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Sulle ali di Perseo (III parte)


Stone Museum (foto Archivio Kengo Kuma)

Pietre rarefatte
Nel tentativo di disseppellire “altri” corpi leggeri di pietra ci siamo avventurati ad un certo punto nei territori affascinanti delle trame dove si incontrano materia e vuoto, luce ed ombre.
La nozione di trama ci rinvia al concetto di demarcazione, di separazione ottenuto attraverso un tracciato di linee e/o di corpi allo scopo di segnare dei confini. Confini, si badi bene, non assoluti, perentori (come i muri che recintano uno spazio) bensì dispositivi filtranti che promettono lo “svelamento” delle realtà che stanno al di qua e al di là di essi.
Alla trama associamo – simultaneamente – il significato della separazione e della connessione; in essa si legge la trasformazione e la dislocazione della materia che viene “messa in movimento” all’interno di un dispositivo che attira lo sguardo e promette in qualche modo una realtà prossima ad essere disvelata.
Il senso a cui la trama risponde è quello di mettere in relazione entità molto diverse fra loro: materia e vuoto, luce e ombre.
“Ombre (luce) così ricche e complesse, che giustificano una catalogazione gerarchica; e poichè ignoro se già esista, ho cominciato a farmene una personale. Inizio l’elenco con la famiglia delle ombre di maggiore finezza e qualità, quelle degli alberi. Ombre fresche, per la circolazione dell’aria tra gli strati di foglie e per l’evaporazione insospettatamente elevata delle stesse. Ombre colorate, leggermente diverse in ogni specie per il duplice aspetto di trasparenza e di riflesso di talune foglie in talaltre (…). Ombre che vibrano per il movimento di tutti questi schermi, ombre deliziosamente odorose in epoche diverse per le diverse specie.”
Così Oscar Tusquets citato da Anna Barbara in Storia di architettura attraverso i sensi. (1)
Dall’atmosfera ineffabile (fatta di finezza, trasparenza, movimento) delle ombre fra gli “strati di foglie” al ritmico chiaroscuro geometrico fra “strati di pietra”, questo è il percorso che vorremmo proporre a chi ci segue nel nostro argomentare.
Far diventare più rada – o, se si vuole, meno compatta e coesa – la pietra significa “assottigliarla”, “distanziarla”, “discretizzarla” e soprattutto “sospenderla” rispetto alle membrature portanti degli edifici, proprio come le foglie leggere e distanti le une dalle altre s’innestano sui rami solidi dell’albero. Si tratta di strategie di distribuzione della materia litica convergenti verso l’obiettivo di “dimagrimento” della pietra posta ad incontrare il vuoto, la luce e il suo negativo (l’ombra).


Nagasaki Prefectural Art Museum (foto Archivio Kengo Kuma)

L’azione della luce, quale fattore attivo e modellante la materia, è portatrice di una diversa interpretazione del tema della leggerezza. Non più flussi luminosi filtrati in modo omogeneo e diffuso (così come nel caso delle “pietre trasparenti”) bensì una luce agente più “scenograficamente” su un “tessuto litico discontinuo” che passa all’interno della trama di pietra senza intermediazione alcuna, oppure ne rimane in superficie a lumeggiare o ombreggiare con diversa intensità.
In sostanza schermi in cui il design, l’opacità e il colore della materia si incontrano con l’immaterialità e la leggerezza del vuoto, della luce e dell’ombra.
La convenzionale corposità della pietra in questi casi si rarefà, si ritrae in trame geometriche a volte fitte e profonde, altre volte rade e sottili; schermi funzionali ed estetici, griglie modulari semitrasparenti (o semioscuranti), leggere, filtranti che poggiano a terra o risultano sospese a mezz’aria.
L’intreccio luce_pietra_vuoto_ombra produce sul piano figurale effetti contrastati e sottolineati fra gli elementi che entrano nella composizione architettonica a trame; tessuti fortemente frammentati, discontinui, dove la pietra libra nell’aria, leggera, sospesa fra materialità e immaterialità.
La strategia della rarefazione implica il distanziamento della materia e l’abbandono della omogeneità così tipica dell’opera muraria tradizionale (dove la pietra, staccata dal banco roccioso e ridotta in piccole dimensioni, tenta poi nella fabbrica di ricrearne la continuità originaria). È ancora la luce naturale agente dall’esterno (o quella artificiale capace di operare dall’interno) ad essere la sottoscrittrice di leggerezza della pietra la quale rinasce in una visione inedita dove la logica assemblativa (generalmente “a secco”) risulta non più unicamente legata ad una stratificazione orizzontale, bensì anela a guadagnare anche quella verticale o a disporsi più liberamente in griglie oblique o incrociate.
Avvicinandosi alle opere contemporanee che inscrivono i dispositivi materici in “modi costruttivi” (o tecnologici) sembra aprirsi una doppia via allo svolgimento del tema architettonico delle “trame litiche”: parete-schermo parzialmente rarefatto, oppure diaframma fortemente permeabile alla luce e alla trasparenza visiva in cui i caratteri di discontinuità materica risultano maggiormente enfatizzati.
Le soluzioni delle trame litiche filtranti esprimono con più efficacia la ricerca – tutta contemporanea – delle nuove tendenze architettoniche internazionali impegnate nella “valorizzazione delle superfici” attraverso un trattamento che si emancipa dalla struttura archetipica del muro, ma anche dai modi dell’involucro sottile chiudente.
Kengo Kuma nel suo Stone Museum sembra offrirci, in un’unica opera d’architettura, entrambe le declinazioni della rarefazione accostaste al modo convenzionale dell’opera muraria massiva dei vecchi edifici restaurati.
Altrove abbiamo svolto considerazioni sul tema degli schermi discontinui che qui di seguito, in qualche modo, riprendiamo. Le architetture contemporanee non di rado assumono, propongono, risoluzioni di involucri parietali dove il rapporto pieno-vuoto non sempre è a favore della parete piena. L’involucro chiuso lascia il campo ad un’interpretazione di parete più libera nella fattispecie di diaframma di separazione solo parziale fra spazio esterno e spazio interno.
L’essere aperto o l’essere chiuso di una parete viene così sperimentato all’interno di quella archetipa interrelazione ambientale fra accesso e ostacolo, fra permeabilità visivo-luministica e inaccessibilità.


Kulturspeicher a Würzburg di Brückner & Brückner

Fra questi due poli opposti si collocano le strutture di parziale chiusura verticale che impediscono l’attraversamento fisico, non necessariamente però quello visivo e luministico; schermi in cui piccole e regolari fenditure spiccano come figure in miniatura; trame ricche di tessiture e di ritmi chiaroscurali attraverso passaggi graduali; diaframmi litici che individuano o suggeriscono spazi protetti e occultati, altre volte raggiungibili solo visivamente.
Di qui l’utilizzo frequente di dispositivi che vengono applicati in sovrapposizione alle chiusure esterne degli edifici in corrispondenza delle superfici trasparenti al fine di controllare gli effetti di soleggiamento/illuminazione fungendo da filtro alle radiazioni solari dirette senza limitare completamente la vista esterna.
Gli elementi risultano spesso fissati a telai strutturali portanti (fissi o mobili), mantenendo nel tempo il medesimo posizionamento ed orientamento oppure modificandosi al variare delle condizioni di soleggiamento ed illuminazione.
Siamo di fronte alla leggerezza della pietra (assottigliata) o – più realisticamente – di fronte a quella del suo doppio, il vuoto che sottrae peso alla prima sospendendola nell’aria.

Alfonso Acocella, Davide Turrini

Leggi i commenti alla prima parte del post e partecipa al dibattito

(1) Oscar Tusquets “Un ombracolo in un auditorium a Las Palmas” p. 209 in Anna Barbara in Storia di architettura attraverso i sensi, Milano, Mondadori, 2000, pp. 341.

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Sulle ali di Perseo (II parte)


Tre lastrine di pietra speculare da Pompei. I sec. d. C.

Pietre trasparenti
In soccorso, mentre ci sentivamo di nuovo risucchiati in una morsa ispessita di pietra, nella ricerca di declinazioni di leggerezza senza più attingere alla vertigine seduttiva dei colori del mondo litologico, è sopraggiunta la scoperta di pietre che – sin dall’antichità – si offrono ad una sottrazione di peso molto particolare nel momento in cui “vanno incontro” e si lasciano attraversare dalla luce.
Ecco allora l’apparire – prim’ancora della diffusione del vetro – delle “pietre trasparenti”, pur escludendo dal nostro percorso investigativo il prezioso cristallo di rocca la cui trasparenza assoluta è apprezzata nell’antichità per la realizzazione di oggetti legati ad un’estetica del vivere lussuosamente. (1)
In ambito architettonico la prima pietra “alleggerita” dalla luce è la “pietra speculare” (la mica, minerale consistente prevalentemente di silicato d’alluminio lamellare) impiegata in forma di piccole lastrine all’interno di telai da finestra; di tale minerale trasparente ci parla – con dovizia di particolari – Plinio in Naturalis Historia:
“Queste pietre, certo, possono essere segate, ma la pietra speculare – perchè anch’essa e definita pietra – ha la caratteristica naturale di lasciarsi tagliare molto più facilmente in lastre sottili quanto si vuole. Un tempo la produceva solo la Spagna Citeriore, e nemmeno tutta, bensì solo una zona per un raggio di 100 miglia attorno alla città di Segobriga, ora si trova anche a Cipro, in Cappadocia e in Sicilia, poco fa si è scoperta anche in Africa. Comunque a tutte queste è da preferire quella di Spagna; le pietre di Cappadocia sono di dimensioni molto grandi, ma di colore scuro. Anche nella zona di Bologna, in Italia, se ne trovano piccole vene che sono incassate all’interno della selce, ma si riesce a distinguere caratteristiche naturali simili. In Spagna la pietra speculare si estrae da pozzi molto profondi, ma si trova anche sotto terra incassata nella roccia, per cui la si deve estrarre e tagliare; comunque per lo più è una pietra fossile che forma un blocco compatto in sè – fino ad ora non si sono mai trovati blocchi lunghi più di cinque piedi. Appare chiaro che si ha qui un liquido che, come il cristallo di rocca, è gelato e pietrificato da qualche esalazione all’interno della terra; in effetti quando gli animali cadono in questi pozzi, dopo un solo inverno le midolla nelle loro ossa si presentano con le stesse caratteristiche naturali di questa pietra. Occasionalmente si trovano anche pietre speculari nere, ma quella bianca ha la caratteristica eccezionale di sopportare perfettamente, nonostante la sua notoria tenerezza, l’azione del caldo e del freddo, e non si deteriora, sempre che non sia stata danneggiata – ma questa è una caratteristica anche dei blocchi di molti generi di pietre. Per la pietra speculare si è scoperto inoltre un altro uso: ricoprirne di scaglie e lamine la superficie del Circo Massimo per i ludi circensi, per ottenere un piacevolissimo candore.” (2)
È su quest’esperienza all’uso della “pietra speculare” (utilizzata come schermo di finestre, ma anche come rivestimento più esteso in forma di scaglie e lamine sull’esempio del Circo Massimo citato da Plinio) che s’innesta e si evolve, lungo la fase dell’Impero, il rapporto dialettico spazio-luce e con esso il tema dell’estetica delle trasparenze alimentato anche dalla progressiva evoluzione nella produzione di lastre di vetro.


