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12 Settembre 2005

Eventi

Manifestazioni culturali alla 40° MARMOMACC VERONAFIERE

Cittadella di Marmo Arte Cultura

15-19 settembre / 29 settembre – 2 ottobre 2005, 2° PIANO PALAEXPO

Per il 40° Marmomacc, Veronafiere ha programmato un evento ricco di appuntamenti dedicati alla sperimentazione e alla ricerca con l’impiego dei lapidei.
Al secondo piano del Palaexpo a partire dal 15 settembre e fino al 2 ottobre, si aprirà la Cittadella di Marmo Arte Cultura, un vero e proprio villaggio, ricco di mostre, incontri a tema ed eventi speciali dedicati all’architettura e al design con l’impiego di marmi e pietre.
Grandi nomi dell’architettura e maestri della pietra fonderanno le loro esperienze per esaltare le qualità di questi materiali.

Premio Internazionale Architetture di Pietra
Il più importante premio internazionale che riconosce e promuove le opere che, per qualità architettonica e compositiva e per valore espressivo nell’impiego dei materiali lapidei, costituiscono gli esempi più significativi nel panorama internazionale.
Mostra fotografica, convegno, premiazione e catalogo.
Interventi di:
Jorge Silvetti
Alberto Campo Baeza
Pedro Pacheco
Antón Garcia-Abril
Claudio Silvestrin
Marco Albini

La Pietra Armata
Concezione e costruzione della chiesa di Padre Pio di Renzo Piano

Mostra di architettura a cura di Domenico Potenza
Promossa dalla Provincia di Foggia, la mostra è composta di disegni, modelli e foto, ed è intesa ad approfondire gli aspetti costruttivi e architettonici della nuova Aula Liturgica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano. In particolare documenta l’applicazione innovativa nelle strutture lapidee portanti.

L’arte della stereotomia
I Compagnons du Devoir e le meraviglie della costruzione in pietra

Mostra di modelli a cura di Claudio D’Amato
Da una comune ricerca della Facoltà di Architettura di Bari con i Compagnons du Devoir è nata questa mostra, la prima in Italia dedicata alla prestigiosa associazione di “tailleurs de pierre” sorta in Francia otto secoli fa: la più rigorosa e coerente istituzione di trasmissione del sapere e della esperienza pratica del costruire in pietra in Europa.
Sono esposti i più celebri “capolavori” dei Compagnons nell’applicazione della “stereotomia”, ossia l’insieme di tecniche tradizionali del taglio delle pietre e della costruzione di complesse strutture architettoniche massive.

Liquid Stone
La modellazione in digitale della pietra e i nuovi linguaggi fluidi dell’architettura

Mostra di mock-up a cura di Vincenzo Pavan e Christian Pongratz
Mostra di mock-up in cui viene applicata la modellazione su pietra da progetto digitale tridimensionale attraverso l’ausilio di macchine a controllo numerico. Grandi frammenti di rivestimenti lapidei realizzati in una ricerca sulle forme fluide condotta da Christian Pongratz con la Scuola del Marmo di Sant’Ambrogio di Valpolicella e con il supporto di una prestigiosa azienda del settore marmifero.

Terrazzo & Design
Autori del design e dell’architettura contemporanea interpretano un’antica tecnica

Mostra di frammenti di pavimenti a cura di Consorzio il Terrazzo alla veneziana e Progetto Marmo
Sedici progetti di autori dell’architettura contemporanea realizzati dai Maestri del Consorzio il Terrazzo alla veneziana per una mostra sull’innovazione del design di questa antica tecnica di pavimentazione degli interni.
Autori: Podrecca, Portoghesi, Zangrandi, Scacchetti, Casamonti, Atodesign, Giardina, Trame, Micheli, Chiocchini, Tomita, La Pietra, Scalon, Grenon, Munari.

Acquaepietra
Laboratorio sperimentale di design del marmo per i luoghi dedicati al benessere

Mostra di prototipi a cura di Roberto Bianconi e Nicola Giardina
Laboratorio sperimentale aziende-designers. Una mostra dove i due elementi naturali si uniscono per creare prodotti ambientazioni e luoghi dedicati al benessere e dove le emozioni saranno esaltate dai materiali e da un insieme di elementi combinati ad hoc per ricreare gli elementi della natura.

Sguardo ad Est
Nuove frontiere per l’architettura e il design in Russia, Bielorussia, Kazakistan e Ucraina

Seminario: domenica 2 ottobre 2005, ore 10.30
Un seminario per fare il punto sullo stato di salute dell’attività di progettazione nei paesi delle nuove repubbliche nate dalla separazione della ex unione sovietica.
Un nuovo modello di sviluppo economico e un’attenta ripresa degli elementi caratterizzanti l’architettura occidentale, pur non dimenticando la propria identità.
Da Mosca a San Pietroburgo a Kiev, un interessante percorso attraverso la testimonianza dei principali esponenti dell’architettura e del design contemporanei in quei paesi.

(Vai a Marmomacc)

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9 Settembre 2005

Ri_editazioni

Ogni opera è in cammino verso l’Opera


Leibnizkolonnaden a Berlino di Hans Kollhoff. Dettaglio. (foto di A. Acocella)

L’Oeuvre
L’Opera, come sappiamo, non è mai nata d’un colpo solo. Ha sempre richiesto un grande impegno a chi ha aspirato alla corona degli immortali. Intere vite sono state immolate a tale fine.
Per mettersi in cammino, per realizzare, per conseguire l’Opera è stato indispensabile rapportarsi con determinazione alle cose del mondo attraverso i processi cognitivi (osservazione, ritenzione, scarto), esplicitando capacità nello scegliere una direzione e nel delimitare un campo di applicazione; dimostrare talento – alla fine – nel conferire valore, coerenza, durata al proprio operare. Si è trattato sempre di scelte al plurale, confrontandosi con le concezioni di tempo, di spazio, di materia, di forma, di linguaggio.
In un’epoca in cui si è quasi del tutto perso il significato durevole attribuito all’Opera può apparire anacronistico ritornare, oggi, ad evocare tale concetto che – certo – non gode più di considerazione e buona stampa.
“La fama – afferma Zygmunt Bauman – era un tempo la strada maestra verso l’immortalità individuale. Al suo posto è subentrata la notorietà, che è un oggetto di consumo anzichè un’oeuvre, cioè qualcosa che si produce con laboriosità. Come tutti gli oggetti di consumo in una socieà di consumatori, la notorietà deve fornire un godimento pronto e rapidamente esauribile. Una società di consumatori è anche una civiltà di parti di ricambio e articoli usa e getta in cui l’arte della riparazione e della conservazione è ridondante ed è stata pressochè dimenticata. La notorietà è usa e getta tanto quanto istantanea (…)
Nella corsa alla notorietà, coloro che un tempo erano i soli a potersi disputare la fama – scienziati, artisti, inventori, capi politici – non hanno nessun vantaggio nei confronti delle stelle della canzone e del cinema, degli autori di romanzi dozzinali, delle modelle, dei calciatori, dei serial killer o dei pluridivorziati. Ciò si ripercuote sul modo in cui la loro attività è percepita ed essi stessi la percepiscono: nella ripartizione del prestigio accademico o artistico, le apparizioni momentanee ma frequenti negli spettacoli televisivi che fanno audience contano più di anni di ricerche lontano dai riflettori o di assidua sperimentazione. Tutti gli oggetti di consumo devono passare il test di Gorge Steiner di massimo impatto e obsolescenza istantanea.” ( 2)
Se questa è l’epoca, posta a rappresentare le tendenze generali della società, sappiamo che gli uomini hanno sempre goduto della libertà di accessi individuali, di interpretazioni “altre” rispetto all’ultima attualità, risalendo la corrente invisibile del tempo, valutando la propagazione degli eventi e le reciproche correlazioni, assegnando posizioni alle cose, eleggendo i valori utili alla propria esistenza e al proprio lavoro.
Hans Kollhoff appartiene sicuramente a questa schiera molto ristretta di individui che ricercano criticamente un presente e un’Opera in linea con le personali convinzioni.
Tutto il suo lavoro architettonico sembra improntato alla mitigazione della biografia artistica – con una netta presa di distanza dalla ricerca di una notorietà tanto a buon mercato quanto stravagante ed effimera – e all’affermazione di un’Opera inscritta nel solco dei valori essenziali e saldi della tradizione urbana europea ritenuta ancora vitale per il presente. Un’Opera che scandaglia forme e soluzioni congrue alle esigenze e alle aspettative del fruitore (l’uomo) riguardato quale entità biologica, sensitiva, ma anche sociale; un’Opera che valuta il progetto non come una “creazione” ma come un incessante “trovare” e “ritrovare” nelle pieghe di quanto consolidato.

