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28 Novembre 2006

Eventi

Materiali e tecnologie per il Progetto Sostenibile

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27 Novembre 2006

Eventi Toscana

Abitare la Frontiera / Alfabeti di Periferia

La Fondazione Michelucci
segnala e invita a due significativi momenti di approfondimento e confronto

1°CONVEGNO
ABITARE LA FRONTIERA

in collaborazione con Ass. Culturale Testimonianze
dove: Firenze – Villa Vogel – Sede Quartiere 4 – Via Canova
quando: venerdì 1 dicembre ore 9,30 – 18,00
“Il convegno affronta il tema delle aree urbane e di margine delle nostre città . Aree esposte spesso a fenomeni di deindustrializzazione e di degrado, ma anche aree più permeabili all’insediamento di nuove popolazioni, mentre le spinte speculative utilizzano la retorica della riqualificazione e della sicurezza urbana per produrre anche “risanamento sociale””.
Durante la giornata verranno presentate due numeri speciali delle riviste “La Nuova Città ” e di “Testimonianze” dal titolo rispettivamente “La città delle baracche” e “Se esplodono le città ”
Verrà inoltre presentato il lavoro fotografico di Francesco Giusti “Hotel Industria”

2°CONVEGNO
ALFABETI DI PERIFERIA
dove:
CAMPI BISENZIO- Fondazione Spazio Reale- Loc. San Donnino
quando: venerdì 15 dicembre ore 9,30 – 18,00
“Dentro la voce “periferia” c’è spesso una realtà complicata e sfacettata che ribalta il concetto stesso di periferia e origina fenomeni nuovi, di frontiera, nella fabbrica permanente e mutante della città . S u questo universo fluttuante di linguaggi, identità e processi di interazione interculturale, la letteratura, l’arte, il cinema, il teatro, la musica, riescono ad aprire finestre di comunicazione e originare pratiche espressive che arricchiscono i quadri di conoscenza che derivano dalle discipline che si occupano con consuetudine di questi temi.”
Durante la giornata verrà presentato il lavoro fotografico curato dalla Fondazione Studio Marangoni “Cantieri fotografici Zone di Frontiera Urbana”

Scarica il programma


Fondazione Giovanni Michelucci onlus

Via Beato Angelico 15
50014 Fiesole-Italia
tel. 055 59 71 49
fax.055 59 268
www.michelucci.it

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Casa ellenistica di Salemi
Museo Archeologico di Palemo*


Lacerto di pavimento con reticolato di frammenti di calcarei e laterizi (foto: Alfonso Acocella)

Il pavimento a mosaico fu riscoperto casualmente in Sicilia nell’abitato di Salemi nel mese di agosto del 1895, in circostanza di lavori di costruzione di un acquedotto. Il contesto pavimentale di Salemi fu rinvenuto in via Daguirre a circa due metri sotto il suolo stradale. In seguito alla sospensione dei lavori, Antonio Salinas, chiamato in veste di responsabile della Direzione degli Scavi di Antichità potè constatare l’importanza della scoperta per lo studio archeologico e fece provvedere alla rimozione del lacerto per poi ordinarne un trasferimento in museo.
La porzione sopravvissuta del mosaico pavimentale è custodita presso il Museo Archeologico Regionale di Palermo (Inv. No.2277), le cui dimensioni sono piuttosto cospicue e misurano in altezza 3,29 x 2,77 m in larghezza, se misurata nella parte più estesa del lacerto.
L’intera compagine pavimentale è formata di tessere nere, bianche e rosse. La porzione realizzata in rosso è composta di tessere consistenti in frammenti irregolari di cotto ed è da intendere quale soglia di un ambiente, probabilmente destinato per una funzione riconducibile a quella di un triclinio. Più dettagliatamente, l’area di calpestio che, quasi certamente, doveva rivestire la soglia, si compone di un motivo a losanghe, il cui reticolo è realizzato in tessere bianche di calcare, litotipo da riconoscere, secondo il giudizio di Salinas, come calcare lattimusa, inserito nello sfondo rosso formato da frammenti laterizi.
Il campo principale, in cui si nota la grande lacuna della parte destra, consiste in un fondo in tessere bianche, ritenute allo stesso modo da Salinas in calcare detto lattimusa, delimitato da un motivo a onde in tessere nere sempre su sfondo in tessere bianche, che dipartono in direzioni opposte da un motivo a palmetta in tessere bianche.
In alto a sinistra nel campo di tessere bianche si trova un delfino in tessere nere disposto diagonalmente e rivolto verso il centro, avente un occhio con sfondo in tessere bianche e pupilla realizzata mediante una tessera rossa di cotto.
Nel centro del tappeto a sfondo di tessere bianche di calcare di lattimusa si staglia una figura umana stante di profilo in tessere nere, le cui gambe leggermente sovrapposte sono delineate nel contorno con una fila di tessere rosse. La figura ha nel braccio destro alzato un kantharos con pancia scanalata e sviluppato su un gambo molto lungo. Nell’angolo opposto, in basso a destra del campo in tessere bianche è raffigurato un delfino in tessere nere disposto sempre in diagonale e rivolto verso il centro.
Nella parte in basso del campo bianco e all’interno della cornice a onde e palmetta è posta una fila di lettere maiuscole a grandi caratteri, aventi circa 17 cm di altezza, in tessere rosse di cotto costituente l’iscrizione greca ????? (benvenuto).
L’ubicazione della scritta, cioè appena al di sopra del tappeto le cui dimensioni planimetriche approssimano molto bene le caratteristiche di una soglia, ha indotto a considerarla un’iscrizione di saluto a coloro che entrassero nell’ambiente.
Secondo l’interpretazione di Salinas, l’iscrizione del mosaico di Salemi posta proprio come didascalia alla figura del bevitore, altro non sarebbe da intendere che quella di un ebbro. Bisogna ricordare, però che il Kantharos, era considerato un attributo principale di Dioniso – un vero status-symbol dell’ideologia aristocratica, atto a designare il simposiarca, cioè colui che ha il compito di decidere le regole del simposio, convito che si svolgeva nelle case greche in un ambiente detto andron. Tale considerazione porterebbe a ipotizzare una possibile funzione dell’ambiente in esame di Salemi.
Riguardo alla scritta sono state inoltre rilevate sempre in siti siciliani dirette analogie con un’altra iscrizione, di poco differente nel testo ????? CY, inserita in un pavimento a mosaico litico-laterizio posto sulla soglia dell’ambiente “p” di una domus chiamata poi edificio B, rinvenuta (1868) all’interno di un complesso di due ville di epoca romana in Piazza della Vittoria a Palermo, oppure l’augurio EY EXEI nel pavimento in opus signinum della Casa del Capitello dorico di Morgantina.
In relazione al lacerto di mosaico litico-laterizio di una delle due ville menzionate, che presenta così forti analogie con quello in esame di Salemi, sarà utile delinearne brevemente le caratteristiche. Esso era posto, in una situazione analoga a Salemi, sulla soglia di una domus, chiamata in seguito da Ettore Gabrici edificio B.
Dei due edifici, designati con la denominazione A e B, il primo fu riconosciuto come un grandioso edificio residenziale di un membro della classe dirigente, connotato da materiali e finiture di grande pregio, mosaici pavimentali, vasche; il secondo, l’edificio B, seppure nei resti delle strutture di dimensioni minori, risultò caratterizzato allo stesso modo da un peristilio con ambulacri con pavimento in battuto di cocciopesto.La superficie pavimentale interessata dall’uso di materiale laterizio è una soglia di un ambiente (P), pavimentato con mosaico a tessere verdi e rosse, costituita in parte da tessere verdi, rosse, e tessere fittili. In un campo bianco troviamo l’iscrizione greca ????? (benvenuto) composta due volte in senso opposto, disposta lungo una fascia rossa con motivo a onde correnti verso destra, sotto l’inizio dell’iscrizione e verso sinistra alla fine e convergenti nel tratto compreso tra la I e la P, al di sotto delle quali su fondo rosso si dispone un motivo a reticolo in tessere bianche.


