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Fluide superfici litiche _ modellazione 3D.


Pongratz Perbellini Architects – inviluppi di studio della superficie Hyper-Wave
(foto A. Acocella, elaborazione D.Turrini)

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Nel volgere degli ultimi decenni un sempre più rapido progresso scientifico ha indotto un profondo mutamento dei riferimenti spazio-temporali, dei processi cognitivi ed immaginativi e dei concetti di forma ed immagine del contesto oggettuale in cui l’uomo vive, calato com’è tra realtà e virtualità. Matematica, fisica, biologia e scienze informatiche hanno trasferito in particolar modo al mondo dell’architettura una serie di nuove conoscenze e suggestioni, accompagnate da inediti metodi di analisi e progettazione della realtà. Da questi campi conoscitivi, integrati in un’ottica multidisciplinare, si sviluppano innovativi concetti di dimensione, struttura geometrica, materia, forma e, soprattutto, emergono nuovi percorsi di percezione sensoriale.
La possibilità di tradurre equazioni differenziali, funzioni e algoritmi in oggetti tridimensionali riguardabili come vere proprie sculture matematiche consente al progettista di creare e controllare ogni tipo di formazione, metamorfosi e deformazione geometrica e modifica sostanzialmente la struttura e l’estetica delle forme solide e degli spazi architettonici. La continuità di trasmissione diretta dei dati digitali scaturiti dal design 3D al processo di produzione di componenti o di subsistemi costruttivi rappresenta una delle conquiste più avanzate dell’era tecnologica contemporanea.
In questo contesto si inscrive l’esperienza dello studio Pongratz Perbellini Architects, nata da ricerche accademiche condotte da Christian Pongratz a partire dal 2002 alla University of Texas di Austin, e di recente approdata alla produzione di cinque diverse tipologie di superfici litiche fluide, modellate grazie all’impiego dei più aggiornati software di tipo CAD/CAM (Computer Aided Drafting – Computer Aided Manufacturing).
La serie degli elementi, denominata Hyper-Wave, è stata concepita dai progettisti in collaborazione con l’azienda Fratelli Testi di Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR) ed è in corso di brevetto. I modelli dimostrativi in scala reale di ognuna delle tessiture superficiali sono stati esposti al 40° Marmomacc di Verona e sono stati realizzati con materiali lapidei diversi: Rosso di Verona, Bianco di Carrara, Moleanos e Pietra Serena.
La fluidità plastica delle sinuose increspature litiche di Hyper-Wave crea inediti effetti tattili e visivi.


Pongratz Perbellini Architects – inviluppi geometrici e vista parziale della superficie litica Hyper-Wave Moon
(foto A. Acocella, elaborazione D. Turrini)

Il processo produttivo della linea Hyper-Wave prende avvio dal trasferimento e dalla conversione della modellazione digitale in specifici programmi CAM, che guidano la fresatura superficiale di grandi lastre litiche di alcuni metri di lato. Tale procedimento è realizzato con l’utilizzo di centri di lavoro pluriassiali (4 o 5 assi) con teste utensili diversificate. Successivamente le lastre passano al processo di finitura, eseguita manualmente per superfici levigate e specchianti, o con ulteriori utensili che permettono di ottenere lavorazioni superficiali ed effetti chiaroscurali aggiuntivi. Gli elementi litici sono poi tagliati in formelle più piccole.
La linea Hyper-Wave sarà proposta sul mercato suddivisa in moduli base quadrati delle dimensioni indicative di 40 cm di lato per 3 cm di spessore. In ogni caso la flessibilità dei processi di lavorazione consentirà una pressochè illimitata adattabilità dimensionale dei moduli, che potranno essere tagliati in dimensioni maggiori o minori in base alle specifiche esigenze progettuali.
Grazie alla ripetizione dei moduli si potranno realizzare rivestimenti architettonici interni od esterni senza limiti di lunghezza, larghezza e di variazione delle combinazioni disegnative della tessitura. La rapidità e la facilità di posa delle lastre litiche sono state oggetto di particolare studio: i componenti della linea Hyper-Wave potranno infatti essere assemblati a secco, con predisposizione di appositi supporti metallici, o potranno essere incollati con malte grazie alla calibratura di ogni lastra.
Specifici moduli di margine permetteranno di creare fluidi raccordi di continuità tra le superfici parietali verticali ed eventuali rivestimenti litici dei piani orizzontali di soffitti e pavimenti.

di Davide Turrini

(Vai a: Pongratz Perbellini Architects)

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21 Novembre 2005

Eventi

Archeologia industriale


L’idrovora di Codigoro, Ferrara
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Giornata di studi sul tema della
Riqualificazione dell’Architettura Industriale

La giornata di studi avrà luogo a Ferrara il 25 novembre presso la Facoltà di Architettura Biagio Rossetti di via Quartieri 8. L’evento è promosso dai dottorandi del XIX ciclo di Tecnologia dell’Architettura dell’Università di Ferrara con l’obiettivo del confronto tra ricercatori, professionisti e studenti che operino nel campo della riqualificazione dell’architettura della produzione industriale.
È importante attribuire alla disciplina della “Archeologia industriale” una funzione culturale e operativa ed insieme riconoscerne il carattere interdisciplinare: conservare e classificare i “reperti” utili alla comprensione dei fenomeni generalmente noti come “rivoluzioni industriali” ma anche indagare le specifiche realtà costruttive di oggetti architettonici complessi, predisposti per ospitare attività produttive, realizzati dell’uomo dal XVIII secolo ad oggi. Il lavoro umano, dal tempo della prima rivoluzione industriale al XXI secolo, si è modificato radicalmente generando trasformazioni e dismissioni dei suoi spazi e organismi architettonici, si individua quindi la necessità di tutela, valorizzazione e recupero di tale patrimonio storico.
La Giornata di studi costituirà occasione per riunire esperienze di ordine metodologico, della storiografia e della formazione, del recupero e della progettazione, allargando il confronto tra ambiti disciplinari e tecnico-scientifici differenti affinchè con il dibattito si aprano nuovi orizzonti per l’Archeologia industriale e si rinnovi la sensibilità alla conoscenza del Patrimonio architettonico esistente.
“Archeologia industriale è un campo di studi che si occupa di indagare, rilevare, registrare e, in alcuni casi, conservare monumenti industriali; il suo obiettivo, inoltre, è quello di valutare il significato di questi monumenti nel contesto della storia sociale e tecnologica”.
(R. A. Buchanan, Industrial Archaelogy in Britain, Harmondsworth, 1972)


(Vai al sito dellaFacoltà di Architettura dell’Università di Ferrara)

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19 Novembre 2005

Eventi

Una mostra per David Chipperfield tra idea e realtà


David Chipperfield

UNA MOSTRA PER DAVID CHIPPERFIELD TRA IDEA E REALTA’
Padova, Palazzo della Ragione
Dal 19 novembre 2005 al 19 febbraio 2006

40 progetti per rappresentare più di 20 anni di successi internazionali della David Chipperfield Architects, uno dei più conosciuti studi di architettura del mondo.
La mostra sara’ allestita dalla David Chipperfield Architects presso lo spazio scenografico del Salone del Palazzo della Ragione di Padova, uno dei più grandi interni affrescati medioevali d’Europa.


Neues Museum, Berlino, 1997-2009
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A promuovere la mostra, l’Ordine degli Architetti Pianificatori e Paesaggisti della Provincia di Padova, il Comune di Padova, in collaborazione con Federico Motta Editore.
L’esposizione è proposta nell’ambito delle iniziative collegate al Premio Internazionale di Architettura "Barbara Cappochin" la cui cerimonia di premiazione e inaugurazione sono previste nella giornata del 18 novembre 2005 rispettivamente nella Sala dei Giganti, Palazzo Liviano e al Palazzo della Gran Guardia, alla presenza del Ministro ai Beni Culturali Rocco Buttiglione.
La mostra dei lavori della David Chipperfield Architects si propone di essere qualcosa di più di una semplice rassegna di architettura. L’occasione è colta come opportunità per presentare un profilo aggiornato del lavoro dell’architetto, attraverso l’esposizione di 40 progetti tra realizzati, in fase di costruzione e in fase di progettazione.
A questo scopo verranno utilizzati disegni di grande formato e modelli dei progetti, taluni realizzati in pietra da Laboratorio Morseletto di Vicenza.
L’idea principale è rappresentare in maniera semplice ed omogenea i progetti attraverso disegni-pitture e plastici-sculture, ponendo particolare attenzione a forma e spazio. La mostra vedrà esposti progetti dalla piccola alla grande scala in corso di realizzazione in Europa, America ed Oriente. Tra questi saranno anche esposti i progetti italiani quali la Cittadella Giudiziaria di Salerno, la Città delle Culture a Milano, il Nuovo Polo Culturale "Arsenale 2000" a Verona e l’Ampliamento del Cimitero di San Michele in Isola a Venezia.
A Padova, la David Chipperfield Architects ha anche deciso di presentare, in anteprima, alcuni progetti quali il Museo Figge a Davenport, USA, il Museo della Litteratura Moderna a Marbach, Germania, la Biblioteca Pubblica a Des Moines, USA e l’edificio residenziale a Madrid, Spagna.

David Chipperfield è nato a Londra nel 1953. Dopo il diploma ottenuto all’Architectural Association di Londra, ha lavorato per Douglas Stevens, Richard Rogers e Norman Foster prima di fondare, nel 1984, i suoi studi presso i quali attualmente lavorano più di 100 architetti di diverse nazionalita’, nelle sedi di Londra e Berlino.
Nel 1999 David Chipperfield e’ stato insignito con la Medaglia d’Oro Tessenow, nel 2004 è stato nominato Commander of the British Empire per essersi distinto nel campo della progettazione architettonica e nel 2003 è stato nominato Membro Onorario dell’Accademia delle Arti di Firenze. Ha insegnato in diverse università europee ed americane ed è stato titolare della cattedra Mies van der Rohe alla Scuola Tecnica di Barcellona.