Classi formali di tradizione
Risalire la corrente del tempo, farsi strada nella lunga avventura anteriore, cercare di ricongiungerla ad un presente frammentato e disperso è il programma architettonico implicito di Hans Kollhoff. All’interprete – a noi, in quest’occasione – spetta la selezione di un approccio per esercitare l’indagine.
In questa operazione l’individualità delle opere viene volutamente allontanata – e di questo, in qualche modo, il lettore ne tenga conto – per far avanzare in primo piano elementi, intonazioni, tratti salienti. La lettura delle singole opere è presupposta ma viene mantenuta a distanza; all’interprete interessa estrarre idee, concetti quadro dell’Opera.
Apriamo allora la questione.
Deve essere ben chiaro il programma di riferimento di Kollhoff: riconoscere il valore ed assimilare i caratteri insediativi (continui, compatti, fortemente urbani) dell’architettura delle città europee. Solo a partire da tale assunto si spiega il particolare impegno profuso dall’architetto tedesco nel raggiungimento di un’intensità e di un radicamento al suolo dei suoi edifici attraverso forme icastiche.
Le forme, come sappiamo, però non sono che una visione interiore, una speculazione dello spirito, finchè non vivono attraverso la materia.
Il legame tra materie e forme è strettissimo al punto da spingerci – da molto tempo – a parlare di Stili Tecnologici con i loro elementi costituitivi che hanno valore di indice, di elenco e, talora, di potente strumento di progetto.
L’architetto tedesco mostra interesse per le “classi formali tradizionali” dello Stile litico-laterizio che si impegna a trasporre, ridurre, comporre all’interno della propria Opera; “classi” connesse alle idee fondative di muro, parete, arco, colonna, basamento, coronamento, angolo che nascono dal linguaggio consolidato e dalle potenzialità d’impiego della pietra, del marmo, del clinker, della terracotta fatti avanzare – in qualità di materiali elettivi dell’architettura, “preziosi” e durevoli – in primo piano nelle sue opere.
Con tutto quel repertorio fatto di traduzioni, riduzioni, duplicazioni, derivazioni, a Kollhoff, più che le soluzioni autoriali, individuali delle opere, interessano in modo evidente le lunghe sequenze temporali e le classi convenzionali degli elementi di costruzione dell’immagine architettonica. Successioni ordinate di forme – in larga parte inattive da tempo – a cui si offre occasione di sopravvivenza, se non di “rinascenza”.
Ecco allora che volumi murari, teorie di archi, tessiture parietali, ritmi colonnari si ripresentano nuovamente all’architettura come “sequenze attive”, suscettibili di prosecuzioni, di aggiornamenti, di vita.
L’affinamento delle forme convenzionali (testimonianze del banco di prova dell’esperienza) è quanto trasmesso a Kollhoff da Adolf Loos, maestro severo, il cui monito mette in guardia rispetto alla mania di originalità degli architetti, indicando i confini dei propri compiti, il realismo del mestiere e l’incoraggiamento al lavoro anche quando – apparentemente – inattuale:
“Non temere di essere giudicato non moderno. Le modifiche al modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un miglioramento in caso contrario attieniti alla tradizione. Perchè la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina a fianco.” (3)
Per Hans Kollhoff, si badi bene, non si tratta tanto di riproporre un radicalismo o un arcaismo costruttivo lontano dalle condizioni materiali dell’industria contemporanea, quanto di trasformare a proprio vantaggio i metodi attuali della produzione edilizia (standardizzazione dimensionale, prefabbricazione di componenti, razionalizzazione di cantiere), “ibridandoli” con metodiche e materiali tradizionali all’interno di un calibrassimo progetto tecnico, affinchè la qualità dell’architettura del presente ritorni ad essere confrontabile con quella del passato. Alla fine vediamo agire nell’Opera di Kollhoff “murature stratigrafiche” in cui i mattoni di clinker, le lastre di terracotta (alla maniera di Schinkel) rieditano soluzioni d’impiego del materiale in forma di rivestimento a spessore, o sottile; modi d’uso archetipici e lungamente caratteristici dell’architettura storica occidentale in laterizio.
L’Opera, così predisposta, attende il Tempo.

Alfonso Acocella

(1) ll presente post riedita l’editoriale apparso sul numero monografico dedicato ad Hans Kollhoff di “Costruire in laterizio” n. 106, 2005. Il titolo è una citazione tratta da: Jean Starobinski, “La perfezione, il cammino, l’origine” (1997) ora in Le ragioni del testo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p.109.
(2) Zygmunt Bauman, “C’è vita dopo l’immortalità?” in La società individualizzata, Bologna, Il Mulino, 2002 (ed. or. The Individualized Society, 2001), p. 307.
(3) Adolf Loos, “Regole per chi costruisce in montagna” (1913) ora in Parole nel vuoto, Milano, Adelphi Edizioni, 1972, p.272.

Costruire in laterizio n. 106, 2005
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7 Settembre 2005

Eventi

“L’architettura di pietra” ad Artelibro di Bologna

L'architettura di pietra
Presentazione del volume “L’architettura di pietra”
Intervengono:
Vittorio Fagone, Direttore Fondazione Ragghianti
Alfonso Acocella

Palazzo Re Enzo e del Podestà, Bologna
Venerdì 23 settembre – Ore 11

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5 Settembre 2005

Recensioni

La recensione di Modulo

Continuità e innovazione

Antonietta Pirovano. Oggi le architetture in pietra naturale sembrano avere un certo riscontro in grandi architetture rappresentative oppure nel molto piccolo, la villa, il cimitero etc.; manca, generalmente parlando, quella dimensione intermedia, il condominio, il centro commerciale, il palazzo uffici, che “fanno” l’ambiente urbano. È vero? Perchè?
Alfonso Acocella. La sua interpretazione mi sembra colga nel segno le tendenze in atto nell’odierna riabilitazione della pietra nell’architettura.
Per tentare di fornire una risposta, pur parziale, all’evidente e specifico indirizzo applicativo della pietra nella costruzione (dove con il termine pietra intendiamo l’insieme delle diverse categorie litologiche: pietre in senso comune, marmi, travertini, brecce, graniti, porfidi ecc.) forse bisogna partire da una riflessione di fondo che investe l’essenza stessa della materia con le sue variegate caratteristiche costitutive, di aspetto, di reperimento, di potenzialità applicative e i valori riconosciuti da una tradizione plurimillenaria all’interno del progetto di architettura.
Nella riproposizione della pietra sembra assistersi alla dualità che a volte oppone, ma a volte integra, “logiche locali” con “logiche globali”. Tale dualità, in qualche modo, è simmetrica alla distanza di scala che separa le “piccole” dalle “grandi” architetture.
L’ancoramento all’uso delle risorse litiche locali (soprattutto dei litotipi più poveri: materiali informi o appena lavorati, arenarie, tufi, ecc.) alimenta frequentemente programmi di edilizia civile (o domestica) di ambiti territoriali specifici (leggi “locali”) i quali, a fronte di una cultura di progetto più attenta e sensibile alle preesistenze e alle caratteristiche ambientali dove si opera con la trasformazione, ritornano alle risorse dei luoghi, ai magisteri costruttivi dell’architettura storica, spesso alla ri-considerazione della costruzione muraria con la sua inclusività, la sua massa che esprime valori di domesticità, di durata, se non di permanenza secolare.
Riaffermano, invece, l’antica prassi alla movimentazione geografica, al traffico commerciale e alla utilizzazione dei litotipi più pregiati e compatti (riducibili in formati significativi sfruttando anche spessori esigui: marmi graniti, travertini ecc.) i programmi realizzativi delle “grandi” architetture pubbliche e civili o legate ad importanti gruppi economici privati che nella pietra riscoprono un valore di rappresentatività, di aulicità, di prestigio, spesso attraverso “vesti” (leggi “involucri sottili”) monomaterici e monocromatici, oppure dotati di varietas colorica e disegnativa che nessun altro materiale – meglio della pietra – nella storia è riuscito mai ad offrire all’ architettura. La “Berlino di pietra” di fine millennio nè è lo scrigno più emblematico di tale tendenza d’uso delle pietre.

