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27 Maggio 2015

Design litico

DESIGN PER ESTERNI
Monoliti per la città e il paesaggio


Seduta in travertino di Rapolano disegnata dallo Studio Paladini.

I consistenti processi trasformativi di fine millennio che hanno investito i tessuti urbani e il forte ripensamento sulle condizioni dell’abitare contemporaneo rappresentano una grande opportunità per una riflessione cosciente sui modi d’uso dello spazio urbano. La creazione delle grandi periferie e la terziarizzazione dei centri storici sono evidenti conseguenze di un impiego indiscriminato del territorio, che soprattutto in Italia ha portato a pensare agli spazi aperti come semplici luoghi di transito, come superfici residue tra edifici trasformate senza regole e programmazione.
Una nuova presa di coscienza di tali problematiche da parte della classe amministrativa e l’influenza dei media che, a tratti, agiscono come promotori di nuovi valori culturali, estetici e sociali, stanno permettendo di riscoprire e valorizzare l’immagine della città attraverso la progettazione urbana, intesa come frutto di un’azione interdisciplinare e sistematica che porta alla ri-identificazione tra città e cittadino.
Sia da un punto di vista prestazionale, che estetico, la qualità di una città scaturisce anche da un progetto di “arredo urbano” consapevole e coerente che, nel rispetto del genius locale, sia concepito come strumento per la realizzazione di uno spazio pubblico significativo e pregnante.
Così il progetto dell’arredo urbano contemporaneo si basa sempre più sulla concezione di elementi capaci di conferire agli spazi tutti i caratteri che possono migliorare la qualità di vita dell’individuo nella fruizione della città, e affronta temi che investono molteplici aspetti dello sviluppo di prodotto: dalla semplice definizione tipologica, alla difficile scelta strategica dei materiali più appropriati per la realizzazione.
Dietro l’apparente semplicità formale di alcuni oggetti come panchine, portarifiuti e fioriere si cela una sostanziale “complessità caratteristica” di tali elementi, data dai requisiti che devono essere soddisfatti per rispondere coerentemente ad impieghi specifici. Parlare di complessità, in questo caso, significa riuscire a compendiare esigenze spesso tra loro contrastanti, quali durata e contenimento dei costi, qualità estetica ed unificazione dei componenti, innovazione formale e permanenza dei contenuti simbolici, resistenza agli atti vandalici e facilità di manutenzione.
E, del resto, in una condizione storica dove è in atto un sostanziale ripensamento della forma urbis, l’arredo urbano costituisce uno strumento fondamentale per tale trasformazione non solo da un punto di vista espressivo e prestazionale, ma anche da quello della sostenibilità ambientale dei processi produttivi, e della eventuale dismissione degli elementi alla fine del loro ciclo di vita utile.


Seduta in travertino massello firmata da Studio Paladini.

La progettazione di oggetti “friendly”, caratterizzati da forme e linguaggi rassicuranti e comuni alla nostra cultura, sia sotto il profilo tipologico che materico, è indubbiamente più apprezzabile per il pubblico rispetto alla ideazione di oggetti misteriosi contraddistinti da forme avveniristiche, spesso incapaci di evocare il giusto mix tra emozione e ragione, tra modernità e nostalgia di cose passate che, attraverso il filtro della memoria, risultano più facilmente inseribili nel contesto della scena urbana.
Affinché ciò si verifichi risulta di fondamentale importanza la scelta dei materiali impiegati, con una chiara predilezione per quelli naturali; importante è poi la capacità di esprimere l’identità di un luogo attraverso gli elementi costruttivi. Non a caso nell’immaginario collettivo l’idea di costruzione si identifica spesso con materiali tradizionali e corposi come la pietra: quest’ultima è infatti la materia che meglio caratterizza gli spazi aperti, “raccontando” i luoghi ed esprimendone l’identità come presenza materica d’elezione per le architetture pubbliche storiche.
Tali riflessioni hanno portato chi scrive, unitamente allo Studio Paladini, a sperimentare in questi anni l’utilizzo del materiale lapideo per la produzione di elementi per arredo urbano che hanno dimostrato come la qualità di un progetto mirato alla reinterpretazione del contesto abitato può essere individuata nell’uso abile e consapevole di un unico litotipo – nel caso specifico del travertino – con ottime prestazioni funzionali, espressive e in termini di sostenibilità della filiera produttiva. In relazione a quest’ultimo aspetto, infatti, va sottolineato come tali sperimentazioni, in modo del tutto innovativo, reimpieghino scarti di cava con notevoli vantaggi rappresentati dallo sfruttamento ragionato di una risorsa non rinnovabile come la pietra, dall’aumento dell’efficienza del processo produttivo con l’incremento del rapporto tra materiale utilizzato e materiale estratto, e dalla diffusione virtuosa di una cultura d’impresa eco-compatibile. Spesso il materiale di scarto è costituito da blocchi di travertino di seconda o terza scelta che differiscono dalla prima solo per una forte stonalizzazione cromatica, o per la presenza di vuoti o, ancora, per venature troppo accentuate. L’attenta azione progettuale ha trasformato tali caratteristiche discriminanti in peculiarità.
La scelta del travertino per dar vita a sedute, dissuasori, fioriere, portarifiuti e dispositivi murari modulari per recinzioni e setti di contenimento, va infatti giustificata non solo in base a caratteristiche prestazionali della pietra quali la resistenza meccanica e la durevolezza, ma anche, e soprattutto, in base alla fisicità del materiale, alla capacità espressiva delle sue disomogeneità, al continuo variare della sua colorazione animata da vacuoli e punti di lieve disgregazione che, invece di essere riguardati come difetti, sono da considerare come veri e propri motivi di pregio che denunciano la struttura primigenia del litotipo. Sono tutti questi aspetti a determinare per il travertino un autentico valore aggiunto: le sue superfici sembrano intrecci tessili, disegnati e decorati dal lento procedere della litogenesi del banco roccioso.

Ogni più piccola frazione di materia litica ha la sua storia, i suoi colori e la sua trama, e ci parla degli innumerevoli ossidi colorati che sono entrati a far parte della sua struttura marcatamente porosa; le piccole impronte che vi si rintracciano ricordano fossili animali o piccole piante, segni del mutamento, pause e accelerazioni nel percorso fatto da questa pietra prima di essere cavata e sottoposta a lavorazione.
La disomogeneità iniziale del blocco rimane caratteristica peculiare del travertino anche quando esso assume forme plastiche, architettoniche o di design, ed entra a far parte di una realizzazione progettata dove l’espressione formale si fonde, così, con l’imprevedibilità della natura.
Così, le peculiarità formali del materiale conferiscono alle tipologie tradizionali degli arredi per la città un valore estetico inusuale; l’uso di questa pietra, non certo inedita, ma per lungo tempo dimenticata nella progettazione dello spazio pubblico, dona di volta in volta una “personalità” diversa ai pezzi pensati per una riproduzione in piccola serie o in collezioni comunque personalizzabili.
Di fatto ogni elemento si differenzia rispetto agli altri a causa delle trame e dei cromatismi cangianti del materiale.
Un ragionato concept formale e produttivo, messo a punto dai designer in stretta collaborazione con la realtà aziendale che ha realizzato la linea, è riuscito a coniugare le istanze di un processo di disegno industriale di terzo millennio con le qualità artigianali inscindibilmente legate alla tradizione delle lavorazioni lapidee e, soprattutto, con il rispetto e la valorizzazione della naturalità della materia litica.
L’impiego del travertino in forme monolitiche dai profili rigorosi ed essenziali, prive di laboriosi trattamenti superficiali e di assemblaggi con collanti o giunti di qualsiasi tipo, ha consentito di semplificare le procedure di approvvigionamento e movimentazione del materiale e di accorciare in modo sostanziale la filiera produttiva ridotta ai due soli passaggi della sagomatura con filo diamantato a controllo numerico e della finitura degli spigoli. Inoltre il disegno dei pezzi, di frequente ottenuti per parti in positivo e in negativo da uno stesso blocco, ha portato ad un pressoché totale azzeramento degli scarti di lavorazione.