Busto di Settimo Severo. Particolare in alabastro verde. (foto: Alfonso Acocella)

Ad una diversa accezione di trasparenza della pietra sembra riferirsi Plinio quando parla, sempre in Naturalis Historia, di pietra phengites (letteralmente “lucente”). Molto probabilmente si tratta di una varietà di alabastro o del marmo bianco di Cappadocia:
“Durante il principato di Nerone si trovò in Cappadocia una pietra della durezza del marmo, bianca e trasparente anche dalla parte in cui era striata da venature giallognole, che in base a tali caratteri fu chiamata phengites. Con questo materiale si costruì il Tempio della Fortuna, noto come tempio di Seiano ma in origine consacrato dal re Servio, inglobato all’interno della Domus Aurea. Grazie alla pietra, anche quando le porte erano chiuse c’era dentro ad esso un chiarore come del giorno, ma l’effetto era diverso da quello che si ha con la pietra speculare: sembrava che la luce non fosse trasmessa dall’esterno, ma come racchiusa all’interno. Giuba attesta che anche in Arabia si trova una pietra trasparente come il vetro, che viene utilizzata allo stesso modo che la pietra speculare.” (3)
Una trasparenza – quella del passo pliniano appena citato – da intendersi nei termini di traslucidità, ovvero di uno specifico grado di trasparenza dei corpi che lasciano filtrare una quantità rilevante di luce, ma non sufficiente a far distinguere il contorno degli oggetti al di là della materia che filtra i raggi luminosi. La luce attraversando il corpo litico (l’involucro architettonico nel caso evocato da Plinio) lo pervade in tutto il suo spessore trasferendo alla pietra due qualità peculiari.
La prima – attiva, riverberativa di energia – è legata al ruolo assunto dalla pietra che diventa “pietra luminosa”, una sorta di “lanterna iridiscente”, illusoria sorgente di luce diffusa nello spazio interno.
La seconda attiene alla valorizzazione della materia in sè – l’alabastro in questo caso specifico citato da Plinio – la quale, sotto l’azione della luce che la pervade, esplicita ed enfatizza il tessuto mineralogico costitutivo fatto di linee flessuose e di vortici, di entità areali nuvolate, di vene coloriche dai toni “alleggeriti” dalla stessa luce.
È l’affermarsi di una estetica della luminescenza legata al concetto dello “splendere attraverso” (diverso dallo “splendere in superficie” come nel caso dei marmi policromi “tirati a lustro” di cui abbiamo riferito nel precedente intervento) conseguenza della luce filtrante e dell’atmosfera magica, per certi versi fiabesca, che viene a crearsi; siamo – non dimentichiamolo, per stare all’esempio pliniano – in una temperie storica molto particolare dell’Impero, di fronte alla ricerca dell’effetto stupefacente, dell’asianesimo sfarzoso ed esuberante di stampo neroniano. È mistica – di accezione autocelebrativa e privata – della luce che s’invera nel corpo della materia intrudendosi, espandendosi, colorandosi.
L’ipotesi della “trasparenza visiva” (connessa alla “pietra speculare, prima, e al vetro in epoca imperiale, successivamente) si evolve così, sin dall’Antico, in parallelo ad una diversa concezione di “trasparenza opalescente e sensuale”, la quale gioca tutte le sue carte affabulative sulla zona di confine, sul limite tattile e visivo rappresentato dalla superficie litica “semitrasparente” intesa come tessuto fondante (e non dissipativo) dei valori peculiari dell’architettura.
Nell’architettura tardoromana – e poi romanica – l’impiego di lastre sottili di pietra nella redazione di schermi e specchiature di aperture è stata una soluzione frequentemente ricercata soprattutto in funzione di quella mistica della luce che gli edifici sacri hanno prevalentemente ricercato e che evolverà, poi, nelle grandi vetrate colorate gotiche.


Banca a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects.

Dopo il moderno, in cui è possibile citare il Karntner Bar a Vienna (1908) di Adolf Loos, spostandosi verso il contemporaneo – in relazione anche alla disponibilità di tecnologie in grado di ridurre i blocchi di pietra in spessori sottili o ibridarli con supporti o pellicole rinforzanti – l’estetica della traslucenza dei materiali litici (in particolare di alabastri, onici e marmi chiari) è stata riproposta in varie opere architettoniche molto recenti: in esterno-interno, dalla Biblioteca di libri rari della Yale University (1960-1963) di Gordon Bunshaft alla Chiesa di San Pio a Maggen (1964-1966) di Fran Fueg, dall’edificio per appartamenti a Parigi (1995) di Marc Mimram, al Christ Pavillion ad Hannover (1999-2000) di Meinhart Von Gerkan, alla Sede della Deutsche Bundesbank a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects; negli allestimenti d’interni, dalla Fondazione Mirò a Maiorca (1987-1993) di Rafael Moneo, all’Istituto del Mondo Arabo a Parigi (1981-1987) di Jean Nouvel, dalla Banca de Ahorros a Granada (1992-2001) di Alberto Campo Baeza, al Municipio di San Fernando de Henares (1999) di Sancho-Madridejos.


Banca a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects.
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Una leggerezza, questa delle pietre trasparenti dell’oggi, che deve moltissimo – come in passato – alla luce naturale posta ad attraversarle dall’esterno verso l’interno, ma che attinge in forma inedita anche nelle accresciute potenzialità del progetto del tutto contemporaneo della luce artificiale, capace quest’ultima – dall’interno – di staccare da terra la materia proiettandola verso insondabili leggerezze nei cieli bui notturni.

Alfonso Acocella, Davide Turrini

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Note
(1) Si vedano in proposito Erkinger Scwarzenberg, “Cristallo” pp. 61-69 e Francesca Dell’Acqua, “Le finestre invetriate nell’antichità romana” pp. 109-119, entrambi in Vitrum, Firenze, Giunti, 2004, pp. 359.
(2) La citazione è tratta dall’edizione einaudiana della Naturalis Historia (XXXVI, 160-162) con traduzione e note di Antonio Corso: Plinio, Storia naturale, Torino, Einaudi, 1988, vol. V, pp. 996.
(3) La citazione è tratta dall’edizione einaudiana della Naturalis Historia (XXXVI, 163) con traduzione e note di Antonio Corso: Plinio, Storia naturale, Torino, Einaudi, 1988, vol. V, pp. 996.

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Sulle ali di Perseo (I parte)


Il Perseo di Benvenuto Cellini.