A.P. Autori importanti hanno legato quasi in maniera permanente e significativa il loro lavoro a certe tecnologie, citiamo Calatrava per le strutture in acciaio “a scheletro”, Ghery alle forme complesse in titanio, Piano, tra l’altro, ai doppi involucri in laterizio. Lo stesso non si può dire per la pietra naturale. Non c’è nessun grosso autore che abbia legato in maniera continuativa il proprio linguaggio alla pietra naturale. Perchè è un approccio difficile, esiti non graditi ?
A.A. È difficile che un architetto (soprattutto se si è di fronte a grandi architetti, dotati di talento creativo) leghi, per un lungo periodo, la propria ricerca alle valenze tecnologiche e al linguaggio di un unico materiale. Gli stessi progettisti che Lei cita hanno sperimentato le potenzialità di diversi materiali (il calcestruzzo modellato come “sculture osteologiche” per Calatrava; la pietra declinata in grandi monoliti, memori di Stonehenge, nel caso della D G Bank di Ghery a Berlino; l’acciaio, il vetro e il legno strutturale per Piano).
All’interno di questo dialettico e sempre mutevole rapporto alimentato dalla continuità-discontinuità applicativa di materiali e di tecnologie da parte dei grandi protagonisti dell’architettura contemporanea non è difficile rintracciare figure che hanno affidato, con continuità, la loro ricerca architettonica alla pietra una serie significativa di opere indicando – al contempo – anche modi d’uso assai diversi.
A partire da Peter Rice – il grande ingegnere, prematuramente scomparso, che per primo ha riproposto un uso strutturale, fortemente innovativo, della pietra definendo il sistema della “pietra armata” con influenze sulle opere litiche di Michael Hopkins in Gran Bretagna e di Renzo Piano in Italia – vari progettisti di fama hanno riscoperto nella pietra un ruolo significativo che traspare dalla loro ricerca architettonica.
Possiamo citare, per fare qualche esempio, Gilles Perraudin in Francia, quale sperimentatore di una visione di tipo strutturale del materiale all’interno una concezione trilitico-muraria a grandi blocchi montati a secco perfezionata attraverso una serie numerosa di opere, oppure Hans Kollhoff in Germania, il cui approfondimento – lungo un arco di oltre un decennio – si è, invece, indirizzato alla definizione di una personale visione dell’involucro sottile in pietra che superi i limiti della “bidimensionalità” del rivestimento, così tipica nelle realizzazioni in parete ventilata degli ultimi decenni sullo scenario dell’architettura internazionale, soprattutto di influenza americana.

A. P. Lei ha appena terminato un poderoso lavoro sull’architettura in pietra evidenziato in una recente pubblicazione Alla luce di questa fatica, quale futuro per queste architetture di pietra.?
A.A. Un futuro di testimonianza, di monito per i progettisti – soprattutto pensando alle figure in formazione come gli studenti delle scuole di ingegneria e di architettura, i giovani architetti impegnati nella ricerca di una via personale al progetto – invitati, attraverso l’amplissimo repertorio delle immagini fotografiche originali e il corpus di disegni tecnici de L’architettura di pietra, a guardare i materiali, le tecnologie storiche in disponibilità nel nostro Paese come fonte viva di risorsa applicativa e di aggiornamento linguistico per l’architettura dell’oggi.
Attraverso L’architettura di pietra si è materializzata la possibilità di ricostruire il tessuto disperso di frammenti visivi e suggestioni interiori, dando sintesi e racconto ad un viaggio iniziato trent’anni fa. Un viaggio nel cuore della disciplina architettonica sulle orme dello “stile litico”. Un itinerario lungo e discontinuo, fatto di tante tappe, di letture illuminanti, di molteplici visite ad opere e luoghi custodi di atmosfere sublimi mai più dimenticate. Ma solo con il lavoro di scrittura che è arrivata, anche a noi stessi, la visione d’insieme del mondo “specchiato” del nostro intimo strato interiore.
Con la scrittura siamo riusciti a traguardare, a richiamare in superficie le immagini, ricercando le associazioni, i concatenamenti, a volte le opposizioni, capaci di alimentare una struttura narrativa continua e circolare, ma anche fatta di cesure, di momenti salienti, di figure protagoniste, di “picchi” linguistici. Forse restare seduti a scrivere, per lunghi periodi di tempo, davanti alle pagine bianche che “attendono la storia”, è l’unico modo per andare da qualche parte, per dare una direzione ai ricordi, ai valori connessi alla propria esperienza.
E ora, dopo la scrittura dell’opera, mi sembra che il viaggio continui verso il futuro.
Il volume, chiuso in cinque anni di lavoro, continua la sua vita attraverso la condivisione e la discussione dei suoi contenuti. Alle parole e alle immagini di “carta” si sovrappongono quelle del “web”, grazie ad internet e alle sue nuove forme di produzione della comunicazione on line. A questa discussione tutti sono invitati a partecipare.

“Modulo” n. 312, 2005
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1 Settembre 2005

Eventi Pietre dell'identità

Nuove Cattedrali di pietra

La pietra armata, fra tradizione ed innovazione

Veronafiere 2005
40aMarmomacc_ Mostra Internazionale di Marmi, Pietre e Tecnologie
cittadella di Marmo Arte e Cultura 15/19 sett. _ 29sett./02ott. 2005
Palaexpo, 2° piano

Mostra:
Concezione e costruzione della chiesa di Padre Pio
a San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano

Convegno:
attualità della tradizione stereotomica
e nuove frontiere della architettura contemporanea

promosso da:
VERONA FIERE
REGIONE PUGLIA
PROVINCIA DI FOGGIA
COMUNE DI APRICENA FG
COMUNE DI SAN GIOVANNI ROTONDO FG

In collaborazione con
PROVINCIA DEI FRATI MINORI CAPPUCCINI DI FOGGIA
CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA,
AGRICOLTURA e ARTIGIANATO, FOGGIA
CONFINDUSTRIA PUGLIA
ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DI CAPITANATA

Con il contributo di
FRANCO DELL’ERBA industria marmi Apricena FG
MARMOTEK srl lavorazione marmi Foggia

Coordinamento generale a cura del LABORATORIO PROGETTO CULTURA di APRICENA FG

Premessa
Il completamento e la inaugurazione della nuova Aula Liturgica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, ha aperto uno dei dibattiti più interessanti sulla costruzione di nuove architetture in pietra strutturale (sia in Italia che all’estero).
L’intera opera, progettata dal più importante degli architetti italiani nel mondo, Renzo Piano, è realizzata in marmo e pietra di Apricena, occasione unica per il nostro territorio di promuovere aspetti tecnico costruttivi così eccezionali.
Queste considerazioni hanno promosso la produzione di una mostra sui processi di ingegnerizzazione di un opera così complessa ed in particolare sui dettagli che maggiormente interessano la lavorazione di marmi e pietre, coinvolgendo lo studio Renzo Piano Building Workshop.
L’Ente Fiera di Verona, che da anni è direttamente impegnato per la promozione e valorizzazione dei materiali lapidei nel mondo, anche attraverso l’organizzazione di importanti eventi internazionali sulle culture delle lavorazioni dei marmi e delle pietre nell’architettura contemporanea su espressa richiesta della Provincia, ha messo a disposizione uno spazio di oltre mq. 100 inserito all’interno di un allestimento specifico destinato alle mostre culturali, che comprende, tra l’altro, 5‚6 eventi internazionali dedicati all’uso della pietra nell’architettura e nel design contemporanei, in programmazione per la 40° edizione della Mostra Internazionale dei Marmi e delle Macchine.
La mostra, sarà realizzata con foto, disegni, modelli e la produzione di un piccolo video necessario alla comprensione degli aspetti costruttivi ed architettonici dell’opera: dalla estrazione dei blocchi per la lavorazione dei conci dei grandi archi armati, alla pavimentazione in masselli del grande sagrato; dalle lastre per il rivestimento interno ai grandi elementi che compongono l’alta croce di 42m di altezza fino all’opera scultorea dell’ambone ed agli elementi decorativi che caratterizzano gli interni della cripta, nel cuore della chiesa dove sarà realizzata la nuova tomba del Santo.
L’inaugurazione della mostra sarà occasione per la Amministrazione Comunale di Apricena (su espressa volontà del Sindaco prof. Vito Zuccarino) di conferire la cittadinanza onoraria all’arch. Renzo Piano per la straordinarietà dell’opera realizzata e per il grande slancio restituito al comparto lapideo locale.
La presentazione della mostra, quindi, è solo il primo evento di un progetto di promozione molto più ampio che dovrebbe accompagnare la nuova chiesa di Padre Pio ed il suo illustre progettista Renzo Piano, per l’uso straordinario e diffuso, in ogni sua parte, della Pietra e del Marmo di Apricena.
Un primo passo al quale, necessariamente, far seguire altri eventi capaci di saper evidenziare il connubio singolare tra un’opera così importante per la sua valenza religiosa, un progettista straordinariamente capace per l’architettura contemporanea internazionale ed un materiale che non poteva avere espressione più alta per veicolare la forza, il carattere e l’identità dell’intera Capitanata.
Un passo di grande portata che coinvolge processi produttivi complessi che, per quanto riguarda la chiesa di Padre Pio hanno visto solo una prima esemplificazione della eccezionalità dei processi produttivi di cui è capace questo territorio.
Le stesse ragioni che hanno portato a collaborare le istituzioni ed il governo locale con un partner internazionale così importante per la promozione delle tecnologie di lavorazione del marmo nel mondo come la Fiera di Verona, un appuntamento importante per gli imprenditori, i progettisti e gli operatori del settore.