Chaise longue in travertino di Rapolano disegnata da Augusto Mazzini.

Oltre a garantire economie di ciclo produttivo ed evidenti ottime prestazioni in termini di durevolezza, la monoliticità che caratterizza l’arredo urbano in travertino, restituisce alla pietra la sua giusta autorità dimensionale, e la rende portatrice di valori estetici e traslati connessi ad una città stabile, sobria, accogliente, priva di sovrastrutture superflue ed effimere. La pietra insomma, vista, toccata, fruita, nella sua verità fisica, fatta di gravità, spessore e tessitura materica naturale disposta ad invecchiare senza disgregarsi, è interpretata come elemento fondante e non puramente decorativo di uno spazio pubblico che deve soddisfare le esigenze primarie della collettività senza cadere nella ridondanza semantica e figurale.
La conoscenza profonda delle qualità fisico-meccaniche del travertino ha portato al design nitido e rigoroso di volumi rettificati o lievemente sinuosi in cui la pietra è libera di esprimersi dal punto di vista estetico e trova una piena valorizzazione delle sue elevate prestazioni di resistenza all’usura e all’azione degli agenti atmosferici e inquinanti. Il linguaggio della linea di arredo in pietra non scaturisce quindi da un manierismo minimalista, bensì da un profondo rispetto della materia litica stessa, modellata per dar vita a elementi capaci di soddisfare le singole istanze dell’utente, contemplando la possibilità di personalizzare le composizioni dei pezzi o di concepire tipologie di oggetti completamente nuove ed esclusive, accentuando così l’unicità e l’identità di un luogo.
Tutto ciò è scaturito da una concezione progettuale di tipo integrato, finalizzata a dare risposta sia alle esigenze di chi sceglie, sia a quelle di chi usa i prodotti di arredo, puntando sulla versatilità e sulla possibilità di innumerevoli giochi compositivi tra i diversi elementi modulari di muri, sedute, dissuasori, fioriere. Dunque flessibilità, capacità di trasformazione, componibilità: tutte caratteristiche che tracciano uno scenario evolutivo, determinando una nuova frontiera della progettazione sì urbana ma anche del paesaggio. Infatti, la presenza degli oggetti in travertino ha forse trovato la sua massima espressione in un’opera di landscape design realizzata di recente a Lajatico, nella parte meridionale della provincia di Pisa: si tratta del
Teatro del Silenzio, un luogo destinato ad accogliere manifestazioni di arte, musica e danza, sullo sfondo della morbida orografia della Valdera.


Blocchi di travertino rapolanese fanno da sfondo a una grande scultura di Igor Mitoraj nel Teatro del Silenzio (2005) di Lajatico.

Il progetto si esplica attraverso pochi e mirati interventi tesi a esaltare l’espressività intrinseca del territorio e trova la sua maggiore qualità nel misurato e rispettoso rapporto con l’esistente.
L’unico segno architettonico è costituito da un anfiteatro costruito con blocchi di travertino che con le loro consistenti dimensioni e il loro aspetto rustico e naturalistico vogliono restituire simbolicamente il valore di eternità dell’opera d’arte. La quinta litica, creata sfruttando la naturale conformazione di una collina, presenta una disposizione a semicerchio di monoliti con finitura superficiale a spacco, che danno vita ad un palcoscenico fortemente caratterizzante. Al centro dello spazio “teatrale” si erge una imponente scultura raffigurante un volto umano eseguita da Igor Mitoraj. L’opera d’arte da oggetto di ammirazione di dimensioni contenute, collocato in una realtà architettonica, assume dimensioni territoriali e paesaggistiche; è il luogo stesso a trasformarsi in opera d’arte, plasmato dalle mani dell’artista che in questo modo lo concettualizza.
In quest’ottica il landscape design, come l’urban design, rappresenta oggi un’evoluzione del concetto moderno di progettazione paesaggistica o urbana e, affrontando un luogo come un campo d’indagine, esso può diventare uno strumento potente, aperto a varie esperienze progettuali tese a riscoprire, o a ripensare, l’identità degli spazi in cui viviamo nel segno di un connubio armonico tra rispetto della storia e della natura e innovazione formale e tecnologica. Nell’era della globalizzazione, in cui sempre più spesso tensioni omologanti appiattiscono e banalizzano i paesaggi urbani e naturali, il progetto dello spazio aperto torna ad essere strategico per la conservazione e la rigenerazione delle tante identità cittadine e territoriali che rappresentano, soprattutto per il nostro Paese, un carattere storico irrinunciabile e, al contempo, un’opportunità di valorizzazione culturale e turistica.

di Raffaela Zizzari

Leggi anche I dispositivi costruttivi del travertino: Pavimenti

Il presente saggio è tratto dal volume Travertino di Siena a cura di Alfonso Acocella e Davide Turrini

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22 Maggio 2015

Letture

NARRAZIONI DI DESIGN LITICO
Il marmo nella cultura progettuale contemporanea


La copertina del volume

In una veste grafica particolarmente raffinata e innovativa, il testo di Davide Turrini indaga la molteplicità di utilizzi dei materiali litici nella contemporaneità. Il volume è strutturato in due parti ben distinte e al contempo complementari. Nella prima, l’Autore intervista sei protagonisti del design internazionale, ponendo l’accento sul rapporto che questi ultimi hanno con la pietra e il marmo. Le interviste a Michele De Lucchi, Hikaru Mori, Philippe Nigro, Snøhetta, Manuel Aires Mateus e Grafton Architects, effettuate tra il 2007 e il 2014 tra Milano, Verona e Ferrara, sono incentrate sulle modalità di approccio al lavoro da parte degli architetti e dei designer, sui progetti in corso e, talvolta, su quelli futuri. La seconda parte del volume analizza in maniera puntuale alcune opere litiche dei progettisti intervistati, con particolare riferimento ad allestimenti ed arredi realizzati da questi ultimi nell’ambito delle sperimentazioni dell’azienda Pibamarmi, ma anche in altri contesti applicativi e produttivi. Stupisce la diversità di approccio che questi autori hanno con la pietra e col marmo, così come sorprende il metodo di lavoro spesso profondamente diverso.


Hikaru Mori, studio grafico per una vasca in pietra, 2007

Si passa dall’orientamento militante e partecipativo del gruppo norvegese Snøhetta, all’interesse per il paesaggio e per certi archetipi costruttivi dei dublinesi Grafton Architects, nelle cui opere traspaiono influenze del passato più o meno remoto, dal negozio Olivetti a Venezia di Carlo Scarpa, fino alla scala michelangiolesca del ricetto della Biblioteca Laurenziana di Firenze. Nel caso di Manuel Aires Mateus la pietra è un medium indispensabile per rielaborare una concezione dello spazio e della materia mediata attraverso la lezione di Alvaro Siza, mentre nel lavoro della giapponese Hikaru Mori traspare il riuscito connubio tra tradizione orientale e contemporaneità, continuazione ideale di quanto già tracciato nel Novecento da architetti del calibro di Kenzo Tange, Arata Isozaki e Tadao Ando. Obiettivo ultimo del volume, peraltro pienamente raggiunto da Turrini, sta nel dimostrare come la pietra e il marmo, materiali della tradizione per antonomasia, possano trovare una nuova vita, con risultati di sicuro interesse, nel design contemporaneo.