Caro Alfonso,
chiedo venia se fino ad ora non ho partecipato al blog sull’architettura di pietra. Buona parte della mia reticenza era dovuta al fatto che il materiale, la pietra appunto, ha sempre occupato la mia mente dal punto di vista della durata, anzi meglio, la ritenevo sinonimo stesso di eternità (per la quale non nutro particolare simpatia…). Come sai i miei interessi sono sempre stati orientati verso il fuggevole, il temporaneo, l’incerto, il leggero, ciò che manifesta rarefazione e così via, esattamente l’opposto di quello che comunemente si pensa della pietra. Poi, come sempre accade quando approfondisci le questioni, quando superi alcune tappe, si disvelano confini che fino ad allora erano rimasti latenti, nascosti dal temporaneo disinteresse o dalla semplice neghittosità.
Sfogliando gli ultimi interventi del blog mi è balzato alla mente un fatto emblematico: anche questo materiale, al di là del retaggio che trascina con sè, è pur sempre un materiale da costruzione e, in fondo, è stato capace di aggiornarsi lungo tutta la storia dell’architettura. Perchè allora non leggerlo da questo punto di vista? Ogni materiale da costruzione contiene, in maniera diversificata, un certo grado di potenzialità intrinseca nei confronti dell’innovazione, dell’impiego per rappresentare la contemporaneità. Ritengo che l’architettura sia tale solo quando è capace di rappresentare il proprio tempo. Il nostro tempo, dominato dalla tecnica, dall’informazione, dalla comunicazione istantanea, dall’immagine, ecc. richiede materiali e strumenti effimeri, o quantomeno a durata limitata, perchè la nostra è anche l’epoca del cambiamento repentino, della fluidità, dell’instabilità. Probabilmente le nuove rappresentazioni architettoniche (leggi il fluidismo, il decostruttivismo o decostruzionismo, i media buildings) riportano proprio di questo stato di cose. Come può, allora, un materiale che pesa, che ha richiesto lunghissimi periodi per la sua formazione, che è duro (sicuramente di più del vapore del Blur Building…), che necessita di lavorazioni da “tuta blu”, competere con quelli che nascono da asettiche fabbriche automatiche, generati da processi chimicofisici in tempi definiti nemmeno tanto lunghi, che possono essere impiegati e/o formati più volte, laddove l’operatore indossa una “tuta bianca”? Queste e molte altre domande mi si sono avvicendate nella mente per cercare di cogliere la contemporaneità della pietra.
La risposta è arrivata quando ho letto nel tuo blog che qualcuno produce dei brise soleil con fogli di pietra. Tentativo di emulazione della torre Agbar di Barcellona? Semplice innovazione adattiva? Non importa quale sia stata la molla che ha fatto scaturire la soluzione. Ho visto talmente tante soluzioni imitative (persino fin troppo banali) effettuate proprio con questo materiale da comporre un repertorio di soluzioni a dir poco “originali” (le virgolette sono lì per graffiare un po’…). Non voglio, però, dare giudizi di merito, perchè conosco la fatica del lavoro di ricerca. So anche che molte soluzioni sono state messe in campo per vari motivi, dalla richiesta di un determinato mercato alla necessità di rimanere in un determinato mercato. Quindi ben venga ogni cambiamento, di qualunque tipo questo sia. Di fondo c’è sempre una giustificazione e nessuno è stato insignito del titolo di giudice supremo. Quindi, anche se qualcuno storce il naso di fronte al fatto che la comunicazione commerciale tenta di infilarsi nel mondo della produzione culturale (e spesso ci riesce…) è perchè evidentemente si sono avverate le condizioni perchè ciò accada. Significa, probabilmente, che vi è stato un mescolamento, un rimaneggiamento dei ruoli. Significa che i confini tra pensiero ideologico e pensiero pratico sono frastagliati al punto da coincidere. Significa che alcuni territori non occupati sono stati accaparrati da chi è arrivato per primo. Significa che la cultura ha bisogno di sporcarsi le mani per poter riprendere il possesso di quei territori che considera suoi. Insomma, ho la vaga impressione che se il mondo della produzione (e conseguentemente del commercio) tenta un approccio con il mondo della ricerca universitaria è perchè sa bene di trovare qualche interlocutore col quale instaurare rapporti proficui (per gli uni e per gli altri…). Da una parte ogni investimento sull’università produce sempre e comunque una ricaduta, perlomeno di immagine. Dall’altra parte, viste le magre risorse disponibili, sembra che siano state spalancate le porte ad ogni attività capace di rendere economicamente. E l’ideologia? L’orgoglio? Il decoro? E via di questo passo? Pecunia non olet, per cui sembra che i fini giustifichino sempre i mezzi. È disprezzabile questa posizione? Personalmente credo di no. In fondo se questa è una democrazia, seppur imposta e imponibile con le armi, sono ammesse tutte le furbizie, specie in un gioco senza regole.
Tornando alla pietra mi sono reso conto che è un materiale assolutamente attuale, purchè non la si voglia trattare come puro e semplice materiale decorativo, oppure surrogato di altri. In fondo ha una notevole dignità, forse è proprio il materiale che porta con sè un livello di dignità maggiore di tutti gli altri. Quindi auspico che le soluzioni che lo vedono impiegato nelle recenti architetture esaltino le sue qualità di leggerezza, di immagine temporanea, di attualità.

Un caro saluto Pietro Zennaro


Il Perseo di Benvenuto Cellini.

Caro Pietro,
molti fili e nodi problematici sono intrecciati nel tessuto concettuale delle riflessioni che ci consegni attraverso un file digitale.
Fra i tanti percorsi possibili di interlocuzione quello che consente – oltre che una risposta (sicuramente parziale) alle tue osservazioni ed interrogazioni – di precisare e, anche, di sviluppare in qualche modo idee in nuce è il tema della leggerezza (valore, qualità, condizione peculiare della contemporaneità) apparentemente molto distante da ciò che la materia litica sembra portare con sè in dote od anche semplicemente evocare.
Vorremmo aprire la questione con una citazione “ambivalente” di Italo Calvino:
“L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati (…). Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. (…) Ma il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario.” (1)
C’interessa indagare il tema della leggerezza attraverso due “fuochi concettuali” inscrivibili nel lavoro teorico che stiamo svolgendo da qualche tempo legati all’obiettivo di riconoscimento, riabilitazione e attualizzazione dell’architettura di pietra.
Il primo è legato alla “leggerezza fisica” della pietra quale accezione d’impiego – in senso disciplinare, architettonico – registrabile nel reale storico o contemporaneo, capace di far “librare”, “volteggiare” la materia affrancandola dal peso, dalla corposità strutturale e dalla forza di gravità che, più generalmente, la riconduce e la salda al terreno. Ma anche alla leggerezza – indicibile, al momento – associabile alle innovazioni a venire capaci di “smuovere”, “evolvere” la pietra all’interno di un tessuto intellettuale privo di vincoli e di preconcetti, in uno spazio del “possibile” dove si può tentare di rovesciare la pesantezza della materia nel suo contrario, per dirla con Calvino.
Il secondo fuoco tematico si lega invece, metaforicamente, alla “leggerezza comunicativa” della pietra, posta in associazione rispetto alle altre due caratteristiche peculiari del nostro presente globalizzato e della nuova economia “priva di peso”: la rapidità e la visibilità. Insieme – leggerezza, rapidità visibilità comunicativa – possono far viaggiare, con grande velocità e pervasività, la materia che diventa idea privata del suo peso. L’immagine leggera che anticipa la materia pesante.


Campionario di pietre colorate. (Reale Laboratorio delle pietre dure di Napoli)

Pietre “coloriche” (o della “leggerezza dei colori litici”)
Se il retaggio più diffuso e convenzionale che la pietra porta con sè è quello che la vede legata al tema della massa e dell’indistruttibilità (a cui viene associata la lunga durata, se non l’eternità) è bene precisare come tale eredità non ne chiude completamente in un circolo i modi di impiego, la sua stessa fortuna nella lunghissima storia applicativa all’interno della storia dell’architettura.
Alla ciclopicità litica del mondo egizio e alla perfezione della costruzione stereotomica dell’architettura marmorizzata greca, segue con i Romani l’inebriante leggerezza dell’illusionismo policromatico dell’opus sectile e dei mosaici parietali. Nella Roma imperiale i materiali litici si assottigliano, si distendono in forma di “membrane”, di superfici di qualche centimetro di spessore (non infrequentemente anche al di sotto di un solo centimetro); la pietra smette di ostentare massività e portanza strutturale per parlare invece di valori ottici, di illusività, soprattutto attraverso la forza seduttiva dei colori.
L’uso inedito delle pietre da parte di Romani avviene sia nei rivestimenti in opus sectile sia nei mosaici parietali posti entrambi ad alimentare – come avverte Sergio Bettini – una concezione rivoluzionaria dello spazio architettonico d’interni che diventa scenografico, monumentale, “smaterializzato”:
“Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poichè la decorazione musiva, s’è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico; e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell’ambito di una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l’intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè la tradizione romana. La quale, quando riduce cotesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poichè tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse “figure” superfici cromatiche senza spessore, con l’identico procedimento che, s’è visto, trasforma gli antichi capitelli plastici in preziose macchie cromatiche fuse nell’illimitato spazio. È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell’antica Grecia che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.” (2)
Per i Romani – all’interno dello sconfinato universo delle pietre – i graniti, i porfidi, i marmi, le tante altre rocce lucidabili, gli alabastri, gli onici, hanno rappresentato “pietre particolari” capaci di declinare (oltre l’atto costruttivo) valenze squisitamente illusive, inebrianti in base al loro spiccato valore determinato dal disegno, dal colore, dalla lucentezza del “polimento” o (come preciseremo in un prossimo post) dalla magia della traslucenza.
Le pietre, a partire dall’esperienza romana, si sono prestate con continuità e generosità alla tematica del colore per le infinite particolarità ed assetti costitutivi di cui sono testimoni. Dell’incantesimo seduttivo dei colori, di questa “essenza non formale” (o, forse, “forma stessa” – della materia litica) hanno parlato in molti.
Da sempre – nelle affermazioni dei naturalisti, degli scrittori, degli esteti, degli storirici dell’arte – le pietre sono state collegate ai concetti di admiratio e di varietas. Il concetto di admiratio riteniamo sia da legarsi al mondo litico in generale: alle sue pietre particolarissime e rare, a quelle impiegate nelle fabbriche architettoniche con i loro svariatissimi colori che ne fissano, in una leggiadra “seconda natura”, la loro presenza.


Horti Lamiani: alabastri d’età imperiale. Palazzo dei Conservatori a Roma

Un omaggio ai piaceri intensi ed istantanei che le pietre sanno suscitare; pietre disegnate da grandi macchie e inclusioni minerali; onici flessuosi e traslucidi; graniti “puntinati” saturi ed intensi; marmi candidi, aurei, lividi, purpurei, ultramarini, attraversati da venature che portano altra linfa colorica “arricchente”.
Si apprezzano, allora, le pietre e i marmi colorati in sè, assunti come materia_superficie.
Ma in tutti questi casi il medium affabulativo del colore della materia – ci chiediamo – è inscrivibile nella categoria del pesante o del leggero ? Il colore sostanzia o contraddice il peso che vogliamo ad ogni costo leggere nella pietra ?
Le categorie di fulgor e splendor sono state sempre connesse alle pietre preziose, alle gemme che brillano di una luce che sembra essere prodotta da esse stesse; ma tali categorie possono indirettamente essere estese anche al mondo delle superfici litiche rilucenti di colore dell’architettura. Nelle redazioni pavimentali, nei rivestimenti parietali, nei diaframmi litici opalescenti, il “polimento” delle superfici ha sempre puntato ad esaltare, ad intensificare i caratteri brillanti, lo “scintillio”, la luminosità dei colori incapsulati nella materia in attesa di una nascita. Solo allora i colori dell’universo litologico diventano vivi e attivi; la lucentezza che li porta all’evidenza massima – con i relativi effetti in forma di “specchiature”, di “vortici”, di “riverberi” – parla di bidimensionalità, conferisce una vita autonoma e una “leggerezza” seduttiva alle superfici.