Quella di Verona è solo la vetrina inaugurale di un progetto di promozione più ampio che accompagnerà questo territorio in un percorso itinerante sia in Italia che all’estero dove poter presentare con la capacità che ci distingue il grande genio costruttivo italiano

Presentazione dell’opera
Ci sono opere che, per loro natura, scandiscono il passaggio di un’epoca; accade così da sempre e la Puglia, sotto questo aspetto, conserva alcuni tra gli esempi più straordinari di questo fenomeno, si pensi a Castel del Monte ed alla sua singolare storia che ha segnato un passaggio fondamentale del XII secolo.
Quella di Renzo Piano per Padre Pio, senza ombra di dubbio, appartiene a questo genere di opere e, in qualche modo, indica nuovi percorsi possibili per l’utilizzazione della pietra in architettura.
Un uso che affonda le radici nella tradizione costruttiva storica ma, nello stesso tempo, sa farsi interprete del proprio tempo nell’introduzione di una cifra tecnologica mai sperimentata prima nelle costruzioni in pietra.
I grandi archi della chiesa di San Giovanni Rotondo gettano le basi di un ponte solido tra la tradizione e la tradizione rinnovata, tra la storia delle grandi cattedrali di Puglia e la contemporaneità delle nuove tecnologie innovative del progetto contemporaneo.
Il grande spazio della Nuova Aula Liturgica di Padre Pio si presenta in tutta la sua leggerezza, quasi appoggiato sul grande sagrato che accoglie le migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo, ma le sue radici affondano con forza nella pietra compatta del territorio di Capitanata.
Una pietra che informa l’intera opera, dal muro al sagrato dagli archi alla grande croce in una sorta di grande manuale delle opportunità che questo materiale sa offrire e che le capacità di Renzo Piano hanno saputo trasformare in occasione di concretezza, evento unico che non poteva ricevere espressione più alta per comunicare con forza la propria identità.

LA MOSTRA
Veronafiere – 15/19 sett. _ 29sett./02ott. 2005
cittadella di Marmo Arte e Cultura, Palaexpo, 2° piano

LA PIETRA ARMATA
concezione e costruzione della chiesa di Padre Pio
progettata da Renzo Piano

Promossa da:
PROVINCIA DI FOGGIA – ASESSORATO ALLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE

A cura di: Domenico Potenza
in collaborazione con LPC (LABORATORIO PROGETTO CULTURA)

Il completamento e la inaugurazione della nuova Aula Liturgica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo ha aperto uno dei dibattiti più interessanti sulla costruzione di nuove architetture in pietra strutturale (sia in Italia che all’estero).
L’opera di Renzo Piano di cui tanto si parla sulle più importanti riviste di architettura e in dibattiti specializzati, è una sorta di grande mostra delle opportunità di trasformazione della pietra, sia in termini di innovazioni tecnologiche che in termini di qualità dell’architettura che ne scaturisce.
Interamente realizzata in marmo e pietra di Apricena, la chiesa di Padre Pio si presenta come occasione unica, per il territorio di Capitanata, di promuovere un connubio singolare tra una committenza colta, un progettista illuminato ed un progetto così innovativo per contenuti tecnologici ma, nello stesso momento, così fortemente radicato nella tradizione costruttiva di questi luoghi. Sono queste le ragioni che hanno spinto la Provincia di Foggia, unitamente alla città di Apricena, a promuovere l’idea di allestire una mostra sugli aspetti tecnico costruttivi della nuova Basilica ed in particolare sui dettagli che maggiormente interessano la lavorazione di marmi e pietre.
L’inaugurazione della mostra sarà occasione per la Amministrazione Comunale di Apricena di conferire la cittadinanza onoraria all’arch. Renzo Piano per la eccezionalità dell’opera realizzata e per il grande slancio restituito al comparto lapideo locale.

La mostra
I materiali della mostra saranno presentati su una superficie di 30 pannelli circa 70×100, che riproducono immagini e disegni dal progetto alla realizzazione dell’opera. Un plastico di inquadramento complessivo dell’opera ed alcuni modelli di studio che ne mostrano i dettagli costruttivi, oltre alla presentazione di un video (3 min. in ripetizione automatica) completeranno l’allestimento della mostra
Il tavolo dei materiali
Sulla superficie di un ampio tavolo (di dimensioni 2mx2m circa), saranno replicati alcuni dei materiali e delle lavorazioni che caratterizzano gli aspetti costruttivi principali dell’opera.
Una opportunità concreta da fornire al visitatore per “toccare con mano” i marmi e le pietre di Apricena, come unico materiale diffuso in ogni parte della chiesa e chiave di lettura espressiva dell’intero progetto.
Il catalogo
tutto il materiale sarà raccolto in un catalogo di grande formato, pubblicato, per l’occasione, in italiano/inglese nel quale saranno riportati, in particolar modo, gli aspetti tecnico-costruttivi dell’intero apparato lapideo dal momento dell’estrazione dei massi fino al dettaglio delle lavorazioni artistiche.

IL CONVEGNO
Veronafiere, sabato 1 ottobre ore 15.00
cittadella di Marmo Arte e Cultura, Palaexpo, 2° piano

LA RINASCITA DELLA PIETRA STRUTTURALE
attualità della tradizione stereotomica
e nuove frontiere della architettura contemporanea

Promosso da
REGIONE PUGLIA – PROVINCIA DI FOGGIA

A cura di:
FACOLTA’ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI BARI
ASSESSORATO ALLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE
DELLA PROVINCIA DI FOGGIA

Coordinamento generale LPC – LABORATORIO PROGETTO CULTURA di APRICENA FG

La Fiera di Verona dedica annualmente al marmo e alla costruzione uno dei suoi eventi più prestigiosi: Marmomacc. Divenuto osservatorio privilegiato e luogo di dibattito per architetti, ingegneri, università e operatori, questo evento propone per l’edizione del 2005 il tema della costruzione strutturale in pietra nell’architettura.
L’assenza quasi totale di un’architettura contemporanea a carattere murario, che faccia uso esteso, secondo tecniche aggiornate, di una forma architettonica continua e portante (o almeno collaborante) non può che apparire prevalentemente dettata dall’egemonia di modelli culturali generati nelle aree a maggiore concentrazione di ricerca tecnologica.
La permanenza di una sapienza costruttiva come la stereotomia legata alla soluzione di complessi problemi costruttivi con materiali lapidei, praticata nei livelli più alti della cultura artigiana e ancora viva nell’opera dei Compagnons du Devoir in Francia può trovare nella modellazione informatica con macchine a controllo numerico computerizzato lo strumento per recuperare l’unità sia teorica che pratica del processo ideativo-esecutivo dell’opera architettonica.
A questa ricerca si accompagnano grandi esperienze innovative, come l’Aula Liturgica di Padre Pio di Renzo Piano, nelle quali la costruzione strutturale in pietra si avvale della collaborazione tra acciaio e materiale litico nella forma di struttura unitaria precompressa per dar vita a nuove, audaci soluzioni costruttive e architettoniche.
Su questi temi il convegno lega in un unico dibattito i contenuti di due mostre presenti a Marmomacc.
La prima mostra è dedicata all’arte della stereotomia e all’opera della antica associazione francese degli scalpellini Compagnons du Devoir. In questa occasione verrà presentata un’opera sperimentale, progettata dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari insieme ai Compagnons du Devoir, una scala elicoidale che mettendo insieme la tecnica stereotomica con quella della pietra armata precompressa vuole unire tradizione e innovazione, lanciare un ponte fra il passato e il futuro.
La seconda mostra sulla pietra armata è dedicata all’opera di Renzo Piano a S. Giovanni Rotondo nella quale la geniale soluzione lapidea sarà presentata nelle sue principali sequenze dal progetto alla realizzazione, un’opera complessa, realizzata interamente in pietra di Apricena che ha sfidato la forza di gravità nella estensione dei suoi archi tra i più grandi del mondo.
Partecipano al convegno esperti internazionali in un tavolo di confronto sul passato e sul futuro della stereotomia e della pietra strutturale, ritornati in questi anni a una nuova creativa ascesa.