(Vai al sito di David Chipperfield
Vai alla pagina del Comune di Padova dedicata alla mostra)

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Intervista a Deborah Morseletto di Laboratorio Morseletto


Deborah Morseletto di Laboratorio Morseletto
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Il Laboratorio Morseletto di Vicenza, fin dai primi del ‘900, si occupa della lavorazione della Pietra di Vicenza e dei marmi in genere e l’attività esecutiva si estende sino alla progettazione delle superfici ed alla posa del terrazzo alla Veneziana tra cui il cocciopesto. Deborah Morseletto assieme a Barbara e Paolo Morseletto è titolare e amministratrice dell’importante Laboratorio.

Veronica Dal Buono: Chi ha dato avvio alla tradizione di Laboratorio Morseletto ed in quale contesto storico e ambientale? Quali i collaboratori e qual era il loro ruolo?
Quali ritiene siano stati i primi lavori esemplari che hanno dato risalto all’attività professionale del Laboratorio?
Deborah Morseletto: La nostra attività ha avuto inizio grazie a Piero Morseletto che aprì a inizio del XX secolo la prima “bottega”. Era esperto scultore, capace di lavorare la Pietra dei colli Berici in ogni forma e, con alcuni scalpellini al seguito, ha fondato il primo piccolo laboratorio; al tempo di Piero si cominciava l’attività di bottega a 10 anni ed i collaboratori immagino siano stati tra le dieci e le venti persone. Aveva commissioni soprattutto private, in particolare opere di scultura, progettando e realizzando ornato per giardini. Allo stesso tempo antiquario e restauratore, commerciava in pezzi di antiquariato in particolare lapidei e si occupava anche di importanti restauri, ricordo per esempio i suoi interventi per Villa Manin di Passariano.
La “svolta” è avvenuta negli anni ’30 quando ha avuto la possibilità di raggiungere gli Stati Uniti e di rimanere a lungo ospite dei Du Pont.
Erano i Du Pont a trascorrere le vacanze a Firenze e chiesero ad un antiquario del luogo a chi rivolgersi per il progetto di un “giardino all’italiana”; l’antiquario, che spesso inoltrava commissioni a Vicenza al nonno Piero, ha fatto in modo che si incontrassero ed il risultato è stato la realizzazione dei Longwood Garden in Pennsylvania, giardini che si estendono per migliaia di metri quadrati, arredati da fontane, giochi d’acqua, statue e allegorie realizzate in Pietra di Vicenza dal Laboratorio. Quando ci siamo recati negli Stati Uniti per il restauro degli elementi lapidei del giardino abbiamo ritrovato, conservati ed esposti nel Museo interno della Villa DuPont, i disegni originali, in china bianca su carta azzurrina, realizzati dal nonno Piero. Piero ha trascorso molto tempo all’estero ma l’attività del Laboratorio vicentino al contempo proseguiva intensamente grazie ai collaboratori ed ai numerosi allievi che portarono a termine molte delle opere scultoree poi spedite negli Stati Uniti. Questa è stata forse l’esperienza più significativa ed eccezionale del primo periodo del Laboratorio Morseletto, le opere dell’epoca sono tuttavia talmente numerose che nemmeno noi ne conserviamo un archivio completo e talvolta, viaggiando nel nostro paese, riscopro “la mano” del nonno, il suo “stile” là dove non sapevo del suo passaggio.

V.D.B.: È possibile definire quando e come è avvenuto il passaggio da Laboratorio artigianale ad “Azienda”?
D.M.: Con l’ingresso in Laboratorio di mio padre Paolo e di suo fratello – si è scelto di definirlo sempre “laboratorio” e non “azienda” – si è aperto l’orizzonte delle attività dalla sola scultura alle lavorazioni per l’architettura ed il bagaglio di conoscenze, esperienze e manualità è stato messo a disposizione di grandi maestri dell’architettura contemporanea; primo fra tutti per importanza, fama ed anche nella mia memoria, per quanto fossi all’epoca molto giovane, Carlo Scarpa. Con lui la conoscenza dei materiali tradizionali ereditata dalla tradizione artigiana veneta si è fusa con l’esperienza delle maestranze sempre più specializzate e preparate a seguirlo in ogni particolare richiesta.
Il passaggio da bottega artigianale alle dimensioni del Laboratorio contemporaneo, con il suo comparto tecnico e le attrezzature tecnologicamente avanzate per la lavorazione dei lapidei, è divenuto anche “fisico” con il trasferimento alla fine degli anni ’60, dalla vecchia sede nella prima periferia-campagna della città storica, ora invece centro di Vicenza, alla zona industriale negli spazi dove siamo tuttora. Era in questi spazi che Scarpa infatti seguiva personalmente i lavori, solito a toccare con mano e non lasciare eseguire per commissione.
In quel periodo si sono susseguiti restauri a monumenti architettonici quali la Basilica Palladiana e la Loggia del Capitaniato a Vicenza, Palazzo Bevilacqua a Verona, i teatri Comunali di Bologna, Carpi, Lugo, Ravenna, Faenza e molti altri.
È particolare come l’evoluzione e la specializzazione di Morseletto sia avvenuta grazie al recupero e alla conservazione della “tradizione”. Sono stati infatti riscoperti e vitalizzati settori paralleli a quelli di lavorazione tradizionale dei lapidei, come le ricerche e applicazioni sugli intonaci antichi a base di calce o di stucco,e in particoalre, attraverso il recupero della tecnologia della calce, del cotto e dei marmi d’uso antico, la posa dei terrazzi alla veneziana. Anche se la nostra operatività si è progressivamente trasferita all’architettura ed al restauro, l’attenzione per la scultura tuttavia è sempre rimasta, a prova le collaborazioni con scultori quali De Chirico, Bogoni, Berrocal, Rossello…

V.D.B.: Attualmente quali sono i maggiori settori di operatività? Quali le attività principali e gli indirizzi perseguiti?
D.M.: Oltre alla lavorazione su misura della pietra e dei marmi locali delle nostre cave, l’attività è estesa a qualsiasi tipo di marmo e granito (Pietra d’Istria, Marmo Pentelikon, marmo Bianco Lasa …); si eseguono sempre con alta specializzazione finiture parietali per interni quali rasati di calce, marmorini, intonaci in coccio pesto, calce, stucchi, gessi, coloriture antiche. Altro fondamentale settore di attività rimane la posa delle pavimentazioni alla veneziana, conservando la tecnica e la procedura “originaria”; si aggiungono i restauri conservativi quindi opere di pulitura, consolidamento e protezione. La scultura così, da unica attività del Laboratorio, è divenuta settore di nicchia.

V.D.B.: Come avviene oggigiorno la conduzione delle attività del Laboratorio, la sua gestione, la suddivisione delle competenze?
D.M.: Mia sorella Barbara ed io ci occupiamo del commerciale e amministrativo per tutti i settori di attività del Laboratorio, in particolare personalmente seguo il comparto del terrazzo alla veneziana e degli elementi scultorei; Barbara si occupa anche della produzione e dell’aggiornamento dei macchinari. I progetti, analizzati e preventivati grazie ai contatti preliminari con la committenza, divenuti “ordini”, vengono sviluppati e trasformati in esecutivi dal nostro ufficio tecnico che verifica su misura i progetti in base alle esigenze tecniche delle particolari lavorazioni richieste. La nostra forza consiste proprio in questo, nella capacità di “tradurre” in materia litica i disegni che giungono al nostro laboratorio grazie all’esperienza nella lavorazione della pietra che viene messa a disposizione dei professionisti. Gli esecutivi passano poi alla produzione e gli elementi realizzati vengono messi in opera dalle nostre stesse maestranze. Dieci sono i tecnici specializzati ed un centinaio gli artigiani che compongono la nostra struttura produttiva.

V.D.B.: Il fenomeno che si sta verificando ormai anche in Italia, della progressiva scomparsa degli artigiani, dell’esperto muratore di cantiere, ha ripercussioni sull’attività del Laboratorio? Vengono adottati particolari programmi di formazione?
D.M.: È un problema che riguarda anche noi naturalmente, come tutti, ma la nostra fortuna consiste nella tradizione dei saperi costruttivi che permane tra le maestranze diffondendosi ancora di “padre in figlio”. Sicuramente il futuro riserverà delle difficoltà perchè è lavoro, come quello del capomastro per i cantieri, che richiede lunghi periodi di formazione e molta esperienza e non è possibile istruire rapidamente alla lavorazione della pietra in particolare per gli elevati standard qualitativi richiesti dalle nostre committenze. Soltanto costante e continuativa esperienza pratica in sito, presso i nostri spazi, affiancandosi alle figure più esperte, consente la formazione e specializzazione delle maestranze. Nel Laboratorio gli artigiani sono tutti “scalpellini” ed ognuno si dedica esclusivamente alla propria mansione: le prime maestranze della catena produttiva sono i fresatori impegnati nel taglio del materiale; il blocco viene lavorato dagli scalpellini, specializzati nel lavoro o della pietra o del marmo; vengono infine gli “scultori”, poichè non tutti gli scalpellini hanno questa qualifica. Un gruppo autonomo e indipendente si dedica invece con continuità alla realizzazione e posa dei cocciopesti e terrazzi alla veneziana.