Particolare della soglia litico-laterizia (foto: Alfonso Acocella)

Tale tipo di iscrizione veniva solitamente dipinta anche sui recipienti greci, ma è da mettere in relazione, come ancora sosteneva Salinas, anche con il motto latino “salve” posto come saluto sulle soglie all’ingresso delle case romane.
Ritorniamo ora al mosaico principale per precisarne alcuni altri dati. Il contesto archeologico di Salemi non venne purtroppo rilevato durante il ritrovamento, così il pavimento oggi può essere datato solo attraverso le sue caratteristiche peculiari sia materiche che stilistiche. Dunque, se si esaminano meglio le caratteristiche stilistiche, è possibile avvicinare il pavimento di Salemi alle tipologie ellenistiche, soprattutto se si tiene conto delle modalità di aggregazione delle tessere stesse.
La struttura di aggregazione, sia a mosaico di ciottoli che di tessere è riscontrabile anche a Morgantina, con un esempio simile di soglie in mosaico.
Nonostante le molte analogie rintracciate, una cosa importante è comunque da rimarcare sul mosaico di Salemi: esso si pone tra i primi esempi o forse costituisce una di quelle prime elaborazioni di mosaico che diventeranno sempre più diffuse, dando inizio alla tipologia che assumerà più tardi il nome di opus tessellatum.
Le menzionate analogie formali, riscontrate tra le figure del mosaico di Salemi e quelle presenti in altri mosaici di ambito ellenistico, insieme all’analisi dei singoli elementi raffigurati, come la forma del recipiente rappresentato, hanno condotto gli studiosi ad ipotizzare che il pavimento di Salemi possa ascriversi al II sec. a.C. 1

Gianni Masucci

Visita Supermuseolaterizio
Visita la Mostra Virtuale Rossoitaliano


* Il saggio rieditato è tratto dal volume (a cura di) Alfonso Acocella e Davide Turrini, Rosso italiano, Firenze. Alinea, 2006, pp.240
1 Sull’argomento si veda:
Antonino Salinas, “Sicilia. Salemi”, Notizie dagli Scavi di Antichità , (1895), p.357;
Ettore Gabrici, “Ruderi romani scoperti alla piazza della vittoria in Palermo”, Monumenti antichi R. Accademia Nazionale dei Lincei, XXVII (1921), pp.182-203;
Dela von Boeselager, Antike Mosaiken in Sizilien: Hellenismus und römische Kaiserzeit 3.Jahrhundert v.Chr. – 3. Jahrhundert n.Chr., Roma, Bretschneider, 1983, pp.31-34, pp.220;
Archeoclub d’Italia sede di Palermo, Prima Palermo: indigeni, cartaginesi, romani, Mostra fotografica, Chiostro S.Agostino, 17 ottobre -5 dicembre 1993, Palermo, Herbita, 1995.

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21 Novembre 2006

Arte e Artisti Eventi

É luce nella montagna

In una cava seppellita nel cuore delle Alpi Apuane, l’enigmatica performance di una storica compagnia polacca

Light and Gravity è il titolo di una performance del gruppo di artisti polacchi Akademia Ruchu, andata in scena la sera del 20 Ottobre 2006 nella Cava Ravaccione di Carlo Dell’Amico a Carrara. L’evento è il frutto di una collaborazione nata fra l’Associazione Opera Bianca e il progetto interprovinciale di valorizzazione della pietra e dei territori, Pietre di Toscana a cura della Società Lucense.
Lo spettacolo ha chiuso con successo il cantiere d’arte LUOGO COMUNE, ideato e realizzato da Opera Bianca in collaborazione con la Provincia di Massa Carrara nell’ambito delle reti regionali Porto Franco e Tra Art
Qui di seguito sono pubblicati gli interventi di Maria Teresa Telara, Presidente di Opera Bianca, di Ivan Carozzi, giornalista che il giorno 20 Ottobre si trovava in cava in veste di spettatore, ed infine di Martina Angelotti, project manager della manifestazione

light_gravity_1.jpg
Nel vuoto lasciato da tonnellate di marmo bianco, maestosa stanza dentro la montagna, inizia con un suono ripetitivo, ipnotico la performance Light and Gravity.
Un uomo avanza dal fondo, quando è davanti al pubblico cerca di sollevare a fatica due pesanti lastre bianche su cui è scritta una frase: MA DOVE C’E’ IL MALE – LA’ CRESCE ANCHE LA SPERANZA.
Iniziano ad apparire dal buio della cava dei “blocchi” di luce, lanterne bianche cubiche trasportate con semplice sacralità da uomini e donne vestiti di nero. Lentamente le lanterne si disseminano nello spazio e lo invadono. Con i cubi luminosi viene eretto un muro a forma simbolica di piramide, un architettura dello spirito, e poi una frase: LUCE E’.
I performer avanzano di nuovo verso il pubblico trasportando questa volta sfere bianche con appoggiati sopra, come su vassoi, dei calici vuoti. Viene versato del vino rosso, le sfere vengono lasciate andare e volano in alto come palloncini da fiera riversando il contenuto dei calici al suolo.
Tre azioni semplici e lo spettacolo è finito, ma allo sguardo dei testimoni è stata offerta con estrema essenzialità una rappresentazione della trasmutazione dall’opaco al luminoso, dalla gravità alla leggerezza. Pochi segni di grande rigore formale hanno dialogato per quaranta minuti con la sacralità del luogo. E poichè esiste nella sfera simbolica un rapporto stretto fra l’anima e la pietra, in questa “cattedrale” di marmo la performance Light and Gravity è diventata, una sorta di sacra rappresentazione, di rito laico dove fare esperienza del mistero primordiale e delle leggi che governano il mondo: la luce e la gravità.
Percorrendo con il pulmino la lunga galleria che ci conduceva fuori dalla cava, un amica mi ricordava le parole di un grande maestro del teatro polacco che ripeteva spesso: “Le meilleur metteur en scène est Dieu”.