Presentazione dell’iniziativa
Avv. Luigi Castelletti – Presidente di Verona Fiere
Dr. Alessandro Frisullo – vice presidente della Regione Puglia

Coordinamento del convegno
Prof. Claudio D’Amato
Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari

A) Formazione e ricerca
Prof. Joël Sakarovich

Paris, École d’Architecture Paris Malaquis, Laboratoire Gèometrie-Structure-Architecture
Richard Simonnet
Direttore dell’Istitut Superieur de Recherche et de Formation aux Metiers de la Pierre di Rodez (Aveyron, Midi Pirènèes)
Ing. Marc Vinches
Ecole des Mines d’Alès, Equipe Gènie Civil : Gèotechnique et Ouvrages Centre des Matèriaux de Grande Diffusion
Escalier Ridolfi

B) Progetto e sperimentazione
Prof.Amerigo Restucci

Consiglio Direttivo della Biennale di Venezia
Prof. Alfonso Acocella
Facoltà di Architettura di Ferrara
Ing. Maurizio Milan
Favero & Milan ingegneria, Venezia

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25 Luglio 2005

Recensioni

La recensione del Polimi

La pietra è un materiale da costruzione il cui impiego ha accompagnato il corso della storia dell’Architettura occidentale, lasciando un’impronta particolarmente profonda nell’area mediterranea. Una parte significativa delle forme archetipiche ricorrenti oggi nelle costruzioni (anche quelle realizzate con materiali non lapidei) derivano infatti dall’impiego della pietra. E le possibilità semantiche e tecniche connesse all’uso della pietra in epoca contemporanea si sono ulteriormente ampliate, poichè sono mutati i modi d’impiego prevalenti del materiale, che si è fatto sempre più rivestimento e sempre meno materia portante.
Questa coesistenza di una natura tettonica legata a un passato ancora vivo nel presente e di una natura innovativa legata a numerose nuove possibilità compositive e tecnico-costruttive (a umido o a secco, artigianali o industriali) fa del tema dell’uso della pietra in Architettura un argomento di grande suggestione, ma anche di notevole complessità. Alfonso Acocella, professore di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università di Ferrara, architetto, non evita la sfida di questa complessità, ma anzi la affronta addentrandovisi attraverso molteplici percorsi – storico, compositivo, costruttivo, produttivo. Il risultato è il volume L’architettura di pietra – antichi e nuovi magisteri costruttivi.
L’intento leggibile in filigrana nell’opera è quello dell’individuazione di linee progettuali e di strategie tecniche di impiego dei materiali lapidei valide per il tempo presente, verificate nel contenuto tecnologico e nelle possibilità figurative attuali, ma anche inquadrate in una prospettiva storica. Nonostante la complessità dell’impegno, lo svolgimento della trattazione risulta ben organizzato e scorrevole, grazie alla scelta di articolarlo – in considerazione del ruolo centrale della pietra nella nascita e/o nel consolidamento delle forme architettoniche primigenie – secondo entità costruttive archetipiche ricorrenti nelle architetture di tutti i tempi: muri, colonne, architravi, archi, superfici, coperture, suolo; scelta che consente di individuare le possibilità future relative a ciascuno di detti ambiti tematici alla luce del loro percorso evolutivo. E la strategia attraverso la quale è perseguita la tesi di fondo del testo – quella, appunto, dell’attualità dell’architettura in pietra – è impegnativa ma anche persuasiva, perchè diretta e lontana da rischi di mistificazione: l’autore, dopo avere inquadrato le soluzioni offerte storicamente dalla pietra per la declinazione di ciascun tema archetipico, portando testimonianza della bellezza dei manufatti del passato, presenta esempi significativi contemporanei, analizzati negli aspetti tecnici e compositivi salienti. Pagina dopo pagina, in questo modo, si forma nel lettore coscienza del fatto che la trattazione non costituisce solo testimonianza di un vivo interesse per le possibilità architettoniche connesse all’uso di un certo materiale e un incoraggiamento al suo impiego, ma anche argomentazione in favore di una idea di architettura: un’architettura della materia e delle radici, viva nel colore e nella testura.

Gian Luca Brunetti

(Visita il sito dell’Ateneo)

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22 Luglio 2005

News

Officina della memoria leggere e scrivere per un lavoro di ricerca

di Alfonso Acocella

I modi della lettura
Se si intende fare ricerca seriamente non bisogna tralasciare nessuna pista, nè disprezzare alcuna fonte.
Anche il più insignificante articolo, citazione o passaggio occasionale sul nostro argomento di ricerca può fornirci, se non grandi chiarimenti o posizioni fondamentali, spunti per un’idea da sviluppare, suggerimenti per la titolazione di un paragrafo, di un capitolo, notizie occasionali che ci informano su un particolare aspetto legato al nostro tema.
Tutto viene filtrato dalla lettura, da quell’attività mentale che consente di assimilare dati, informazioni, valutazioni; di far nascere connessioni, collegamenti, fusioni.
Sulla lettura si fonda l’avvio della riflessione sul tema di ricerca; attraverso letture di qualità ci appassioniamo al tema.
Possiamo provare a delineare tre diversi livelli o modalità di approccio all’atto mentale della lettura (anche se è evidente che essi agiscono, possono agire, contestualmente) per mettere in evidenza l’importanza fondamentale della fase dello studio all’interno dell’intero processo di scrittura di un lavoro di ricerca.

(Continua su Il Mestiere di Scrivere)

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Stratigrafia parietale (III parte)*


Domus Aurea. Volta della Sala di Achille e Sciro. (foto. A. Acocella)
fg78
Stucco
Il lavoro ornamentale di rifinitura in rilievo (in assenza di partiti decorativi in pietra o marmo policromo) passò, nell’architettura romana, attraverso l’uso dello stucco bianco o colorato.
Sotto il termine di “decorazione a stucco” si iscrivono tutti i trattamenti a rilievo eseguiti sulle superfici (sfruttando la plasmabilità e la duttilità della malta di calce o del gesso) ma anche gli strati sottili di profilatura quali, ad esempio, il lavoro effettuato sulle scanalature delle colonne di tante domus romane, frequentemente erette con materiali di scarsa qualità e di resa estetica al punto da necessitare di una superficie di regolarizzazione e di nobilitazione.
Attraverso la variegata composizione della malta si produssero tipi di stucchi con intonazioni superficiali diversificate:
– stucchi bianchi (destinati a conservare tale aspetto ad imitazione del marmo) ottenuti miscelando la calce con polvere di marmo o di pietre calcaree bianche;
– stucchi colorati con gli stessi pigmenti minerali utilizzati per la pittura ad affresco;
– stucchi smaglianti e risplendenti con sottili ricoprimenti in “foglie d’oro”.
In epoca tardorepubblicana – quando ancora non si erano molto diffusi nè i rivestimenti marmorei in opus sectile nè quelli a mosaico parietale – la tecnica dello stucco rappresentò la forma di decorazione più pregiata, come ancora oggi si può cogliere nelle terme campane le cui superfici voltate degli ambienti principali (quali, ad esempio, il tepidarium delle Terme del Foro di Pompei) erano completamente coperte con composizioni a rilievo.
Non mancano nell’architettura romana esempi di splendide decorazioni a stucco capaci di reggere un confronto con i più sfarzosi rivestimenti marmorei e musivi. Basti citare gli stucchi a rilievo di grandissima intensità figurativa, sia plastica che coloristica, degli ambienti della Domus aurea di Nerone come la volta della Sala di Ettore e Andromaca, quella della Sala di Achille a Skyros e soprattutto la famosissima “Volta dorata” la cui decorazione lussuosa dà conclusione sommitale proprio ad una sala fra le più superbe della reggia neroniana.
Tali volte associano alla intensità coloristica dei campi mediani trattati “in piano” (utilizzando la tecnica dell’affresco, con toni accesi e contrastati di blu, rosso, verde) le riquadrature a rilievo dei cassettoni in stucco “stampato” dalle tinte risplendenti offerte dal loro ricoprimento in “foglie d’oro”.

