aprile 2025
L M M G V S D
« Dic    
 123456
78910111213
14151617181920
21222324252627
282930  

Ultimi articoli

Ultimi commenti

Rubriche

Pubblico dei lettori

 

rss

 

Notizie

29 Gennaio 2007

Principale

5earths+1form

English Version

whitecross_51aa.jpg

Penso che il lavoro dell’Agenzia 5+1AA sia il più interessante dell’attuale panorama architettonico italiano. Di recente le sue architetture sono sorte, ora si stanno eseguendo, usciranno presto dal cantiere, lungo la linea di confine. (E, prima o poi, quel tanto o quel poco di immagine ingannevole svanirà, ineffabilmente, ma sparirà dall’orizzonte della linea di confine.)
Il bello è che il limite si ridefinisce di continuo, tra entità allotrope, disomogenee, differenti. Per esempio, il Nuovo Centro Espositivo cresce, tra Milano e ciò che Milano non è. Per altro esempio, l’ex-cinematografo Embassy è rifunzionalizzato, tra l’uso della materia opaca e la messa in opera della materia trasparente. Ancora, il MOdAM è teso, tra la conservazione e la creazione. Così, la Torre Landmark resta magra dall’est all’ovest, svettando sopra l’asta dal nord al sud. Così, il Palazzo dei Frigoriferi_Frigoriferi Milanesi sta introverso, tra il sè stesso coloristico e la città pulsante. Così, il Low Emission Building a Vado si accende della luce incidente e della luce riflessa, entrambe provenienti dalla fonte misteriosa_si direbbe situata nel dipinto magicorealistico ovvero nella prosa d’arte asciutta degli anni venti, trenta, quaranta, persino cinquanta del secolo scorso. E così via.
Nel Paese occidentale, gettato a ponte dal nord al sud, onusto di architettura città territorio, eppure mancante di reti tecnologiche veramente efficienti e deficitario di luoghi e alloggi autenticamente abitabili, queste architetture valgono ad esprimere la ragione e il sentimento della ricerca urgente? O forse occorre riprendere i tentativi della poesia europea novecentesca minimamente sperimentale, e reificare l’architettura, cioè tendere ad oggetti, che di quella ragione e di quel sentimento siano i correlativi oggettivi?
Penso di sì, che sia necessario.
Non a caso, nell’occasione della mostra alla Whitecross Gallery, 5+1AA commissiona al plasticatore l’esecuzione delle miniature di terracotta delle opere architettoniche. Ancora meno incidentale che gli oggetti, i correlativi oggettivi, siano spostati anch’essi al limite, nel caos sottile delle cose. (E dire che nell’insieme la poetica di 5+1AA si segnala per essere assai poco caosistica!)
Là, sulla spiaggia, potrebbero restare, sino a farci ricordare gli ossi di seppia, cose naturali, anzi metafore liriche per il poeta ligure Eugenio Montale del 1925, campione dell’espressione laconica novecentesca. E invece sono portati alla Whitecross Gallery a costituire i pezzi della mostra a tesi, quasi a manifesto del neorealismo magico, cui 5+1AA mai rinuncerebbe. Là, nel terrain vague, potrebbero abbandonarsi, assimilabili a splendidi rottami porosi. Invece vengono messi in posa e ritratti. Notevoli ritratti fotografici (uno cita dall’immortale foto di Walker Evans, Farmer’s kitchen, 1935), i quali vanno a costituire altrettante icone. A loro volta le icone, anzi i correlativi iconici, sono avviati a comporre il catalogo dell’esposizione londinese, se non a disporre l’album analogo all’infolio curato da Edoardo Persico. (Mitica strenna dell’annata 1935 di “Domus”, intitolata Arte Romana, dove le immagini fotografiche delle sculture augustee erano la spia vitale della tendenza, contemporanea con lo spirito dell’adesso.)

Vittorio Savi

commenti ( 0 )

29 Gennaio 2007

English

5earths+1form

Versione Italiana

I think that 5+1AA’s work is the most interesting being done in Italian architecture today. Just recently, the agency has initiated a number projects ‘along the border’ which are now being developed and are on the verge of completion. (I expect that sooner or later that evanescent quality will ineffably slide away disappear from the horizon) Yet the beauty of this work is that it is constantly redefining horizons in a creative world that is multifarious and ever-transforming. For example, their New Exhibition Centre is taking shape on the boundary between Milan and what is no longer Milan; the ex-cinema Embassy has been given a new function with the combined use of opaque materials and transparent elements; the MOdAM is suspended between preservation and re-creation. In the same way, the slender Landmark Tower can be seen from east to west, rising up over the flag from north to south; Palazzo dei Frigoriferi_Frigoriferi Milanesi is introverted, poised between its own colourful structure and the throbbing city; the low Emission Building in Vado is lit up by falling and reflected lights which seem to come from some mysterious source, transporting us to the magical-realism and bare prose of the’20s, 30’s, 40’s and even 50’s. And so on. In this western country, which extends as a bridge from north to south, saturated with architecture, cities and landscapes, but still lacking effective technological networks of communication, as well as places and buildings that truly invite habitation, the question is whether these projects succeed in expressing and responding to the logic and sensibility of what is now urgent contemporary research. Or rather, should we return to the lessons of Europe’s experimental 20th century poetry, which attempted to depersonalize and reify architecture, and treated ‘logic’ and ‘sensibility’ as objective correlatives?
I think we should.
It is not surprising that, for the exhibition at Whitecross Gallery, 5+1AA has commissioned terracotta miniatures of its work. Nor is it surprising that these objects, these “objective correlatives”, have also been shifted to the horizon, into the subtle chaos of things (which is to say that on the whole 5+1AA’s poetics don’t actually appear very chaotic!). They could be washed up on a beach, recalling cuttlebones – the organic elements used as metaphors by the Ligurian poet Eugenio Montale, champion of laconic 20th century expression, in his 1925 work Ossi di Seppia. Instead we find them at the Whitecross Gallery exhibition, forming a kind of manifesto for the magic realism that will always inspire 5+1AA. They could be things abandoned in the terrain vague, wonderful, porous bits of scrap. Yet here they are displayed and represented. These are extraordinary photographic works (see Walker Evans’ immortal photograph entitled Farmer’s Kitchen), they generate new icons. In turn these icons, or these iconic correlatives, comprise the catalogue of the London exhibition, and also the album related to the infolio, by Edoardo Persico (an amazing document contained in an issue of “Domus” entitled Arte Romana, dating back to 1935, where the photographs of the Augustan sculptures were at the centre of new trends, in line with the “spirit of now”).