Maria Teresa Telara
Presidente di Opera Bianca

Eravamo un centinaio e siamo entrati nella montagna. Una volta dentro l’abbiamo trovata sbancata e illuminata a giorno. Enormi navate dalle pareti lisce, umide, che colano liquidi grigiastri. Siamo venuti per assistere ad uno spettacolo, come si usa dire, ma è il teatro che ci ha sorpresi. Una cava. Un luogo dove uomini e macchine hanno asportato per anni tonnellate di materia. L’hanno estratta e poi segata, lavorata, stoccata e infine dispersa per le vie del commercio, imbragata sui rimorchi degli autoarticolati, adagiata nella pancia di navi prodigio in viaggio per gli oceani. Un luogo dove non esiste campo e la telefonia mobile è chiusa in un cul de sac. Penetrare per centinaia di metri dentro la montagna e scoprirvi un antro così perfetto, distribuito in enormi sale cubiche o a pianta rettangolare, è stato come rivivere un mito ancestrale, una favola del lontano passato indoeuropeo. La montagna che si apre all’uomo. Chissà che cosa avrebbe pensato un antico di questa umidità, di questo incessante sudare e lacrimare della pietra. In questo spazio semplicemente epico, dove hanno lavorato operai, ingegneri, geologi, sottraendo polpa alla montagna, abbiamo assistito ad un evento che ci ha parlato di gravità, quella stessa forza cosmica che aggrega e schiaccia la materia sopra di noi, e poi di luce, quella degli astri che non può infilarsi qua dentro, ma che pure nutre la terra che ora ci rinchiude, che nutre le piante e le radicelle che da sempre tengono la massa ferma e compatta.
‘Light & gravity’ è il titolo dello spettacolo. Un numero di teatro performance che la compagnia polacca ‘Akademia Ruchu’ ha messo in scena in una notte di metà ottobre, ospite di ‘Luogo Comune’, cantiere d’arte contemporanea organizzato da ‘Opera Bianca’ Associazione Culturale e dalla Provincia di Massa Carrara. Circa un centinaio di spettatori, nei quali mi sono mescolato. Siamo montati sulle navette messe a disposizione dagli organizzatori, nel piazzale vicino la cava romana di Fantiscritti, e come talpe siamo penetrati nella cava Ravaccione, attraverso il reticolo di gallerie e ventricoli che conducono nell’interno di questo massiccio delle Alpi Apuane, alle spalle della città di Carrara. Abbiamo sentito le gomme dei bus affondare nella fanghiglia e scivolare sicure nella semioscurità, fino a quando non è apparsa una macchia di luce artificiale. Fino a quando, più vicini, la luce si è fatta ampia ed ha rivelato lo spazio enorme e deserto che ci aspettava. Ecco una basilica minerale, la chiesa operaia ricavata nel corpo della montagna. Qui dentro c’era il marmo, prima che scavassero. E ne resta ancora moltissimo. E infatti è un’unica piattaforma di marmo il piano gigantesco che stiamo calpestando. I bastioni che fanno eco al nostro passaggio, sono di marmo. Ce n’è fino al centro della terra, mi dirà in seguito il padrone di questo posto. In un angolo l’escavatrice dai pneumatici alti come un uomo, attrezzi buttati in un altro cantone, a formare una cappa, e qua e là le sculturine e i bassorilievi che i cavatori ogni tanto si divertono a scolpire. Perchè vivere in questo luogo deve avergli acceso qualche visione nella mente, qualche immagine folgorante. Ho visto cristi, madonnine, rudimentali crocifissi abbozzati su lastre e macigni. Pezzi d’artigianato religioso a vegliare sul ventre della terra, ad alleviare la pena della claustrofobia e del combattimento con la roccia. Ma non meno dei crocifissi e delle madonne, sono gli scarti di marmo, gli attrezzi scheggiati, il legno, che immersi in quest’aria povera e spettrale sarebbero piaciuti molto ad Alberto Burri e a Jannis Kounellis.
Prima dello spettacolo Teresa Telara di ‘Opera Bianca’ e Lanfranco Binni, dirigente della Regione Toscana, hanno impugnato il microfono e pronunciato un breve discorso di ringraziamento. Hanno citato gli enti promotori del progetto, illustrato le finalità della manifestazione, ringraziato i presenti. Strano qua dentro sentire la parola dell’uomo. Di un funzionario della Regione. Strano ascoltare un prodotto classico della civiltà come quello dell’orazione pubblica proprio qui, dentro la terra, con trecentocinquanta metri di monte sopra la testa. Teresa che parla, Lanfranco che spiega, il pubblico che ascolta la voce umana propagarsi in questa bolla di marmo. Dove l’uomo si è fatto largo con la violenza prometeica delle macchine. Centinaia di scarpe che intanto sciabordano nel fango, producendo piccole eco che fanno ping pong fra le pareti. Ad un tratto mi è sembrato di assistere ad una di quelle scene consegnate dalle cronache, in cui il grande esploratore, appena toccata la sponda di un nuovo continente, arringa l’equipaggio con un apologo sulle tappe dell’evoluzione umana e di seguito conficca una croce nella sabbia.
Sembra di stare su Krypton, il pianeta di Superman, ha detto mio cognato. Qui è tutto bianco, umido e caliginoso. Una grande nebbia fatta di pietra e superfici che avanza da ogni lato. Il pubblico si sposta verso il salone attiguo dove sta per andare in scena ‘Light & gravity’. Ci disponiamo di fronte al piano profondissimo che farà da ribalta allo spettacolo. Il tempo di scattare qualche foto e si leva la fantascientifica pulsazione di un sintetizzatore, un vecchio arnese di vent’anni fa. Dall’oscurità appaiono figure vestite di nero che cominciano a posare dei cubi luminosi lungo la scena. Lo fanno a caso, senza un ordine preciso o già stabilito. Continuano a sbucare dalla tenebra e a posare altri cubi che tingono di striature ambra e arancio il marmo delle pareti. I cubi adesso sono venti, trenta, forse di più. Gli attori mi sembrano i membri di una misteriosa organizzazione, o di una setta che appartenga a questi luoghi sotterranei. Tentano di comunicarci qualcosa attraverso un linguaggio fatto di oggetti e forme razionali. I cubi vengono tolti dalle loro posizioni e vanno a costruire una grande piramide luminosa, una sorta di totem marziano, che poi viene disfatto e si tramuta nella grande scritta, anch’essa luminosa, ‘Luce’, dove significante e significato s’identificano curiosamente, in una forma duale che trova la propria forza evocativa proprio nell’impossibilità di venire sciolta e ricondotta a parti distinte. Contempliamo la parola ‘luce’ mediante il suo significante, la scritta, e attraverso il suo significato, la luce, lo sfavillio dei cubi che rischiara l’oscurità della cava. C’è un’allusione fulminea all’idea pura della fiamma, alla suo remoto archetipo platonico, alla sua funzione elementare. Fiat lux -l’aurora, l’inizio del mondo, l’interruttore di casa e la lampadina che illumina la stanza e il mobilio. La luce che rimuove ombra dall’essere e fa del mondo qualcosa di finalmente più chiaro e distinto.
Nel secondo atto dello spettacolo, i performer (fra cui molti ragazzi, una decina, che hanno partecipato ai workshop tenuti quella settimana da Akademia Ruchu) si allineano di fronte al pubblico reggendo dei grandi palloni bianchi. Fissati sopra ad ognuno dei palloni ci sono dei calici che un attore riempie di un liquido vermiglio. I palloni vengono lasciati andare, nel vuoto, si capovolgono, e il liquido si rovescia a terra, e i palloni seguitano nel loro volo, fino ad arrestarsi contro il soffitto del salone, dove restano così, sospesi. E’ quasi un vecchio numero d’illusionismo. Palloni che si sono opposti con grazia ad una pressione contraria e che si ritiene soverchiante -la forza di gravità. Lo spettacolo è finito, sono trascorsi venticinque minuti. Abbiamo le scarpe sporche di fango e polvere di marmo. Usciamo dall’utero, montiamo di nuovo sui minibus e fra poco torneremo alle nostre case borghesi, alle città degli outlet e delle corporation, al nostro secolo ventunesimo, dove la luce è elettrica e permanente e la gravità una forza con cui abbiamo appena iniziato a giocare.

Ivan Carozzi
Giornalista e scrittore

Quando incontrai Teresa, Presidente dell’Associazione culturale Opera Bianca, per la prima volta, nell’ufficio dell’assessorato alla cultura della Provincia di Massa Carrara, mi sembrò da subito una donna dotata di una indubbia sensibilità. Seduta davanti a me, Teresa mi raccontò l’intenzione di portare proprio a Massa, a casa nostra, il gruppo di artisti polacchi Akademia Ruchu, nome molto conosciuto nel panorama internazionale dei linguaggi legati al teatro e alla performance.
Nella strada di ritorno verso casa, ancora non riuscivo a focalizzare fino in fondo la sua idea di evento, che mi risultava del tutto vaga e nebulosa, anche se mi riappariva assolutamente nitido il suo volto mentre mi spiegava, con entusiasmo, il progetto. Mi piaceva, e ben presto dissi prima a me stessa e poi a Teresa, che volevo fare parte dello staff.
Organizzare eventi, curarli, accudirli, seguirli passo passo come un bambino che cresce, aspettando il giorno in cui si consumeranno, fa parte di un lavoro complesso e faticoso ma decisamente gratificante. Luogo Comune Cantiere d’Arte con Akademia Ruchu, è il risultato di una grande passione e di un grande affetto che nell’arco di sei mesi ha unito i partner del progetto, proprio come tanti mamme e papà in attesa del parto.
Questo progetto, ha dato vita a relazioni e collaborazioni intense tra organi istituzionali, associazioni, sponsor e partner che hanno contribuito alla riuscita dell’evento. Il territorio della provincia di Massa Carrara si è rivelato in grado di poter ospitare le tematiche e i linguaggi legati al mondo del teatro sperimentale e delle arti visive. La partecipazione massiccia di un pubblico eterogeneo ha soddisfatto le nostre aspettative e ci ha permesso di valutare positivamente l’esito.
Due Comuni, una Provincia, tre location. Gli ambienti scelti per ospitare le iniziative e gli spettacoli del gruppo polacco, sono stati accuratamente selezionati affinchè rappresentassero per la loro storia e per le loro caratteristiche fisiche, l’essenza e lo spirito di Luogo Comune e gli obiettivi di Opera Bianca.
La settimana densa di spettacoli e performance, di workshop per artisti ed attori tenuti dai membri di Akademia Ruchu, si è poi conclusa, con grande sorpresa del pubblico, all’interno di un suggestivo habitat nel cuore della montagna, dentro alla materia bianca del marmo, simbolo secolare del paesaggio apuano.
Proprio lì, nella Cava Ravaccione, abbiamo deciso di scrivere la fine di Luogo Comune, nella certezza che anche se di fine (finissage) si trattava, la magia del luogo e la straordinaria forza della performance, avrebbero mantenuto vivo il ricordo dell’esperienza.
Proprio lì abbiamo deciso di salutarci, nelle viscere di una montagna che porta dentro di sè la pesantezza del marmo e la leggerezza dei colori, dei vuoti e delle luci bianche che l’attraversano. Un saluto caloroso a 16° di temperatura costante, che ha mozzato il fiato di un centinaio di spettatori e lasciato un segno, un qualche piccolo segno nel cuore del monte e nel cuore di ognuno di noi.