Opus testaceum “obliterato”. Opus testaceum a vista
“Ciò che colpisce i visitatori di Roma e dell’immediato suburbio è l’immagine di un universo monumentale di mattoni dal quale emerge, qua e là, qualche isolata traccia di travertino o di marmo. Va sottolineato che le più straordinarie realizzazioni dell’architettura imperiale di Roma, specie a partire dall’età neroniana, sono in mattoni.” (3)
La Domus aurea di Nerone, l’interno del Colosseo, il complesso palaziale del Palatino, i Mercati traianei, il Pantheon, il Mausoleo di Adriano, la grande urbanizzazione di Ostia del II secolo, le Terme di Caracalla e di Diocleziano, le mura aureliane ecc. sono solo alcune delle più famose architetture realizzate mediante l’uso estensivo dell’opus testaceum con cortine di mattoni cotti che oggi si impongono allo sguardo della città antica.
Ma questa spettacolare scenografia di rossi mattoni che Roma offre allo spettatore odierno come si sa è, nella maggior parte dei casi, un paesaggio di scheletri, di ossature murarie originariamente rivestite e quindi “obliterate”, sia negli esterni che negli interni delle architetture, mediante crustae marmoree, intonaci, stucchi ecc.
Solo pochi di questi monumentali ruderi, corrosi dal tempo, vennero costruiti espressamente per lasciare a vista i paramenti di laterizio cotto.
La prima grande opera in cui sono state saggiate le potenzialità linguistiche dell’opera laterizia con un uso a vista del materiale è il vasto complesso commerciale dei Mercati traianei, commissionato direttamente dall’imperatore Traiano al grande architetto Apollodoro di Damasco in avvio del II secolo dopo Cristo.
Lungo il secondo ordine dell’emiciclo della grande esedra, che seguiva l’inviluppo esterno del Foro voluto dallo stesso Traiano, è disposta in successione ritmica ed unitaria una lunga teoria di aperture sormontate da archi con partiti architettonici in mattoni rossi messi a contrasto con cornici, portali e capitelli in travertino. La precisione dell’apparecchiatura muraria, insieme all’assenza sia di buche pontaie che di fori per l’alloggiamento di grappe metalliche sorreggenti rivestimenti marmorei, non lascia dubbi circa l’uso consapevole a vista del paramento in mattoni.
A partire dalla metà del II sec. d. C. (e fino alla fase tardoimperiale) si moltiplicano le applicazioni dell’opus testaceum con mattoni in forma di rivestimento decorativo che sfruttano frequentemente il gioco della policromia dei laterizi, dipendenti dal tipo di argilla usata e dalla temperatura di cottura. Inoltre è da questa età che si iniziano a saggiare – più di quanto non fosse avvenuto nei Mercati traianei – le potenzialità di un materiale docile ad essere plasmato nelle più varie configurazioni di modellazione plastica come si legge, ad esempio, nei numerosi portali ostiensi (con colonne, timpani e cornici sagomate) posati in aggetto, fuori dal piano complanare del paramento laterizio.
Tale nuovo uso del materiale porterà ben presto a comporre intere facciate in cui i colori caldi e terrosi dei laterizi si accompagneranno all’uso di modanature ottenute dallo stesso materiale evitando il ricorso al rivestimento con intonaco, con stucco, con marmi ecc. ed aggiungendo, altresì, una ulteriore tipologia al già ampio repertorio disponibile di rivestimenti.
A Roma fra le opere superstiti possiamo citare le piccole terme di Villa Adriana, il Sepolcro di Annia Regilla e numerose altre edicole funerarie fuori delle porte urbiche; ad Ostia l’Insula del Larario, l’Horrea Epagathiana e, anche qui, numerose tombe nell’Isola Sacra.
La particolarità dell’opus testaceum non obliterato è nel dar vita ad un rivestimento che lascia a vista – così come era già avvenuto per l’opus incertum (Santuario della Fortuna primigenia di Palestrina, Tempio di Giove Anxur a Terracina) o per l’opus reticulatum – la cortina muraria di contenimento dell’opus caementicium; quindi uno strato di finitura a forte spessore, autoportante, strettamente partecipe della costituzione dell’ossatura muraria. Tale condizione ha fatto si che – rispetto alle sottili crustae divelte e riutilizzate nei secoli successivi alla decadenza dell’impero romano, agli stucchi mangiati dal tempo, alle pitture conservate solo se protette da fenomeni di interramento delle strutture architettoniche – tale rivestimento risultasse eterno come ci rammentano le parole poetiche fatte proferire da Adriano, imperatore ed architetto “dilettante”, da Marguerite Yourcenar:
“A Roma, ho adottato, di preferenza, il mattone eterno, che assai lentamente torna alla terra donde deriva, e il cui cedimento impercettibile avviene in tal guisa che l’edificio resta una mole, anche quando ha cessato d’essere una fortezza, un circo, una tomba.” (4)

Villa Adriana a Tivoli. Le grandi terme.
Villa Adriana a Tivoli. Le grandi terme. (foto. A. Acocella)

Attualità dell’Antico
Rispetto all’antico e ai suoi archetipi vorremmo intrattenere – come i grandi architetti di ogni epoca ci hanno sempre insegnato – una relazione attiva e critica che, spingendosi oltre il puro atto contemplativo, permetta di coglierne la sua sempre latente attualità.
Acquista valore, in questa riflessione teorica, ritrovare le anticipazioni significative, interrogarsi e confrontarsi con la qualità e la raffinatezza espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto, delineare la “profondità” del presente attraverso ciò che lo ha reso possibile.
D’altronde l’archetipo assume un’importanza evocativa, richiama l’essenza originaria della costruzione, della forma.
In questa direzione di lavoro l’archeologia più che disciplina gnoseologica o letteraria può diventare una fonte inesauribile di insegnamenti per il progetto contemporaneo, aiutandoci a “trovare al di là di ogni nascita, il determinarsi di una “fondazione originaria”, il delinearsi di un orizzonte che non si esaurisce, nè si compie mai.” (5)
Il principio del rivestimento dei corpi architettonici, dove il sistema strutturale, retrocede in secondo piano rispetto alla forma di un involucro indipendente fatto avanzare in “prima linea”, è oggigiorno di nuovo al centro del progetto architettonico.
Il lavoro progettuale dei contemporanei ci appare come un lavoro sempre più di tipo “stratigrafico” in forte analogia concettuale con il quadro dei modi sinora da noi delineato, dove comunque alle strutture continue di tipo murario si sono aggiunte le strutture a telaio in acciaio o in calcestruzzo armato con i loro aggiornati dispositivi di ancoraggio “a secco” fra la discontinuità strutturale del sistema portante e la continuità dello strato involucrante esterno.
Il tema del rivestimento lapideo o marmoreo, quello ancora più recente ed attualissimo della parete ventilata e degli involucri in cotto discostati dal supporto murario sottostante, la riproposizione del processo di “smaterializzazione tettonica” (con forti analogie rispetto a quanto si è illustrato in apertura di questo saggio), gli stessi sistemi di ancoraggio a mezzo di elementi metallici ci appaiono, più che invenzioni peculiari del nostro tempo, reinterpretazioni di temi antichi.
In questo senso si spiega il nostro atteggiamento, in nostro interesse, per i “cominciamenti” che tendono a saldare, a dare una profondità ma anche un argine al dilagante “spaccio di cose nuove”, di “presunte innovazioni”.
Louis Kahn, circa mezzo secolo fa, dopo tre mesi di visite e riflessioni teoriche sul corpo antico di Roma, che tra l’altro segneranno tutta la sua fase architettonica matura nel segno di una “modernizzazione” del paesaggio dei ruderi, ci ha lasciato parole degne di riflessione per tutti noi architetti:
“Ho capito che l’architettura italiana continuerà ad essere la fonte d’ispirazione per il futuro. Chi la pensa diversamente dovrebbe riflettere ancora. L’esito dei nostri lavori sembra insignificante se comparato a questa città dove sono state sperimentate tutte le possibili combinazioni di forme pure.
Ciò che si rende necessario è capire come l’architettura italiana si relazioni al nostro sapere costruttivo e ai nostri bisogni.” (6)

Alfonso Acocella

*Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(3) Jean Pierre Adam, L’arte di costruire presso i romani, Milano, Longanesi, 1988 (1° 1984)
(4) Marguerite Jourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988 (1° 1951)
(5) Carlo Truppi, Continuità e mutamento, Milano, Fanco Angeli, 1994.
(6) Louis Kahn in Vincent Scully, “Una lezione su Louis I. Kahn” (a cura di Isotta Cortesi), Area n. 39, 1988.