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe (foto: Alessandra Acocella)

A distanza di circa duemila anni dall’introduzione delle incrostazioni marmorizzate e dei mosaici – sotto una diversa sintassi architettonica – Mies van der Rohe, nel Padiglione di Barcellona suo massimo capolavoro della stagione europea, plasma uno spazio cinetico che sembra essere perfettamente interpretabile attraverso le categorie (i valori) di Pietro Zennaro: fuggevole, temporaneo, incerto, leggero, rarefatto. A formalizzarlo vi sono setti verticali e superfici orizzontali litiche: di marmo verde greco, di onice, di travertino.
Argomentiamo, allora, che la leggerezza è qualità (valore) in disponibilità della pietra, riguardata – in questa prima parte del nostro intervento alla discussione – attraverso il tema del colore. E questo al passato e al contemporaneo.

Alfonso Acocella

(1) Italo Calvino, “Leggerezza” p. 8, in Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993 (Ed. or. 1988), pp. 141
(2) Sergio Bettini, “L’architettura bizantina” p. 55 in Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Dedalo, 1990 (ed. or. 1978), pp. 149.

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21 Gennaio 2006

Citazioni

Un modo di vedere le cose*


Terme di Vals (1994-1996) di Peter Zumthor. Particolare. (foto: Alfonso Acocella)

Fessure nell’oggetto sigillato
“Case sono configurazioni artificiali. Consistono di parti singole che devono essere congiunte. La qualità di questi congiungimenti determina in ampia misura la qualità dell’oggetto finito.
Nell’ambito della scultura c’è una tradizione che attenua l’espressività delle saldature e dei collegamenti tra le singole parti dell’opera a favore della forma globale. I lavori in acciaio di Richard Serra, ad esempio, risultano altrettanto omogenei e unitari di certe sculture in pietra o legno appartenenti a tradizioni plastiche più antiche. Negli anni sessanta e settanta numerosi artisti hanno fatto appello, nelle loro istallazioni e nei loro oggetti, ai metodi di giuntura e collegamento più semplici e immediati che conosciamo. A più riprese Beuys, Merz e altri hanno lavorato con disinvoltura e naturalezza nello spazio, operando con avvolgimenti, piegature o stratificazioni, per creare un tutto a partire da parti singole.
Il modo immediato e apparentemente naturale con cui questi oggetti artistici sono configurati, è istruttivo. In questi lavori non c’è alcun disturbo dell’impressione generale da parte di piccole parti estranee alla proposizione dell’opera. La percezione del tutto non è distolta da alcun dettaglio marginale. Ogni contatto, ogni collegamento, ogni giunto è al servizio dell’idea di un tutt’uno e consolida la presenza pacata dell’opera.
Quando progetto degli edifici, cerco di conferire loro una presenza di questo Tipo. Ma a differenza dell’artista, devo partire dalle incombenze funzionali e tecniche alle quali ogni costruzione deve adempiere. L’architettura è chiamata a sfidare la creazione di un tutt’uno a partire da innumerevoli componenti singole, distinte nella funzione e nella forma, nei materiali e nelle dimensioni. Per gli spigoli e i giunti – i punti in cui le superfici si intersecano e i diversi materiali si incontrano – occorre ideare costruzioni e forme dotate di senso. Con queste forme particolareggiate vengono stabilite le fini misure intermedie all’interno delle proporzioni maggiori dell’edificio. I particolari determinano il ritmo formale, la finezza proporzionale della scala dell’edificio.
I dettagli, hanno il compito di esprimere ciò che l’idea progettuale di fondo esige in quel determinato punto dell’oggetto: unione o disgiunzione, tensione o leggerezza, attrito, solidità, fragilità.
I dettagli, quando riescono felicemente, non sono una decorazione. Non distraggono, non intrattengono, ma inducono alla comprensione del tutto, alla cui essenza necessariamente appartengono.”

Peter Zumthor

(*)"Un modo di vedere le cose" (1988) pp. 14-15 in Peter Zumthor, Pensare architettura, Baden, Lars Müller Publishers, 1998, pp. 82.

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20 Gennaio 2006

Eventi

Spazi comuni / Reinventare la città

Spazi comuni. Reinventare la città

SPAZI COMUNI | REINVENTARE LA CITTA’|
Incontro – evento sulla città del quotidiano
Venerdì 27 gennaio 2006 ore 19.30
Galleria ArtSinergy _ Via San Giorgio, 3 Bologna

da un libro
A cura di Pino Brugellis e Francesco Pezzulli
Con i contributi critici di Sandro Poli, Yona Friedman, Manuel Orazi, Marcello Arosio, Lara-Vinca Masini, Giandomenico Amendola, Domesticittà, Anna Curcio, Edith Pichler, Andrea Paglia, Lucio Giecillo.
Saranno presenti gli autori
Cocktail

Opere di
PAOLO CONSORTI

Dal 27/01/06 al 28/02/06

Arte + architettura, immaginazione che diviene progetto, per dare forma alle espressioni individuali dalla cui coesistenza deriva l’identità e la vitalità dei luoghi.
Un progetto di Paolo Consorti che partendo da un testo critico di Pino Brugellis e Francesco Pezzulli ha immaginato la metropoli come spazio dell’immaginazione, rendendo concreta una visione urbana contaminata e animata dalle diversità. Le persone si muovono in spazi aperti liberando la propria fantasia, e i luoghi assumono un aspetto gioioso. Sono le persone, con la propria vita e i propri bisogni, intrecciando relazioni, coltivando solitudini, che elaborano il codice di convivenza della metropoli contemporanea, modellandolo sui concetti di rispetto dei luoghi e della libertà individuale. La città è prima di tutto lo spazio delle persone ed è da qui che si deve muovere la progettazione architettonica, interpretando e rendendo funzionali e condivisibili le esigenze dei singoli.
Venerdì 27 gennaio ore 19.30 si apre la mostra Spazi Comuni | Reinventare la città | con opere dell’artista Paolo Consorti, che saranno esposte in galleria fino al 28 febbraio.
La mostra si apre con una conversazione sulla città del quotidiano, condotta dall’architetto Pino Brugellis e dal sociologo Francesco Pezzulli che anticipa i temi fondamentali di un libro di prossima pubblicazione “Spazi comuni. Reinventare la città” (Bevivino-editore). Il libro è il frutto di una serie di giornate di studio che gli autori, prevalentemente sociologi ed architetti, hanno condiviso nel corso del 2005.
Gli argomenti affrontati da diversi punti di vista sono stati quelli del superamento delle “città del controllo”, del ruolo delle migrazioni e del sapere nella costruzione di spazi comuni nelle città, della strada come luogo privilegiato delle relazioni sociali e dei significati urbani.
In copertina è riprodotta un’opera di Paolo Consorti, “Ciao”,2005, presente in questa esposizione bolognese.
Nelle grandi tele di Paolo Consorti si intrecciano racconti fantasiosi che esaltano la libertà individuale in tutte le sue espressioni, anche le più imprevedibili. Il contesto urbano nella visione di Paolo Consorti contraddice la consueta immagine giornalistica della metropoli contemporanea e diviene spazio dell’imprevisto, miscela di pubblico e privato, superamento delle barriere culturali in un mega-rituale collettivo in cui ognuno esprime se stesso senza coordinate prestabilite. Esistere è esprimere la propria libertà, il proprio modo di sentirsi al mondo. Tale abbattimento di codici appare come una gioiosa rinascita, una liberazione dagli standard consumistici e culturali del mondo contemporaneo, una ribellione giocosa e molto determinata per riappropriarsi di una libertà integrale. Gesti semplici si caricano di irriverenza e sfidano l’asettico mondo urbano, come baluardo, eroico ed ironico di una singolarità attraverso cui passa il rispetto per l’altro.
La stessa profonda esigenza di libertà e rispetto dell’individuo è quella che muove la visione etica di “Spazi comuni. Reinventare la città” che, in un’epoca in cui l’architettura interpreta i luoghi come strategia di marketing e di controllo sugli individui, suggerendo nell’apparenza l’idea di una libertà preconfezionata, opzioni possibili in cui riconoscersi, uguali ed omogenei a milioni di altre persone, vicine e lontane, sostiene una differente visione teorica che capovolge l’orizzontalità illimitata di questa interpretazione/riduzione dell’esistere. È un pensiero che pone al centro della progettazione architettonica e urbanistica la singolarità dei luoghi con tutte le loro energie inespresse, invisibili, tutte le incongruenze e le discontinuità possibili.
La strada e gli spazi comuni sono il simbolo per eccellenza di questo modo di interpretare la città contemporanea, luoghi in cui si producono relazioni la cui dinamica, priva di organizzazione ed autoregolata, fornisce un modello “sociale” di convivenza.

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Casa delle Armi a Roma di Luigi Moretti*


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti. Veduta esterna.
(foto tratta da Architettura fasc. VIII, 1937)