Vittorio Savi

commenti ( 0 )

27 Gennaio 2007

Opere di Architettura

Casa per anziani a Coira (1989-1993) di Peter Zumthor*

English Version

Casa_anziani_Zumthor
Il fronte murario dell’opera. (foto Alfonso Acocella)

casa_anziani_album

“Perchè nell’architettura recente si riscontra così poca fiducia nelle cose più peculiari che distinguono l’architettura: il materiale, la costruzione, il sorreggere e l’essere sorretto, la terra e il cielo; così poca fiducia in spazi liberi di essere autenticamente tali; spazi in cui si ha cura dell’involucro che li definisce, della consistenza materiale che li caratterizza, della loro capacità di ricezione e di risonanza, della loro cavità, del loro vuoto, della luce, dell’aria, dell’odore?
Mi piace immaginare di progettare e realizzare delle costruzioni dalle quali, alla fine del processo costruttivo, mi ritiro come progettista, rilasciando un edificio che è se stesso, che è al servizio dell’abitare e che è un elemento appartenente al mondo delle cose, capace di fare a meno della mia personale retorica”1.
Dunque, nelle parole dello stesso Zumthor, l’intento programmatico di realizzare un’architettura priva di enfasi, concepita come il frutto di una pratica ideativa volta a soddisfare, con essenzialità ed accuratezza, le esigenze dell’uomo. Di tutto ciò la residenza per anziani di Coira è esempio emblematico.
L’edificio, inserito nel complesso di una clinica preesistente, ospita 21 alloggi e un’infermeria in un volume basso, stretto e lungo, organizzato al suo interno su due piani. Un semplice parallelepipedo, contornato dal severo paesaggio montano dei Grigioni, e adagiato su di un ampio tappeto erboso con la sicurezza di una stereometria muraria rigorosa, appena articolata dal ritmo disteso di ampie superfici vetrate. L’essenza dei materiali, sfruttati nella semplicità e rigorosità dei loro caratteri costruttivi ed estetici, è la sostanza di un’architettura minimalista, sempre chiaramente leggibile nella sua esattezza tecnica e in un’orditura strutturale dal ritmo costante, fatta di elementi murari dall’impianto ad L. Tali setti parietali portanti sono realizzati in conci perfettamente squadrati e spianati di un tufo sloveno molto poroso di colore chiaro, lasciato a vista sia all’esterno che negli interni. Si tratta di una pietra vulcanica sconosciuta nella zona, decontestualizzata, priva di codificazioni culturali specifiche, valutabile soltanto in base alle sue caratteristiche. L’apparecchiatura muraria è in opera quadrata irregolare a doppio paramento con intercapedine d’aria: uno strato isolante è reso superfluo dal notevole spessore della pietra e dalla sua elevata coibenza.

Schizzo_impianto
Il “ritmo” dell’impianto compositivo. Schizzo di studio.

I giunti, estremamente sottili e lisciati, sono realizzati con una malta della stessa tonalità cromatica del tufo così da conferire alle murature l’aspetto di superfici levigate, la cui omogeneità cromatica è appena animata dalle differenti concentrazioni degli scuri alveoli del materiale litico.
Il calcestruzzo a vista della lastra di copertura e dei marcapiani, unitamente al larice rosso dei serramenti, contribuiscono a definire il volume dell’edificio al cui interno setti murari, blocchi sanitari massicci e contenitori lignei degli arredi fissi sono intesi come parti allestitive di un ampio continuum spaziale.

Alfonso Acocella

*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624. http://architetturapietra2.sviluppo.lunet.it/libro/

1 Peter Zumthor, Pensare architettura, Baden, Lars Müller Publishers, 1999, p.32.

commenti ( 0 )