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Stratigrafia parietale (II parte)*

(II parte)


Pantheon. Rivestimento a spessore del pronao. (foto. A. Acocella)
fg77
Rivestimenti lapidei a spessore. Placcature marmoree sottili
Già nel periodo tardorepubblicano il rivestimento lapideo assume una duplice specializzazione.
La prima è destinata prevalentemente agli esterni, con rivestimenti a grande spessore i cui elementi spesso partecipano alla stessa funzione statica dell’ossatura muraria. Monumenti come il mausoleo di Cecilia Metella lungo la via Appia a Roma non sono altro che enormi nuclei in calcestruzzo con paramenti in blocchi di pietra squadrata autoportanti lasciati a vista (opus quadratum), di cui alcuni – disposti come diatoni, perpendicolarmente allo sviluppo murario – risultano annegati nello spessore della massa concretizia.
L’idea di riservare al paramento murario di facciata i blocchi squadrati di grosso spessore anticipa, cronologicamente, la seconda soluzione di rivestimento – tipicamente romana – ottenuta impiegando lastre marmoree sottili policrome (l’opus sectile) posate sulle pareti murarie portanti tramite grappe di bronzo e malta di calce.
Quest’ultima tecnica – sviluppata dai romani a partire dall’età augustea quando, grazie all’avanzamento dei processi di lavorazione, fu possibile tagliare i blocchi di marmo in lastre di spessore anche al di sotto del centimetro – sarà indirizzata verso un uso sofisticato e opulento dei litoidi più rari e pregiati prediligendo l’accostamento contrastato di marmi e calcari policromi che affluivano, via mare, da tutti i territori dell’Impero.
I pannelli di marmo – le crustae – non si presentano mai in grandi dimensioni risultando (quando vengono concepiti secondo “disegni geometrici”) dalla combinazione di elementi lineari (cornici, fasce) che perimetrano, al contorno, specchiature in cui si inscrivono, a contrasto, lastre più piccole di forma regolare: quadrati, rettangoli, triangoli, losanghe, cerchi. Più raramente le incrostazioni si accompagnavano ad elementi “in solido” (valga per tutti la spettacolare partitura architettonica in marmo numidico del Pantheon adrianeo) sottoforma di membrature legate alla concezione dell’ordine (lesene e colonne con capitelli, cornici, trabeazioni ecc.).
È soprattutto con l’epoca di Augusto che si gettano le basi per gli svolgimenti successivi Ai marmi bianchi, in omaggio alla tradizione greca, è affidato in genere il compito di suggellare, entro la compagine urbana, l’immagine “composta”, “equilibrata”, “neoatticista”, dei grandi monumenti augustei; basti qui citare la Basilica Emilia, il Tempio Sosiano e, soprattutto, il Foro di Augusto; monumenti, questi, i cui resti sono ancora oggi visibili all’interno della stratificazione archeologica secolare di Roma.
Negli interni degli edifici pubblici prese avvio, invece, la tendenza alla enfatizzazione spettacolare ed illusionistica dello spazio affidata, sempre più, a rivestimenti parietali e pavimentali in opus sectile che utilizzavano la forza policromatica, la suggestione delle venature e delle “macchie” dei marmi, riprendendo e trasferendo la sfarzosità e il lusso abitativo (già acquisito dai ceti aristocratici e mercantili romani nelle domus e nelle ville suburbane di villeggiatura tardorepubblicane) all’architettura di interni dei grandi edifici imperiali destinati a funzioni politiche, religiose, cerimoniali. Nei pochi casi superstiti – dal Pantheon al Basilica di Giunio Basso, dall’Aula fuori Porta Marina a Ostia alla tardoromana S. Vitale di Ravenna – il rivestimento policromo (in opus sectile geometrico o figurale) si estende verso l’alto foderando grandi campiture delle superfici murarie.
Nelle lussuose abitazioni – legate prevalentemente alle ville imperiali, a quelle della classe senatoriale, degli influenti liberti o dei ricchi mercanti – il rivestimento non ricoprirà quasi mai intere pareti, foderando invece un’altezza relativamente modesta (poco più di un metro) oltre la quale, dopo una eventuale sottolineatura plastica di una cornice in marmo in aggetto, prosegue una finitura ad intonaco affrescato, ad encausto, stucco.
A fianco degli schemi geometrici di rivestimento marmoreo vennero ben presto introdotti soluzioni di opus sectile più elaborate che svilupparono, all’interno delle composizioni generali, temi figurativi a soggetto mitologico, eroico ecc. grazie all’utilizzo della tecnica dell’intarsio, proponendo una visione dell’incrostazione marmorea come “pittura di pietra”, in similitudine a quanto già promosso dalla più antica tradizione del rivestimento a mosaico.
Quest’ultimo tipo di rivestimento marmoreo sembra essere stato introdotto, secondo Plinio, durante il regno di Claudio (41-54 d.C.) registrando lungo il principato di Nerone una ulteriore accentuazione di sperimentazione ed enfatizzazione decorativa. Un successivo sviluppo si registrerà soprattutto nel tardo Impero con gli esempi più cospicui, e giustamente famosi, quali la Basilica di Giunio Basso e l’Aula cristiana fuori porta Marina a Ostia.

Mosaico parietale
La tecnica del rivestimento a mosaico, per secoli limitata a redazioni pavimentali ottenute con piccole tessere (opus tessellatum) o piccolissimi frammenti (opus vermiculatum) di pietra o di marmi colorati, fa registrare ad una certa data un allargamento applicativo che progressivamente investirà sempre più estese superfici comprese quelle parietali e voltate.
I primi esempi di rivestimento musivo parietale si legano soprattutto alla definizione di piccoli manufatti riguardabili attraverso la categoria degli “arredi architettonici” fissi (quali possono essere considerati le fontane, i ninfei da giardino con nicchie ed esedre) godibili, ancor oggigiorno, nelle loro condizioni di integrità figurativa ed esecutiva nei numerosi triclini estivi delle residenze di Stabia, di Ercolano (casa di Nettuno ed Anfitrite), Pompei (casa della Fontana piccola, casa della Fontana grande, casa di Marco Lucrezio).
Meno frequenti, ma pur sempre documentati, i supporti architettonici verticali rivestiti con mosaici (come nel caso della Domus con le colonne a mosaico portate alla luce negli scavi di Pompei ed attualmente esposte nel Museo archeologico di Napoli).
Benchè spetti alla civiltà bizantina il raggiungimento dei risultati più spettacolari nell’uso di mosaici dai toni dorati e cangianti su estesissime superfici murali, il primato dell’invenzione e dello sviluppo di tale tecnica di rivestimento va riconosciuto ai romani che inizialmente la veicolarono su limitate superfici parietali, poi su quelle voltate di edifici importanti.
Basti citare la volta delle terme di Baia, il criptoportico della Villa Adriana a Tivoli, la volta con eleganti decorazioni a viticci della Rotonda dei Sette sapienti ad Ostia; ed ancora la cupola del Tempio di Minerva medica a Roma (il cui rivestimento musivo è andato purtroppo perduto), la volta anulare a botte dell’ambulacro ancora perfettamente visibile della chiesa di Santa Costanza, sempre a Roma, infine il capolavoro dell’architettura tardoromana qual’è il S.Vitale a Ravenna.
Un passo famoso di Plinio (Storia naturale, XXXVI, 189) dà una cronologia abbastanza precisa all’estensione applicativa del mosaico dall’ambito pavimentale a quello delle superfici voltate legandola all’età giulio-claudia; nello stesso passo Plinio evidenzia – inoltre – i nuovi materiali adottati per tali redazioni musive: le tessere vitree, eventualmente smaltate, al fine di conferire un più sgargiante colorismo parietale.


Chiesa di San Vitale a Ravenna. (foto. A. Acocella)

I mosaici a tessere vitree (più leggere, e quindi particolarmente idonee ad essere fissate sull’intradosso delle volte senza appesantirne la struttura) svolgono una funzione analoga a quella delle decorazioni a pitture, a stucchi, a incrostazione marmorea concorrendo alla definizione degli ambienti interni e all’avvolgimento unitario dello spazio attraverso un gusto parietale del rivestimento fortemente coloristico, proteso nell’architettura romana – in antitesi alla sintassi figurativa greca – alla smaterializzazione dei partiti tettonici in vista di risolvere tutto in termini di superficie e di colore come precisato da Sergio Bettini:
“Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poichè la decorazione musiva, s’è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico, e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell’ambito d’una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l’intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè della tradizione romana. La quale, quando riduce codesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poichè tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse “figure” a superfici cromatiche senza spessore (…).
È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell’antica Grecia, che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.” (2)
Alfonso Acocella

*Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(2) Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1978.