Martina Angelotti
Project Manager

AKADEMIA RUCHU Fondata nel 1973 a Varsavia da Wojciech Krukowski, che è ancora oggi il suo direttore artistico, Akademia Ruchu è sempre stata conosciuta come teatro “del comportamento” e della narrazione visuale. E’ un gruppo creativo che lavora ai confini di diverse discipline artistiche – teatro, arti visive, performance e film. Movimento, spazio e il messaggio sociale sono le caratteristiche principali di tutti i processi artistici svolti da Akademia Ruchu. Questo fatto deriva della convinzione che il radicalismo artistico ed il messaggio sociale non si escludono a vicenda. Dal 1974 Akademia Ruchu lavora in modo regolare e continuativo negli spazi aperti delle città (circa 500 spettacoli, eventi e happening), ed è stata il primo esempio in Polonia di un gruppo artistico che lavora fuori dagli spazi ufficiali del culto delle arti: strade, case di riposo, zone industriali. Così gli elementi della vita quotidiana, che Akademia Ruchu usa e trasforma nei luoghi “beatificati” dell’arte (teatri, gallerie d’arte), hanno arricchito la sua visione antropologica senza compromettere la sua visione estetica. Akademia Ruchu ha presentato il suo lavoro in quasi tutti i paesi europei, in America del Nord e del Sud e in Giappone, durante tournèe internazionali e presso festival importanti (World Theater Festivals a Caracas e Nancy, il Festival Kaaitheater a Bruxelles, il Chicago International Theater Festival, il LIVE Art Festival a Glasgow), ed ha anche mostrato il suo lavoro in numerose gallerie e luoghi di esposizione delle arti visive (fra gli altri a DOCUMENTA 8 a Kassel, all’Institute of Contemporary Arts a Londra, nel Museum of Contemporary Arts PS1 a New York, nel Museum of Modern Arts a Yokohama).

Direttore artistico: Wojciech Krukowski
Gruppo creativo: Janusz Baldyga, Jolanta Krukowska, Cesary Marczak, Zbigniew Olkiewicz, Krzysztof Zwirblis
Staff tecnico: Jaroslaw Zwirblis Jan Pieniazek
Tour manager: Malgorzata Borkowska

LUOGO COMUNE
un progetto di:
Opera Bianca
(Antonella Cervia, Stefano Graziano, Filippo Rolla, Maria Teresa Telara)
IDEAZIONE
Maria Teresa Telara
ORGANIZZAZIONE e PROGETTO GRAFICO
Martina Angelotti
UFFICIO STAMPA
Filippo Rolla
SEGRETERIA E LOGISTICA
Antonella Cervia
COORDINAMENTO
PROVINCIA DI MASSA CARRARA
ufficio Cultura
ref. Mario Celi
Cinzia Bertilorenzi
Francesca Lazzerini
Paola Fraschi
RESPONSABILE TECNICO
Massimo Carotti
FONICA
Saverio Damiani
LUCI
Marco Segreto
FOTO DOCUMENTAZIONE
Alessandra Sbertoli
Luogo Comune è stato realizzato grazie alla colaborazione di:
PROVINCIA DI MASSA CARRARA
TRA ART- Regione Toscana
PORTO FRANCO – Regione Toscana
PIETRE DI TOSCANA

e al contributo di:
Ministero della Cultura e Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia,
Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara;
APT Massa Carrara;
LUCENSE srl Lucca;
Comune di Carrara,
Comune di Massa,
Circoscrizione 2 Carrara Centro,
Associazione Industriali Massa Carrara

Ringraziamenti:
Fondazione Fabbrica Europa,
Fondazione Pontedera Teatro,
Istituto Polacco di Roma

Visita il sito di Akademia Ruchu
Visita il sito di Opera Bianca
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Vuoto – Pieno
Le cave di Fantiscritti e il Foro di Traiano

Percorsi per le scuole
Primavera 2007

Il percorso
La cava, lo suggerisce il nome stesso, è vuoto, assenza. E’ una gola, una fenditura, una rientranza, “un enfoncement dans la montagne”, scriveva nel 1828 Louis Simond, nel suo Voyage en Italie et en Sicilie, “qui annonce tout ce qu’on en a extrait de marbre et la grande consommation qui en a ètè faite”.
La cava è, dunque, una grande architettura in negativo, costruita per sottrazione, la cui imponenza è data dall’assenza. Una figura instabile la definirebbe Rudolf Arnheim, costantemente in bilico fra ciò che è e ciò che manca. Un vuoto che per ritrovare la propria stabilità, il proprio equilibrio ha bisogno di un pieno. Noi siamo andati a cercarlo nel Foro di Traiano e nella sua celebre colonna realizzata con marmi provenienti dalle cave di Fantiscritti di Carrara.
Ma poi, come è successo negli altri percorsi per le scuole – “spazio-tempo”, “frammento-intero”, “presenza-assenza” – che la fabbrica dell’arte ha realizzato al Foro di Traiano dal 2000 al 2006, il gioco degli opposti si complica, si confonde, e ciò che appare pieno, all’improvviso, può diventare vuoto e viceversa.
I segni che incidono il marmo della cava, quasi delle ferite profonde, ribaltandosi, appaiono in rilievo e la cava, d’un tratto, si trasforma in una grande cattedrale a cielo aperto. Se guardiamo, d’altra parte, i marmi del Foro di Traiano, così come il tempo li ha scolpiti, ci accorgiamo che tutto il loro fascino, la loro potenza deriva dal vuoto, dall’assenza che li sottende. I marmi del Foro, come le statue antiche di cui parla Marguerite Yourcenar nel saggio Il tempo, grande scultore, “hanno subito, a loro modo, l’equivalente della fatica, dell’invecchiamento, della sventura. Sono mutati, come il tempo ci muta”. Ma “talune di queste modificazioni sono sublimi…un piede nudo che non si dimentica, poggiato su una lastra, un mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare”.
L’idea, dunque, è di guardare la cava e il Foro non come un’opposizione statica fra due realtà definite e distinte, ma come l’espressione di una tensione, di un movimento continuo, che cambia e si rinnova costantemente, e che non ha mai una conclusione certa. “Qualsiasi linea che venga disegnata su un foglio di carta”, dice ancora Rudolf Arnheim, “o la più semplice forma che venga modellata in un pezzo di creta, è come un sasso gettato in uno stagno. Rompe lo stato di riposo, mobilizza lo spazio. L’atto del vedere è la percezione di un’azione”.
Vuoto-pieno, dunque, è il nostro sasso nello stagno, la chiave attraverso la quale i ragazzi delle scuole, insieme a tre artisti – Vittorio Corsini, Adalberto Mecarelli e Marilena Pasini – “mobilizzano” lo spazio della cava.

A chi si rivolge
PIENO-VUOTO è un percorso sperimentale, destinato a 12 classi delle scuole elementari, medie e superiori della Provincia di Massa-Carrara e a 2 classi delle scuole superiori di Roma che, avendo già partecipato ai laboratori de la fabbrica dell’arte al Foro di Traiano, svolgono un ruolo di riferimento per i ragazzi di Massa-Carrara con i quali potranno confrontarsi on line, attraverso un Sito Web dinamico, creato ad hoc per l’occasione.

Quando e dove
Il percorso, che ha luogo nelle Cave Michelangelo, situate nel bacino di Fantiscritti, nel Museo del Marmo di Carrara e nelle scuole di Massa-Carrara e di Roma, coinvolte nel progetto, prevede un sopralluogo finale al Museo dei Fori Imperiali.
Il Museo, attualmente sottoposto a lavori di restauro e di rifunzionalizzazione, aprirà, in esclusiva per le scuole partecipanti al progetto, le aule di testata Nord e Sud del Grande Emiciclo, che ospitano i cantieri del nuovo allestimento del museo. Un’eccezionale opportunità per i ragazzi di seguire le fasi più significative della ricomposizione dei frammenti dei vari edifici dei Fori, interagendo con le varie professionalità coinvolte in quest’opera.



LE TAPPE
incontro preliminare con gli insegnanti:

per illustrare metodi e finalità del progetto e impostare, attraverso materiale didattico e informativo, il lavoro propedeutico agli incontri, da svolgere a scuola.
In particolare, dato il carattere interattivo e propositivo del percorso, i ragazzi sono invitati a confrontarsi direttamente e concretamente sui concetti di vuoto e pieno anche attraverso appropriati esercizi suggeriti dagli artisti.

due incontri per ciacuna classe:
1. la passeggiata alla cava (azione nello spazio)

Vedere è agire dice sostanzialmente Arnheim, dunque ciò che proponiamo è un’ “azione” che i ragazzi compiono insieme agli artisti, un’esplorazione attiva, un impatto diretto, fisico con lo spazio della cava, il cui esito sarà diverso a seconda dell’artista coinvolto. L’ “azione” viene ripresa in videocamera dai ragazzi stessi e costituirà il materiale su cui lavorare in vista dell’azione finale.