27 Gennaio 2007

English

Home for the Elderly at Coira (1989 – 1993)
Peter Zumthor *

Versione Italiana

“Why does contemporary architecture place so little faith in those unusual things that distinguish architecture: the material, the construction, the supporting and being supported, the earth and the sky; so little faith in spaces free to be so automatically; spaces in which care is taken over the casing that envelops and defines them, over the material consistency that characterises them, over their receptive and resonant capacities, over their cavities and emptiness, over light, air and smell ?
I like to imagine I am designing and building constructions which, when they have been completed, I shall leave, as the architect, ready to be inhabited, a structure that belongs to the world of things, capable of doing without my own personal rhetoric”. 1
Zumthor’s own words reveal his express intention to create a style of architecture devoid of emphasis, conceived as the result of an inventive praxis designed to satisfy Man’s needs in an essential, careful manner. The Home for the Elderly at Coira symbolises this perfectly.
The building, included in a pre-existing complex, has 21 bedrooms and an infirmary, all part of a low, narrow, long volume arranged on two floors. A simple parallelepiped, situated on a grassy site surrounded by the stark landscape of the Grigioni mountains, the building possesses the rigour of its stone walls, broken only by a series of large glassed surfaces. The essential nature of the materials used – of a simple, severe constructive and aesthetic character – is the basis for a minimalist architectural creation characterised by the technical accuracy and constant rhythm of a walled, L-shaped structure. The load-bearing walls are made of perfectly squared and levelled ashlars of highly-porous, light-coloured Slovenian tufa, left bare both outside and inside the building. This volcanic stone cannot be found locally, and given that it is employed outside of its zone of origin, possesses no specific cultural codification, and thus can only be evaluated in terms of its physical characteristics.
The masonry walls are cavity walls (with air in between the two walls), built in an irregular opus quadratum style; there was no need for insulation between the two walls given the considerable thickness of the stone and its own high non-conductivity.
The extremely thin, smoothed joints contain a mortar of the same colour as the tufa stone, thus giving the walls the appearance of polished surfaces, whose chromatic homogeneity is only slightly varied by the diverse concentrations of dark alveoli present in the stone. The concrete roof and pavement slabs, together with the red larch of the window and door frames, contribute towards establishing the volume of the building, within which walls, massive toilet blocks and wooden containers of the fittings, are all part of a large spatial continuum.

Alfonso Acocella

* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624. architetturapietra2.sviluppo.lunet.it/libroeng

1 Peter Zumthor, Pensare architettura, Baden, Lars Müller Publishers, 1999, p.32.

commenti ( 0 )

26 Gennaio 2007

Principale

Reinventare lo spazio pubblico

reinventare_spazi.jpg

Osservatorio sull’Architettura / Fondazione Targetti
in collaborazione l’Istituto degli Innocenti
presenta

Reinventare lo spazio pubblico
incontro con Vito Acconci
a cura di Pino Brugellis e Patrizia Mello

Lunedì 12 febbraio 2007, ore 17,30
Salone Brunelleschi, Istituto degli Innocenti,
Piazza Santissima Annunziata, Firenze

La stagione 2007 dell’Osservatorio sull’Architettura della Fondazione Targetti si apre con un incontro con un personaggio d’eccezione, lo statunitense di origini italiane Vito Acconci, protagonista indiscusso dell’arte e dell’architettura contemporanea da molti decenni grazie alla sua straordinaria capacità di reinventarsi all’insegna della poesia e della vitalità. A lui è dedicata la prima lecture del 2007 dell’Osservatorio sull’Architettura di Targetti che, con il contributo critico di Pino Brugellis e Patrizia Mello, affronterà in modo trasversale le tematiche relative alla progettazione e al riuso dello spazio pubblico.
Celebrato nei più importanti musei del mondo, Vito Acconci rappresenta una delle massime espressioni di “creatività sul campo”; i suoi ultimi lavori sono tutti incentrati sulla creazione di spazi pubblici multi-direzionali ideati per indurre gli utenti a stabilire una intensa interazione con i luoghi.
Sono lavori che nascono da una attenta riflessione concettuale sulle relazioni spazio-temporali, su ciò che è marginale, mimetico o appariscente, familiare o estraneo, digitale o analogico.
Gli esordi di Acconci sono avvenuti nel mondo fluido delle parole e della scrittura, in forma di versi e di racconti. Il passaggio alla concretezza materica si è realizzato per tappe successive, guidato da una crescente curiosità verso l’esterno, verso ciò che coinvolge non solo in prima persona, ma in senso lato, generando gradi diversi di interazione con l’ambiente circostante e con gli altri. Dall’attenzione verso il corpo (spazio privato), la sua forza e la sua teatralità (incarnata soprattutto nelle performance) Acconci è gradualmente passato a puntare l’attenzione su un corpo che interagisce con “l’altro” che lo circonda: situazioni costruite, rifugi, architetture portatili (spazi a metà tra il pubblico e il privato), come è chiaro dalle numerose installazioni realizzate nel corso degli anni ’70 e ’80, supportate da video e musica per poi approdare all’attività più recente che prende ufficialmente inizio nel 1988, con la fondazione dello Studio Acconci, dedito a incarichi di progettazione in ambito urbano (edifici, parchi, piazze, arredi). E’ così che Acconci ha trovato lo sbocco più naturale della sua attività di artista: le sue innumerevoli realizzazioni pubbliche fanno sempre più notizia, gli spazi progettati non possono lasciare indifferenti nè passare inosservati.
A differenza di molte realizzazioni contemporanee, in cui lo spazio pubblico è muto, senza anima, segnato dal tema del verde e del puro gioco degli arredi, lontano da ciò che la gente prova e sente dentro di sè, Acconci e il suo studio realizzano spazi di vita, da vivere in piena libertà, spazi di cui appropriarsi, che non rinunciano mai alla riflessione e all’apertura dei significati. In questo sta l’efficacia di progetti come l’isola artificiale (recentemente realizzata a Graz) che congiunge le due sponde del fiume Mur o la piazza del Performing Arts Center di Memphis o – ancora – il progetto (in corso di realizzazione) di un nuovo parco a Vienna.