Davide Turrini, Narrazioni di design Litico, Mantova, Trelune Edizioni, 2014, 154 pp., ill., euro 16,00, pubblicazione bilingue in italiano e inglese.

di Costantino Ceccanti

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18 Maggio 2015

Opere di Architettura

Rosso India in una verde Berlino


L’Ambasciata della Repubblica dell’India su Tiergartenstraße a Berlino. (Photo Erika Pisa)

Da Adenauer Allee 262-264, nella città di Bonn, al Tiergartenstraße 16/17 di Berlino. Gli uffici per il Ministero degli Esteri d’India trovano oggi il loro posto a seguito della decisione presa il 20 giugno 1991, data in cui il ruolo di capitale tedesca passava dal provvisorio centro nella Renania settentrionale a quello simbolo della nuova liberazione situato più ad est.
Inizialmente, le funzioni amministrative riguardanti gli Affari Esteri furono collocate nel distretto di Pankow, rivelatosi poi troppo distante dal centro amministrativo e poco consono rispetto al contesto in cui desideravano risiedere i delegati. Gli emblemi diventano richiesta fondamentale per una committenza, che deve espletare funzioni di rappresentanza, e l’icona reclama la sua influenza attraverso le immagini.
L’esercizio del potere svolge le sue attività regolando i rapporti attraverso molti organi, che in quest’area si concentrano lungo un percorso sull’asse urbano ovest-est. Molte delle nazioni rappresentate nel Paese tedesco hanno previsto un edificio che risolvesse le questioni legate agli impegni interterritoriali in questa zona.


A sinistra l’Ambasciata della Repubblica dell’India; a destra l’Ambasciata del Sudafrica. (Photo Erika Pisa)

Le diverse ambasciate presenti, per la loro progettazione, hanno portato nella capitale architetti connazionali con lo scopo di riuscire a figurare lo spirito della nazione di appartenenza, per meglio chiudere il processo di corrispondenza all’estero, pur mantenendo la propria identità.
La Repubblica dell’India, contrariamente alle prassi d’incarico effettuate da altri uffici amministrativi, ha evitato di indicare specifici progettisti di bandiera, lasciando il posto ad uno studio d’architettura di Berlino selezionato tramite un concorso pubblico, Léon Wohlhage Wernik.
La competizione del 1998, istituita dallo Stato indiano a seguito dell’acquisizione dell’area avvenuta nel 1996, definì la volontà di tradurre la propria immagine in un’architettura capace di rendersi rispettosa della tradizione, ripercorrendo un rituale di contestualizzazione compositiva dei simboli da ospitare in osservanza del Paese ospitante.
L’origine dei contrasti di luce e ombre in facciata, che rendono più ruvida la stereotomia, deriva dalla natura morfologica del materiale lavorato e montato privilegiando le superfici di rottura irregolari. Così la pietra séguita nella sua prevalente attitudine, costruendo ogni volta una definizione emozionale degli spazi che caratterizza.


Particolare dell’accesso dell’Ambasciata indiana. (Photo Erika Pisa)

È un contatto serrato con i colori vivi di un’India restituita come in una foto di viaggio, poggiata tra i grossi oggetti d’architettura ordinati lungo il Tiergartenstraße. Un frammento, caldo e vistoso, che non rinuncia ai suoi materiali, primi ambasciatori di una terra. La pietra notevolmente increspata individua la provenienza dell’arenaria Barauli utilizzata in facciata, le cave rosse di Jaipur nel desertico Rajasthan, a nord-ovest dell’India. La richiesta di questo materiale deriva da una pratica consolidata nei secoli dalla storia indiana, infatti i cosiddetti “Palazzi di Segreteria” e altre opere più antiche hanno trovato in questa arenaria l’identità della loro cultura.


Atrio cilindrico d’entrata dell’Ambasciata indiana. (Photo Erika Pisa)

Esternamente, la mole sembra essersi sviluppata da un unico solido scavato fin dove i suoi confini si sono arricchiti di prospettive, fatte per essere svelate attraverso i dettagli e le corti interne, che illuminano, dal centro, gli ambienti degli uffici circostanti.
L’ingombro totale del volume, circa 40 metri sul fronte strada per 80 metri di profondità, coincide quasi interamente con il perimetro della proprietà, sviluppando solo internamente un sistema di spazi articolato relativo alle funzioni e ai flussi degli uffici.
Il lotto sviluppa approssimativamente una superficie di 3500 m, costituendo, tra gli altri organi istituzionali e le varie delegazioni statali, un brano di città immobile e taciturno all’ombra dei grandi centri, più popolati e turisticamente attrattivi.


Il blocco dell’Ambasciata indiana visto da Tiergartenstraße. (Photo Erika Pisa)

Il taglio e il disegno dei conci descrivono tecniche costruttive diverse, messe in atto in base alla quota del prospetto cui si riferisce.
Lastre in pietra staffate al muro retrostante rivestono la base dell’edificio, con spessori che collaborano alla stabilità degli elementi che risultano essere autoportanti.
In altre parti dell’involucro, pannelli assemblati fuori opera assestano il materiale lapideo ancorandolo al cemento in altezza. Le metodologie utilizzate hanno reso possibile la costituzione di un oggetto intagliato per dare spazio al complesso organismo fatto di sequenze spaziali introdotte da un atrio d’entrata cilindrico. Gli antri e le corti che compongono l’usuale città indiana si ritrovano nella concezione secondo cui l’interno è difficilmente visibile dall’esterno.


Particolare del paramento murario in facciata. (Photo Erika Pisa)

Gli accessi e le percorrenze avvengono attraverso sale ornate da Jali lavorate in Barauli in moduli di 1×2 m, tipiche chiusure scolpite, che all’occorrenza sviluppano ampi movimenti rotatori.
Disporre dei materiali del Paese d’origine non è sempre facile, ma i committenti in tal caso erano fortemente interessati al loro impiego, riuscendo per questo ad ottenere finiture realizzate con i differenti calcari e le varie arenarie provenienti dalle cave indiane, dal calcare verde del Kotah e il granito nero del Jhansi, entrambi lucidi, al calcare nero Kaddakappa delle piccole piazze poste tra i camminamenti.


A sinistra la giuntura d’angolo dell’involucro; a destra vista laterale dell’Ambasciata. (Photo Erika Pisa)

La massa e la geometria scrivono le regole della percezione, disegnando in casi analoghi a questo definizioni per una tipologia riconducibile ad un’architettura di rappresentanza.
Se i materiali, però, non aiutassero a raccontare di terre e storie altre, si peccherebbe di retorica e quando questi sono considerati i veri responsabili del senso del progetto, si caricano di un compito da assolvere, che nel caso dell’Ambasciata diventa rappresentare la solidità della propria diplomazia, dalle vesti in pietra.