V.D.B.: Come vi rapportate al mondo della committenza edilizia e più in generale al mondo della produzione contemporanea?
D.M.: Lavorando soprattutto con i privati la tipologia di commissioni varia di anno in anno, tuttavia sono negozi e case d’abitazione che realizziamo maggiormente. Penso per esempio alle numerose boutique Damiani realizzate con Antonio Citterio, Brioni a Milano per Pierluigi Cerri, così come i negozi Bulgari, collocati nel mondo da Melbourne a Montecarlo, gli Showroom Missoni con Piero Pinto per Milano e Berlino…
L’esperienza del Laboratorio è cresciuta grazie alla collaborazione con architetti e designers di grande fama internazionale, pensando per esempio a Ettore Sottsass, Vittorio Gregotti, Angelo Mangiarotti, Cini Boeri, Tobia e Afra Scarpa, Piero Sartogo, Antonio Citterio… e possiamo dire sia divenuto realmente un centro vero e proprio di convergenza culturale del settore.

V.D.B.: Per Laboratorio Morseletto quindi si può dire che non vigano meramente le logiche commerciali ma una vera “cultura” della produzione. Quale strategia avete seguito per conservare la forte identità ed al contempo restare “al passo” con i mutamenti dei tempi, quale in sintesi la Vostra particolare “filosofia”?
D.M.: Forse possiamo parlare a mio giudizio di “vocazione” a rendere realizzabili progetti che sulla carta non sembrano eseguibili e questo grazie all’esperienza di cantiere ed alla continua disponibilità e collaborazione offerta.
Mio papà Paolo ha il merito di aver realizzato progetti difficili, particolari, soluzioni inedite mai realizzate prima e proprio per il principio del completo appoggio offerto al committente e progettista; anzi per mio padre più complessa è la proposta più è stimolante professionalmente.
La nostra “filosofia” è essere sempre più specializzati, anche tecnicamente, da un lato mantenere il bagaglio di esperienze ma pensandolo sempre “a crescere”, aumentando sempre più l’apertura a progetti che si distinguano per unicità.

V.D.B.: Nell’apertura e nell’attraversamento del mondo contemporaneo, del Novecento segnato da forti cambiamenti, che cosa della tradizione del Laboratorio Morseletto si è perso e cosa invece permane in avvio del nuovo secolo?
D.M.: Effettivamente oggigiorno non è facile ed è noto che la crisi generale sia giunta fino al settore del marmo così come che altre aziende storiche siano sparite.
Il problema fondamentale, come dicevamo, rimane quello delle maestranze: è difficile trovare persone con passione. Una tempo era consuetudine iniziare giovanissimi il lavoro in bottega, ora il lavoro manuale viene svalutato quando invece, in casi come il nostro, si tratta di una vera e propria “arte”. È un cambiamento radicale della mentalità che è avvenuto; da un lato il risultato è un apparente aumento di cultura, d’altro canto si assiste alla progressiva perdita dei magisteri tradizionali e quindi delle radici culturali profonde conservate nelle capacità professionali manuali. Fortunatamente l’attività del Laboratorio contribuisce alla salvaguardia di tali tecniche.
Posso dire che la crescita della nostra attività sia avvenuta gradualmente e con costanza, prima grazie a mio nonno nell’ambito della scultura, poi grazie a mio padre che ha realizzato il passaggio all’architettura, aprendo la produzione dall’ambito locale ai nuovi orizzonti contemporanei, anche geografici, dove operano gli architetti coi quali collaboriamo e realizzando i loro audaci e sempre diversi progetti. Penso per esempio a Frank O. Gehry in Pariserplatz a Berlino, ai grandi blocchi di tre metri per quattro estratti dalla nostra cava, al Museo Mart di Mario Botta oppure alle Terme di Merano per Matteo Thun in corso di conclusione.

L’autrice ringrazia Deborah Morseletto per la collaborazione e il valido contributo offerto all’attività di Architettura di Pietra.
Veronica Dal Buono

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15 Novembre 2005

Eventi

Mostra a Ferrara sull’opera di Gino Valle


Deutsche Bank, Milano Bicocca 1997-2005 (foto di Federico Brunetti)

Da, chez from, Gino Valle
Al MusArc di Ferrara la mostra "Da, chez from, Gino Valle"
offre per l’opera di Gino Valle, una "testimonianza". Si sa che Valle considerava il suo lavoro un "flusso continuo" e questo flusso vive a due anni dalla scomparsa, nelle realizzazioni ad opera di Piera e Pietro Valle, come – a sua volta – proveniva da Provino Valle.
La mostra propone una visione d’insieme delle opere più importanti e un approfondimento dettagliato su alcuni degli ultimi lavori, già costruiti o in corso di realizzazione. Fornisce, in questo modo, una documentazione sull’opera di Gino Valle a circa quindici anni dall’ ultima personale del 1989 a Vicenza. Sempre di quegli anni è la monografia più recente (da tempo esaurita): il catalogo offre un aggiornamento al 2005.
In esposizione, si ritrovano immagini fotografiche, larga parte dei disegni più importanti dei progetti "storici" fino agli esecutivi delle opere recenti e una grande varietà di schizzi autografi. Si può allora, da un lato, seguire l’evoluzione e l’ampiezza del lavoro di Gino Valle (ha progettato e realizzato molto in Italia, con importanti escursioni internazionali, da Manhattan a Berlino, da Parigi a Londra). Dall’altro lato, seguire passo passo il processo progettuale (dai primi schizzi alla realizzazione); e ancora, considerare la capacità e la varietà di impostazione grafica. Si rendono così agli esperti, materiali e spunti di ricerca, agli osservatori, documentazione sia sull’opera realizzata sia sul disegno di uno degli architetti italiani più importanti della seconda metà del secolo scorso.

Biografia di Gino Valle
Architetto nasce a Udine nel 1923, si laurea all’lstituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1948 e successivamente entra nello studio del padre Provino, continuandone l’attività con lo Studio Architetti Valle dapprima assieme alla sorella Nani e, dal 1961, con Piera Ricci Menichetti. Nel 1951, riceve una Borsa di Studio Fulbright e studia alla Harvard Graduate School of Design a Cambridge (USA), ottenendo il Bachelor of City and Regional Planning. Dalla fine degli anni ’50 è consulente di product design presso la SoIari e la Zanussi e, grazie i suoi progetti, riceve il Premio “Compasso d’Oro” nel 1956, 1962 e 1963; nel 1995 riceve il “Compasso d’Oro” alla carriera. È membro dell’Education Working Group dell’lcsid (1963-67), divenendone vicepresidente dal 1967 al 1971. Dal 1967 al 1971 svolge attività didattica in diverse università in Europa, Sudafrica e USA. Nel 1972 diviene Professore Incaricato di Composizione Architettonica all’istituto Universitario di Architettura di Venezia e, nel 1977, Professore Ordinario, svolgendo attività didattica fino al 2001. Accademico Nazionale di San Luca dal 1975, riceve nel 1988 il Premio Antonio Feltrinelli per I’architettura dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Nel 2002 riceve iI Diploma di Medaglia d’Argento ai Benemeriti della Scuola della Cultura e dell’Arte conferitogli dal Presidente della Repubblica Italiana. Muore a Udine nel 2003. La sua attività è continuata da Studio Valle Architetti Associati, composto dai suoi collaboratori e guidato da Piera Ricci Menichetti e Pietro Valle.
Tra le sue principali opere ricordiamo gli uffici e gli stabilimenti Zanussi a Porcia, Pordenone (1959-61); gli uffici e lo stabilimento Fantoni ad Osoppo, Udine (1973-78) e il centro direzionale Galvani a Pordenone (1972-82).
Negli anni Ottanta progetta la sede della Ibm ltalia a Basiano, Milano (1980-83) e la sede di New York della Banca Commerciale Italiana (1981-86). Dello stesso periodo sono il complesso di abitazioni popolari alla Giudecca, Venezia (1980-86), la scuola elementare blocco 606 a Berlino (1983-87) e i nuovi stabilimenti Olivetti a Ivrea (1984-86).
Nel periodo 1984-88 realizza un complesso di uffici (tra i quali Ibm Europe) e un albergo alla Defènse di Parigi. Nel 1985-88 partecipa al progetto Bicocca a Milano, dove più tardi realizza la nuova sede della Deutsche Bank (1991-2004). Costruisce il Palazzo di Giustizia di Padova (1984-90), redige il piano particolareggiato dell’area “La Bufalotta” a Roma (1991-98) e lavora alla ristrutturazione della torre Alitalia all’Eur (1995).
Seguono gli stabilimenti per la produzione di pannelli della Fantoni a Osoppo di Udine (1995-96), lo stabilimento Eco Refrigerazione a Pocenia, Udine e la Facoltà di Psicologia Due a Padova (1995-98). A Parigi attua la demolizione e ristrutturazione totale del Teatro Olympia (1996-98) e gli uffici della Societè Generale nell’isolato Boulevard des Capucines (1995-98). Ad Avignone realizza i nuovi uffici e laboratori Lafarge (1995-2000). Nel 2004 è stata completata la costruzione del Nuovo Palazzo di Giustizia di Brescia, la cui progettazione era iniziata negli anni ’80.
Negli ultimi anni ha redatto il Piano Particolareggiato dell’area Portello a Milano all’interno del quale è stato completato nel 2005 l’aggregato commerciale mentre è in fase di progettazione il complesso della piazza con gli uffici. Lavora inoltre al progetto del nuovo Teatro Comunale di Vicenza, oggi in fase di costruzione, e della Cittadella Universitaria di Padova che completa la Facoltà di Psicologia Due con tre nuovi edifici (Facoltà di Psicologia Tre, Casa dello Studente e Centro Congressi). È iniziata la costruzione del grande centro commerciale “Porta di Roma” nell’area Bufalotta (che include supermercati, una galleria coperta e l’edificio IKEA). Tra i progetti recenti ricordiamo il piano per la zona di san Benigno a Genova, il nuovo bocciodromo olimpionico di Udine e il piano particolareggiato per un business park a Fiumicino (Roma).