2. l’incontro al Museo del Marmo (azione nel tempo)
Dopo aver “attraversato” la cava nello spazio, la “attraversiamo” ora nel tempo. Mappe, documenti d’archivio, testimonianze letterarie, disegni, foto, materiale video e informatico, diventano i tasselli con i quali, come in un grande puzzle, proviamo a ricomporre la storia della cava.
Seguiamo, in particolare, il lungo viaggio del marmo dalla cava verso il Foro di Traiano: dall’imbarco a Luni per raggiungere Porto e poi risalire il Tevere, su navi appositamente costruite, agli incidenti di percorso (rotture, naufragi etc.), alla lavorazione in situ, fino agli ultimi ritocchi.

Parte integrante del nostro percorso è il sito web dinamico che permette ai ragazzi di Massa e di Roma non solo di documentare di volta in volta il lavoro svolto, ma di interagire in video e in voce, scambiandosi informazioni, idee, immagini. Un lavoro che potrà poi proseguire ed arricchirsi nel tempo, coinvolgendo nuove classi interessate al percorso e costituire una vera e propria banca dati accessibile a tutti attraverso Internet.
I ragazzi continuano ad approfondire il lavoro a scuola con i loro insegnanti e l’assistenza dell’equipe de la fabbrica dell’arte.

Sopralluoghi Roma/Massa
Dopo l’incontro virtuale, i ragazzi si conosceranno, scambiandosi la visita alle cave Michelangelo e al Foro di Traiano, dove accoglieranno i loro compagni come veri e propri padroni di casa.

Azione Finale
Ciascuna classe, col materiale prodotto a scuola e durante gli incontri, presenta il proprio lavoro in una grande “azione” finale di cui i ragazzi e gli artisti saranno i protagonisti assoluti.
Tutto il materiale confluirà in una pubblicazione e in un Cd-rom interattivo che costituiranno nel contempo un utile strumento didattico ed una particolarissima guida delle cave Michelangelo e del Foro di Traiano.

Promotori
-Regione Toscana – Assessorato alla Cultura – Settore Musei, Biblioteche e Valorizzazione dei Beni Culturali – Claudio Rosati
Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma – Museo dei Fori Imperiali – Lucrezia Ungaro, Maria Paola Del Moro
Comune di Carrara
Assessorato alla Cultura – Andrea Zanetti
Museo Civico del Marmo – Laura Lorenzini, Chiara Caleo
Provincia di Roma – Assessorato alla Cultura – Vincenzo Vita
Università degli Studi di Siena
Dottorato Innovazione e Tradizione. Eredità dell’antico nel moderno e nel contemporaneo – Alessandro Fo
Dipartimento di Scienze della Comunicazione – Riccardo Putti
Università degli Studi di Roma “la Sapienza”, Facoltà di Scienze Umanistiche, Cattedra di storia sociale dell’arte – Luciana Cassanelli
Centro Arte Contemporanea – Palazzo delle Papesse – Marco Pierini
Centro Warburg Italia – Gioachino Chiarini
Centro Mario Rossi per gli Studi Filosofici – Alberto Olivetti
IMM – Internazionale Marmo Macchine s.p.a. – Paris Mazzanti
Cogemar – Marble & Granite – Gianfranco Giusti e Lino Colombani
Pietra Fina Inc. – Sandro e Michele Bernardini
Cave Michelangelo srl – Franco Barattini

Il progetto è ideato e curato da la fabbrica dell’arte – Lucia Soleri, Alessandra Storniello

Per informazioni:
fabbricadellarte@libero.it
340 17 62 939
333 98 24 594

La fabbrica dell’arte è un’associazione culturale che si occupa di comunicazione dei beni culturali.
Principali esperienze:
Ha collaborato con la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma (1995-2000).
Ha realizzato per il Senato della Repubblica Vedere un vedutista, laboratori alla Mostra “Canaletto, il trionfo della veduta” rivolti a scuole elementari e medie (Roma Palazzo Giustiniani, 11 Marzo-19giugno 2004).
Con il Museo dei Fori Imperiali della Sovrintendenza BB. CC. del Comune di Roma, con cui collabora dal 2000 ha realizzato i seguenti progetti :
Le forme, i segni, la materia – Percorsi multisensoriali al Foro di Traiano, per scuole elementari e medie (Roma, Foro e Mercati di Traiano, Febbraio-Giugno 2002)
Il frammento: presenza – assenza, laboratori alla Mostra “I Marmi colorati della Roma Imperiale” rivolti alle scuole di ogni ordine e grado (Roma, Mercati di Traiano Settembre 2002 – Gennaio 2003)
Frammento e intero, percorsi alla Mostra “Il Museo dei Fori Imperiali e l’Acropoli di Atene: metodologie di restauro a confronto” rivolti alle scuole superiori e ad un pubblico adulto (Roma, Mercati di Traiano, Novembre 2003 – Marzo 2004)
Percorsi alla Mostra “Guarda Roma da romano – Expo mondiale di archeologia virtuale” progetto di comunicazione multimediale applicata all’archeologia, rivolto alle scuole superiori (Roma, Foro e Mercati di Traiano, 16 Settembre – 20 Novembre 2005)
Il Foro e i Mercati di Traiano fra Spazio e Tempo, progetto pilota rivolto alle scuole superiori. (Roma, Foro e Mercati di Traiano, anni scolastici 2002/03, 2003/04, 2004/05)

Le foto pubblicate si riferiscono a Il Foro e i Mercati di Traiano fra Spazio e Tempo e sono state realizzate dai ragazzi che hanno partecipato alle tre edizioni del progetto.

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Chiesa del Santo Volto di Gesù a Roma
di Sartogo Architetti Associati


Il rosone di Claudia Accardi

Massiva, articolata, la Chiesa del Sacro Volto di Gesù presta alle percorrenze automobilistiche il fianco ed il dorso, raccogliendo i fedeli sul sagrato rialzato adiacente il camminamento pubblico. Su questo quasi si protendono a richiamo le campane e da qui, attraverso una breve e rigorosa diagonale, ci si pone in dirittura della Croce monumentale. Il percorso accelera la percezione d’acquisizione del monumento ravvicinando rapidamente i setti perimetrali del luogo sacro e dei volumi di completamento a fronte, con geometria fortemente convergente in pianta e netta separazione volumetrica di chiesa e costruito antistante, filtro alle preesistenze residenziali oltre lotto. Motivata in modo chiaro dai progettisti come attenzione significativamente volta al senso di percorrenza verso la Croce, alla sagoma convergente è ampiamente riconosciuta, in visuale opposta, la valenza simbolica d’abbraccio alla città, trovando precedenti romani assoluti nel Sant’Ivo borrominiano. All’attiva domanda della comunità di quartiere desiderosa del luogo per il culto risponde la scelta programmatica della progettazione estesa, in certo qual modo partecipata, condotta in èquipe fra gli architetti Sartogo e Grenon e la selezionata cerchia di pittori e scultori convocati a concertare il programma di realizzazione dell’architettura e contestualmente della traduzione artistica della comunicazione liturgica. Esposta alla critica, l’opera guadagna giudizi positivi, pur registrando alcune osservazioni sulla tettonica ritenuta da taluni non pienamente convincente, sulle tonalità decise degli annessi, sugli esiti formali additati come post-modern, sulla tipologia ricondotta alle soluzioni “a capanna” in quanto prassi diffusa scartante l’opzione della gerarchia degli spazi fra aula principale ed ambiti più raccolti. Ma come ben fissato in parole da Calvino, la capacità di alimentare il dibattito dagli umori più vari è attitudine dei gesti artistici significativi.