Vista aerea del contesto. (Google Map) Clicca per ingrandire l’immagine

di Nicola Violano

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13 Maggio 2015

News

La stanza da bagno del viticoltore biodinamico

EERA soluzioni in pietra per l’architettura è il primo atelier italiano dedicato alla pietra per il mondo wellness, Spa e bagno, nato dalla passione e dall’esperienza dell’azienda CEV per la lavorazione di questo materiale. Un luogo di incontro per architetti e designer. Un vero e proprio laboratorio di conoscenze e progetti, dove la materia prima trova la sua massima espressione in creazioni uniche: nello showroom EERA soluzioni in pietra per l’architettura, dove sono presenti sei “ambienti bagno” e una zona wellness realizzati in pietra naturale, si possono scoprire le ultime novità del settore, con la possibilità di incontrare partner ideali per realizzare progetti insieme.
In EERA, la pietra non è semplicemente materia prima, ma un “elemento primordiale”, versatile e dinamico, da cui scaturiscono vere e proprie opere d’arte. Un materiale durevole e sostenibile, che permette di realizzare creazioni di eccellente qualità estetica e funzionale.
Dall’attenzione e dalla sensibilità di EERA per la qualità e per l’ambiente, nasce la volontà di coinvolgere gli “addetti ai lavori” in un progetto che sia in linea con i valori dell’azienda: con la prima edizione del concorso di interior design “la stanza da bagno del viticoltore biodinamico” — ideato con la collaborazione e il patrocinio della Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano, curatela scientifica Professor Kuno Prey — architetti e designer sono chiamati a progettare uno spazio bagno (che entrerà a far parte del prestigioso showroom EERA) dedicato a questa figura, oggi così attuale, e
attenta alle esigenze della natura.
Il viticoltore biodinamico coltiva i suoi vigneti secondo i principi della filosofia olistica e quindi della biodinamica. Segue i cicli della luna, alimenta i suoi terreni esclusivamente con concimi naturali e usa “nemici naturali” per combattere i parassiti. Rispetta la natura per ottenere uve dalle quali, sempre secondo i principi della vinificazione biodinamica, produrre vini d’eccellenza. È una persona che vive in piena armonia con la terra, che conosce nei minimi dettagli. Come sarà la sua stanza da bagno, luogo dedicato alla cura del corpo?

Tema del concorso
La stanza da bagno del viticoltore biodinamico
La stanza da bagno dovrà essere realizzata almeno per il 30% in marmo, anche di diversi tipi. Il restante 70% potrà essere costituito con altri materiali naturali e soluzioni ecosostenibili.

La segreteria del concorso ha sede presso:
OMNIA Relations
Via Casoni, 25
40054 Casoni di Mezzolara, Budrio (BO)
T + 39 051 6939166_6939129
Eventuali richieste di chiarimento e informazioni possono essere inoltrate, in forma scritta, all’indirizzo
email: eera@omniarelations.com

Scarica il regolamento del concorso

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11 Maggio 2015

Opere di Architettura

Centro ricerche e monitoraggio di Laguna Furnas
Aires Mateus & Associados
Isole Azzorre, Portogallo, 2008-2010

Astrarre la materialità della pietra
Le architetture dei fratelli Manuel e Francisco Aires Mateus sono caratterizzate da forme scultoree che si stagliano pure e conchiuse in se stesse, accessibili soltanto attraverso rari tagli netti o sottili fessure.
Il principio generatore di tali opere è quello della continuità di superficie, di una piena omogeneità di tessiture materiche che si estendono piatte, o si ripiegano, a creare corpi solidi, chiaramente leggibili come volumi di accentuata tridimensionalità o come semplici setti murari, costruiti per comunicare un forte carattere di permanenza. Con grande frequenza le stesure parietali scelte dagli architetti di Lisbona sono lapidee e sono realizzate in forma di rivestimenti reiteratamente stratificati in senso orizzontale, a tratti interrotti da vuoti sensibilmente ombreggiati, disegnati per accentuare il carattere geometrico di un dispositivo litico che diviene pura stilizzazione contemporanea di una stereotomia muraria archetipica, salda ed essenziale.
«Il muro di pietra è una delle più alte declinazioni architettoniche della materia, è ideale per definire e conchiudere lo spazio delle mie opere, che vedo come “contenitori di vita” destinati a durare. Voglio rapportarmi con la continuità della Storia e la pietra mi permette di farlo poiché resiste al trascorrere del tempo; stratificata nel dispositivo murario essa esprime un’idea di permanenza che mi sembra fondamentale per la realizzazione di edifici significativi per dimensioni e destinazioni funzionali in riferimento alla città»1.


Veduta del prospetto sud-ovest

È Manuel Aires Mateus, in una recente intervista, ad assegnare con queste parole un primato alla muralità litica, tema che con il fratello egli ha più volte rielaborato in realizzazioni complesse, pensate per trovare un rapporto di commisurazione con il contesto, affermando sì la loro presenza ma in una relazione dialogica con un intorno materiale precostituito. Nei muri dei Mateus la predominante continuità della materia lapidea è resa maggiormente leggibile da rari episodi di lieve sospensione, cesura parziale, o interruzione decisiva; uno iato, una trama chiaroscurale o una netta fenditura
possono discretizzare la stesura litica, esplicitandone la qualità e l’estensione. La parete in pietra non viene quindi negata ma – colta nella sua essenza materica, geometrica e proporzionale, nonché liberata dalla sua ponderosa gravità – è tramutata in rinnovata icona archetipica bidimensionale, capace di dettare un codice figurale originale per la città storica e contemporanea.
La coerente e incessante ricerca condotta dai progettisti lusitani sulla materia, sulle riduzioni e sottrazioni formali ad essa applicate, è approdata di recente ad una nuova serie di realizzazioni nella valle di Furnas, nelle isole Azzorre. Le architetture fanno parte di un piccolo insediamento sparso, per la fruizione turistica e il monitoraggio scientifico di una laguna termale incastonata in un habitat naturale di alto valore, dove l’orografia rocciosa insulare e la vegetazione presentano una forza formidabile. Il grigio basalto vulcanico locale, impiegato da Manuel e da Francisco per comporre tessiture rettificate e omogenee con cui rivestire i muri e le coperture dei corpi di fabbrica, ha conferito alle architetture l’aspetto di monoliti primigeni che ben
presto, con la patina di alcune stagioni, sembreranno perdersi nella continuità del paesaggio. Gli spazi interni sono interamente rivestiti in legno.

Ricercare una costruzione litica essenziale e sommessa, non ha significato per i Mateus imboccare scorciatoie nel processo progettuale tecnologico: tutta la pietra è stata disegnata, ogni elemento costruttivo è stato studiato fin nei dettagli più minuti per assicurare alla vista dell’osservatore una continuità materica assoluta; ciò è particolarmente evidente nelle parti angolari o di bordo dei rivestimenti, o nei cambi di giacitura dei piani tra pareti verticali e coperture inclinate, o ancora nei raffinati punti di connessione tra facciate e infissi, o infine nei cambi di quota e di pendenza delle stesure pavimentali esterne. L’anima strutturale degli edifici è costituita da gusci in cemento armato ricoperti da placcature lapidee montate a secco. In tali tessiture il basalto è presente in formati medio-piccoli, giustapposti con giunti estremamente esigui; masselli di circa 8 centimetri di spessore per i rivestimenti, e lastre di circa 3 centimetri per i manti di copertura, danno vita a superfici litiche ininterrotte per la cui Astrarre la materialità della pietra valorizzazione anche le gronde e i pluviali sono stati celati in un’intercapedine ricavata tra la struttura concretizia e i rivestimenti.
Due sono gli edifici a oggi realizzati: il centro di accoglienza, ricerca e documentazione, e gli alloggi temporanei per i ricercatori. Il primo – di impianto quadrangolare con copertura a falde – è organizzato attorno ad un patio ricavato per sottrazione dal cuore del volume costruito; tale spazio costituisce un’ampia fonte di luce e aria per i vani interni e consente di rivolgere verso il paesaggio prospetti completamente ciechi che aumentano il carattere monolitico dell’architettura.