La mostra sarà aperta dal 28.10 al 11.12.2005.
Apertura: 10.00-13.00 / 15.00-18.00, da martedì a domenica.
(Vai a MusArc)

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13 Novembre 2005

Ri_editazioni

Involucri di pietra tra tettonica e leggerezza*


Facoltà di medicina a Murcia (Spagna) di Sancho-Madridejos
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Involucri
Il tema degli involucri si presenta attualmente estremamente stimolante, per i significati che questi assumono e per i valori ed i messaggi che comunicano nell’ambito della città contemporanea.
La facies degli edifici ha sempre ricoperto un’importanza notevole, ma negli ultimi anni lo studio sullo strato di separazione fra gli spazi interni e quelli esterni, è andato configurandosi come uno fra i più avanzati campi della ricerca e della sperimentazione in architettura.
Al di là delle varie tendenze, anche molto diverse fra loro, si può riscontrare, infatti, una comune, costante e trasversale attenzione alla pelle degli edifici (figg. 2 e 3) che si presenta sempre tecnologicamente molto complessa e che li caratterizza profondamente.
In questo settore estremamente attivo, forse più che in altri, il progresso tecnologico ha influito anche sui linguaggi progettuali, offrendo nuove potenzialità ai progettisti, fornendo nuovi materiali o nuove possibilità di utilizzare quelli esistenti, sia naturali, sia di sintesi.
Tutto questo ha parallelamente contribuito a generare riflessioni e discussioni, talvolta anche assai accese, sulle loro modalità di impiego più corrette e opportune dal punto di vista compositivo e culturale.

Gli involucri di pietra
Questo è particolarmente evidente nel caso dei materiali lapidei, i marmi, i graniti, le pietre e i travertini, che sono profondamente radicati nella nostra tradizione costruttiva (fig. 4) e da sempre sono stati scelti per le loro caratteristiche prestazionali, di durabilità e di estetica, che li rendono unici ed ineguagliabili.
Si sono sempre adattati perfettamente alle evoluzioni millenarie della tecnologia costruttiva ed hanno sempre rappresentato una scelta carica di significati per ogni "corrente" e linguaggio progettuale.
Oggi l’industria, oltre alle lavorazioni più tradizionali, offre anche la possibilità di realizzare lastre sottili con spessori minimi, fino a 7 millimetri (fig. 5).
Vengono tagliate direttamente dal blocco, poi sono rinforzate con un processo di impregnazione sottovuoto con fibre di carbonio o resine epossidiche e l’applicazione di reti in fibre di vetro.
Le resine penetrano all’interno delle cavità naturali del materiale e lo rinforzano, garantendo caratteristiche di resistenza pari alle lastre con spessore tradizionale, tagliate fino a 75 millimetri.
Con questi interventi si ottengono materiali talmente diversi da quelli di partenza, da poter essere considerati nuovi prodotti, praticamente industriali.
Questa sottilissima pelle di pietra che riveste la struttura viene montata sopra uno strato isolante "a cappotto" in sistemi ventilati di facciate avanzate (fig. 6), che garantiscono elevate caratteristiche prestazionali dal punto di vista igrotermico, acustico e funzionale, senza perdere le caratteristiche tecnologiche e l’aspetto, propri dei materiali lapidei.
Le lastre vengono appese a sottostrutture semplici o snodate in acciaio inossidabile o alluminio tramite ancoraggi meccanici invisibili ad alta efficienza (fig. 7), anch’essi in acciaio inox, di facile montaggio, regolabili in tre dimensioni e che non creano tensioni interne al materiale.
Le sottostrutture sono fissate alla struttura portante dell’edificio tramite fissaggi puntuali con tasselli ad espansione geometrica, chimici o con profili direttamente annegati nel getto di calcestruzzo.
Le lastre lapidee formano così uno strato (fig. 8) che viene montato a secco e può essere smontato per le periodiche operazioni di manutenzione, può essere anche sostituito e, in estrema analisi, anche riutilizzato in altri edifici, vista la completa separabilità del sistema dalla struttura.
Questa tecnologia permette anche di ricoprire le facciate degli edifici esistenti senza smantellarle, di cambiarne la pelle, migliorandone non solo l’aspetto, ma anche il rendimento in estate ed anche in inverno.

Tettonica e leggerezza
L’utilizzo dei materiali lapidei, con l’applicazione di queste nuove tecnologie, porta naturalmente ad una serie di riflessioni sul ruolo stesso che essi hanno sempre rivestito in passato e su quello che rivestono oggi.
Si pone, infatti, sempre più la questione del contrasto fra la loro onestà ed il loro valore strutturale da un lato (figg. 9 e 10) ed il loro mimetismo di facciata e di semplice strato esterno indipendente dall’altro (fig. 11).
Questo contrasto pone il progettista contemporaneo in una posizione difficile, divisa fra la tettonica tradizionale e consolidata in pietra e la leggerezza estrema dei nuovi rivestimenti, quasi una sfida ai materiali che simbolizzano ed esprimono per eccellenza la gravità.
Nel panorama architettonico, infatti, alla tridimensionalità stereotomica naturale propria della pietra si contrappone, attraverso tutta una serie di gradazioni intermedie, una pelle bidimensionale (fig. 12), che appare come tesa, con scansioni geometriche e spesso traslucida e priva di aggetti.
In alcuni casi viene utilizzata per simulare la totale monoliticità del volume dell’edificio, senza mai svelare la propria sottigliezza; in altri resta sottile e planare, movimentata dalle differenti texture e tonalità che solo la pietra riesce ad offrire.
Comunque, in generale, si tende a sottolineare la totale indipendenza dell’involucro dall’edificio, che appare come l’ultimo strato di un pacchetto estremamente complesso che racchiude e confina gli edifici.
Allo stesso tempo il progettista si trova in una posizione che è anche divisa fra le scelte tecnologiche tradizionali e le esigenze legate al tema, attualmente assolutamente imprescindibile, della sostenibilità.
Le nuove soluzioni, infatti, garantiscono un utilizzo maggiormente consapevole dei materiali lapidei, che sono una risorsa antichissima e preziosa, ma non rinnovabile e come tale devono essere impiegati.
Oggi si presenta la possibilità di ottenere un maggior numero di lastre dallo stesso blocco che permette quindi di limitare l’impatto ambientale nelle delicate fasi di estrazione in cava prima e di trasporto e di spedizione poi.
Questo garantisce anche una maggiore uniformità delle caratteristiche tecnologiche ed estetiche del materiale e permette un contenimento dei costi, specialmente con i materiali pregiati, fattore molto apprezzato dal mercato, che destina alle costruzioni risorse sempre più limitate.
Questo doppio dualismo porta a posizioni e soluzioni diverse: nelle varie tendenze si va quindi dalla tensione verso un utilizzo a volte esasperato dei materiali lapidei che ne fa perdere le caratteristiche principali, alla conservazione ed un recupero, a volte poco sostenibile, delle tradizioni costruttive.
Forse c’è la necessità di un compromesso, di un punto d’incontro fra la concezione classica della firmitas percepita e lo sviluppo tecnologico, fra le esigenze compositive e quelle sociali e produttive: ma il mestiere del progettista è profondamente legato a queste realtà e con esse da sempre deve confrontarsi e interagire.
La conoscenza tecnica deve portare infatti a padroneggiare i nuovi sistemi, a esprimere nuove esigenze ai produttori e a migliorare la qualità e le caratteristiche di quelli esistenti.
Anche lavorando su elementi che possono apparire minimi e secondari, ma che riescono a fare la differenza.
Per conservare la percezione della tridimensionalità della pietra, infatti, possono anche bastare la sovrapposizione e lo sfalsamento della pur sottile pelle di rivestimento, o la sottolineatura degli imbotti delle aperture, che creano gli effetti di ombra che conferiscono spessore alla facciata (fig. 13).
Oppure si possono anche utilizzare degli elementi con spessori maggiori per dettagli che restituiscano il "peso perduto" all’involucro rivestito.
Altrimenti, all’estremo opposto, si può anche scegliere di puntare proprio sulla percezione chiara ed aperta della pelle di pietra svelata, della sua leggerezza e sottigliezza estreme (fig. 14), ma per scelta precisa, non perchè lo impone la tecnologia.
Tutto dipende dalle scelte compositive e soprattutto dai messaggi che si vuole che l’involucro trasmetta ai fruitori, ma sempre utilizzando al meglio la tecnica, senza rimanere da essa condizionati.

Conclusioni
Queste nuove tecnologie sono dunque fondamentali e devono essere sviluppate ed utilizzate nel miglior modo possibile per ottenere la massima affidabilità dei materiali lapidei nel tempo nei sistemi di facciata e di involucro.
Però non devono assolutamente essere accettate in maniera acritica o eccessivamente vincolata alle esigenze industriali e produttive delle aziende di componenti.
I progettisti non devono, infatti, diventare semplici assemblatori di soluzioni preesistenti e preconfezionate per esigenze di mercato, ma devono riappropriarsi del loro ruolo appunto di progetto e assumere conoscenza, consapevolezza e controllo di queste nuove risorse tecniche.
Al di là delle scelte progettuali fondamentali e legate alla propria sensibilità, i progettisti devono quindi interagire con le aziende nel processo di ricerca, progettazione e realizzazione dei vari componenti che compongono il sistema dell’involucro (lastre di materiale lapideo, ancoraggi meccanici e sottostrutture), per pervenire a soluzioni nuove e rispettose, da una parte delle caratteristiche profonde dei materiali e della loro tradizione e dall’altra delle esigenze collettive della sostenibilità.

di Lorenzo Secchiari

(*) Relazione presentata nella Terza sessione (Rapporto tra linguaggi e materiali dell’architettura) del Primo Congresso nazionale Ar.Tec. Associazione per la Promozione dei Rapporti tra Architettura e Tecniche dell’Edilizia “Intersezioni e mutazioni nei rapporti tra architettura e tecnica, organizzato a Roma dal 2 al 4 Dicembre 2004 dal Dipartimento di Architettura ed Urbanistica per l’Ingegneria dell’Università degli Studi “La Sapienza”.