Voglio che le persone si imbattano in qualcosa – afferma Acconci – piuttosto che andare in un luogo dove le cose vengono presentate per essere solo guardate. Sono maggiormente interessato al passante casuale in città, a chi si arresta davanti a qualcosa non perchè questo qualcosa viene denunciato come arte, ma perchè coincide con la propria vita personale“.
In questo senso i suoi interventi riattivano il senso pubblico di molti luoghi della città contemporanea, sempre più sopraffatti dalla velocità del succedersi degli eventi, da uno sviluppo urbano extra, generico e non programmabile, votato alla progressiva riduzione dei processi di socializzazione.

Maggiori informazioni su Targetti.com

commenti ( 1 )

26 Gennaio 2007

Principale

La rivoluzione informatica in architettura

maxxi_informatica.JPG

Mercoledì 7 febbraio 2007 ore 17,00
MAXXI via Guido Reni 2, Roma

SIMPOSIO
La rivoluzione informatica in architettura
La collana IT Revolution in Architettura fondata e diretta da Antonino Saggio ha pubblicato ad oggi 30 volumi in inglese ed è stata una risorsa nel processo di approfondimento dei rapporti tra Architettura e nuove tecnologie digitali. Dall’ottobre 2005 la versione italiana della collana ha un nuovo editore, Edilstampa, la casa editrice dell’ANCE, una nuova veste tipografica e 7 nuovi titoli.
L’incontro al MAXXI prevede la presentazione dei nuovi libri della collana, che saranno illustrati dai rispettivi autori.

SALUTI
Pio Baldi, direttore generale DARC
Paolo Buzzetti, presidente ANCE
Margherita Guccione, direttore MAXXI Architettura
COORDINAMENTO
Massimiliano Fuksas
Antonino Saggio
INTERVENTI
Alberto Iacovoni, Alexandro Ladaga, Alexander Levi, Antonello Marotta, Dimitri Papalexopoulos, Vinko Penezi’c, Kre?simir Rogina, Paola Ruotolo, Amanda Schachter, Nigel Whiteley

commenti ( 0 )

24 Gennaio 2007

Principale

Spaces for Art – Adam Caruso (Caruso St John Architects)

British Schoo

SPACESfor Art
Adam Caruso (Caruso St John Architects)

Installation
MARTEDI’ 30 GENNAIO2007
ORE 18 Conferenza presentata da Livio Sacchi traduzione consecutiva
ORE 19.30 Inaugurazione
30 gennaio – 15 febbraio

“Il nostro studio ha sempre fatto un lavoro che è in relazione con cose che abbiamo visto in precedenza. Siamo interessati all’effetto emozionale che gli edifici possono avere. Siamo interessati a come gli edifici sono stati costruiti in passato e come nuove costruzioni possano raggiungere una equivalente presenza formale e materiale. Siamo confusi dallo stato di laissez faire dell’architettura contemporanea. In questo contesto di eccessi ci siamo sentiti attratti dalle più intime ambizioni artistiche delle tradizioni architettoniche del passato.”
Adam Caruso

Adam Caruso (Caruso St John Architects) concluderà la serie di conferenze e mostre di architetti residenti in Gran Bretagna sul tema ‘Spazi per l’arte’ a cui hanno partecipato David Chipperfield, Jamie Fobert, John Miller and Tony Fretton. La conferenza di Adam Caruso si terrà il 30 gennaio 2007 presso la sala conferenze della British School at Rome.
A conclusione della conferenza sarà inaugurata la mostra dei progetti di Adam Caruso (Caruso St John Architects) in programma presso la British School at Rome dal 30 gennaio al 15 febbraio 2007. La mostra sarà divisa in due parti. Una sarà dedicata a ‘spazi per l’arte‘ già completati: una serie di fotografie mostrerà opere d’arte installate nelle Gagosian Galleries di Londra, come pure in altri spazi quali la New Art Gallery a Walsall, e gli exhibition designs per l’artista Thomas Demand. La seconda parte della mostra si concentrerà sui lavori in corso tra cui il Centre for Contemporary Art a Nottingham (CCAN). Il pubblico avrà la possibilità di seguire le diverse fasi del progetto, da quelle iniziali del suo concepimento fino ad oggi. Caruso St John presenterà non solo i disegni esecutivi, ma anche i modelli del CCAN in versione digitale.
SPACES for Art
Adam Caruso (Caruso St John Architects)

THE BRITISH SCHOOL AT ROME
Via Gramsci, 61 00197 Roma tel. 06 3264939

Curatore: Marina Engel
Info: tel. 06 3264939
Periodo:
Inaugurazione: 30 gennaio 2007
ore 18.00 (conferenza) – ore 19.30 (mostra)
Orario: dal lunedì al sabato 17 – 19.30. Ingresso: libero

Ufficio Stampa:
Rosanna Tripaldi
email: rostrip@hotmail.com
mob: 338.1965487

Con il sostegno di:
The British School at Rome
John S. Cohen Foundation
The Henry Moore Foundation
Nicholas Boas Charitable Trust
British Council
Ambasciata del Canada
Agenzia culturale del Quèbec in Italia
Visita il sito The British School at Rome

commenti ( 0 )

L’artigianato alabastrino nel panorama contemporaneo

Banco alabastrino
Il banco di lavoro dell’alabastraio (foto: Sara Benzi)