Presenza e assenza della cupola
Oltre ai talenti d’impianto e di programma, l’opera giunge particolarmente al fruitore per lo spiccare notevole del corpo semisferico centrale, da alcuni ritenuto partecipare alla citazione dell’elemento ‘cupola’ mediante fogge più proprie dell’uso mediorientale piuttosto di quello latino. Il volume si mostra infatti netto, puristicamente vestito di lastre litiche dall’impatto esteriore omogeneo ed è solo lievemente scalfito dalle leggere spigolature del rivestimento in conci di geometria definita precisamente in travertino romano. Nel complesso esso risulta quale elemento ordinatore dell’intorno, pianeta attorno a cui gravita il costruito circostante. Quanto invece al suo rapporto con i pieni e vuoti in cui si articola interiormente il progetto, venendo dunque alla significatività della porzione mancante della sfera ed agli esiti architettonici con cui quest’assenza prende in verità corpo, è stato più volte già scritto da altri. L’analisi di Massimo Locci sul numero 58/05 del Bimestrale dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia ci pare più di tutte entrare in profondità: “I concetti di assenza e virtualità, che Sartogo padroneggia dagli anni Sessanta, grazie anche al rapporto stretto con il mondo dell’arte, sono qui intesi come segni forti e strutturanti, capaci di decostruire la massa edilizia, sezionarla e scomporla in più elementi, come se una faglia orizzontale avesse attraversato il manufatto (“l’architettura è un genere che vuole essere attraversato”) facendo emergere il corpo architettonico che era inglobato nella sagoma, come un calco michelangiolesco dello spazio in negativo. Non a caso “Vitalità del negativo”, una mostra che ha segnato una generazione, è stata allestita nel 1970 al Palazzo delle Esposizioni proprio da Piero Sartogo e Achille Bonito Oliva. Quest’ultimo a tal proposito evidenzia: “Sartogo ha sempre lavorato tra l’interno e l’esterno, tra il pieno e il vuoto, creando una sorta di spazio dell’eco, uno spazio di rimbalzo dello sguardo (…) ha lavorato sul dormiveglia che credo sia l’ossatura, la nozione fondante dell’arte; quel luogo del confine in cui si può delirare ma in cui si può anche riflettere”.
Una veduta da via della Magliana

Travertino romano
Il ricorso esteso al travertino romano ci pare assuma significati molteplici: dall’affidamento alle risorse ed alle parallele suggestioni del genius loci, all’assonanza ed al richiamo fisico alle realizzazioni romane alte dell’antico testimoniato nelle più parti della città, come pure del moderno con riferimento speciale all’Eur. Il tono elevato conferito dalla scelta materica coincide con l’esito della valorizzazione della spazialità sacrale; l’applicazione in interno e parimenti in esterno costituisce legante sottile tra vita pubblica e spirituale. La specificità del tipo romano classico, entro la famiglia comune ai travertini delle rocce sedimentarie calcaree, risiede nella provenienza dalle zone ai margini del vulcano laziale, in particolare da Tivoli. Il lapis tiburtinus, il conseguente nome comune latino, introduce in modo pacato e solenne all’ampio spazio sacro, in cui ambiti definiti sono prescelti per alloggiare tonalità forti spiccanti nella luminosità d’insieme. La cortina vitrea, vicendevolmente occhio verso il cielo e verso l’aula, cela entro rivestimenti leggeri l’arditezza dell’ingegnerizzazione dei suoi sostegni: la cupola si regge infatti senza ausilio di pilastri, a sbalzo rispetto alla struttura circolare in acciaio a mozzo eccentrico del diametro di 20 metri circa a tenuta del rosone in cristallo. Al centro è mancante il viso del Christus Pathius in fusione di ghisa per opera di Jannis Kounellis, mentre la concezione figurativa del rosone si deve a Carla Accardi. L’imponente croce svettante al fulcro visivo di chi accede è di Eliseo Mattiacci, di Giuseppe Uncini il filtro in tondini metallici posto a cancellata. Mimmo Paladino si misura all’interno con le stazioni della Via Crucis sviluppando il tema dei quattro elementi; gli apporti scultorei di Chiara Dynys, le filigrane del volto di Gesù di Pietro Ruffo e le pitture murali di Marco Tirelli completano il programma artistico permanente.
Le fotografie a corredo del testo sono gentilmente messe a disposizione da Giovanni Rinaldi, travel photographer cui è indirizzato lo speciale ringraziamento non solo per la condivisione degli scatti, ma per la documentazione interpretativa dell’architettura.

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di Alberto Ferraresi

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Un pomeriggio con Theimer

All’inizio dell’anno, quando è stato preparato il programma del giornale, la Redazione aveva dato precise indicazioni al vostro cronista: intervistare scultori che lavorano sui marmi, in particolare sul Bianco di Carrara, tralasciando chi sceglie preferibilmente altri materiali, come il bronzo. Ma quando, chiacchierando con l’amica Alessia Lupoli dell’Ufficio Cultura del Comune di Pietrasanta, si è presentata l’occasione di intervistare uno dei più affermati artisti del mondo, la tentazione di disattendere l’ordine è stata troppo forte. Eccoci dunque, un pomeriggio di fine estate, nel laboratorio dello scultore e pittore, all’interno della Fonderia Artistica Del Chiaro di Pietrasanta.

Stefano De FranceschiTheimer nasce in Repubblice Ceca, border-line dell’antico Impero Romano.
Una volta ha detto di essere interessato più alle frontiere che ai territori. Cosa significa questa frase?
Ivan TheimerLe frontiere sono zone di contatto dove le correnti s’intrecciano e si sovrappongono e dove fiorisce sempre una sintesi felice e feconda. Sono stato lo scorso Aprile in Bhutan a visitare i templi del Buddismo e sono rimasto colpito dalle differenze fra le gente in uno stato piccolo come il Tibet. Una popolazione isolata, che abita un
territorio dalla natura aspra e difficile da domare e che parla venti dialetti diversi. Le stesse mescolanze le ritroviamo nell’architettura e nella religione dei monaci buddisti,
a testimonianza di una cultura dalle mille sfaccettature”.


Colonne di Place de la Victoire, Bordeaux, 2005

S.D.F. Cosa le ha lasciato la sua terra?
I.T. Anche se sono cresciuto nell’ex Cecoslovacchia ai tempi del blocco comunista – dove era difficile conoscere realtà e culture diverse da quelle imposte dal regime – porto sempre con me i ricordi dell’infanzia, che sono quelli più importanti nella vita di un uomo. La Moravia è terra di mescolanza di popoli ed etnie, eredità forte e ancora presente dell’Impero Austro-Ungarico. La realtà culturale artistica ed urbanistica era dunque un mosaico di diversi contributi: grandi architetti come Carlo Scarpa e Joze Plecnik hanno lavorato qui e in altre città come Varsavia e Berlino. Poi, subito dopo la 2° guerra mondiale, c’è stata una separazione delle arti: la pittura, la scultura, i mosaici, gli intarsi avevano un ruolo d’insieme nei grandi progetti urbanistici. Oggi l’innovazione tecnologica privilegia materiali come il cemento e l’acciaio che rendono fredde, omogenee e poco attrattive le grandi opere urbane. E questa perdita di identità si evidenzia ancora di più nell’avvento della società consumistica odierna in cui le spaccature del mondo occidentale e la sua supposta omogeneità sociale e politica è attaccata; le regole del consumismo hanno cambiato radicalmente il modo di vivere e l’uomo resta schiacciato dal nuovo pensiero. Si parla oggi tanto della Cina, un paese così diverso dal nostro modo di pensare, dalle origini antiche, che anch’esso subisce la nuova cultura consumistica; e allora ecco che va in crisi l’identità più vera del popolo, sotto la pressione dei mass media che annullanno il pensiero culturale. E quegli artisti che riescono a restare indipendenti rendono il proprio lavoro, ovvero l’arte, un paradiso perduto di cui però l’uomo moderno non sente più la necessità.


Testa di medusa, 2005

S.D.F. Il critico Giuliano Briganti la definisce artista dal temperamento irrequieto.
I.T. La mia è una preoccupazione che deriva dalla consapevolezza di essere disarmato di fronte alla perdita di qualità dell’esistenza umana, in tutti i suoi aspetti e perciò anche nel campo dell’arte. Questa deriva da una precisa matrice storica e culturale: la perdita di questi valori in nome del profitto o del consumismo sfrenato annulla l’ispirazione e l’arte perde tutto il suo valore.

S.D.F. L’opera di Theimer: un grande universo popolato da innumerevoli e mutevoli figure: qual è il filo conduttore del suo lavoro?
I.T. La lotta terribile fra visione pittorica e visione della scultura. Ho avuto la fortuna di imparare fin da bambino entrambe le tecniche delle due arti, ed oggi sono consapevole che esse si possono imparare solo da giovani, in modo naturale e spontaneo, come il bambino che pian piano impara la lingua e la scrittura. Nell’età adulta, però, questo apprendimento può rivolgersi contro l’artista, che si trova di fronte al dilemma di quale scelta fare.
E’ quanto afferma l’amico Tongiani che oggi, nel pieno della sua maturità artistica, si dedica quasi esclusivamente alla pittura, trascurando la scultura”.