(Vai a Ar.Tec )

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Il dibattito promosso da "Versilia produce"


Cava di marmo sulle Alpi Apuane (foto: A.Acocella)

Il vuoto comunicativo fra architetti ed imprenditori
“Versilia produce”, organo del COSMAVE ha inteso approfondire – attraverso una serie di domande poste a progettisti, uomini di cultura, direttori di riviste, dirigenti d aziende di produzione – il problema del presunto vuoto comunicativo creatosi fra architetti ed imprenditori, posti a rappresentare oggigiorno, soprattutto in Italia, due realtà non dialoganti fra loro. Di seguito le domande e le varie risposte

Le domande
1. Esiste un “gap comunicativo”? Ovvero, si può parlare di vuoto fra le due categorie?
2. Gli architetti sono i medici che possono curare la crisi del marmo italiano?
3. Esiste disinformazione sulle applicazioni della pietra naturale?
4. Vando D’Angiolo, Presidente del Distretto Lapideo Apuo-Versiliese, auspica un “Rinascimento del marmo”, ossia la caratterizzazione delle pietre locali per riconquistare i mercati. E’ d’accordo?
5. La Spagna, rispetto all’Italia, dice di tenere in maggiore considerazione la pietra nell’edilizia contemporanea. Condivide questa affermazione?

Il dibattito: intervista ad Alfonso Acocella
“Un oblio dovuto all’inaridimento delle politiche formative su progetti e costruzioni in pietra”

1- Nel nostro paese esiste un vuoto fra il mondo della produzione e le categorie dei prescrittori: architetti, ingegneri, geometri, progettisti d’interni e restauratori.
Si è prodotto in Italia un “oblio” più generale sui temi connessi agli ambiti applicativi della pietra, un vuoto di natura strutturale legato all’inaridimento della politica formativa relativa alle pratiche di progetto e di esecuzione dei magisteri di pietra.
L’origine è da rintracciare nell’azione destabilizzante della promozione legata ai nuovi materiali in avvio del ‘900. All’interno della politica formativa nazionale – nelle Università, nelle strutture professionalizzanti e in quelle edili – vengono via via smantellati gli insegnamenti sulla cultura tecnica tradizionale con simmetrica attivazione e, poi proliferazione, di corsi di costruzioni metalliche e in cemento armato. A fronte del mancato aggiornamento degli strumenti del sapere tecnico tradizionale (trattati, manuali, prontuari) nasce il fenomeno delle riviste specialistiche (strumento comunicativo per eccellenza del ‘900), finanziate dalle industrie di materiali artificiali o indirettamente mediante promozione redazionale e pubblicitaria.
Nella prima metà del XX secolo le aziende di produzione dei materiali artificiali fanno dell’avvicinamento al mondo dell’Università ed editoriale e dell’azione di marketing una strategia programmata a scala nazionale. Il mondo dei materiali tradizionali assiste inerme a tale evoluzione, accettando di svolgere ruoli marginali all’interno dei cantieri edilizi, sia sotto il profilo degli impieghi strutturali che architettonici o ornamentali.


Alfonso Acocella, architetto, docente universitario

Non mancano comunque – negli ultimi decenni del secolo scorso – alcune “ri-abilitazioni” per i settori applicativi del legno, dei laterizi e della pietra; ma si tratta di “rinascenze” molto diverse.
Il legno viene rivalutato strutturalmente (in qualità di “legno lamellare”) rientrando però nel Paese come “prodotto d’importazione” grazie all’azione di promozione di aziende prevalentemente straniere.
Il settore di laterizi, sin dalla fine degli anni ’30, si costituisce in struttura associativa per la difesa dei suoi variegati prodotti per l’edilizia.
Quest’azione si consolida nel secondo dopoguerra attraverso una progressiva concentrazione dei poli produttivi attraverso fusioni che danno vita alle prime vere industrie di settore; le maggiori industrie, insieme a realtà medie e piccole, si associano in un unico organismo di scala nazionale, si dotano di riviste di settore, finanziano ricerche e strumenti di promozione.
Lo stato attuale di buona salute del settore sembra dare ragione a tale politica.
I progettisti ricevono da questa strategia molta attenzione (strumenti tecnici di lavoro, occasioni di formazione, di confronto); invece di vuoto, qui si produce avvicinamento, identificazione fra materiale (rappresentativo di un carattere identitario del Paese) e quadro nazionale professionale.
Anche la pietra rinasce nei decenni centrali della seconda metà del secolo scorso; qui, però, il fenomeno ha caratteristiche molto diverse.
Progressivamente allontanatosi dai riferimenti del quadro edilizio nazionale, il settore imprenditoriale italiano della pietra prende il volo verso i mercati internazionali contrassegnati da una congiuntura economica favorevole, sviluppando una strategia applicativa dei litotipi “pregiati” che elegge la “sottigliezza”, la “leggerezza” e i “caratteri di superficie” a valori principali della “rinascenza”.
Alcune aziende crescono (specializzandosi e innovando), senza però diventare mai industrie cere e proprie , senza preoccuparsi soprattutto di forme di re-investimento culturale verso la politica di informazione e di formazione tecnica dei quadri professionali del Paese o di promozione del materiale litico in senso più generale.
Le esperienze applicative maturate all’estero, gli stessi processi d’innovazione produttiva introdotti nelle aziende diventano fattori evolutivi scarsamente comunicati all’interno della cultura tecnica del Paese. Le aziende lapidee di trasformazione crescono, grazie a commesse internazionali.
A fronte di tale espansione c’è però l’inadeguata attenzione per la formazione, la ricerca e la promozione in ambito nazionale di quanto matura nei laboratori del lapideo che “esportano” all’estero. Il mercato globale “tira”, il Paese Italia sembra non interessare e – alla fine – è quasi dimenticato: da una parte i grandi clienti e le commesse internazionali coordinate da strutture specializzate di progettazione, dall’altra l’inaridimento di ogni tessuto connettivo fra produzione e settore professionale nazionale, di ogni raccordo con il mercato interno disattendendo alla valorizzazione di tutti i materiali litici regionali attraverso la creazione di strutture centralizzate di promozione del “prodotto pietra” al pari di quanto fatto dal settore del laterizio.
Il “gap comunicativo” di oggi è figlio della inespressa politica tecnica degli ultimi tre decenni del settore produttivo della pietra, pur a fronte di una forte evoluzione tecnologia e delle accresciute potenzialità di trasformazione e di applicazione del materiale litico nell’architettura contemporanea.
2- Vi è già chi, intelligentemente, sta operando in tale direzione. All’estero le numerose opere architettoniche di Gille Perraudin, ottenute grazie all’impiego di grandi blocchi di calcare assemblati in murature portanti a secco, fanno parte oramai di un possibile ritorno alla visione massiva, tridimensionale, dell’architettura litica. In Italia, oltre all’esperienza della pietra armata in grandi conci sagomati di Renzo Piano – condotta insieme all’azienda Campolonghi – per l’Aula Liturgica di Padre Pio, è possibile citare altre interpretazioni architettoniche della pietra in forma di sculture urbane come nel caso della produzione recente dell’azienda Travertino di Sant’Andrea appartenente al comprensorio estrattivo di Rapolano a sud di Siena (si veda http://architetturadipietra.it).
3- La vicenda dei distacchi di lastre non è problema recente; tale fenomeno caratterizza tutta la storia contemporanea dei rivestimenti sottili che prende il via dagli anni ’30. E’ l’assottigliamento spinto fino a limiti estremi delle lastre litiche ad avere le maggiori responsabilità più che una “certa disinformazione” tecnologica sulle applicazioni della pietra. Resta, comunque, di fondo il problema del livello di istruzione e competenza tecnica dei progettisti rispetto ai magisteri storici ed innovativi della pietra. Ma oggi (volendo far rimbalzare, retoricamente, la domanda verso i nostri stessi interlocutori di “Versiliaproduce”) chi eroga cultura progettuale e applicativa finalizzate alle realizzazioni in pietra ? Chi la finanzia e la sostiene ?
4- Le Rinascenze in architettura hanno sempre avuto alle loro origini capi politici, committenti facoltosi dotati di interesse all’azione e all’investimento dei loro patrimoni per le cause che stavano loro a cuore. Aspettiamo di scorgere – all’interno del panorama istituzionale o imprenditoriale legato al mondo delle Pietre d’Italia – i grandi committenti, qualche figura carismatica capace di rischiare, d’essere d’esempio e – alla fine – trascinante per l’intero settore. Il Rinascimento del marmo è ancora tutto da attuare: neanche gli inizi sono stati annunciati. La parola che sembra, invece, aleggiare nell’ambiente è di segno opposto: “crisi”, termine che esplicita oggi la presa di coscienza della “flessione” (forse del declino?) del marmo e – più in generale – del ruolo esercitato dal sistema produttivo italiano dei lapidei nel mondo.
Si avverte l’assenza di aziende protagoniste come pure di una forma di associazionismo di livello nazionale, di una rivista specializzata legata ai temi dell’architettura contemporanea di pietra degna di tale nome, di un organo propulsore quale potrebbe essere un “centro studi e sperimentazione” capace di progettare e svolgere un programma poliennale nella direzione della riabilitazione dell’immagine e della cultura applicativa del marmo e dei litotipi più in generale. Ovvero una struttura indirizzata ad applicarsi con continuità nella diffusione delle tecniche costruttive a base lapidea, parallelamente all’esecuzione di un programma di informazione, comunicazione e formazione tecnica all’interno del tessuto professionale del settore edilizio.
5- La Spagna negli ultimi decenni ha mostrato, a differenza di noi, grande considerazione civile per l’architettura contemporanea di qualità inscrivendola all’interno di programmi di rinnovo urbano di vasta scala. I progettisti spagnoli più affermati hanno evoluto le risorse tradizionali della costruzione edilizia (pietre e laterizi) in direzione di un linguaggio aggiornato capace di entrare anche in contestualità d’uso con i materiali tipicamente contemporanei. Siamo noi italiani, ora, a visitare le città riammodernate con interventi di progettisti del valore di Rafael Moneo, Alberto Campo Baeza, Elias Torres, Juan Navarro Baldeweg – solo per citare qualche nome famoso – o dei tanti bravi giovani architetti spagnoli.