Giunti all’ultima tappa del cammino attraverso i panorami litici del territorio volterrano, soffermiamo la nostra attenzione sulla realtà contemporanea, avvalendoci dell’incontro con ciò che significa oggi la parola “alabastro” per la città di Volterra.
Una narrazione necessaria per completare il percorso intrapreso attraverso questo territorio e la sua storia; una storia spesso stentata, a volte luminosa, che ha contribuito in maniera preponderante a intessere l’identità del luogo, costituendone ancora il settore trainante dell’economia ed il principale elemento caratterizzante la sua cultura.
Oggi questa preziosa tradizione è affidata alle mani di pochi artigiani, capaci di portare avanti una lotta quotidiana a difesa di questa antica passione, alla quale hanno dedicato una vita di lavoro.
Grazie all’esemplare disponibilità degli alabastrai ed alla insostituibile guida di Giovanni Nerei, attuale presidente della Società Cooperativa Artieri Alabastro, è stato possibile avvicinarsi in maniera diretta a questa affascinante realtà, simbolo di un pregiato artigianato italiano che nel tempo si rinnova, di un connubio di risorse territoriali e capacità tecniche che rendono Volterra un gioiello da conservare. Insieme a loro abbiamo esplorato i luoghi di questa magica pietra; questo compatto, ma nello stesso tempo fragile materiale, che abbiamo conosciuto tramite la visita di una delle poche cave sopravvissute e delle principali botteghe artigiane presenti oggi nel territorio.
È stato quindi possibile ripercorrere il ciclo completo della lavorazione dell’alabastro ed addentrarsi in quelli che sono i principali dettagli tecnici, riuscendo ad analizzare, da una parte, un artigianato rimasto invariato nei secoli, dall’altra, le evoluzioni tecniche e gestionali degli ultimi anni.

L’identità del luogo
L’identità storica conosciuta attraverso i libri, trova un riscontro ed una continuazione tangibili, a contatto con gli abitanti e gli artigiani della Volterra contemporanea. Insieme a loro la rievocazione di un passato, ripercorso attraverso i ricordi o le storie ascoltate, e la narrazione di un presente raccontato attraverso la realtà vissuta ed osservata quotidianamente. Un presente fortemente sofferto, una tradizione tenacemente custodita in una realtà dove una manifattura come quella alabastrina stenta a conservare un proprio spazio, pur nella consapevolezza di rappresentare il valore aggiunto e la vera ricchezza che la rende diversa ed unica al tempo stesso. L’incontro con persone che ancora possono affermare di avere dedicato la loro vita alla realtà litica della propria terra, rievoca atmosfere lontane velate di nostalgici ricordi e nitide disillusioni nei confronti di una contemporaneità dove i percorsi dell’economia si stanno evolvendo e spostando verso panorami sempre più lontani dal puro gusto della bellezza legata al piacere della materia.
L’esplorazione di ciò che ancora la realtà alabastrina può offrire, avvicina a saperi pressochè sconosciuti e, attraverso il ripercorrere dei luoghi appartenenti alle varie tappe, proprie del cammino di questa pietra, ci è data la possibilità di ricostruire quali sono le singole fasi della sua lavorazione, quali i luoghi e quali i personaggi che vi corrispondono, mettendo in luce le trasformazioni o le caratteristiche invariate dei processi di fabbricazione e di un peculiare sistema culturale e tecnico.
Queste si suddividono in precise e distinte fasi, a seconda del prodotto che si vuole ottenere. Dall’escavazione del materiale, i blocchi di alabastro passano nelle mani dello scultore o dell’animalista piuttosto che nel laboratorio del tornitore – colui che prepara i pezzi tondi – o dello squadratore – colui che prepara i pezzi quadri -, per poi essere completati nella bottega dell’ornatista. È così che si viene a creare una precisa suddivisione di tempi, luoghi ed attori che portano alla creazione dell’oggetto in alabastro.

Dalla cava al laboratorio artigiano
I grandi ovuli di solfato di calcio, denominati “arnioni”, i cui più estesi giacimenti italiani si trovano fra i comuni di Castellina Marittima, Orciano Pisano e Volterra, provengono oggi in gran parte dai giacimenti spagnoli del territorio di Saragozza.
Dinamiche economiche e territoriali hanno portato all’abbandono della maggior parte delle cave toscane, dalle quali si estraeva questo prezioso materiale litico, privando l’artigianato volterrano di un materiale dalle qualità eccelse di cui il territorio è ancora ricco, e costringendo la maggior parte degli artigiani a lavorare un materiale qualitativamente più povero.
Fra i pochi siti estrattivi sopravvissuti, Giovanni Nerei ci porta a visitarne uno della zona di Volterra. Cava a cielo aperto, da distinguere da quelle sotterranee, la cui attività estrattiva è stata abbandonata ormai da molti anni, conserva fra le tortuosità della sua terra interi arnioni e frammenti di alabastro pronti ad essere estratti e ripuliti dalle abili mani dei cavatori. Un tempo muniti di piccone e martelli a punta, spesso appositamente modellati dai fabbri e dai magnani, dagli anni Cinquanta gli escavatori si sono perlopiù avvalsi dei moderni martelli pneumatici.
Una volta estratto e ripulito, l’ovulo di alabastro, a seconda del proprio destino, si avvia verso i laboratori artigianali, ordinati in una sorta di scala gerarchica dagli stessi alabastrai: scultura, animalistica, ornato e tornitura, a seconda della tecnica richiesta, l’abilità impiegata ed il manufatto prodotto.
È da questo momento che ci si addentra nel seducente mondo delle botteghe artigiane, quei luoghi ricoperti di polvere bianca, dove disordinati e vecchi banchi di lavoro accolgono sulla propria superficie moltitudini di utensili, famiglie di modelli in gesso, serie di campioni e disegni di ornato. Dove vecchie fotografie, melodie radiofoniche o stridenti suoni di macchinari si diffondono nell’aria, accompagnando i gesti esperti dell’artigiano che modella con maestrìa teneri blocchi della sua amata pietra.