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“L’ultima grande stagione dell’architettura italiana si inscrive nel ventennio compreso fra le due guerre mondiali. Le opere maggiori, prevalentemente edifici pubblici, sono contrassegnate nella quasi totalità dall’adozione di materiali litici nazionali declinati progettualmente sia in forme convenzionali, dalle correnti più tradizionaliste, che in forme innovative dai giovani architetti emergenti.
L’architettura moderna italiana – che pure guarda e attinge al nuovo repertorio di forme, di spazialità, di soluzioni tecniche sperimentali delle avanguardie d’Oltralpe – si presenta soprattutto alla fase cruciale degli anni Trenta con caratteri del tutto singolari nel processo di rinnovamento. Negli edifici più rappresentativi sembrano emergere – pur nella specificità e diversità delle opere – due caratteri dominanti. Il primo attiene all’estetica delle superfici e dei volumi, all’immagine stessa dell’architetttura sospesa fra tensioni innovatrici e atmosfere di tradizione; il secondo investe, più specificatamente, la concezione dello spazio.
Negli esterni il largo e diffuso impiego di rivestimenti litici posti a conferire tratti rappresentativi ad un’architettura civile, pubblica costituisce il contributo più peculiare ed originale della ricerca italiana che, così, si distingue rispetto all’uso di materiali industriali, di superfici ad intonaco ricorrenti nelle opere delle avanguardie europee.
Gli ambiti operativi per promuovere il rinnovamento del linguaggio architettonico attengono prevalentemente alla re-interpretazione dei tradizionali elementi della costruzione stereotomica in pietra: basamento, cintura muraria, cornici, architravi, catene angolari. In tale azione si consumano molto delle tensioni creative e della carica sperimentale dell’architettura italiana.
Le superfici marmorizzate saranno ripensate e definite “elemento per elemento”. L’apparente semplicità ed unitarietà di tali involucri omognei è conseguita, nelle opere più eccelse, mediante soluzioni di raffinata precisione. Le connessioni fra ossatura portante e rivestimento, fra pareti continue ed aperture, fra lastre sottili ed elementi speciali in massello, fra piano verticale e suolo diventano i temi fondanti del progetto da cui si distillano i lemmi del nuovo linguaggio dei rivestimenti dagli accenti non convenzionali.
Ne derivano superfici e figure architettoniche essenzializzate, asciutte, prive di ogni retorico riferimento alla tradizione eppure portatrici di una implicita continuità storica, di una raffinata e moderna evoluzione della concezione classica. Lungo questa direzione le opere di Giuseppe Terragni, Adalberto Libera, Luigi Moretti – per fare solo i nomi più emblematici e conosciuti – si presentano alla stagione del rinnovamento dell’architettura moderna europea con realizzazioni che valgono come autentici capolavori, capaci di parlare ancora oggi alla ricerca contemporanea.
Se l’architettura delle avanguardie europee si definisce sotto il profilo costruttivo prevalentemente attraverso intelaiature strutturali con pilastri, travature, setti parietali in calcestruzzo armato o in acciaio che assumono un valore autonomo, enucleabili all’interno degli organismi edilizi e spaziali, la cultura progettuale italiana non azzera completamente i caratteri connessi alla costruzione muraria, pur impegnandosi nell’evoluzione del muro in superficie di chiusura perimetrale.
L’introduzione della tecnologia del calcestruzzo armato non incide – se non indirettamente – sul rinnovamento dell’architettura moderna italiana in quanto il sistema a pilastri e travi non viene assunto e riproposto secondo la concezione delle avanguardie. I telai strutturali sono quasi sempre integrati da orditi murari chiudenti di tipo tradizionale in pietra o in laterizio dando vita così – nel complesso – a soluzioni costruttive di tipo composito.
Il dispositivo costruttivo tipico dell’architettura italiana degli anni Venti e Trenta (diffusosi soprattutto all’interno degli edifici finanziati dalla Stato) va così ad occupare un posto autonomo, originale ed equidistante sia dagli organismi stereotomici tradizionali (basati sulla muratura portante), sia da quelli moderni di natura tettonica (che adottano telai e scheletro strutturale di tipo lineare). (1)
Come abbiamo già evidenziato, vi è un secondo aspetto peculiare che contraddistingue la ricerca della cultura italiana, lungo lo svolgersi degli anni Trenta, legato in particolare alla concezione dello spazio architettonico. L’intensità di alcune realizzazioni è di tale livello da assumere un carattere autonomo e un valore confrontabile rispetto ai capolavori europei.
Se frequentemente nella storia contemporanea lo “spirito del tempo”, interpretato dagli uomini con eccessivo dogmatismo, ha introdotto una decisa componente deterministica al divenire dell’arte che traccia confini dai quali non è concesso uscire senza il rischio dell’esilio o dell’oblio, allora si capisce come il consacrare un unico punto di vista ad interprete autentico di un’epoca abbia potuto oscurare il talento di un grande architetto qual è Luigi Moretti.
A noi piace pensare, invece, alla co-esistenza in ogni presente di opere che condensano e solidificano in se stesse tutte le energie latenti delle tendenze artistiche egemoni dell’epoca (afferenti allo Zeitgeist di hegeliana memoria) ed opere che – meno “folgorate” dal presente – attingono all’interno dei “tempi nuovi” senza cancellare completamente il passato. Queste ultime, rifuggendo da un’adesione univoca al linguaggio artistico ritenuto come l’unica (o la più autentica) risposta ai tratti caratteristici dell’attualità, attendono spesso di essere scoperte o ri-scoperte, capite, apprezzate dallo sguardo degli uomini.
Le architetture di Luigi Moretti degli anni Trenta, differentemente da quelle di Mies e degli altri protagonisti acclamati del Moderno, riteniamo s’inscrivano in questa categoria. L’innata capacità dell’architetto romano di avvicinarsi alle preesistenze storiche – di viverle intensamente, soprattutto – lo porta a sviluppare un rapporto istintivo, che annulla il tempo e le sue contingenze per far emergere i nuclei fondativi dell’architettura: spazialità, costruzione, superfici. L’attitudine a proiettare l’essenza del passato sul presente sottoponendola al confronto con le ricerche contemporanee, di cui è un sottile e critico conoscitore, gli consente di proporsi come personalità poliedrica e complessa del panorama dell’architettura moderna italiana.
Nei primi anni Trenta, quando il dibattito culturale trainato dall’azione delle avanguardie europee cresce di intensità spingendo i giovani ed emergenti progettisti italiani ad uscire allo scoperto, a confrontarsi con il linguaggio e le tecniche del Moderno, ritroviamo Moretti nella Casa del Balilla di Trastevere (1932-1937) a saggiare le potenzialità della struttura a telaio in calcestruzzo esplicitandola negli impaginati di facciata e valorizzando sequenze spaziali interne, fluide, sia pur con vuoti distinti dati in concatenazione. È l’esplorazione del nuovo universo figurativo.
A questo “saggio ricognitivo” nel territorio del Moderno corrisponde, negli stessi anni, la messa a punto di una linea più personale di mediazione fa accettazione di istanze contemporanee e decantazione del linguaggio di matrice classica dell’architettura. Tale percorso conduce Luigi Moretti – giovanissimo – ad intuizioni precoci, ad opere di altissima qualità e raffinatezza fra cui emerge, come un capolavoro, la Casa delle Armi (1933-1936), sede dei corsi dell’Accademia della scherma a Roma, alle pendici di Monte Mario nell’area meridionale del Foro Mussolini.
L’edificio si presenta alla città articolato volumetricamente secondo una strutturazione ad L, con corpi distinti collegati da un percorso in quota su due livelli. Il primo, completamente chiuso verso il viale nord-sud del Foro, accoglie la grande biblioteca a doppia altezza affacciata su di una galleria per la lettura ed illuminata da una grande superficie vetrata a tutt’altezza aperta verso il paesaggio del Foro. In corrispondenza dell’angolo, a cerniera fra i due volumi, la composizione architettonica mette in forma una elegante figura volumetrica ellittica destinata alla sala dei ricevimenti. Nel secondo corpo di fabbrica, perpendicolare al primo, trovano posto la grande Sala d’Armi (con superficie libera di 45×25 m per l’attività agonistica di 160 atleti), i servizi di spogliatoio e di doccia distribuiti su tre livelli affacciati su una galleria e i servizi particolari localizzati nel seminterrato.


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti. Sezione.

Moretti sottopone la composizione dell’opera ad un trattamento riunificante e rigoroso; in particolare assegna un’altezza costante ai due volumi (ricongiunti in quota da una soletta) e poi li “modella” attraverso una configurazione regolare, stereometrica sfruttando un rivestimento avvolgente in marmo statuario venato di Carrara. La “scorza” marmorea omogenea del rivestimento prosegue, poi, grazie all’impiego di marmo bianco Carrara, attraverso scalee poste alla base dei volumi a saldarsi al suolo dei piazzali, della grande vasca d’acqua, del pavimento esterno. Tutto appare come un ininterrotto blocco monolitico di marmo, pura geometria stereotomica. Raffinatissimo è il trattamento delle superfici esterne per le quali l’architetto romano produce dei disegni esecutivi accuratissimi con la repertorizzazione formale e dimensionale delle lastre e dei numerosi pezzi speciali.
Se valori d’interni, dalle fluide ed eleganti prospettive, già si colgono nel corpo della Biblioteca, è nella Sala d’Armi che lo spazio lievita, fluttua sotto la modulazione della luce e la compressione della materia.
Nella grande sala, ottenuta grazie ad una soluzione strutturale ingegnosa impostata su due mensole giganti in calcestruzzo armato (con sezione parabolica di diversa altezza e portata, contrapposte e completamente indipendenti), si è accolti, con stupore ed emozione, in uno spazio non “cubico” e strettamente unitario. Uno spazio denso, stabilizzato nel suo monumentale “stampo cavo” le cui superfici continue appaiono ferme e leggiadre grazie ad una modulazione dei flussi luminosi che “accarezzano” ogni parte del volume interno. La luce, materia essa stessa e forza disvelatrice dello spazio, penetra nella grande Sala delle Armi dall’alto, obliquamente, unidirezionata, attraverso l’apertura longitudinale ottenuta fra le due estremità delle mensole strutturali, diffondendosi radente lungo le superfici curve lisce di stucco bianco per poi rischiarare il piano pavimentale in marmo venato di Carrara al cui cntro insiste la pedana in linoleum.
Uno spazio unitario, solido, eloquente inscritto nella migliore tradizione dell’architettura spaziale italiana. Alla concezione di uno spazio completamente nuovo, di “rottura” (fluente, instabile, “debordante”, fatto di sfondamenti e trasparenze) alla maniera di Mies, Luigi Moretti oppone una visione aulica del vuoto, per certi versi retrospettiva, eppure sostanzialmente moderna fatta di atmosfere dense ed avvolgenti dove lo spazio – espanso monumentalmente nelle due dimensioni – vale per se stesso, senza cercare nell’altrove la propria ragione di essere. (2)
Tutta l’opera architettonica di Luigi Moretti degli anni Trenta ci sembra persegua una strategia ben precisa: usare gli strumenti della ricerca moderna per ritornare a confrontarsi con il retaggio del passato mantenendo, alla fine, viva una concezione dell’architettura solida, pacificata nei volumi interni, resistente alle scosse del tempo, alle oscillazioni del gusto e alla stessa disattenzione degli uomini.
Soffermandoci a riflettere oggi sullo stato di trasformazione sostanziale e di degrado in cui versa, da decenni, il capolavoro di Luigi Moretti – e dell’intera stagione del Moderno italiano – tenuto ancora in una assurda segregazione all’uso e alla fruizione pubblica, per contrasto, il nostro pensiero si è ricongiunto alla lungimiranza della cultura contemporanea spagnola che, invece, in assenza della tangibile realtà del Padiglione di Barcellona di Mies distrutto a pochi mesi dalla conclusione dell’Esposizione, ne ha promosso qualche decennio fa una fedele ricostruzione, riconsegnandola alla collettività internazionale e ai processi di conoscenza e di godimento estetico.
Ci auguriamo che i recenti proponimenti politici e i relativi protocolli istituzionali riportino la Casa delle Armi allo stato d’origine, restituendole lo splendore dei volumi e il fascino dei suoi nitidi spazi interni, obliterati, prima, da una storia dell’architettura tendenziosamente “ideologica” e, poi, da una cultura di Stato disinteressata ai valori dell’architettura contemporanea.”(2)