Veduta della sala con sezione a capanna

Dal patio, come per gemmazione, nascono tre ambienti principali destinati all’accoglienza del pubblico o a piccoli incontri e dibattiti; su tali ambienti poi, con lo stesso processo di progressiva articolazione spaziale, si innestano vani minori multifunzionali di impianto trapezoidale o triangolare, che vanno a saturare gli interstizi verso i muri d’ambito.
La forma unitaria ed elementare dell’edificio nasconde all’interno, nella sezione delle tre sale principali, tre archetipi della costruzione: la volta, la capanna, il padiglione, riconoscibili spazialmente e sinteticamente rappresentati anche all’esterno nel taglio delle aperture vetrate che si rivolgono al patio centrale. Il disegno di questi tre spazi, ricavato da un complesso diagramma di sottrazioni volumetriche che trae origine dalle linee di unione delle quattro falde del tetto, genera quindi a sua volta una straordinaria abbondanza di vuoti accessori, apprezzabili come laconiche cavità connettive che danno accesso a servizi e depositi.
Gli alloggi temporanei per i ricercatori sono organizzati invece in quattro unità distinte, raggruppate in un solo volume chiuso e compatto dall’impianto quadrato.
Anche in questo caso su di ognuno dei quattro spazi abitativi principali si innestano vani accessori configurati questa volta come neutre armadiature a muro o come ampie nicchie attrezzate. Ognuna delle basse facciate dell’edificio è bucata da una sola grande apertura che garantisce l’accesso e l’ingresso della luce, lasciando affiorare la fodera lignea interna in prossimità dell’involucro basaltico esterno.


A sinistra: vedute del fabbricato degli alloggi temporanei
A destra: un ingresso alla residenza; il blocco cucina inserito nell’intercapedine, completamente chiudibile con pannelli in legno.

È evidente che il lavorio progettuale degli Aires Mateus, focalizzato sul valore plastico, volumetrico, e in ultima analisi geometrico della materia, è accompagnato da uno studio accuratissimo degli spazi interni, visti come entità autonome capaci di condensare qualità ambivalenti ma non necessariamente contraddittorie:
nel cuore delle architetture di Manuel e Francisco si aprono infatti vani articolati e complessi, orizzontali o verticali, unidirezionali o animati da più assialità di sviluppo centrifugo o centripeto.
Oltre il limite, dietro alle pareti che definiscono all’esterno gli edifici, viene disvelata quindi una spazialità ricca e seducente, delimitata da piani pavimentali e da soffitti su quote diverse, rischiarata da molteplici fonti di luce. Ecco allora che mentre la materia si fa viepiù astratta, lo spazio si concretizza divenendo quasi entità tangibile, modellata e costruita con sapiente disegno.
Ciò accade anche negli edifici di Furnas dove la volumetria unica, nitida e orizzontale dei corpi di fabbrica rivestiti di pietra, cela all’interno spazi sostanzialmente autonomi, frazionati e articolati, interamente foderati di un legno naturale dalla calda cromia; al contrario del volto esteriore dell’opera, elementare ed ermetico, tali cavità sono autoriali, tonali, perfettamente distinguibili. Una volta di più un’intensa “volontà di forma” governa l’azione progettuale dei Mateus nella definizione di una spazialità densa e suggestiva, scavata nell’intimo di volumi architettonici impassibili e monocromatici.

di Davide Turrini


Schemi planimetrici del Centro di ricerca. Pianta e sezioni del Centro di ricerca

SCHEDA TECNICA
Titolo dell’opera: Centro ricerche e monitoraggio di Laguna Furnas
Indirizzo: Lagoa das Furnas, Azzorre, Portogallo
Data di progettazione: 2005-2007
Data di realizzazione: 2008-2010
Committente: Spraçores
Progettazione: Manuel e Francisco Aires Mateus
Design team: Patrícia Marques, Valentino Capelo de Sousa, Mariana Barbosa Mateus, Catarina Belo, Francisco Caseiro, João Caria Lopes
Direzione lavori: Gabinete 118, Açores, Portogallo
Strutture: Afa-Rui Furtado, Gaia, Portogallo
Impresa di costruzione: Somague, Açores, Portogallo
Materiali lapidei utilizzati: Basalto delle Azzorre (esterni), Ardesia (interni)
Fornitura pietre: Herdeiros de Agostinho Ferreira, Rabo de Peixe, Portogallo
Istallazione pietre: Somague, Açores, Portogallo

Per una documentazione completa dell’opera Download PDF

Rieditazione tratta da Glocal Stone, a cura di Vincenzo Pavan pubblicato da Marmomacc

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6 Maggio 2015

Opere di Architettura

Nella casa della vita – La cappella Finzi


Enrico De Angeli, cappella Finzi nel Cimitero ebraico di Bologna, 1938. Vista d’insieme da sud-est.

Enrico De Angeli (1900-1979) è stato uno di quegli architetti che per una concomitanza di circostanze non ha avuto modo di esprimere appieno il proprio talento. Accompagnato in vita dalla nomea di personaggio scomodo, polemico e in ricorrenti condizioni di ristrettezza economica, l’attenzione che a posteriori è stata dedicata ad una figura in cui «la solida preparazione tecnica ed espressiva» convive con «il tormento interiore che diventa estasi, visione, bellezza»1 resta prevalentemente limitata all’ambito bolognese in cui ha vissuto ed operato. Nel non ampio catalogo di opere costruite, la cappella Finzi nel cimitero ebraico di Bologna è un piccolo scrigno che silenziosamente condensa molti tratti della sua poetica in una ricercata semplicità che è, al contempo, ricca di una pluralità di riferimenti.
Non è tuttavia disponibile alcuna documentazione dell’iter ideativo e realizzativo dell’opera e questo è con ogni probabilità ricollegabile alle vicissitudini che l’architetto di origine ebraica deve fronteggiare all’indomani del suo compimento. A due anni da quello che è considerato il suo capo d’opera, la villa Gotti sulle prime pendici collinari bolognesi, la cappella è, infatti, realizzata nel 1938, ovvero nello stesso anno in cui prende avvio l’emanazione delle leggi razziali che per De Angeli hanno come conseguenza la radiazione dall’ordine professionale e, di lì a pochi anni, tragiche vicende familiari che lo segnano profondamente.
Nel suo archivio non vi è, in ogni caso, traccia di questo progetto e ciò nonostante egli fosse solito conservare meticolosamente tutto, come si può evincere anche dalla documentazione disponibile per altre opere cimiteriali: dalle prime ipotesi alla soluzione definitiva, dalla corrispondenza con la committenza ed i fornitori ai preventivi e agli ordinativi pressoché indispensabili per l’esatta identificazione dei materiali utilizzati2.


Enrico De Angeli, cappella Finzi nel Cimitero ebraico di Bologna, 1938. Vista d’insieme da nord-est.