Bottega ornaista
La bottega dell’ornatista (foto: Sara Benzi)

La bottega dell’alabastraio, custode di antiche tecniche di lavorazione
Tipico personaggio della realtà volterrana, l’alabastraio ha da sempre rivestito un ruolo singolare. Portavoce di una tradizione, custode di un sapere e membro di una vivace comunità distinta fra i gruppi sociali dell’ambiente limitrofo, l’alabastraio è divenuto oggi un raro superstite desideroso di raccontare e spiegare al mondo esterno la propria realtà. Accoglie con benevolenza il visitatore nel proprio regno, mostrandogli i principali strumenti del mestiere e facendolo partecipe di ciò che lo circonda.
La bottega artigiana, che ha accolto dagli anni Sessanta le innovazioni tecnologiche portatrici di nuovi strumenti di lavoro, è divenuta luogo della tradizione e del cambiamento al tempo stesso. La meccanizzazione del processo produttivo, oltre a contribuire ad un’accellerazione dell’iter di fabbricazione e, purtroppo, ad una frequente diminuzione della qualità dei manufatti, ha portato alla trasformazione delle dinamiche di produzione, contribuendo alla drastica riduzione del numero di maestranze ed alla sparizione di antiche usanze come l’apprendistato a bottega.
Seguendo il cammino dei blocchi di alabastro, una delle prime tappe è il laboratorio del tornitore; questo, spesso situato a fianco della bottega dello squadratore, è collocato perlopiù al di fuori del centro storico, sia per l’inquinamento acustico che può provocare, sia per la necessità di ampi spazi, difficilmente individuabili all’interno della fitta trama del centro cittadino.
Fra le botteghe appartenenti alla Cooperativa Artieri Alabastro un laboratorio di tornitura a mano è quello di Peretti. Veniamo accolti in maniera ospitale e, attraverso gli angusti spazi lasciati vuoti dai possenti macchinari, avanziamo calpestando uno spesso strato di polvere induritosi nel tempo e trasformatosi in terreno irregolare.
In questo laboratorio si creano vasi, piatti, colonne che l’ornatista dovrà decorare e finire in una fase successiva. Il tornitore ci illustra la sua arte e capiamo che dall’ovulo di alabastro si ricava lo “sbozzo” per poi proseguire con la “scandagliatura” che si effettua con martellina, seste e trincione (pressochè sostituito dalla sega a nastro dagli anni Venti del Novecento), dal quale si ottiene un cilindro con base conica. A questa fase seguono la “sbronconatura”, la “scorollatura”, la “spessoratura” e la “levigatura”. Il pezzo viene fissato al tornio che, girando a velocità crescente, insieme a rampini e compassi maneggiati dall’artigiano, assume la forma finale pronta a sottoporsi agli strumenti dell’ornatista.
Il tornio elettrico, utilizzato oggi dalla maggior parte degli artigiani, è stato preceduto da quello a pertica, in uso fino a circa il 1910. Questo era un particolare tipo di tornio a pedale, dove la spinta dell’alabastraio dava il movimento ad una pertica che innescava una rotazione alternata dell’appicco, il dispositivo su cui era fissato il pezzo da lavorare.

Tornio
Il tornio a macchina (foto: Sara Benzi)

Oggi invece il tornio più comune, che unisce l’abilità dell’artigiano alle potenzialità della macchina, è in competizione con un nuovo macchinario: il “tornio a macchina”, il quale arriva a meccanizzare l’intero processo di lavorazione del pezzo. È Giuseppe Famiglietti che ci mostra la sua produzione, facendoci toccare con mano i vantaggi del progresso e la velocità con la quale può essere modellata la copia di un oggetto in alabastro, grazie alla precisione di una semplice sagoma.
Se il pezzo base pronto ad essere ornato non deve assumere forme curvilinee, ma una conformazione squadrata, l’ovulo grezzo passa invece dalle mani dello squadratore. Ci viene mostrata la tecnica del taglio e della squadratura dei blocchi da Piero Melani. L’ovulo, inizialmente, viene sbozzato tramite seghe a strascico (che lavorano in senso orizzontale), per poi, grazie a seghe verticali e modani, essere sagomato secondo la forma richiesta.
Per avvicinarsi alle altre fasi di lavorazione, è necessario addentrarci nel centro storico della cittadina. Ci rendiamo subito conto che la realtà non è più quella di cent’anni fa, descritta dalla letteratura dell’epoca, dove ad una bottega se ne affiancava subito un’altra e un’altra ancora, e dove le stesse strade si impolveravano di bianco. Passeggiando per gli stretti vicoli, però, capiamo che i negozi di oggetti in alabastro, principale attrattiva del turista, non sono ancora rimasti realtà isolata, ma qua e là scopriamo con piacere l’esistenza di botteghe la cui porta, sempre aperta, ci introduce in suggestivi ambienti.
Abbiamo anche qui la possibilità di conoscere alcuni degli artigiani custodi del prezioso sapere.
Quasi a seguire i blocchi di alabastro precedentemente torniti, ci troviamo nel laboratorio di Renzo Gazzanelli prima ed in quello di Valdo Gazzina poi, due ornatisti che si dedicano con cura a mostrarci utensili, materiali, oggetti in lavorazione, manufatti finiti e pronti al tavolo del commercio. Osserviamo le mani dell’artigiano che lavora; l’esperienza e la maestrìa dei suoi gesti rende la lavorazione così naturale, che foglie, fiori e volute sembrano fuoriscire dalla pietra spontaneamente.