S.D.F. Le sue opere rievocano spesso l’antichità: qual’è il ruolo della storia dell’uomo nel lavoro di Theimer?
I.T. Gli esseri umani nel corso della loro esistenza sono cambiati, ma pur nella frenetica evoluzione fisica e tecnologica, sono sempre rimasti gli stessi: l’uomo di oggi è il solito che nei dipinti di Paolo Uccello, Goya o Picasso si veste, mangia, lavora, vive gli stessi eventi tragici della sua esistenza come la guerra.
Le antichità dunque si perpetuano nella modernità, le tracce del passato pongono le basi del nostro futuro. Ma in questo quadro d’insieme, l’uomo non cambierà mai certe sue caratteristiche come l’autodistruzione.

S.D.F. L’arte nell’anno 2006.
I.T. E’ la risposta alla gente che ci chiede di rappresentare un sogno e raccontarlo in un linguaggio comprensibile. Ma è sempre più difficile svolgere questo compito perchè oggi il lavoro degli artisti subisce tutti i vincoli economici e burocratici della società attuale; regole, queste, che sono positive ed importanti per quanto riguarda lo stato e l’apparato sociale, ma sono nello stesso tempo una negazione per l’arte che è libera invenzione, vita e poesia. Nella stessa Pietrasanta, che io frequento oramai da tanti anni, il clima è cambiato: ieri si poteva respirare una comunione di ispirazione e l’arte e il pensiero erano elementi inscindibili, che facevano rivivere il clima romantico dei bohemienne di Parigi. Oggi questa “febbre” di creatività si è dissolta e tutto è diventato fragile e debole. In una società dominata dal consumismo e dal profitto, l’artista si trova costretto ad adeguarsi e a mercanteggiare la sua opera. Egli non sogna più e questo è terribile”.

S.D.F. Come altri artisti di fama internazionale che vivono e lavorano a Pietrasanta, si avvale della collaborazione delle botteghe d’arte della nostra cittadina. Questi piccoli “grandi” artigiani che sono sconosciuti al grande pubblico ma svolgono un lavoro importante per la cultura. Qual è il loro ruolo nella cooperazione con l’artista?
I.T. Gli artisti a stretto contatto con le botteghe artigiane sono pochi, tanti lavori vengono delegati. Eppure il rapporto con le maestranze locali è fondamentale, uno scambio reciproco e fecondo di informazioni, consigli, esperienze. Io stesso chiedo sempre il parere di Maurizio Galleni, un giovane che lavora nella Fonderia Del Chiaro, per sapere come unire il ramarro e la vipera nel bronzo. Potrei starmene comodamente seduto nella mia casa di Parigi e parlare al telefono o con il pc, ma se voglio veramente imparare devo essere qui, fianco a fianco dell’artigiano, alla ricerca dei segreti del suo mestiere. E’ troppo importante non perdere questa ricchezza del confronto, senza di essa Theimer artista non esisterebbe.


Delfino

S.D.F. Gli obelischi per il Palazzo dell’Eliseo e il Monumento per i Diritti dell’Uomo nel Campo di Marte a Parigi, le porte sull’autostrada vicino Nantes, oltre a sculture per le città di Kassel, Marburgo, Gelsenkirchen, Amburgo: Theimer è un vero specialista nella realizzazione di monumenti pubblici.
I.T. Non mi dedico solo a grandi opere pubbliche: ho fatto acquerelli e piccole sculture, ma è vero che una parte del mio carattere è attratta dai grandi spazi urbani e dalle opere monumentali. Tale mia inclinazione penso abbia avuto origine da bambino quando, andando a messa accompagnato da mia madre, a piedi sotto la neve attraversavo una piazza di Olomouc dove si trova una colonna enorme, scenografica, dedicata alla fine della peste del 1700, oggi patrimonio mondiale dell’Unesco”.

Biografia
Ivan Theimer nasce nel 1944 in Moravia (Cecoslovacchia) dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Nel 1968 partecipa alla Biennale di Bratislava, poi si trasferisce in Francia dove continua gli studi all’Accademia di Belle Arti di Parigi. Espone nel ’73 alla Biennale di Parigi e nel 1978 è invitato a partecipare alla Biennale di Venezia. Nel 1982 alla Biennale di Venezia interviene con una esposizione personale alla rassegna “Arte come Arte: la persistenza dell’opera”. Nel 1989 partecipa all’esposizione “La France, Immages of Woman and Ideas of Nations” a Londra. Nel 1995 è ancora presente alla Biennale di Venezia per il centenario di Palazzo Grassi. Nel 1998 gli è stato assegnato il Premio “Pietrasanta e la Versilia nel mondo”. Le sue mostre si tengono in Francia, Italia, Svizzera e Germania e culminano nella grande antologica a lui dedicata nel 1996 al Belvedere del Castello di Praga. Numerose le sculture destinate agli spazi pubblici che gli sono state commissionate: in Francia si ricordano i tre obelischi in bronzo per la sede del Palazzo dell’Eliseo e il Monumento per i Diritti dell’Uomo nel Campo di Marte a Parigi, in Germania ha realizzato sculture per varie città, fra cui Kassel e Amburgo. Vive a Parigi ma soggiorna spesso in Toscana, a Pietrasanta, dove si trovano le fonderie artistiche e gli artigiani con i quali lavora.

Stefano De Franceschi

L’intervista è stata pubblicata su Versilia Produce n. 54, 2006. Si ringrazia Cosmave e Stefano De Franceschi, autore dell’intervista, per la disponibilità alla rieditazione.

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9 Novembre 2006

Opere di Architettura

Kengo Kuma, Lotus House


Veduta verso il contesto naturalistico (foto Daici Ano – Archivio Kengo Kuma)

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Una sezione sul paesaggio.
Distinguendosi dalla sperimentazione contemporanea più radicale che assimila l’architettura al paesaggio, contaminando reciprocamente reminiscenze land-art e tecniche digitali di morphing, Kengo Kuma mette in reciproca tensione artificio e natura. L’obiettivo è perseguito lavorando sulla sezione dell’edificio, che nega il concetto di facciata attraverso una innovativa interpretazione del tema della parete.

Il contesto
L’edificio unifamiliare si colloca in una radura, attraversata da un fiume, tra la fitta vegetazione boschiva, sviluppandosi nella direzione dell’asse eliotermico. L’impianto monodirezionato, disposto su due livelli, unitamente alla profondità semplice del corpo di fabbrica, richiama le proporzioni di un lotto urbano giapponese insolitamente isolato. La condizione di straniamento che ne deriva risulta amplificata dalla collocazione dell’area di pertinenza- una vasca d’acqua con fiori di loto alimentata dal corso d’acqua- in aderenza al lato maggiore rivolto a sud, verso cui si aprono tutti gli ambienti di vita. A causa della sostanziale chisura della parete controterra a nord- all’interno della quale, per l’intera profondità della casa, si sviluppa la manica distributiva- e dei fronti brevi, occupati da garage e scala di servizio, l’intero edificio si configura come sezione prospettica sul paesaggio a valle. Gli spazi principali sono collocati al piano terreno. In particolare, la zona giorno si organizza attorno a una corte coperta a doppio volume, dalla quale è possibile accedere al piano soprastante, dove si trovano la sauna e un tetto-terrazza contraddistinto dalla presenza di un ulteriore specchio d’acqua. Utilizzando le scale in testa ai lati corti dell’edificio è possibile ritornare alla quota di campagna.


Visione d’insieme

Instabilità e mutevolezza dell’architettura
La ricerca di Kengo Kuma è improntata a una progressiva destabilizzazione della dimensione oggettuale del manufatto architettonico, al fine di ripensarne i termini di coesistenza con l’elemento naturale. Ciò non comporta, tuttavia, una dissolvenza dell’edificio, come avviene nell’opera di Toyo Ito e di Kazujo Sejima, che lavorano in tal senso sul tema della trasparenza. Alla smaterializzazione viene infatti sostituita una visione dinamica dello spazio, reso fluttuante dalle continue vibrazioni delle pareti che lo delimitano, per il diverso effetto incidente della luce, e dalla fluida continuità degli ambiti ottenuti. L’identità mutevole dell’architettura, in relazione alle imprevedibili variazioni, quotidiane e stagionali, dell’ambiente, ristabilisce in tal modo un’armonia possibile tra lavoro dell’uomo e natura.