L’unica, piccola testimonianza finora riemersa da quella che appare una vera e propria cancellazione della memoria è conservata nell’Archivio storico comunale: un carteggio risalente al 1939-40 concernente un intervento manutentivo, peraltro non eseguito, richiesto da un membro della famiglia, l’ingegner Rinaldo Finzi3.
Allo stato attuale, non resta pertanto che interrogare l’enigma dell’opera come oggi appare.
Una stereometria elementare propone la stilizzata rappresentazione dello spazio antistante ad un ambiente domestico: ortogonalmente ad un vano posteriore, addossato al muro di cinta del campo e a cui si accede attraverso la porta di ingresso alla “casa”, si stacca sulla sinistra un setto su cui poggia il “pergolato” sostenuto, all’altra estremità, da un pilastrino in tubulare metallico.
Prima e oltre il trattamento materico delle superfici, il conferimento di un’aura di solennità ed il collegamento con il divino è poi affidato all’armonia delle proporzioni: la composizione è inscritta all’interno di un parallelepipedo di altezza pari alla profondità e nel quale pianta e prospetto frontale sono quasi esattamente rettangoli aurei.
Attraverso un’interpretazione come sempre personale, perpetuità e vita quotidiana sono così ricongiunte in un’unica immagine che è riconducibile ad uno dei termini attraverso cui la tradizione ebraica definisce il cimitero: Bet Ha-Chaim, ovvero “casa della vita” o “casa dei viventi”.


Cappella Finzi, dettaglio dell’inferriata nel setto laterale e della porta di accesso al vano posteriore.

La struttura muraria è rivestita in granito grigio-verde e lo stesso materiale è utilizzato per il basamento con la pietra tombale di accesso alla cripta. Con una scelta che consente di armare l’esile struttura, la pietra artificiale, una graniglia piuttosto fine, è invece impiegata per realizzare il cordolo che avvolge la copertura piana e diviene, nella parte anteriore, trave portante del “pergolato”, evocazione mediterranea resa aulica dal rivestimento in rame.
In un’ampia porzione della parete frontale è poi impiegato un marmo verde; con questo materiale è realizzato il blocco in cui sono collocate dodici lapidi allineate e semplicemente portate in aggetto rispetto ai corsi delle lastre in granito che rivestono la parete, nonché i blocchi in massello che definiscono l’imbotte della porta d’ingresso al vano posteriore e l’antistante portale zoppo costituito da un piedritto e da un architrave ancorato al setto laterale.
A maggior ragione se rapportata al contesto bolognese di quegli anni, la modernità dell’opera è dirompente e del tutto in linea con quanto sostenuto già nel 1931 dal De Angeli critico: «La modernità è in atto, e – bella o brutta – si impone come tutte le cose vitali ed esuberanti»4. È un’idea di modernità che non ammette compromessi, tanto da spingere De Angeli, in uno dei suoi più noti ed appassionati contributi al vivace dibattito sull’architettura di quegli anni, a esprimere rincrescimento all’amico Giuseppe Vaccaro per la sua adesione all’operazione di “mediazione” messa in atto da Marcello Piacentini5.


Cappella Finzi, dettaglio della fioriera.

D’altro canto, come ha osservato Giuliano Gresleri, De Angeli «usa il “moderno” come categoria che accetta e sollecita la trasgressione» attraverso una «sperimentazione intellettuale orientata all’accettazione di un pluralismo di culture da egli singolarmente anticipato»6. In questo senso, egli è altrettanto convinto che la decorazione – che tiene a distinguere dal decorativismo – «è una istanza della psicologia umana (…) si voglia o no, noi tutti facciamo della decorazione»7.
All’astratta composizione dell’insieme e alla laconicità di sapore miesiano dell’apparato lapideo fa così da contrappunto l’inserimento di alcuni dettagli che affidano alla matericità del rame e del bronzo l’espressione di una figuratività che non rinuncia ad essere innovativa anche nel richiamare i simboli della tradizione ebraica e nel far ricorso ad abilità proprie delle arti decorative. All’interno di una griglia ancora geometrica, l’inferriata della finestra nel setto laterale presenta sull’asse verticale due stelle di David frapposte ad un riquadro centrale nel quale spiccano due mani aperte che si toccano. La fioriera a fianco della pietra tombale racchiude all’interno di due robuste linee una reinterpretazione del candelabro a sette braccia, proponendo una forma inedita che ha, al tempo stesso, una forte carica di arcaicità. Nella stessa direzione, una controllata monumentalità arcaica è evocata dalla porta di ingresso al vano posteriore, con il disegno a riquadri e all’interno di questi un più stilizzato candelabro a sette braccia, abbinata alla profonda imbotte e al portale in lastre di grosso spessore.


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Versione di progetto non realizzata con quinta a griglia in travertino; sezione. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Versione di progetto non realizzata con quinta a griglia in travertino; pianta. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Soluzione definitiva, preventivo per la fornitura dei materiali. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)

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Quale metafora dello scorrere del tempo e del ciclo della vita anche a fronte della morte, il “pergolato” che delimita lo spazio senza chiuderlo introduce poi un elemento di variabilità nella fissità dell’architettura: l’ombra che esso proietta scivola lungo la parete frontale durante il mattino, per distendersi a terra nel pomeriggio. Ed il segno netto, per quanto immateriale, dell’ombra proiettata da una griglia è di lì a poco riproposto, in questi casi come setto verticale, nella non realizzata cappella Fabrizi del 1939/418 e nelle prime versioni della tomba Caruso del 19429.

di Stefano Zagnoni

Note
1 Giancarlo Bernabei, Gli scritti e l’opera di Enrico De Angeli, Patron, Bologna 1985.
2 Il fondo archivistico De Angeli è conservato presso l’Ordine degli Architetti di Bologna all’interno dell’Archivio Architetti Bolognesi (AAB).
3 ASCBO (Archivio Storico Comunale di Bologna), Carteggio amministrativo, titolo VIII – R 4, PG 21754/1939.
4 Enrico De angeli, “La Triennale”, Il Tevere 19 agosto 1931, cit. in Giancarlo Bernabei, cit., p. 20.
5 Enrico De angeli, “Lettera aperta a Giuseppe vaccaro”, Il Tevere 4 giugno 1931, ora in Giancarlo Bernabei, cit., pp. 83-87 e in Michele Cennamo (a cura di), Materiali per l’analisi dell’architettura moderna. Il MIAR, Società editrice napoletana, Napoli 1976, pp. 338-341.
6 Giuliano Gresleri, “L’immaginaria architettura di Enrico De Angeli”, in Giuliano Gresleri, Pier Giorgio Massaretti (a cura di), Norma e arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna 1850-1950, Marsilio, Venezia 2001, p. 258.
7 Enrico De Angeli, “Architettura Sacra”, intervento al convegno “Dieci anni di architettura sacra Italia 1954-1955”, Bologna 1956, ora in Giancarlo Bernabei, cit., p. 137.
8 AAB-fondo De Angeli, b. 3R – 29.6.
9 AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1. Cfr. anche Daniele Vincenzi, “Enrico De Angeli”, in Beatrice Buscaroli, Roberto Martorelli (a cura di), Luce sulle tenebre – Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 269-70.