Alfonso Acocella

(*) Il brano rieditato è tratto dall’Introduzione “Tempo lineare, Tempo circolare” pp. 13-15 del volume Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

(1) Si devono a Sergio Poretti i primi ed approfonditi studi sui caratteri costruttivi e formali dell’architettura moderna italiana fra le due guerre mondiale con particolare riferimento alle nuove applicazioni dei materiali lapidei. Al riguardo si vedano: Progetti e costruzione dei palazzi delle Poste a Roma 1933-1935, Roma, Edilstampa, 1990, pp. 246; “Le tecniche costruttive negli anni Trenta tra modernismo ed autarchia. Una nota sulla Casa del Fascio”, pp. 307-320, in Maristella Casciato et al. (a cura di), 150 anni di costruzione edile in Italia, Roma, Editalia, 1992, pp. 567; La Casa del Fascio di Como, Roma, Carocci, 1998, pp. 130. Di più recente pubblicazione è lo studio di Federica Dal Falco, Stili del Razionalismo. Anatomia di quattordici opere di architettura, Roma, Gangemi Editore, 2002, pp. 531.

(2) Sulla Casa delle Armi si vedano il dettagliato e puntuale articolo di Plinio Marconi, “La Casa delle Armi al Foro Mussolini in Roma”, Architettura fascicolo VIII, 1937, pp. 435-454 e la recente monografia di Roberta Lucente, Casa delle Armi al Foro Italico, Torino, Testo e immagine, 2002, pp. 93. Sull’opera generale dell’architetto romano si veda: Federico Bucci e Marco Mulazzani (a cura di), Luigi Moretti. Opere e scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 226.

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16 Gennaio 2006

Ri_editazioni

Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe*


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe. Ricostruzione.
(foto di Gabriele Lelli)

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“La ricostruzione recente del Padiglione di Barcellona ci ha fatto riflettere su aspetti parzialmente "deformati" dalla critica: il Moderno e il mondo delle pietre e dei marmi, il Moderno e il colore in architettura, il Moderno e lo spazio.
L’incarico conferito a Mies nel 1928 dal Werkbund per il Padiglione della Germania a Barcellona riporta la richiesta ufficiale di un Repräsentatioonsraum tedesco, uno “spazio con finalità formali e rappresentative ben distinte da una funzione utilitaria”. L’azione progettuale, liberata da ogni vincolo, da ogni condizionamento pratico, può spingersi così verso gli incanti sconfinati dell’anima e le erte vette della creatività. Il risultato non si lascia attendere. È il capolavoro del periodo europeo di Mies, prototipo e icona insuperata di tutto il Moderno.
Se l’articolazione dello spazio del Padiglione rappresenta l’innovazione, addirittura l’elemento di rottura rispetto ad ogni tradizione passata, il carattere e la specifica realtà fisica dei liberi piani e schermi ci parla – in qualche modo – di continuità, di aggancio ai valori mediterrranei attraverso la presenza di pietre e di marmi, alcuni dei quali ostentatamente elitari. Il loro sensuale impiego, con audace e spregiudicato accostamento di disegni, di colori, è indubbiamente influenzato dalle opere di Karl Friedrich Schinkel che attingono direttamente al mondo della classicità; l’esattezza e la precisione esecutiva sono frutto – invece – dell’assimilazione del magistero artigianale di famiglia da parte di Mies.
Quale trasfigurazione dello stilobate di un tempio greco, o del podio di un edificio di culto romano, può essere letto il basamento-terrazza in travertino, il cui carattere di "sospensione" rispetto al suolo dell’Esposizione è ottenuto grazie ad otto gradini che conducono il visitatore al piano pavimentale, continuo ed omogeneo, realizzato – sempre in travertino – attraverso grandi lastre quadrate posate con disegno convenzionale a giunti ortogonali.
La massa muraria, volumetrica e chiudente, di classica memoria si atrofizza, si assottiglia nella proposta di Mies e trasmigra in sottili schermi non portanti dislocati secondo una calibratissima disposizione. È il tributo alla logica tettonica dei nuovi sistemi strutturali lineari del Moderno. Risulta evidente come il vuoto si impadronisca dell’opera; solo attraverso la sua "presenza-assenza" – che si esprime attraverso calcolate sospensioni, distanze, intervalli – gli elementi del Padiglione assumono carattere e senso architettonico.


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe. Planimetria.

Se però il vuoto, da un lato, è portatore di individualità delle parti, dall’altro assicura un sottile gioco di relazioni visive, disvelando la vera ed originale essenza dell’opera. Nessun elemento, per quanto enucleabile e distinguibile dagli altri (in funzione della morfologia del componente, del materiale adottato, della giacitura), assume un valore in se stesso; alla prima, subitanea, percezione di individualità si manifesta la trama di relazioni più ampia dell’opera che agisce in senso ottico sul fondo neutro del pavimento in travertino, piattaforma omogenea e continua, su cui fluttuano le figure quasi astratte, di pietra, di vetro, di acciaio, concepite per co-esistere, senza con-fondersi.
Su questo piano orizzontale stonalizzato, privo di interruzioni, sono messi in scena gli attori pulsanti di "bagliori", di "riflessi", di "illusività": la "peristasi" formata dalle otto colonne cruciformi in acciaio cromato con ritmo tettonico a perimetro dell’area coperta centrale, le lastre vitree traslucide o trasparenti inserite in telai metallici cromati (nelle presenze coloriche del bianco, del verde bottiglia, del grigio scuro) e soprattutto i setti parietali rivestiti di marmo, di onice con venature dorate disposti liberamente sulla piattaforma a delineare uno spazio instabile molto particolare.
All’opera architettonica di Mies, laconica e disadorna nei suoi nuclei astratti e perentori, la materia litica consegna lo fondo neutro e lo splendore della ricca colorazione delle superfici levigati in marmo verde di Tino e in onice venato, sia pur denudate di ogni ornato, di ogni inessenzialità. Si deve indubbiamente molto, se non tutto, alle "belle materie" selezionate personalmente da Mies dal variegato universo litologico, se il Padiglione di Barcellona – benchè lontano dal linguaggio formale e spaziale tradizionale – risulti in qualche modo legato allo spirito, al magistero dell’architettura classica
Al processo di semplificazione e stilizzazione formale si somma la strategia dell’enucleazione, dello "slittamento" reciproco, sul campo pavimentale, degli elementi della composizione. Lo spazio esterno penetra e si salda con quello interno in un continuum – per larghi tratti – incerto, indefinito. Ci si trova così, nel Padiglione, di fronte ad uno spazio instabile che non si chiude mai completamente su se stesso, per l’eliminazione programmatica dei piani frontali o di quelli che lo delimitano superiormente. Una asimmetria insediativa ed una varietà litica dominante "solidificano" gli spazi che rifluiscono gli uni negli altri proponendosi come settori "imprendibili" dallo sguardo in visioni d’insieme, nella loro cinetica "scoperta" e progressiva "perdita".
La permeabilità visiva e la dissoluzione di ogni elemento sostanzialmente chiudente garantisce all’opera lo status molto particolare di "luogo vuoto", di spazio irriducibile ad ogni aspettativa di stanzialità, ad ogni sosta; l’azione della scoperta di quanto ancora deve apparire, sia pur solo per pochi secondi, sposta sempre nell’altrove il corpo e lo sguardo del visitatore.
Riconducendo all’oggi il capolavoro di Mies ci sentiamo di affermare che siamo di fronte all’anticipazione – all’archetipo spaziale per antonomasia del Moderno – dello stato di "movimento continuo" a cui la contemporaneità ha consegnato, definitivamente, molti di noi.”

Alfonso Acocella

(*) Il brano rieditato è tratto dall’Introduzione "Tempo lineare, Tempo circolare" pp. 11-12 del volume Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

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Sequenze spaziali*


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti. Interno.
(foto tratta da Architettura fasc. VIII, 1937)

“I moderni sembra abbiano dimenticato le leggi delle sequenze dei volumi interni. Essi debbono riconquistare lo spazio come elemento sensibile, vivo, e non per estrapolazione fiduciosa da simboli grafici. Quali errori l’architettura moderna abbia commesso ignorando gli spazi nella loro concretezza si può giudicare dal vero; naturalmente ammesso che l’architettura moderna viva sul vero e non sia oramai trasferita come fatto di cultura sui suoi simboli bidimensionali, disegno e fotografia. Vi sono stati alcuni esempi di sequenze e modulazioni spaziali che in tensione tutta moderna si rifanno consciamente o non al Guarini e ai classici. Si osservi a questo proposito la casa Mc Cord di F.L. Wright: i due cilindri piatti si innestano con una profonda libertà ma anche con una calettatura precisa e rigorosa.
La Casa delle Armi a Roma è uno dei primi tentativi di una modulazione spaziale strettamente unitaria che tuttavia giuoca sulla gamma intera dei parametri di luce, dimensione, forma.