Il linguaggio
L’integrazione con il paesaggio circostante avviene attraverso la dissoluzione dell’involucro architettonico, sostituito da una libera disposizione di partizioni verticali e orizzontali che articolano lo spazio stabilendo un senso di continuità tra interno ed esterno profondamente radicato nella tradizione architettonica giapponese. La composizione aperta risultante evoca tuttavia anche la lezione neoplastica, riletta attraverso colte citazioni miesiane (v. il padiglione di Barcellona), soprattutto per quanto concerne la riduzione minimale delle componenti, la relativa intercambiabilità e la ricerca di una forte compenetrazione tra artificio e natura.


Corte coperta a doppio volume

Artificio e natura
Nella poetica di Kengo Kuma la distinzione tra artificio e natura non è di sostanza, bensì di grado. Il primo appare infatti come il risultato di un processo di progressiva astrazione del dato naturale, interpretato nelle sue complesse dinamiche interne e interazioni esterne. Così come la natura è il prodotto unico e irripetibile della coazione tra forze instabili e materie a cambiamento di stato continuo, per l’architetto giapponese l’artificio è il risultato replicabile di un sistema di operazioni impersonali e standardizzate esercitate su componenti prodotte industrialmente. In analogia, alla corruttibilità dei materiali naturali, indotta dal tempo e dagli agenti atmosferici, Kuma contrappone la durata teoricamente illimitata dei prodotti industriali di cui si serve e delle lavorazioni speciali a cui sottopone quelli naturali, privandoli di qualsiasi connotazione artigianale. Per comprendere pertanto l’aspirazione di Kuma a ristabilire una consonanza tra architettura e natura bisogna analizzare la “parcellizzazione” dei materiali da costruzione, sistematicamente perseguita in stretta aderenza alle condizioni di illuminazione dello spazio.


Vedute verso il paesaggio

La luce
La “parcellizzazione” dei materiali da costruzione permette a Kuma di ottenere superfici vibranti e mutevoli in rapporto alla diversa quantità e qualità di luce, semplicemente agendo sulla relativa texture. La moltiplicazione delle porosità interne, diversamente perseguita in ragione delle tecnologie di assemblaggio adottate, amplifica e riverbera il risultato ottenuto. Nel caso della Lotus House i diaframmi vengono realizzati montando lastre di travertino su di una intelaiatura di lamine di acciaio inossidabile, le cui componenti risultano reciprocamente incerniarate in modo da garantire un certo grado di liberta anche sul piano orizzontale. La trama modulare risultante, ottenuta alternando lastre piene a specchiature vuote, permette non solo allo sguardo, ma anche al vento, di attraversare la parete, stabilendo un ulteriore consonanza tra natura e cultura.

Nicola Marzot


Il diaframma con lastre di travertino verso la vasca d’acqua

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8 Novembre 2006

Eventi Toscana

Le facoltà del territorio
Le esperienze del decentramento universitario

Promotori: Regione Toscana, Comune di Calenzano, Fondazione Michelucci

CONVEGNO
venerdì 10 Novembre 2006

Calenzano
Centro arte e design e Museo del Design, via Vittorio Emanuele II, 32
dalle ore 9.30 alle 14.00

Progettare in Zone di Frontiera Urbana
ZFU è il progetto territoriale della Fondazione Michelucci che la Regione Toscana ha finanziato nel Piano d’indirizzo 2006-2010 del Consiglio Regionale, Attuazione L. R. 33/2005 “Interventi finalizzati alla promozione della cultura contemporanea in Toscana”.
Il progetto ribalta il concetto di periferia, di “cerchia esterna”, di area di confine e sviluppa il significato di frontiera. Frontiera non come territorio ai margini, limite, confine, ma finestra sugli universi circostanti. Le Zone di Frontiera
Urbana, nelle quali il progetto intende operare, sono zone a forte intensità di fenomeni trasformativi, zone fluttuanti, mutanti che per diversi motivi possono presentare una maggiore permeabilità all’innovazione, alla nascita di nuove
forme di economia locale, allo sviluppo di forme di interazione culturale e sociale, di progetti ad alta complessità di relazioni urbane.

Territorio e società della conoscenza
L’Università sul territorio nelle esperienze di Empoli, Prato, Pistoia, Sesto, Scandicci e Calenzano, consente riflessioni e confronto in termini di rete territoriale e rapporto con le realtà locali, sedi della formazione e nuove dotazioni, presenza universitaria e sistemi di relazioni, infrastrutture di trasporto dei vari nodi e mobilità, dove la mobilità di medio raggio entra nelle dinamiche di organizzazione didattica.
Emergono, insieme ai benefici della nuova articolazione territoriale dell’università, le più evidenti necessità:
– potenziare accesso e servizi di rete interna all’università tra sedi locali e sede centrale;
– costruire maggiori sinergie tra università, governo delle città, realtà sociali ed economie locali;
– supportare la mobilità maggiore del mondo universitario con necessità di servizi alla didattica, allo studio, alla ospitalità e all’inserimento.
Il modello delle nuove realtà universitarie attorno al polo universitario fiorentino, che presenta notevoli differenze, può rappresentare una nuova frontiera se sarà capace di promuovere la propria azione con l’attivazione di maggiori sinergie e l’offerta di punti di eccellenza sia nella formazione che nel sistema di relazioni territoriali.

PROGRAMMA DELLA GIORNATA
ore 9.30 Apertura dei lavori
introduzione:
prof. Raimondo Innocenti, preside della Facoltà di Architettura di Firenze

ore 9.45 Interventi
coordina prof. Raimondo Innocenti, Comitato scientifico Fondazione Michelucci

Decentramento e territorializzazione dell’università: due prospettive
Alberto Magnaghi, presidente del Corso di Laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale e ambientale con sede ad Empoli
Università e territorio: il ruolo degli enti locali
Giuseppe Carovani, sindaco del Comune di Calenzano
Studenti e decentramento
David Fanfani, ricercatore del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio
Servizi didattici per il territorio
Maurizio Fioravanti, presidente di PIN, società di servizi scientifici e didattici del polo universitario di Prato
Mondo economico e università
Paolo Targetti, presidente di Targetti Sankey S.p.a.

ore 11.30 Coffee break

ore 12.00 Tavola rotonda
coordina: prof. Giancarlo Paba, Comitato scientifico Fondazione Michelucci

partecipano:
Simone Gheri, sindaco del Comune di Scandicci
Gianni Gianassi, sindaco del Comune di Sesto Fiorentino
Alfiero Ciampolini, direttore generale del Circondario Empolese Valdelsa
Massimo Ruffilli, presidente del Corso di Laurea in Disegno industriale con sede a Calenzano
Paolo Toni, presidente del Corso di Laurea in Ingegneria dei trasporti a Pistoia
Lisa Cecchini, Firenze 2010 – associazione per il piano strategico dell’area metropolitana fiorentina

sono stati inoltre invitati:
– rappresentanti dell’Amministrazione comunale di Pistoia
– rappresentanti dell’Amministrazione comunale di Prato
– UNISER, il consorzio di servizi didattici per l’Università a Pistoia
– i presidenti degli altri corsi di Laurea e specializzazione nel territorio
– docenti e ricercatori
– associazioni e rappresentanze degli studenti
– rappresentanze sindacali del personale docente e non docente
– mondo economico e della ricerca privata

ore 13.30 Chiusura dei lavori

conclusioni:
prof. Giancarlo Paba, Presidente del Corso di Laurea Specialistica in Pianificazione e progettazione della città e del territorio

Fondazione Giovanni Michelucci – onlus
via Beato Angelico, 15 – 50014 Fiesole (FI)
tel. : +39.055.597149
fax :+39.055.59268
e-mail: fondazione.michelucci@michelucci.it
– web: www.michelucci.it

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Album italiano: Chiostro di San Marco


Chiostro di San Marco (foto Alessandra Acocella)

Nel chiostro di San Marco,
la campana di Savonarola,
incrinata, ha perso la parola:
il suo rintocco lugubre è senza eco.

Qui dipinse l’Angelico:
il dolce fantasma ci sfiora in primavera;
il suo pennello ogni corolla tinse
di azzurro, di carminio, d’albicocca.

Sulla sua sedia un guardiano tossisce;
un gatto smilzo si fa a pezzi con comodo
un debole uccello caduto dal nido.

Azzurri, rosa, nei loro camici bianchi,
alcuni angeli sui rami appollaiati
cantano a suon di tromba l’amore infinito.

Marguerite Yourcenar 1924 (1958)
(Album italiano: Chiostro di San Marco)

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