Utensili e opera
Gli utensili e l’opera di ornato (foto: Sara Benzi)

Prima fase dell’ornato è il disegno preparatorio, segue la “spartizione” del pezzo per mezzo di sesti, la “raspatura” e la “modellaura”. Grazie a strumenti che un tempo venivano modellati appositamente dal fabbro – scuffina, raspa, gradina, violino (trapano a vite) e svoltino, oggi affiancati da moderni trapani – si tratteggiano e modellano le decorazioni. Per finire, la “levigatura” o “dipesciatura” (un tempo effettuata con pelle di pescecane, oggi sostituita da tele smerigliate in alluminio o carbonio) e la “lucidatura”, portano a termine il processo.
In ultimo l’animalistica e la scultura, tra loro affini. Per la prima due maestri, anch’essi appartenenti alla Cooperativa Artieri, sono Aulo Grandoli, soprannominato “Pupo” e Daniele Boldrini. Per la seconda , ritenuta l’arte più prestigiosa e completa, l’unica bottega rimasta è quella di Alab’Arte, di Roberto Chiti e Giorgio Finazzo, affiancata da laboratori di singoli artisti, ciascuno creatore di un proprio linguaggio. Fra questi Paolo Sabatini può essere ritenuto uno dei maestri dotato di maggior talento, nella creazione di originali sculture dove l’alabastro dialoga magistralmente con materiali quali il legno ed il bronzo.
Cercando di avvicinarsi a queste singolari tecniche di lavorazione, ci addentriamo nella piccola bottega di Aulo Grandoli dove scopriamo un mondo al confine con la realtà, nel quale fantasia e libertà guidano le mani dell’artista, nella creazione di piccole sculture rappresentanti animali di ogni sorta. Appartenente ad una famiglia che da sempre ha maneggiato la tenera pietra volterrana, Grandoli ha scelto di dedicare la propria vita all’arte figurativa inventandosi tecniche, strumenti e cercando di scoprire ed esplorare materiali diversi. La fauna è il suo regno, tanto da ritenere ormai superflua la presenza del bozzetto iniziale, proprio di questa arte. Anche a lui piace raccontare e raccontarsi, descrivendo la propria professione con fare critico nei confronti di una realtà ormai ostile, ma con passione verso un’arte sempre più rara.

Scultura
Una scultura dell’animalista in fase di lavorazione (foto: Sara Benzi)

La catena operativa di questo processo tecnico si differenzia nei modi e negli appellativi da quelli già decritti; è così che la prima fase viene denominata “contornatura”, primo taglio della pietra effettuato con lo svoltino, che porta al contorno dell’animale; segue la “sfaccettatura”, eseguita grazie all’aiuto della minarola e del gattuccio. La sfaccettatura esterna e la ripulitura interna vengono effettuate con svoltino e scuffina, per concludere con piccoli strumenti di ferro attraverso i quali si tratteggiano i movimenti e la muscolatura dell’animale.
In ultimo la scultura, l’arte meno definibile e forse più complessa ha, per l’alabastro, da sempre costituito il sapere più prestigioso attraverso il quale sono state create mirabili copie delle opere d’arte più conosciute. Anche in questo caso la gentilezza dell’artigiano volterrano ci introduce alla conoscenza del suo candido regno, ed anche qui analizziamo le successive fasi della lavorazione grazie alla quale ogni opera prende vita. Spesso la scultura richiede la precedente preparazione di un modello in gesso o di un disegno, cui segue la “segatura”, eseguita spesso dalla collaborazione di due artigiani che si avvalgono di trincioni, seghe a nastro o a morsa. Segue la “sgrossatura” con la martellina, da cui si ricava una prima bozza, per poi procedere alla “modellatura” tramite scalpelli, raspe, ferri e scuffine, dove l’artigiano si attiene a misure e forme del modello, per poi terminare con la levigatura e la lucidatura a olio e cera.
Con questa sintetica descrizione delle principali tecniche di lavorazione dell’alabastro, siamo giunti al termine di questo viaggio, un cammino di scoperta all’interno di uno dei mondi litici della nostra Italia. Dalla tenera terra, al banco di lavoro dell’artigiano, ai preziosi oggetti che popolano le vetrine di Volterra, ma che ancora affrontano lunghi viaggi verso Paesi lontani, siamo forse riusciti a dare un piccolo contributo alla conoscenza di questa preziosa materia, che ci ha coinvolto nell’affascinante esplorazione della sua misteriosa natura.

alabastrino_album
Sara Benzi

logo_traartlogo_portofranco

commenti ( 2 )