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rhoe. Ricostruzione.
(foto di Gabriele Lelli)

Un particolare interesse presentano le esperienze di Mies van der Rohe, se a questo architetto, almeno per ragioni didattiche vogliamo far risalire la dissociazione, mediante schermi e diaframmi, di uno spazio unitario. Gli antichi nel comporre le loro sequenze e i loro spazi tenevano conto di quelle elementari figure geometriche che permettevano il possesso dell’intera loro forma anche quando se ne scorgeva un solo tratto di essa, in modo da consentire questa simultaneità intellettiva di visione rilevata da Adrian Stokes nella sua decisiva importanza. Mies van der Rohe partendo invece da un volume costruttivo di profilo geometrico irregolare ne dissocia lo spazio impedendone la integrale e diretta lettura, l’unica che la sua forma rende possibile, con l’immettervi pareti e diaframmi liberi i quali vengono così a suscitare settori spaziali imprevedibili, incerti, debordanti. Opera cioè in modo che lo spazio non direttamente visibile rimanga, nella intuizione, elusivo.”

Luigi Moretti

(*) La citazione è tratta da Luigi Moretti, “Strutture e sequenze di spazi”, Spazio n. 7, dicembre 1952-aprile 1953, pp. 9-20 e 107-108.

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11 Gennaio 2006

Letture

"Material Skills evolutions of materials"
e "Materia", archivio documentario dei nuovi materiali

Els Zijlstra, 2005, Rotterdam, Materia Publisher, pp. 168, (inglese). €45,00 + € 5,50 di spedizione

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Superfici d’architettura, oggetti di design, tessuti e materiali della più recente generazione ci appaiono sempre più spesso tali che è più semplice di essi dire in che materiale sembrano realizzati piuttosto che con precisione di che cosa sono composti. Non è una questione di ignoranza di fronte al nuovo; questa impossibilità ha radici più profonde che si possono ritrovare nell’epoca in cui la scienza ha manipolato le complessità dell’estremamente piccolo o immensamente grande, modificando il concetto di riconoscibilità dei materiali.
Nella tradizione l’individuabilità dei materiali era legata alle loro prestazioni e quindi all’impiego di essi. I materiali che si potevano incontrare erano limitati e ben distinti tra loro, cosicchè a ciascuno corrispondeva un nome ed un campo d’azione preciso. L’introduzione di innovazioni era abbastanza lenta da permettere l’adeguamento dei significati e del sistema sociale ad essi connesso e qualità e proprietà rimanevano sufficientemente costanti nel tempo. La possibilità di attribuire agli elementi del mondo materiale un nome, tratto da un vocabolario di materiali noti, era quindi univoca assegnando così ad essi un insieme di proprietà empiricamente sperimentabili ed anche il significato e valore di ciò che l’esperienza pregressa aveva verificato.
Alle soglie del terzo millennio lo scenario dei materiali, almeno alla scala delle nostre percezioni, non appare più come una serie di materiali dati ma piuttosto come un insieme di possibilità e variabili. L’intero sistema di immagini e di gerarchie di valori fondati sulle qualità naturali e consolidate delle materie, dalla tradizione percettiva a quella costruttiva, è stato modificato.
Ora non solo caratteristiche tecniche e prestazionali ma anche categorie affini al sistema interpretativo dei sensi e dell’espressione, aiutano a comprendere l’universo materiale che ci circonda e del quale architetti e designer possono avvalersi.

Leggerezza, sottigliezza, trasparenza, opalescenza, super-resistenza, plasticità, flessibilità, espressività, stratificazione, intelligenza, plurisensorialità, interattività, eco-efficienza, prevedibilità… non sono che alcune delle molteplici valenze che possono essere combinate per caratterizzare nuovi materiali.
Tali trasformazioni avvenute nelle conoscenze tecnologiche e nei processi di lavorazione delle materie, nonchè l’innovazione in particolare nel settore dei materiali che presentano caratteristiche tali da essere impiegati non esclusivamente nel campo dell’edilizia, hanno portato alla necessità di cercare risposte pratiche alle aporie di conoscenza e quindi alle domande di settori quali quello della produzione, del progetto e dell’informazione. Cercare, classificare, ordinare informazioni tecniche relative a materiali e prodotti per il mondo dell’architettura, del design e della produzione industriale è l’attività condotta dalle strutture che si definiscono "materioteche", neologismo nato per indicare gli archivi reali e virtuali che si propongono come strumento di ricerca, nel tentativo di "esaurire" o almeno raggiungere completezza, nella conoscenza delle materie attualmente tangibili ed utilizzabili. Le materioteche sono progetti di raccolta e classificazione delle informazioni; trovano una loro fisicizzazione in apposite sedi tuttavia sono spesso dotate di library virtuali che consentono di consultare il database on line, per riferimenti incrociati, fungendo da efficace strumento di diffusione di conoscenze.

Fondamentale è l’impostazione de criteri di definizione e ricerca scelti per l’individuazione delle famiglie e delle caratteristiche dei materiali.
La struttura olandese Materia, frutto delle ricerche condotte da Els Zijlstra, è agenzia di consulenza per la realizzazione del progetto di architettura e di design situata a Rotterdam e specializzata nella selezione di tecnologie e materiali innovativi. La sezione del progetto definita come Material Explorer consente di scoprire la varietà di sperimentazioni e applicazioni sui materiali contemporanei attraverso il motore di ricerca gratuito e consultabile on line su materialexplorer; il materiale ideale per il proprio progetto può essere individuato attraverso parole chiave oppure la ricerca può avvenire direttamente per gruppi di materiali, caratteristiche tecniche o persino proprietà sensoriali. Ad un semplice click con il mouse vengono veicolati dati di base, immagini del materiale o prodotto, dei progetti realizzati con il materiale selezionato, sino ad individuare tutti i materiali realizzati dal medesimo produttore e con la possibilità di archiviarli conservando una selezione dei propri favoriti.
Dagli oltre mille materiali selezionati da Materia è stata tratta una mostra itinerante che consente di avere contatto diretto con essi, presentata al Batimat di Parigi, al Material Vision di Francoforte, al Nordbygg di Stoccolma dal 25 al 27 gennaio p.v..

Il libro Material Skills, evolution of materials raccoglie ed illustra un centinaio di esempi di nuovi materiali. Li presenta suddivisi in nove categorie, le medesime che strutturano l’archivio di Material Explorer: naturali, pietra, cemento, ceramica, vetro, zinco, acciai, alluminio e plastica.
Breve è il resoconto storico della loro evoluzione e l’argomentazione di edifici realizzati, sia per i materiali della tradizione che per quelli di più recente applicazione nel campo dell’architettura; l’attenzione è tutta rivolta alla trama, al colore, al profilo ed alla forma della materia. Textures presentate a tutta pagina come astratte illustrazioni di progetti, tagliate e selezionate perchè ne riluca la sostanza con la quale sono realizzate le forme, passando in secondo piano la stereometria dell’architettura.
Il volume si presta ad essere considerato un libro-oggetto, un documento da collezione che testimonia le attuali tendenze delle tecnologie dei materiali per l’architettura: non solo esercizio di graphic design per il progetto coordinato che intesse la presentazione dei contenuti, per le colorate icone segnaletiche, gli allegri fonts, il particolare formato quadrato,ma anche preziosa fonte di informazioni per l’architetto, il designer, il produttore, il ricercatore perchè corroborato da un fondamentale complemento ovvero la esplicita dichiarazione, a fianco della descrizione degli elementi materiali, delle referenze delle aziende produttrici dei materiali esposti alla mostra Material Skills. In conclusione al volume infatti un indice è strutturato "nominando" i materiali, una secondo indice ne consente l’individuazione attraverso il nome dei produttori.
Scorrendo le pagine, fra i riquadri colorati che mostrano le trame dei materiali, talora il lettore informato può riconoscere immagini di architetture del presente, può scorgere la "mano" di architetti del panorama contemporaneo, può individuare soluzioni tecniche già note grazie ad altri progetti e qui illustrate dal punto di vista della produzione industriale, mostrando dunque a livello internazionale come avvenga la collaborazione tra progettisti e settore della produzione.

di Veronica Dal Buono

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Materia
Materialexplorer
Material Skills

Materia
Statenweg 63c
3039 HD Rotterdam
P.O. Box 28131
The Netherlands
E-mail: info@materia.nl

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"Architectura sine luce nulla architectura est"*

In memoria di Vittorio De Feo


Castello di Eurialo a Siracusa (foto Alfonso Acocella)

La luce è materia e materiale
(Sulla natura materiale della luce)
Quando, infine, un architetto scopre che la luce è il cardine dell’architettura, solo allora inizia a capire qualcosa, a essere un vero architetto. La luce non è un’entità vaga, diffusa, che si dà per certa perchè è sempre presente. Il sole non sorge invano per tutti e tutti i giorni. Al contrario la luce, con o senza teoria corpuscolare, è qualcosa di concreto, preciso, continuo, certo. È materia misurabile e quantificabile, come ben sanno i fisici ma sembrano ignorare gli architetti.
La luce, così come la gravità, è una realtà inevitabile. Fortunatamente inevitabile, poichè, in definitiva, I’architettura si è sviluppata nel corso della Storia grazie a questi due elementi primigeni: luce e gravità. Gli architetti dovrebbero sempre portare con sè una bussola (per la direzione e I’inclinazione della luce) e un fotometro (per misurarne la quantità), così come si ricordano del metro, della livella e del piombino. Se la lotta per vincere, piegare la gravità si realizza in un dialogo che genera I’architettura, la ricerca della luce e la relazione che con essa si instaura sono i fattori che portano tale dialogo ai livelli più sublimi. Si scopre allora, felice coincidenza, che la luce è in verità la sola in grado di vincere la gravità.
Così, quando I’architetto riesce a ingannare il sole, la luce, perforando lo spazio creato da strutture più o meno massicce, rompe I’incantesimo e fa sì che tale spazio fluttui, leviti, voli. Santa Sofía, il Pantheon o Ronchamp sono prove tangibili di questa portentosa realtà.
Potremmo quindi dire che la chiave risiede nella comprensione profonda della luce come materia, come materiale, un materiale moderno? Non potremmo dire che è giunto il momento, nella Storia dell’architettura, quel momento terribile ed emozionante, di affrontare la luce? Sia fatta la luce! E luce fu. Il primo materiale della creazione, il più eterno e universale, assurge così a elemento centrale della costruzione, della creazione dello spazio, nel senso più moderno del termine.