Cesare Casati, architetto, Direttore rivista “Arca”

Il dibattito: intervista a Cesare Maria Casati
“E’ un problema di cultura della materia”

1- Non esistono più i professionisti del disegno e certamente non c’è nessun vuoto tra architetti e produttori. Il problema è di linguaggio, di cultura della “materia” (architettura) e di offerta di prodotti e tecnologia.
2- Gli architetti non sono certo i medici ma se il settore è malato, forse solo loro possono conoscere le “medicine” dato che l’impiego del marmo, almeno nel progetto di architettura, per scelte, forme e funzioni dipende per lo più da loro. Si potrebbe usare una metafora ed affermare che si dovrebbe tornare a parlare di marmo al chilo, superando il concetto di prezzo al metro quadrato. Ovvero è necessario pensare alla pietra in termini tridimensionali per rendere l’edilizia al pari di una scultura, dando un valore aggiunto al marmo di Carrara nei suoi utilizzi nell’architettura e nell’arredamento. Ma per fare questo gli operatori devono aggiornarsi sulla trasformazione epocale dell’architettura, relazionandosi di più con i grandi studi di progettisti. La metafora del peso a chilo, dunque, è espressa per affermare come la pietra sia un elemento naturale, non rigenerabile in nessun modo e pertanto degno di grande rispetto e di uso molto oculato. Stiamo parlando di un materiale raro, di grande qualità pratica ed estetica che deve essere apprezzato per le sue peculiarità; anche il suo valore venale non può essere paragonato a materiali industriali anche se questi, per il loro aspetto superficiale e materico riescono ad imitarlo molto bene. E’ necessario conoscere molto bene la metamorfosi formale e tecnologica che vede impegnata l’architettura contemporanea per proporre nuove strade di ricerca e di definizione di nuovi prodotti. Certo è che non si vincerà la concorrenza dei prodotti ceramici cercando di imitarli nei decori, nei formati e negli spessori.
3- I progettisti non hanno colpe ogni qualvolta i fornitori propongono materiali sbagliati e non corredati da schede tecniche adeguate e i posatori non effettuano a regola d’arte il proprio lavoro. Ecco che allora questo diventa più un problema di direzione lavori che di scelte progettuali.
4- Il Presidente con questa affermazione dimostra di avere le idee chiare. L’importante, lo ripeto, è dialogare di più con i progettisti.
5- Forse.


Vincenzo Pavan, architetto, co-director USA Istitute Italy

Il dibattito: intervista a Vincenzo Pavan
“Prendiamo esempio dalla Spagna”

1- Nei decenni passati una cultura del progetto slegata dagli aspetti costruttivi ha allontanato da un rapporto stretto con le aziende produttrici gli architetti che hanno delegato ai contractors una parte importante dei propri compiti, ossia di far corrispondere ad una qualità progettuale una analoga qualità costruttiva.
Questa delega ha portato gli architetti alla perdita di un aspetto prezioso del loro mestiere: la cultura dei materiali. Tra tutti la pietra è stato il più sacrificato.
2- Certamente oggi l’atteggiamento degli architetti nei confronti dei materiali lapidei sta rapidamente cambiando.
La corsa alla sempre maggior sottigliezza si sta invertendo. Si stanno scoprendo i valori della pietra nel suo senso di peso e materia; la si sta rivalutando per le sue qualità costruttive e non più solo di rivestimento. Abbiamo oggi straordinari esempi di architettura in cui la pietra è stata usata come struttura a vista ad opera di grandi architetti. Tutto ciò è dovuto non ad uno specifico interesse per la pietra ma ad una più generale sensibilità per i materiali nell’architettura, nessuno escluso: dall’acciaio al vetro al cemento fino al cartone. In questa congiuntura culturale la pietra sta vivendo uno dei momenti più felici degli ultimi cinquanta anni.
3- Certo, decenni di abbandono della cultura dei materiali lapidei ha portato ad errori nella loro applicazione, in taluni casi anche clamorosi e non solo riguardanti prodotti italiani. Ma oggi vi è maggiore attenzione perchè vi è più interesse da parte degli architetti per la qualità dell’architettura realizzata. Del resto anche le aziende produttrici non si sottraggono a questa critica. Quanti sono i marmisti che dedicano risorse nella innovazione e nella ricerca di nuove tecniche di applicazione? Chi sperimenta realmente?
4- Oggi viviamo una condizione culturale nuova nella quale alla rinascita di interesse per la pietra in architettura corrisponde un’offerta di prodotti sterminata. Si assiste alla compresenza di un sano dualismo nelle scelte degli architetti. Alcuni sono legati alla cultura dei materiali locali e adoperano pietre che rappresentano la tradizione costruttiva e la risorsa materiale e culturale del territorio, altri invece sono affascinati e conquistati da materiali lapidei provenienti da paesi lontani. E’ la cultura della globalizzazione con i pro e i contro. Il dualismo c’è sempre stato anche nelle più antiche civiltà (pensiamo a quella romana).
5- Sono i fatti che parlano. L’architettura di maggior qualità oggi in Europa è quella spagnola, quella di pietra compresa. Abbiamo moltissimo da imparare da loro. Dobbiamo saper guardare e capire la loro architettura e la profondità della loro ricerca in questo campo, senza pregiudizi e senza timore di essere soprafatti.


Antonio Forti, Azienda Adolfo Forti Marmi Spa di Carrara

Il dibattito: intervista ad Antonio Forti
“Far convivere i nuovi modi di costruire con l’unicità del lavoro in marmo”

1 e 2- E’ chiaro per chiunque metta il naso fuori dalle mura domestiche, che la “trasformazione epocale dell’architettura” è un fatto assodato.
Strutture tecnologiche leggere nei materiali e negli effetti scenici portano una difficoltà oggettiva ad adattare i materiali lapidei. Ritengo che il protagonista del progetto è oggi la sua plasticità, il suo essere composizione armonica (o meno) di volumi e di trasparenze che lasciano meno spazio all’importanza delle rifiniture, ai contrasti cromatici e scenici tra i vari materiali impiegati.
Sono le mode, le tendenze alle quali è difficile opporsi. Negli anni ’60 imperava il cemento “a vista”, oggi imperano tensostrutture, tiranti, puntoni, dadoni cromati e quant’altro. Il nostro sforzo dovrà essere incentrato nel far convivere tale modo nuovo di costruire con l’unicità, la duttilità ed il cromatismo del lavoro in pietra. Credo che se ci applicheremo in tal senso, renderemo un servizio importante ai progettisti, favorendo la capacità di caratterizzare maggiormente le opere. Se non sarà così, le nostre città future sembreranno costruite da una serie infinita di “hangars” la cui validità architettonica sarà messa a dura prova dagli agenti atmosferici, dai costi di manutenzione, dall’evoluzione del gusto, come successo per il famigerato “cemento a vista”.
Certamente i grandi architetti supereranno, spero presto, l’omologazione dello stile attuale e sapranno armonizzare gli elementi che caratterizzano una vera opera d’arte.
Fatte dunque le doverose premesse, è chiaro che se sapremo coadiuvare gli architetti nella ricerca estetica, potremo superare la crisi ma non col rapporto medico-paziente ma piuttosto grazie alla sintesi tra professionalità complementari.
3- La disinformazione esiste ed è acuita dal fatto che la pietra, materiale naturale, ha una sua vita e una sua personalità che non può essere violentata e banalizzata. Distinguerei 2 tipi di disinformazione. La prima dovuta al fatto che non c’è cultura accademica sull’uso della pietra nei corsi universitari compiuti dagli architetti; ciò purtroppo è vero soprattutto in Italia, patria di tanti capolavori legati all’uso della pietra. La seconda disinformazione è di carattere tecnico ed è figlia della prima. Se non si conoscono i materiali è ben difficile usarli bene. I distacchi di lastre in facciata o il precoce deterioramento di superfici calpestabili non va a detrimento del prodotto italiano ma del prodotto lapideo in generale. In tal ottica l’industria lapidea ha le sue responsabilità, non essendosi mai interessata in modo organico e approfondito alla diffusione della cultura della pietra nel mondo dell’architettura. Ci sono tante azioni da intraprendere per migliorare questo stato di cose, seguendo un percorso intelligente. Sarà fondamentale il supporto dei distretti o dei consorzi di aziende, che potranno costituire una spinta forte alla ripresa del settore.Una riprova di quanto spazio ci sia in quest’opera di promozione è data dal fatto che alle nostre fiere dappertutto il mondo dell’architettura è quasi sempre assente nonostante gli sforzi degli organizzatori.
4- Il Presidente del Distretto coglie un aspetto importante del problema relativo al rilancio dei materiali locali e va nel senso di quanto detto in precedenza. Parlando con lui ho avuto la sensazione di una fatica a far comprendere l’importanza strategica di questo primo, fondamentale passaggio all’interno del Distretto. Tutto ciò è preoccupante perchè dal Distretto ci saremmo aspettati successivamente una progettualità di più ampio respiro. Senza un necessario coordinamento si rischia di disperdere le energie ed i mezzi finanziari disponibili che non sono molti per la riqualificazione dei nostri materiali. Le risorse andrebbero impiegate secondo un disegno strategico preciso di cui gli imprenditori non possono essere che i protagonisti e le istituzioni seguire, non viceversa.
5- Gli spagnoli hanno ragione. La cultura della pietra di alta qualità è maturata in Spagna negli anni ’70 ed ha progredito con una sana sinergia tra imprese, progettisti e committenti, arrivando a livelli di grande eccellenza. L’immagine di un paese in progresso economico-culturale si rivela in molti aspetti della vita spagnola; solo pochi anni fa era ritenuta una nazione meno sviluppata dell’Italia, oggi ci sta distanziando in molti campi, architettura compresa. Ciò dimostra che dove si sa ed i budget lo consentano, far convivere elementi della tradizione con le “trasformazioni epocali” non solo è possibile ma è anche un elemento di distinzione e di avanguardia.