20 Gennaio 2007

Principale

Poisongalore.org

Home Poisongalore

Poisongalore: un bloggone unico, rinnovato e arricchito, di grafica (e dintorni), motorizzato da WordPress – grazie al prode GT –, in cui confluiscono i precedenti circolo della grafica, inrete, e zibaldone (ho rinunciato, invece, all’esperimento di notizie di architettura, legato a una specifica mancata occasione editoriale).
Nello zibaldone trovate tutto (o quasi) quel che ho scritto e pubblicato di grafica dal 1993 (da quando ho copia digitale dei miei testi, cioè) al 2006. Asap ne trasferirò l’archivio da queste parti. Se riesco.
Dei blog circolo della grafica e di inrete ho raccolto gli archivi mensili nella pagina Oldies di questo blog, a futura memoria e per Vs agio – ça suffit!
Poisongalore (ormai lo san tutti, è il mio anagramma) è, oltre a questo blog, anche parte significativa di un nome di dominio: www.poisongalore.org (registered, hosted & powered da un amico di antica fede atarista), un sito dedicato alla mia didattica, i cui materiali intendo trasferire anch’essi qui, lento pede.
Per chi è proprio curioso e intende annoiarsi, offro informazione accademico-scientifica di me nel CV, leggasi curriculum vitae, con versioni small (unica online, per ora), medium, large.

Sergio Polano
Poisongalore_logo

Visita il sito Poisongalore.org

commenti ( 0 )

18 Gennaio 2007

Progetti

Monumento ai caduti di Nassiriya*
di Frederic Barogi e Claudio Ballestracci

Giardino dei 19 Mandorli
Veduta notturna del “Giardino dei 19 Mandorli”

Il concorso in due fasi – promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Cultura, dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma – aveva per oggetto l’ideazione e la realizzazione di un monumento dedicato alle vittime dell’attentato di Nassiriya del 12 Novembre 2003 in cui persero la vita 19 nostri connazionali. Il monumento, frutto del lavoro congiunto di un artista e di un architetto, doveva collocarsi a Roma all’interno del parco Schuster ( sulla via Ostiense e nei pressi della Basilica di San Paolo fuori le Mura ) e rispondere a requisiti simbolici e di dimensione ambientale tali da attivare forti processi di riconfigurazione dell’identità urbana di quell’area.
Il nostro progetto si fondava sul presupposto che il futuro monumento dovesse avere un “cuore” che risiedesse nell’alveo umano e nell’aspetto civile di convivenza al di sopra di ogni religione, arma, estrazione politica e sociale.
Questo doveva trarre origine da un sentimento d’intimità e di coscienza che tracciasse 19 linee di congiunzione fra noi e le persone scomparse nella strage attraverso un delicato percorso cognitivo fatto da una serie di incontri con i famigliari delle vittime. Il prezioso frutto di questi incontri-viaggio doveva essere il racconto, la testimonianza, l’avvicinamento, che si finalizzava con la donazione di un effetto appartenuto ad ognuna delle vittime che avrebbe fatto parte integrante del monumento che diventava, così, l’involucro, il vaso, il contenitore dinamico di memorie ed, al contempo, un orto botanico da accudire.
Dall’efferata volontà di annientamento poteva nascere, viceversa, un sentimento forte di vita, di instancabile naturale ricostruzione-riconciliazione, attraverso la realizzazione di un giardino composto da 19 mandorli piantati sulla sommità di un terrapieno di forma ellittica ( 18 x 30m con un piano di calpestio in bianchi ciottoli di fiume e leggermente inclinato ) delimitato da un muro a scarpa in conci di travertino romano.
Ogni mandorlo, segno della rinascita in quanto il primo albero a fiorire in Primavera ( nella tradizione islamica il mandorlo è considerato un albero sacro ) veniva chiamato per nome attraverso un’iscrizione retroilluminata posta ai piedi del suo fusto a ricordo di una leggenda giudaica secondo la quale, attraverso la base di un mandorlo, era possibile accedere alla città immortale di Luz. Il disegno planimetrico del giardino era la rappresentazione della mandorla stessa ( simbolo dell’essenziale nascosto da ciò che è accessorio, oggetto della contemplazione, segreto dell’illuminazione interiore che vive nell’ombra e che occorre scoprire per nutrirsene ) ed il muro del terrapieno il suo guscio: un guscio da cui era, però, possibile accedere.

Giardino dei 19 mandorli
Veduta frontale

Allo stesso tempo il “Giardino dei Mandorli” diveniva anche, il cratere, il fulcro di un esploso che disseminava a raggiera tanti frammenti lapidei che custodivano al loro interno delle scatole di ardesia nera che a loro volta contenevano il prezioso effetto personale appartenuto ad ognuna delle singole vittime. Questi frammenti, metafora dei resti di un edificio scomparso, erano costituiti da cinquanta prismi tronco-piramidali irregolari e di altezza crescente man mano che ci si allontanava dall’epicentro dell’esplosione, erano realizzati in lastre di travertino romano. La faccia superiore di ogni frantume, in vetro a protezione e visibilità delle scatole d’ardesia affioranti da sabbie mediorientali, veniva rischiarata da una piccola lampada alloggiata al suo interno che disegnava, durante le ore notturne, la geografia della sua disposizione sul prato del parco.

Giardino dei 19 mandorli
Veduta dalla Basilica di San Paolo Fuori le Mura

nassiria_album

*Concorso per l’ideazione e la realizzazione di un “Monumento ai caduti di Nassiriya”. Progetto finalista
Progettisti: Frederic Barogi – Claudio Ballestracci
Strutture: Studio Costa
Consulente del verde: Pierangelo Botteghi
Collaboratori: Stefania Bassi, Angela Gorini, Federico Orsini, Filippo Nanni, Gianmaria Socci

commenti ( 2 )

stampa

torna su