Pantheon (foto Alfonso Acocella)

Sine luce nulla!
(Sulla luce come tema centrale dell’architettura)
Quando propongo l’assioma “Architectura sine luce nulla architectura est” intendo dire che niente, nessuna architettura è possibile senza luce. Senza di essa sarebbe esclusivamente una mera costruzione, mancherebbe un materiale imprescindibile.
Se mi si domandassero dei consigli su come distruggere I’architettura, suggerirei di chiudere I’anello del Pantheon o di coprire le vetrate che rischiarano la cappella di Sainte Marie de la Tourette. Se il nuovo sindaco di Roma, per impedire che nel Pantheon entrino pioggia o freddo, decidesse di chiudere I’anello di circa 9 metri di diametro che lo corona, accadrebbero molte cose… oppure no. L’incomparabile costruzione non ne risentirebbe, e tantomeno la sua perfetta composizione. Nè verrebbe meno la sua universale funzione. E, perlomeno per la prima notte, il suo contesto, l’Antica Roma, non se ne accorgerebbe. Ma la trappola più ingegnosa che I’uomo abbia teso al sole, e in cui I’astro regale è caduto con piacere giorno dopo giorno, verrebbe distrutta. II sole scoppierebbe in un pianto dirotto e con lui I’architettura, poichè sono molto più che amici.
Se nel convento della Tourette un frate domenicano appena arrivato, aIla ricerca di una maggiore concentrazione, chiudesse le vetrate e le aperture, scarse di numero ma precise, deIla cappella maggiore, accadrebbero anche qui molte cose… o il loro contrario. La robusta costruzione non cambierebbe. Nè la sua libera composizione. Le sue sublimi funzioni potrebbero continuare a essere espletate, forse con maggiore concentrazione, alIa luce delle candele. Nessuno nei dintorni ci farebbe caso o, comunque, non subito. Solo I’inquietante silenzio delle colombe, posate sull’edificio, finirebbe per avvertire i contadini del sacrilegio Ii compiuto. Lo spazio, più che concentrato, diverrebbe tenebroso. E i frati si renderebbero conto terrorizzati di come il loro luminoso canto gregoriano fatichi a salire dalle loro gole. Il monastero, e con lui I’architettura, si addentrerebbe nella notte scura.
Effettivamente, chiudendo I’anello del Pantheon e le aperture della cappella della Tourette avremmo posto fine alI’architettura, e con essa alla Storia.

Le tavole della luce
(Sul controllo esatto del!a luce)
Lorenzo Bernini, mago in questo campo, possedeva delle tavole per il calcolo esatto della luce che aveva creato lui stesso, del tutto simili a quelle che oggi si usano per le strutture, precise e minuziose. Ben sapeva il maestro che la luce, quantificabile e qualificabile come qualsiasi altra materia suscettibile di essere misurata, poteva essere controllata scientificamente. Purtroppo, al ritorno da un faticoso e sterile viaggio a Parigi per la costruzione del Louvre, il suo giovane e distratto figlio Paolo le perse. Il 20 ottobre del 1665, lasciando con sollievo la città che tanto I’aveva maltrattato, Bernini constatò con orrore che le sue tavole, più preziose per lui che le stesse Tavole della Legge, erano sparite. La ricerca fu vana. Chantelou, cronista puntuale e puntiglioso di quel viaggio in Francia, omise nel suo felice racconto qualsiasi dettaglio relativo a tale stortunato incidente. Si sa che Le Corbusier, anni dopo, rintracciò in una libreria della vecchia Parigi alcune delle pagine chiave dell’importante manoscritto che seppe usare con astuzia. Fu così che riuscì anch’egli a controllare la luce con esatta precisíone.
È che la luce è qualcosa di più che un sentimento, nonostante sia capace di suscitare emozioni negli uomini e di farli fremere nel loro intimo. La luce è, quindi, quantificabile e qualificabile, sia che si usino le tavole del Bernini o di Le Corbusier, la bussola, le mappe solari o il fotometro, plastici in scala o precisissimi programmi di informatica già sul mercato. La luce può essere controllata, domata, dominata. Il tutto a misura d’uomo, poichè è per I’uomo che si crea I’architettura.

La prova del fuoco
(Sui diversi tipi di luce)
Esistono molti tipi di luce. Vediamone alcuni; a seconda della direzione la luce può essere orizzontale, verticale, diagonale; in base aIIa qualità, possiamo distinguere la luce solida da quella diffusa. Nell’antichità, i nostri avi non erano in grado di far penetrare la luce dall’alto (quella che io definisco luce verticale) poichè, perforando il soffitto, insieme ad essa sarebbero entrati anche acqua, vento, freddo e neve. Non era certo il caso di morire per ottenere quel tipo di luce. Solo gli dei, immortali, osarono tanto nel Pantheon. E Adriano, in loro onore e di sua mano, innalzò quell’edificio sublime, profezia di futuri successi.
Nel corso della Storia dell’architettura, dunque, la luce è sempre stata orizzontale, ottenuta – com’era logico – perforando orizzontalmente il piano verticale, ossia i muri. Come i raggi del sole cadono su di noi diagonalmente, così gran parte della Storia dell’architettura può essere letta come il tentativo di trasformare la luce orizzontale o diagonale in luce che sembrasse verticale.
Lo stesso vale per il Gotico, che va visto non solo come il desiderio di creare una maggiore quantità di luce ma, fondamentalmente, di ottenere una luce qualitativamente più verticale, in questo caso diagonale. In ugual modo, molti degli interventi del Barocco sulla luce vanno considerati come il tentativo, grazie aIl’ausilio di ingegnosi meccanismi, di convertire la luce orizzontale in luce che sembrasse, e talvolta lo fosse di riflesso, verticale, ancor più verticale di quanto non fosse riuscito al Gotico. Il magnifico “Trasparente” barocco creato da Narciso Tomè nella bellissima cattedrale gotica di Toledo rappresenta una lezione magistrale.
Il tipo di luce – orizzontale, verticale o diagonale – dipende dalla posizione del sole rispetto ai piani che creano gli spazi. La luce orizzontale è prodotta dai raggi solari che penetrano attraverso aperture del piano verticale. Quella verticale si produce quando entra da aperture praticate nel piano orizzontale superiore. La luce diagonale attraversa sia il piano orizzontale che quello verticale.
Si comprende quindi il motivo per cui non sia stato possibiie creare luce verticale in spazi climaticamente controllati fino aIl’apparizione del piano di vetro di grandi dimensioni. E uno dei cardini del Movimento Moderno, dell’architettura contemporanea, risiede proprio nel trattamento della luce.


Basilica di San Pietro.

Con varie luci alla volta
(Sulla combinazione di diversi tipi di luce in un solo spazio)
Come Edison, che avrebbe poi inventato la luce elettrica (e quanto è difficile, ancora oggi, saperla usare bene!), Bernini, sommo maestro della luce, inventò quel metodo tanto semplice quanto geniale che è la “luce alla Bernini”. Utilizzando varie fonti visibili di luce, creava prima un ambiente di base con luce diffusa, omogenea, proveniente generalmente da nord, che illuminava e rischiarava lo spazio. E dopo averlo centrato geometricamente con le forme, zac!, irrompeva in un punto concreto, occultando la fonte agli occhi dello spettatore, con un cannone di luce solida (luce gettata) che diventava protagonista dello spazio. Il contrasto tra i due tipi di luce, produceva, creando una furiosa tensione, un effetto architettonico di altissima qualità. Esempio paradigmatico di questa operazione è Sant’Andrea al Quirinale: la luce solida, in visibile movimento, danza su un’invisibile luce diffusa in quieto riposo.
La luce, come il vino, oltre a distinguersi per categorie e sfumature, non permette gli eccessi. Mescolare diversi tipi di luce in uno stesso spazio, così come accade per il vino, annulla la possibile qualitá del risultato.
La combinazione adeguata di vari tipi di luce permette infinite possibilità in architettura, e Gian Lorenzo Bernini e Le Corhusier, Antemio di Tralle e Alvar Aalto, Adriano o lo stesso Tadao Ando, lo sapevano bene.

Finale
(Su come la luce e il tema)
In definitiva, la luce non è la ragion d’essere dell’architettura? La Storia dell’architettura non è ricerca, comprensione e dominio della luce? Il Romanico non è forse un dialogo tra le ombre dei muri e la luce solida che vi penetra come un coltello? E il Gotico non e un’esaltazione della luce che avvampa gli incredibiii spazi con fiamme ascendenti? Il Barocco non può forse essere considerato come un’alchimia di luce dove, sulla saggia mescolanza delle luci diffuse, irrompe un raggio forte, capace di produrre ineffabili vibrazioni? Infine, Il Movimento Moderno, abbattuti i muri, non è una inondazione di luce che ancora cerchiamo di controllare? Non è questa un’epoca in cui possediamo tutti i mezzi possibili per dominare la luce?
L’approfondimento e la riflessione sulla luce e sulle sue infinite sfumature devono essere I’asse centrale dell’architettura del futuro. Se le intuizioni di Joseph Paxton e i successi di John Soane sono stati il preludio aIIe scoperte di Le Corbusier e aIIe ricerche di Tadao Ando, il cammino è tuttavia ancora molto lungo. La luce è il Tema.
Ouando nelle mie opere riesco a far sì che gli uomini sentano il ritmo del tempo che regola la natura, armonizzando gli spazi con la luce, temperandoli con il cammino del sole, aIlora credo valga la pena fare architettura.

Alberto Campo Baeza

(*) ll presente saggio costituisce una sintesi della versione inglese editata di seguito. L’articolo in italiano è apparso sul numero di Domus n.760, 1994. Si ringrazia l’Autore per la disponibilità alla rieditazione.

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