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Stratigrafia parietale (I parte)*

(I^ Parte)


Tempio di Giove Anxur a Terracina. (foto di A. Acocella)
fg76
Alle origini del rivestimento
Le soluzioni di configurazione parietale in ambito ellenistico muovono dalla tradizione aulica dell’architettura in marmo della Grecia classica. Nelle celle dei templi le colonne delle navate laterali vennero, in numerosi casi, posizionate vicino alle pareti e, successivamente, negli svolgimenti ellenistici, addossate ad esse in forma di semicolonne (tholos di Delfi, Basse, Tegea) producendo, sia pur in forma ancora embrionale, il trasferimento di un tema architettonico-costruttivo in un motivo architettonico-decorativo.
Tale processo è altresì presente nello sviluppo e nella diffusione della casa ellenistica a peristilio nel bacino del Mediterraneo (comprese le colonie e i centri urbani italici influenzati dalla civiltà magnogreca) che ha spesso utilizzato, quale fondale rispetto ad un raffinato arredo amovibile, superfici “involucranti” accuratamente rifinite e decorate in forma di pareti cieche trattate ad intonaco colorato che andranno a fondersi, nel quadro spaziale complessivo, con l’effetto di preziosi mobili, lampade in bronzo, tappeti.
Il tema di traduzione su superficie piana di un modellato plastico è perseguito – anzi, più frequentemente sperimentato – attraverso il procedimento di intonacatura della superficie muraria o della stuccatura a rilievo, come è ancora perfettamente leggibile nel grande peristilio della Casa del Fauno o nella Basilica di Pompei (entrambi gli edifici sono del II sec. a. C.) riguardabili come peculiari testimonianze del processo di ellenizzazione in ambito italico da cui non sarà esente la stessa civiltà romana.
La massima espressione di una tecnica muraria di tipo stratigrafico, con un’esaltazione dei valori di superficie e di rivestimento parietale, è legata proprio all’esperienza romana sulla quale hanno dato contributi interpretativi fondamentali (fra Otto e Novecento) personaggi di primo piano della cultura artistica ed architettonica europea quali Semper, Bötticher, Riegl, Choisy, Meurer, Bettini ed altri.
Nell’architettura romana, salvo alcuni temi particolari (quali gli edifici di culto più importanti, i “templi”), non esiste una corrispondenza diretta, esplicita, fra la struttura portante e la risoluzione della facies parietale, interna o esterna, a vista.
La verità strutturale per cui un edificio romano sta in piedi, assolvendo al suo ruolo statico, è molto diversa da quella che, in genere, appare a prima vista; dando questa particolare risoluzione al problema della costruzione gli architetti romani si allontanarono da quanto aveva espresso sin allora l’architettura greca.
La maggiore carica innovativa della tecnica costruttiva ellenistica fa sì che – sia pur a fronte dell’abitudine prevalente alla struttura muraria massiva ed omogenea secondo la “maniera greca” (questo anche quando si immetterà, per la prima volta nella tradizione occidentale, la tecnica delle murature in blocchi di argilla cotta come le realizzazione di Velia del III sec. a C. ci testimoniano) – già prima delle esperienze romane la concezione di una costruzione muraria “composita”, “stratigrafica”, con uso contestuale di materiali diversi, trovi i suoi primi, anche se limitati, esperimenti applicativi.
Ed è la stessa Velia, città di fondazione da parte dei Focei, ad esempio, ad offrirci temi di costruzione muraria sviluppati in tale direzione.
In ambito romano, già a partire dalla fase tardo repubblicana (II-I sec. a. C.), il muro – ovvero quella parte della costruzione compresa fra il piano di spiccato e il piano di appoggio delle coperture – è storicamente riguardabile come struttura composita e specializzata fatta di molteplici materiali, di strati organizzati e gerarchizzati dall’interno verso l’esterno.
In genere è dato un nucleo murario portante centrale (esso stesso, nella sua sezione, “composito”) a cui si sovrappone una serie di strati che “ingrossano” lo spessore dell’ossatura muraria (sia verso l’interno che l’esterno) utilizzando cocciopesti, intonaci, intonaci colorati con pitture ad affresco, encausti, stucchi bianchi e colorati, rivestimenti lapidei a spessore e, in epoca imperiale, anche lastre sottili di marmi policromi, mosaici in pasta vitrea, laterizi a vista.
L’ossatura muraria, in forma di solido resistente e di sostegno alla copertura, è – in genere – obliterata; gli strati superficiali di rivestimento in continuità materica e coloristica, delimitano e definiscono lo spazio “azzerando” ogni evocazione di resistenza della struttura portante. La struttura dell’ossatura risulta, generalmente, tripartita (ovvero composta da tre strati materici): due cortine all’esterno e un getto interno, di più rilevante spessore, in calcestruzzo.
Nella composizione del nucleo centrale (in cui già dal II sec. a. C. fa da protagonista l’opus caementicium, un materiale destinato a rivoluzionare i sistemi di costruzione dell’architettura antica e a promuovere una grandiosa “architettura spaziale”) un ruolo essenziale è svolto dalla malta di calce (materia) quale elemento aggregante rispetto ai “rottami” (caementa) di pietra o di laterizio cotto che costituiscono l’ossatura del calcestruzzo stesso allettati a mano nella malta molto fluida da maestranze non necessariamente qualificate come quelle preposte alla realizzazione dei paramenti murari.
Privo di cortine, l’opus caementicium è comunemente impiegato unicamente in fondazione; in spiccato, invece, è utilizzato sempre come nucleo interno, in abbinamento con casseforme-cortine molte variegate per tipologia, morfologia e dimensioni dei materiali costitutivi. Tali cortine risultano generalmente formate da elementi – sia nel caso di utilizzo di pietre naturali che di prodotti “artificiali”, quali i laterizi cotti – con una morfologica a “cuneo” (rigorosa nell’opus reticolatum e nell’opus testaceum, meno definita ma sempre presente nell’opus incertum e nell’opus vittatum). Questa particolare morfologia a “bietta” è finalizzata, nella specifica costruzione composita romana, ad ottenere – verso l’interno – la compenetrazione degli eterogenei materiali costitutivi (nucleo-paramenti) e – verso l’esterno – una parete completamente pareggiata e complanare idonea ad accogliere qualsiasi altro strato di rivestimento superficiale da lasciare a vista.
Fra le fonti antiche Vitruvio, nel secondo capitolo del De Architectura precisa con una certa cura le caratteristiche delle diverse tipologie di opus murari romani esplicitando la peculiarità della nuova concezione costruttiva romana a base essenzialmente concretizia e confrontandola con la tradizione greca e il tardo aggiornamento ellenistico che introduce – come già accennato – murature miste ad emplecton preludio degli sviluppi romani delle murature composite.
Rimane, a questo punto, da esplicitare il motivo per cui i romani dissimularono a tal punto l’ossatura muraria portante (rifiutando ogni apporto estetico dell’elemento strutturale), eleggendo, invece, il rivestimento a vero protagonista dell’immagine architettonica.
Siamo di fronte, indubbiamente, alla maturazione di una sensibilità alla forma architettonica diversa da quella derivante dalla concezione trilitica greca o peristilia ellenistica. L’obliterazione delle membrature costruttive si accompagna, in genere, nell’architettura romana, a un occultamento del loro peso, della loro tettonicità, della loro resistenza, sfruttando soluzioni di “ricoprimento” delle murature verticali e delle ampie ed avvolgenti volte, veri dispositivi innovativi della concezione architettonica romana.
“Nell’arte romana – evidenzia con grande acutezza Sergio Bettini – le volte e le cupole hanno la funzione figurativa fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere quell’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate anche tutte le forme particolari. È questa totalità spaziale, appunto che determina il significato propriamente architettonico degli edifici romani, e costituisce il punto di partenza per l’esatta comprensione delle forme particolari che in essa vengono assorbite; non sono le forme singolarmente prese o un accostamento di forme singole. Già dagli inizi, dalla stessa adozione della tecnica cementizia, l’accento dell’architettura romana è posta, non sull’elemento, alla maniera greca, ma sul legamento, cioè sull’unità complessiva della fabbrica.” (1)
In fondo le “finte architetture” da rivestimento (con pitture dipinte, con placcature marmoree, con mosaici, con stucchi, ecc.) perseguono la medesima finalità; gettare sulla parete una “veste” che trasmetta una qualità estetica superiore a quanto sarebbe stato possibile per altra via.


Villa Adriana a Tivoli. Cortile dei pilastri dorici. (foto di A. Acocella)

Gli esempi dell’illusionismo strutturale rintracciabili nell’architettura romana sono molteplici (anche in complessi dove sicuramente non esistevano limitazioni economiche o di competenze tecniche); fra tutti possiamo citare il caso particolarmente significativo delle piattabande in mattoni foderate con lastre di marmo a simulazione di grandi architravi monolitici sia nel Cortile dei pilastri dorici che nel Teatro marittimo della “Villa tiburtina” a Tivoli dell’imperatore Adriano.

di Alfonso Acocella

* Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(1) Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1978.

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