i visitatori, alla residenza dei proprietari dell’azienda e a numerosi altri servizi.
Ecco allora che si è trattato di un committente-mecenate che crede nei valori antichi della terra, della riconoscenza del lavoro altrui, ed è consapevole sì del suo interesse aziendale, ma anche della qualità della vita complessiva dell’ambiente e del tessuto sociale in cui vive ed opera. Si tratta di una nuova-antica sensibilità senza la quale non sarebbe potuta nascere una architettura di qualità.

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Intervista a Piero Antinori


Piero Antinori Presidente della Marchesi Antinori

Davide Turrini. Nuovi committenti per un Nuovo Rinascimento. Tentiamo di inquadrare la figura del committente contemporaneo di grandi opere di architettura?
Piero Antinori. Il committente deve possedere due caratteristiche fondamentali che possono apparire antitetiche ma in realtà non lo sono: deve porre al progettista precise richieste riguardanti le prestazioni dell’edificio da costruire e deve coltivare una particolare sensibilità nei confronti della “bellezza”. Oggi più che mai l’architettura oltre a soddisfare le esigenze funzionali per cui è concepita e realizzata deve essere bella, di alta qualità estetica e costruttiva. Non dimentichiamo che la bellezza può essere uno straordinario volano economico.
Nella cantina di Bargino, che presentiamo al convegno, la combinazione tra funzionalità e qualità intrinseche dell’immagine e della struttura architettonica porterà certamente ricadute positive sul nostro prodotto, sui vini del marchio Antinori, e più in generale sul contesto circostante.

D.T. Quale strategia aziendale sta alla base del progetto della cantina di Bargino?
P.A. La strategia nasce da una semplice considerazione che riguarda le caratteristiche del nostro cliente. Negli ultimi dieci anni il settore della produzione vinicola di qualità è mutato rapidamente: si è sviluppato il turismo dei vini, il consumatore si è evoluto, è diventato molto più curioso, non solo vuole conoscere il luogo e l’annata di produzione del vino, ma spesso vuole visitare personalmente la campagna, il vigneto, la cantina dove il prodotto viene creato, imbottigliato, invecchiato. Ecco allora chiarita l’importanza dell’immagine aziendale e più specificatamente dell’immagine del luogo di vinificazione.
Per noi oggi la cantina è un vero e proprio showroom. Oltre all’aspetto puramente tecnologico del sistema di vinificazione ci interessa moltissimo l’estetica dell’involucro architettonico entro cui pulsa il cuore della filiera produttiva.
Con un linguaggio fortemente moderno abbiamo voluto ricreare nella cantina di Bargino l’ambiente tradizionale delle fattorie delle colline toscane. La fattoria in passato non era semplicemente una proprietà agricola, ma era una comunità produttiva complessa, in cui tutti i prodotti della terra, nella loro ampia varietà, venivano trasformati sul posto. Così accanto alla cantina vera e propria si potevano trovare il frantoio, il mulino, il forno e ancora tutte le attività artigianali connesse alle lavorazioni agricole, come ad esempio quella del bottaio.
Di concerto con i progettisti dello studio Archea, abbiamo tentato di proporre al visitatore contemporaneo un ambiente di questo tipo, caratterizzato da molteplici attività integrate; accanto agli spazi per la produzione e la vendita del vino ci saranno il vivaio con l’impianto dei diversi tipi di vigneto, la vinsanteria per la produzione del passito, il laboratorio dove saranno costruite le botti, il frantoio, il forno a legna per fare il pane, un ristorante.

D.T. Piero Antinori è uno dei protagonisti del convegno di oggi intitolato “Verso un Nuovo Rinascimento”. Quali sono le vostre strategie per raggiungere questa dimensione auspicata di “rinascenza”, per consolidarla e per far si che essa si diffonda da Firenze, dalla Toscana, ad un contesto più ampio?
P.A. L’evento di oggi costituisce solo un punto di partenza in cui presentare progetti emblematici di ciò che abbiamo fatto e di ciò che vogliamo fare in futuro; spero che il numero dei progetti di qualità aumenti, e che, anche attraverso un fenomeno di emulazione, sempre più persone comincino a credere in un “Nuovo Rinascimento” possibile, innescando una sorta di reazione a catena anche nei programmi edilizi di committenza pubblica.
Ritengo che la forza della nostra iniziativa stia nella capacità di saper unire i volti diversi di una stessa identità storica, verso chiari obiettivi di innovazione futura. Gli strumenti sono quelli della sinergia tra una cultura antica e un’imprenditorialità dinamica e moderna che sentono la necessità di continuare ad affermare il loro stile. Avere già al nostro fianco tre grandi produttori di pietra, marmo e cotto, è un grande risultato, siamo ormai in un processo evolutivo che porterà ad esiti ulteriori.
Credo che i prossimi temi progettuali da affrontare con urgenza siano quelli delle periferie degradate, che tutti attraversiamo per raggiungere i centri storici, e quelli dei terminal infrastrutturali, penso ad esempio agli aeroporti, che oltre ad essere funzionali devono presentarsi come architetture di qualità, per poter essere finalmente considerati, a giusto titolo, i nuovi biglietti da visita delle nostre città.

(Vai al Sito Antinori)

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