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5 Maggio 2015

News

Francesca Rizzi vince il concorso per il Logo di CFR, creare un futuro attraverso la ricerca

Francesca Rizzi, dell’Istituto di Istruzione Superiore Giovanni Valle di Padova, è la vincitrice del concorso diretto ad individuare logo e immagine coordianta del Consorzio Futuro in Ricerca, che potesse garantire un’immediata riconoscibilità e richiamare le origini  territoriali del CFR, che nasce dall’esperienza ventennale del Consorzio Ferrara Ricerche.

Il concorso è stato indetto lo scorso Novembre dallo stesso Consorzio Futuro in Ricerca in collaborazione con il Dipartimento di Architettura di Ferrara e con il Master in Comunicazione delle Scienze dell’Università di Padova ed era aperto a tutti gli interessati di età inferire ai 29 anni.

Dei 36 elaborati pervenuti, il progetto presentato da Francesca Rizzi è stato giudicato dalla Commissione aggiudicatrice “estremamente attuale, ben leggibile nei vari formati e riportante in filigrana un chiaro riferimento  alle origini territoriali”. Francesca Rizzi si è quindi aggiudicata il premio del valore di 2.000 euro lordi in buoni d’acquisto per materiale grafico o scientifico.

Secondi ex aequo si sono classificati Mattia Quaglio, dell’Istituto di Istruzione Superiore De Amicis di Rovigo (motivazione: il progetto rappresenta un interessante tentativo di fondere il logo  di CFR con una raffigurazione di atmosfera urbana ferrarese)  e Luana Bertiè dell’Istituto di Istruzione Superiore De Amicis di Rovigo (motivazione: il progetto ha carattere di essenzialità e dinamismo figurativo) A ciascuno è andato un buono d’acquisto per materiale grafico o scientifico di 500 euro lordi.

Menzioni speciali per l’equilibrio compositivo fra caratteri tipografici e composizione figurativa a Carlo Ricci e Linda Cauduro.

La cerimonia di premiazione del concorso si è svolta il 27 Aprile nella splendida cornica di Palazzo Tassoni Estense, sede del Dipartimento di Architettura, alla presenza del Prof. Giovanni Fiorentini, Presidente della Commissione di Valutazione e del CFR, del Prof. Pasquale Nappi, Rettore dell’Università degli Studi di Ferrara, del Prof. Alfonso Acocella, Coordinatore del corso di laurea in Design del prodotto industriale dell’Università di Ferrara e del Prof. Alessandro Pascolini, Direttore del  Master in comunicazione delle scienze dell’Università di Padova.

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Presentazione CONSORZIO FUTURO IN RICERCA

Chi siamo
Il Consorzio Futuro in Ricerca (CFR) è un’organizzazione non-profit, a partecipazione pubblica e privata, i cui obiettivi principali sono la promozione, lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse umane, scientifiche, tecnologiche ed economiche del territorio ferrarese. Nato nel 1993 come Consorzio Ferrara Ricerche, CFR ha assunto la nuova denominazione nel 2014 in considerazione della proiezione nazionale e internazionale della propria attività.
Nell’ottica del miglioramento degli standard qualitativi del proprio sistema di gestione, il CFR ha acquisito la certificazione UNI EN ISO 9001:2000 – Sistemi di Gestione per la qualità.
Che facciamo
La missione del Consorzio è promuovere e sostenere la ricerca, l’innovazione e il trasferimento tecnologico, ponendosi come interlocutore privilegiato per Università, Centri di Ricerca, Enti Pubblici, Imprese Industriali, in Italia e all’estero, favorendo l’incontro tra i generatori di know-how, le organizzazioni industriali ed il mondo del lavoro.
Tre sono i settori in cui si svolgono le attività del CFR:
la promozione della ricerca precompetitiva ed il trasferimento tecnologico finalizzato all’applicazione industriale;
i finanziamenti comunitari, nazionali e regionali e il coordinamento delle attività pertinenti alle diverse tipologie di intervento;
il coordinamento e l’organizzazione  di manifestazioni scientifiche nazionali ed internazionali, Master post-universitari, corsi di alta formazione ed eventi ECM (Educazione Continua in Medicina) per medici e operatori sanitari.
A chi ci rivolgiamo
UNIVERSITA’: il CFR, nato come elemento cardine nell’organizzazione ed amministrazione dei progetti di ricerca applicata dell’Università degli Studi di Ferrara, collabora con Università e centri di ricerca nazionali e attiva collaborazioni e scambi anche con Università estere.
ENTI PUBBLICI: il CFR gestisce contratti e convenzioni per attività di ricerca in collaborazione con Enti Pubblici Nazionali, Regionali e Locali al fine di incrementare lo sviluppo tecnologico e scientifico del territorio.
IMPRESE: il CFR si pone come elemento di raccordo e punto di incontro tra il mondo della ricerca e le Imprese territoriali, al fine di garantire il trasferimento delle conoscenze e delle competenze dai laboratori ai Consorziati e ad Enti pubblici o privati.

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4 Maggio 2015

News

Habitissimo lancia il premio internazionale Proyectissimo 2015

Concorso Proyectissimo 2015
Habitissimo lancia il premio internazionale Proyectissimo 2015 per premiare i migliori progetti di ristrutturazione e lavori di casa
? Habitissimo vuole premiare i migliori progetti di ristrutturazione e lavori di casa in Spagna, Italia, Messico, Cile, Argentina, Colombia e Portogallo e per questo lancia la seconda edizione del concorso Proyectissimo 2015.
? Potranno partecipare al concorso online tutti i professionisti che abbiano realizzato progetti di ristrutturazione, decorazione e sostenibilità.
? La presentazione dei progetti potrà realizzarsi tra il giorno 1 Maggio fino al 31 Maggio, rispettando la base del concorso indicata nella web.

Proyectissimo 2015 è il concorso organizzato da Habitissimo, il principale marketplace online di ristrutturazione, lavori edili e servizi per la casa. Il concorso nasce con l’obiettivo di spingere quelle idee e progetti di costruzione, ristrutturazione e decorazione che apportino sostenibilità sociale, economica e ambientale nella progettazione di case private, locali e strutture commerciali.
Proyectissimo si lanciò per la prima volta in Spagna e nell’edizione 2014 si presentarono più di 40 progetti di lavori di ristrutturazione dei quali 7 furono finalisti e 3 vincitori; anche quest’anno ci si attende grande partecipazione dagli otto paesi dove l’impresa è presente.
“Crediamo nella costruzione efficiente e di qualità che giorno per giorno vediamo nei lavori realizzati da parte dei professionisti registrati su Habitissimo. Per questo, creiamo un Comunicato stampa concorso con il fine di apportare e dar visibilità ai progetti di chi, a parte promuovere il suo
lavoro, apporta un significato nella ristrutturazione di stabili”
Afferma lo staff Habitissimo.
La giuria del concorso Proyectissimo 2015 sarà composta da un gruppo di elementi interni, professionisti del settore e da un gruppo esterno composto dai vincitori dell’edizione passata: professionisti dell’architettura e disegno di interni.

Che cos’è Habitissimo
Habitissimo è l’impresa web leader in Spagna, Italia, Brasile e America Latina che mette in contatto domanda e offerta nel settore dell’edilizia, delle ristrutturazioni e dei servizi per la casa. Agli inserzionisti Habitissimo dà la possibilità di pubblicare gratuitamente la propria richiesta di preventivo e ricevere quindi proposte da un massimo di quattro professionisti o imprese del settore, mentre ai professionisti dà la possibilità di trovare nuovi contatti di lavoro. Habitissimo è presente in Italia, Portogallo, Argentina, Cile, Messico e Colombia. Sul portale sono registrati più di 270.000 professionisti o imprese, ad oggi sono state pubblicate online più di un milione di richieste di preventivo.