Ugo Da Prato, Azienda A.M.G. di Pietrasanta

Il dibattito: intervista a Ugo Da Prato
“Ci occorre maggiore capacità previsionale”

1- Sì, effettivamente esiste. Direi che la “colpa”, come spesso avviene, non è mai unilaterale: da una parte forse non c’è una sufficiente apertura dei progettisti, dall’altra noi imprenditori ci mettiamo una scarsa cultura innovativa ed una certa inefficacia comunicativa.
2- I progettisti hanno una importante voce in capitolo per quanto riguarda la scelta dei materiali, ma spesso, le loro preferenze sono condizionate dal limitato budget a disposizione. Sta a noi come imprese, con la nostra esperienza e capacità, intuire le necessità ed assecondare le idee degli architetti. Non sempre gli imprenditori hanno questa attitudine “previsionale”.
3- In ambito strettamente lavorativo ci basiamo su valutazioni empiriche. Le quali, se da una parte a volte possono aiutare, dall’altra risultano non idonee, venendo a mancare l’approfondimento di tipo tecnico-scientifico. In questo caso la nostra consulenza, potenzialmente molto utile, è vanificata nel rapporto col progettista. Mi riferisco, in particolare, ai problemi che riguardano rivestimenti esterni, degrado e friabilità dei materiali.
4- Il Presidente ha ragione in parte. Insieme ai materiali locali è anche fondamentale dare vita ad un processo di riqualificazione del metodo di lavorazione tramandatoci dai nostri padri. Questa grande eredità è stata purtroppo persa nel corso degli anni, quando le aziende si sono concentrate sull’aspetto industriale – in particolare negli anni del boom del granito – trascurando la tradizione artistica e artigianale. Si è così persa la figura storica del maestro formatore, vera ricchezza della tradizione versilese.
5- Sono d’accordo. Se guardiamo ad esempio nell’area veronese, bresciana e del Salento vediamo che le pietre locali sono state “snobbate”. Ma impiegare i nostri marmi non è la sola strada che può aiutarci a risollevare il comparto.


Luigi Piacentini, Azienda Savema di Pietrasanta

Il dibattito: intervista a Luigi Piacentini
“Indispensabile un manuale d’uso”

1- Penso che il “gap comunicativo” esista piuttosto fra le aziende lapidee, o meglio le loro associazioni, e le Università. Le associazioni dovrebbero fare molto di più per riuscire ad ottenere nelle Università corsi più approfonditi sulle pietre naturali, cercando di creare nella formazione dei giovani architetti una simbiosi mentale fra progettualità e pietra.
2- Che il marmo vada valorizzato è assolutamente auspicabile ed occorrono grandi sforzi da parte di tutti per riuscire in questo intento. Tenendo conto del numero degli addetti dell’industria lapidea italiana, della quantità delle aziende operanti nel settore e delle varie tipologie dei prodotti, penso che la sola stadera non basti anche se per certi aspetti ha sicuramente la sua validità.
Non credo esista una sola medicina che curi la malattia di cui siamo affetti. Penso piuttosto che occorra un laboratorio di ricerca che riesca a mettere a punto una vasta e variegata tipologia di cura. Certo è che anche gli architetti andranno fortemente coinvolti essendo il loro apporto assolutamente determinante.
3 e 4- A queste domande si può dare un’unica risposta. Non ci sono dubbi sul fatto che quanto accaduto in passato in vari progetti di marmo derivi da un uso improprio del prodotto. C’è anche però da dire che a volte la caparbietà degli utilizzatori ha voluto insistere nel loro uso in dispregio dei consigli del fornitore. E’ indubbio anche che per riposizionare il marmo bianco nel posto che gli compete occorre assolutamente fare quanto ipotizzato dal Dr. D’Angiolo, Presidente del Distretto Lapideo. E’ indispensabile con urgenza mettere a punto un bel “manuale d’uso” che consenta sia il venditore che all’utilizzatore di non incorrere nei guai del passato.
5- Più che accusarci gli spagnoli ci insegnano che la prima grande possibilità di mercato dovrebbe essere casa propria. A differenza della Spagna, dove l’uso della pietra naturale è massiccio in ogni tipo di costruzione, l’Italia che di pietre è grande produttrice, è sotto questo aspetto assolutamente latitante.


Alessio Mariani, Azienda Ettore Mariani

Il dibattito: intervista ad Alessio Mariani
“Recuperare la vera cultura della pietra”

1- Non credo. Lo sviluppo rapidissimo della tecnologia degli ultimi anni anche nel nostro settore, dimostra come invece ci sia stata una buona comunicazione. Le difficoltà sono forse dovute alla grande varietà delle richieste e all’inevitabile specializzazione della produzione.
2- No, però possono contribuire attivamente alla riscoperta dell’impiego del marmo, per molti anni dimenticato e causa dell’invasione dei nuovi materiali artificiali, che hanno invaso i mercati anche grazie ad una efficace azione di marketing.
3- Sono d’accordo, anche se, a parziale giustificazione, bisogna dire che difficilmente al produttore vengono richieste soluzioni tecniche alternative, ma soprattutto una riduzione di costi.
4- Certo, è importante la rivalutazione dei nostri materiali; ma lo è ugualmente la necessità di non fare estinguere quelle specifiche professionalità (ornatisti, scalpellini, sbozzatori) che, con le loro capacità manuali hanno reso famoso il nostro settore ed i nostri marmi. Quanti sono gli artisti che solo a Pietrasanta vengono per imparare dalle capacità straordinaria dei nostri scultori?
5- Credo in effetti che vada recuperata la vera cultura del marmo, sacrificata dallo sviluppo industriale che prometteva più alti e più facili guadagni.

“VersiliaProduce” n. 50, 2005

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9 Novembre 2005

Eventi

Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa SANAA alla Basilica Palladiana


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Mostra Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa SANAA
Quella di Sejima è un’architettura che viaggia leggera, a proprio agio con le contraddizioni della realtà di oggi e libera da aspirazioni avanguardistiche: una pratica che vive nel presente, e che non pretende di creare opposizioni. La freschezza dei suoi progetti è la conseguenza di questa immediatezza, di un’idea della geometria come ordine tra la moltitudine, un ordine comodo e pratico che tuttavia non porta con sè alcun bagaglio metafisico (Stan Allen).
La semplicità, come attitudine mentale e come prassi operativa, è il valore che emerge con forza anche dall’allestimento espositivo che Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa hanno realizzato nella Basilica Palladiana di Vicenza. Mai prima d’oggi un architetto aveva interpretato con tale immediatezza il rapporto con le storiche strutture del monumento cinquecentesco.
Un’immensa stanza bianca illuminata a giorno lascia appena intravedere, al di là delle sue pareti di tessuto semitrasparente, le strutture medievali del salone dei Cinquecento. Dalle eleganti logge palladiane veniamo immessi direttamente, senza soluzione di continuità, nello spazio di SANAA, nel quale sono esposte immagini, proiezioni, oggetti dall’ambigua valenza (difficile distinguere a prima vista il modello architettonico dal prototipo per un mobile, o separare nettamente la pianta di un edificio dal diagramma funzionale delle attività che vi si svolgono).
La ricerca di Sejima e Nishizawa, a partire dal minimalismo delle prime opere, approda verso atmosfere trasognate e immateriali, nel tentativo di ridurre al minimo la sostanza tettonica degli edifici. Un’architettura fatta di pilastri e pareti sottili, di trasparenze vetrate e di luci abbaglianti, che prende vita e senso compiuto dal movimento delle persone che l’attraversano.
L’associazione culturale Abacoarchitettura ha inteso, con questa mostra, valorizzare la ricerca di alcuni, fra gli architetti contemporanei, più attenti e sensibili al ruolo della loro disciplina, in ogni epoca storica, ossia quello di aiutare l’uomo a conoscere se stesso in relazione al proprio tempo e allo spazio in cui vive.
La società contemporanea tende spesso a rappresentarsi attraverso l’architettura con i valori più appariscenti e ridondanti, a volte usando ostentazione e rasentando la volgarità, sia pure con le migliori intenzioni.
La tradizione giapponese ci insegna invece, in questo campo come anche in molti altri, l’importanza del parlare sottovoce, o addirittura dello stare in silenzio, nel momento in cui si devono comunicare le cose più importanti.
Il valore del silenzio, della semplicità, della trasparenza, contrapposto al "rumore" tecnologico, all’autoreferenzialità, al bisogno di fare colpo sui media: un esempio controcorrente, quello di Sejima e Nishizawa; che dovrebbe far riflettere sulla necessità di cercare, anche per l’architettura europea contemporanea, risposte diverse, più coerenti con l’esigenza di contenimento degli sprechi (sotto tutti i punti di vista, da quello materiale a quello semantico). Una nuova architettura per una società oggi in grande mutamento rispetto al passato. Una società che, nella legittima aspirazione alla costruzione di una propria identità, rinunciando a rappresentarsi attraverso ingombranti apparati allegorici (sia pure mimetizzati dentro atmosfere high-tech), può riconoscersi anche negli spazi "senza qualità" di queste architetture dalla natura nomade e leggera.