Va a Habitissimo

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28 Aprile 2015

News

Mauro Andreini. Terre di nessuno

Da martedì 5 Maggio, presso le Sale Affrescate dello storico Palazzo comunale di Pistoia, è viistabile la mostra “Terre di Nessuno”, una raccolta di acquerelli e fotovisioni di Mauro Andreini, promossa e organizzata dall’Ordine degli Architetti Pistoia, con il patrocinio del Comune di Pistoia.
Mauro Andreini da sempre unisce all’attività architettonica una intensa produzione disegnativa, entrambe ampiamente documentate in numerose riviste, libri ed in importanti mostre e rassegne, in Italia e all’estero. “Terre di Nessuno” costituisce la più recente produzione disegnativa di Mauro Andreini, una serie di paesaggi e luoghi immaginari, caratterizzati dal “naturalismo metafisico”, tipico dell’autore.
L’introduzione alla mostra è affidata a “Nova Atlantide”, una sintesi della raccolta omonima, realizzata negli anni ’90 e qui presente a documentare il punto di partenza della ricerca dell’autore. Un atlante di luoghi, ispirati dal mistero della città scomparsa di Atlantide, suddiviso in “città di mare” e “città di terra”. La prima parte del percorso espositivo inizia con “Dopo la fine del mondo”, paesaggi e luoghi della Terra avvolti in un silenzio lunare come potrebbero apparire dopo una ipotetica fine del mondo. Case come nature morte, carcasse di edifici adagiati in un paesaggio tetro, fatto di terre brulle senza limiti di confine in un’aria lugubre e funerea. A seguire il “Futuro dell’Abitare”, una ironica e scanzonata riflessione sul futuro dell’abitare si trasforma in un divertente inventario di ipotesi. Abitare spazi finora considerati ai margini delle città e della società e nei quali nessuno si sognerebbe di andare a vivere. La sezione “Architettura morta”, descrive una muta distesa di rovine, di paesi fantasma, di case scoperchiate e di edifici interrotti dal tempo. Ruderi, resti, costruzioni abbandonate e cadenti che, cambiando ruolo, assumono ora quello di testimoni e custodi della memoria. I “Ritratti di Luoghi” raccoglie acquerelli di posti “ridisegnati” con vedute stilizzate. Paesaggi naturali dominati dal verde delle campagne toscane, e ancora, vecchi opifici e angoli di paese o di città. In “Vecchi posti di provincia” racconta attraverso singolari acquerelli la “provincia perduta” degli anni ‘50 e ’60, dalle vecchie sale da ballo alle antiche botteghe rurali. La serie dedicata a “Il massacro del Sand Creek”, ricorda la tragedia con una serie di suggestive e dolorose immagini disegnate dei villaggi distrutti.
Nella seconda parte “Architetture Visionarie”, una sorta di catalogo di appunti di architetture “in nuce” e le suggestive “Fotovisioni”, dove alcune delle principali architetture edificate da Mauro Andreini sono “immerse” fotograficamente, in un immaginario dialogo ideale, con quei paesaggi naturali toscani che le hanno ispirate.
La conferenza di presentazione sarà Venerdi 8 Maggio alle ore 15.00 nell’auditorium delle Sale affrescate con gli interventi istituzionali dell’Assessore Educazione e Cultura del Comune di Pistoia, del Presidente e del Segretario dell’Ordine Architetti di Pistoia, a seguire l’intervento di Alfonso Acocella, professore ordinario dell’Università di Ferrara che illustrerà l’opera di Mauro Andreini e infine dell’autore stesso che racconterà “La mia storia di provincia, tra pittura e architettura”
La mostra sarà visitabile tutti i giorni feriali dalle 11 alle 19, i festivi dalle 10 alle 18.

“Mauro Andreini. Terre di nessuno”
acquerelli e fotovisioni 2007-2014
Sale affrescate del Palazzo comunale
PISTOIA, Piazza del Duomo 1
5-17 Maggio 2015
Lun/Ven 11.00 – 19.00
Sab/Dom 10.00 – 18.00
ingresso gratuito

* Per la partecipazione alla conferenza/presentazione di Venerdi 8 Maggio è necessaria l’iscrizione alla piattaforma https://imateria.awn.it (pitturArchitettura – ordine Architetti Pistoia, n. 3 Cfp)

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27 Aprile 2015

Design litico

Grassi Pietre al Furoisalone 2015

Con Setsu & Shinobu Ito a Opificio 31

Nuovamente insieme Grassi Pietre e lo Studio I.T.O. Design (Setsu & Shinobu Ito) si sono presentati al Fuorisalone 2015 con uno splendido progetto formato da una fontana (Izumi) e una seduta (Konoha). Entrambi i complementi adatti sia per l’outdoor che per l’indoor (ideali per il settore contract ma anche per il residenziale), sono realizzati in Pietranova bianca in finitura lucida.
Pietranova (esclusiva di Grassi Pietre) è un agglomerato cementizio composto dalla graniglia di pietra di Vicenza, cemento Portland bianco e acqua. Rappresenta l’unione perfetta tra la bellezza propria di un materiale naturale, qual è la pietra di Vicenza, e le proprietà fisico-meccaniche che solo l’avanguardia tecnologica può offrire. Disponibile in tre varianti di colore – bianco, giallo, grigio – e in numerose textures – lucidato, levigato, spazzolato, bocciardato, graffiato – è un prodotto 100% made in Italy e certificato CE.

Fontana Izumi
Izumi in giapponese significa fonte naturale. È da questa fonte, al centro della fontana, che l’acqua sgorga e scorre verso il margine esterno su una superficie piana, fino a cadere appena prima di arrivare sul bordo del piano in Pietranova. La sua forma e il sistema di raccolta dell’acqua fanno sì che Izumi possa tranquillamente stare sia in ambienti aperti (come giardini, cortili) ma anche ambienti interni, sia pubblici che privati. Osservando la forma della fontana dall’alto, l’immagine che si ha è quella di una forma squadrata, statica, minimale. Scendendo invece verso la base, la fisionomia diventa curva, instabile, come se si trattasse della parte bassa di una goccia d’acqua tagliata orizzontalmente. La corolla ondulata che contorna la base mostra tante increspature circolari, come quelle provocate da una goccia che cade nell’acqua. La stessa forma rimanda a un secondo simbolo, il giardino zen, anch’esso segnato da rigature a intervalli regolari tracciati nella sabbia. In questo caso il rimando è a un altro elemento naturale: la terra.

Seduta Konoha
Konoha, il cui significato è foglia, è una seduta dalla forma ricurva e sinuosa, che contrasta con il
materiale pesante da cui è formata, la pietra di Vicenza. Le su linee la fanno sembrare proprio una foglia che pare rotolare via, portata dal vento. Il vento, come l’acqua nella fontana e la terra nel il giardino zen, rimanda a un altro elemento naturale: l’aria, grazie alla quale le sedute ‘prendono vita’, come se stessero danzando nell’ambiente. La forma di Konoha permette infatti di appoggiarla su tutti i lati, creando così diversi piani di seduta. Grazie ai pregiati prodotti di Grassi Pietre, un materiale che di per se è freddo e rigido, appare caldo e ospitale.

Va a Grassi Pietre

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