Basilica Palladiana di Vicenza
31 ottobre 2005 – 29 gennaio 2006
Tutti i giorni 10.00/18.00
(chiuso lunedì)

(Vai a Abacoarchitettura)

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Scuola del Marmo "Paolo Brenzoni"


L’uomo scolpisce la materia litica (foto Arrigo Coppitz)

La Scuola del Marmo “Paolo Brenzoni” opera a Sant’Ambrogio di Valpolicella dal 1986, promossa dall’amministrazione comunale e dall’imprenditoria locale.
L’Istituto è l’erede dell’illustre Scuola d’Arte “Paolo Brenzoni” fondata nel 1868 e attiva per molto anni nella formazione di generazioni di scalpellini altamente qualificati.
Oggi la Scuola diploma tecnici specializzati nelle lavorazioni artistiche manuali e nell’uso di macchine tecnologicamente avanzate per la lavorazione dei lapidei.
Anche grazie al finanziamento della Fiera di Verona e della Regione Veneto l’Istituto è stato di recente dotato di una nuova struttura che comprende: un’ aula per la finitura manuale dei pezzi litici; un laboratorio macchine con fresa a bandiera, lucidatrice manuale a colonna, centro di lavoro a controllo numerico a 4 assi per la sperimentazione l’apprendimento delle nuove tecnologie; un’aula informatica per il controllo numerico delle lavorazioni con simulatori a 3 assi, postazioni di lavoro computerizzate a software specifici di ultima generazione; un laboratorio per il restauro dei lapidei; un’aula per il modellato e la creazione di calchi in gesso di manufatti artistici.
L’offerta formativa della Scuola “Paolo Brenzoni” comprende corsi triennali riconosciuti dalla Regione Veneto e dall’Unione Europea con qualifica di: Addetto alle lavorazioni artistiche, Addetto alle macchine utensili, Addetto alla posa e al restauro, Addetto all’area commerciale ed amministrativa.
Inoltre il percorso didattico può comprendere un quarto ed un quinto anno con esperienze di scuola-lavoro e possibilità di accedere al curriculum universitario.
A completare l’offerta sono corsi biennali post-diploma di formazione tecnica superiore con i seguenti indirizzi: Stone Art Operator, Stone Technical Operator, Stone Technical Restorer, Stone Technical Administrator.

Per info:
Scuola del Marmo “Paolo Brenzoni”
Via Marconi 13, 37010 Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR)
Tel. 0457732878
Fax 0456862485
e-mail: marmocfp@sanzeno.org

di Davide Turrini

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5 Novembre 2005

Citazioni

Pensare i materiali. Pensare la pietra


Stone Museum (foto Archivio Kengo Kuma)

Ritorno ai materiali
“Nel corso degli anni novanta ho visitato moltissimi luoghi alla ricerca della concretezza della sostanza, desideroso di sperimentarne le possibilità. Questo girovagare mi ha consentito di conoscere molte sostanze interessanti e di lavorare in modo serio "insieme" alla sostanza. Ripensando adesso a queste occasioni, mi rendo conto che sono tutte capitate per caso. Non ero tanto io a cercarla attivamente, guidato da un concetto, quanto piuttosto la sostanza a venirmi incontro. Io sono sempre stato passivo, era sempre la sostanza a piombare su di me. All’inizio la mia reazione era invariabilmente: "cosa? Devo lavorare con questo materiale ?", ma dopo qualche tempo la sensazione di disagio si trasformava in affetto. Sviluppavo un forte legame con la sostanza. Probabilmente è per questo che sono riuscito ad agire su di essa con una notevole libertà, come un dilettante, senza sentirmi legato a metodi già esistenti.(…)
Nello Stone Museum ho incontrato la sostanza denominata pietra. La pietra era un altro materiale che non prediligevo o che, per essere onesto, non amavo granchè. Il mio scarso entusiasmo era dovuto al fatto che la pietra, per il modo in cui veniva utilizzata in architettura, rientrava precisamente nella categoria del materiale da finitura così com’era concepito dal "metodo calcestruzzo". Per questo motivo la pietra non mi sembrava offrire possibilità ulteriori. Una lastra di pietra spessa anche solo 20 mm evoca perfettamente sensazioni come il calore e la tranquillità della natura, quindi, per superare il disagio che a qualcuno crea il calcestruzzo a vista, basta nasconderlo con un rivestimento superficiale in pietra; secondo me, invece questo produce un effetto esattamente contrario: il rivestimento in pietra, cioè, amplifica ulteriormente il peso e lo spessore del calcestruzzo. Per questo trovavo difficile lavorare con la pietra e non ero entusiasta di utilizzarla.
Sembra incredibile ma l’edificio che il mio committente chiedeva era proprio un museo della pietra: in particolare, si trattava di realizzare un museo dedicato alle sculture lapidee e alle relative tecniche di lavorazione intorno agli antichi depositi in pietra esistenti. Avrei potuto scegliere di progettare un ampliamento, una scatola di vetro, in modo da tenermi a distanza da quella che era per me una sostanza indesiderabile. All’inizio ero propenso a seguire questa idea, ma dopo una settimana di profonde riflessioni ho deciso di cogliere l’opportunità che mi si presentava per imparare a trattare l’indesiderabile materiale della pietra. Mi sono chiesto se non avessi potuto trovare il sistema per salvare in qualche modo la "sostanza pietra", così strettamente legata al "metodo calcestruzzo", decidendo di affrontarla seriamente. Per il materiale in sè, questo avrebbe potuto essere un favore non richiesto o un’inutile premura. Affrontare la pietra direttamente per la prima volta significava ammettere la possibilità di fallire, ma sentivo che il fallimento sarebbe stato più accettabile che non evitare intenzionalmente il problema per come si presentava attraverso questo progetto.
La mia unica speranza era il mio committente Shirai Sekizai, con la sua fabbrica e i suoi operai. Gli scalpellini avevano tutti la pelle cotta dal sole e ostentavano dita massicce a testimonianza della loro maestria. Gli antichi depositi risalenti all’era di Taisho erano stati costruiti in pietra di Ashino, un tipo di andesite identica a quella della cava del posto. Si tratta di una comune pietra che, non utilizzata correttamente, si può confondere con la malta. Dopo aver osservato a lungo questo materiale ho cominciato ad apprezzarne la strana morbidezza, preferendola alla durezza del granito o dell’ardesia.(…)
Il mio obiettivo era uno solo: sottili lastre di pietra applicate sul calcestruzzo. Ma come potevo evitare nello stesso tempo quell’immagine falsa e pesante che portava a pensare che fosse tutto parte di una relazione collusiva ? Con questo preciso obiettivo in mente, ho fatto alcune ricerche e ho presentato agli scalpellini del signor Shirai una richiesta irragionevole. La mia prima idea è stata quella d realizzare un sistema di lamelle in pietra. Ho pensato che l’uso delle lamelle rappresentasse il sistema più distante dalla relazione collusiva tipica del calcestruzzo, e che nello stesso tempo offrisse l’importantissimo beneficio di far filtrare liberamente l’aria. Le lamelle avrebbero portato all’interno dell’edificio particelle capaci di contrapporsi alla relazione collusiva del calcestruzzo. Pronto a farmi ridere in faccia, ho chiesto agli operai: "riuscite a tagliare la pietra in lastre sottili come lamelle?"; inaspettatamente mi sono sentito rispondere: "Sì, certo". Tuttavia, nè io, nè gli operai della cava del signor Shirai avevamo alcuna esperienza nella produzione di lamelle di pietra. Abbiamo provato a realizzare di molte sezioni diverse finchè abbiamo stabilito che le dimensioni più adatte erano 40×150 mm per una lunghezza di 1,5 m. I pilastri di pietra erano disposti ad intervalli di 1,5 m, quindi le lamelle sono state inserite all’interno degli incavi a zigzag appositamente predisposti nei pilastri stessi.(…)
Questa architettura è stata di nuovo il prodotto di un incontro inaspettato, accidentale. L’avversione per la pietra mi ha portato a pensare che dovevo trasformare le strutture in pietra in elementi e in qualche modo rompere la relazione collusiva tra pietra e calcestruzzo. Se avessi lavorato esclusivamente con i materiali e le sostanze che amavo, non avrei mai avuto un’esperienza simile, nè sarei arrivato a realizzare una struttura come questa”.

di Kengo Kuma
(Vai a Kengo Kuma & Associates)

Kengo Kuma, "Ritorno ai materiali", p. 22 e seguenti, in Kengo Kuma Opere e progetti, a cura di Luigi Alini, Milano, Electa, 2005, pp. 256.

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