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7 Marzo 2007

Principale

Attorno alla nuda pietra

invito

Giovedì 15 marzo 2007 alle ore 17,30, presso la Sala Conferenze del MACRO – via Reggio Emilia, 54 – Roma

Riccardo Francovich, Michel Gras, Salvatore Settis
presentano
Attorno alla nuda pietra
di Andreina Ricci

Coordina Giacomo Marramao
sarà presente l’autrice

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Il travertino e l’arredo urbano
Incontriamo Raffaella Zizzari dello Studio Paladini

Raffaella Zizzari

Raffaella Zizzari

Intervista a cura di Laura Della Badia

Uno studio-impresa che si muove tra progettazione, design e grafica; un’azienda toscana che da tre generazioni si occupa del travertino, con un occhio sempre attento alla ricerca e ai nuovi linguaggi: la collaborazione tra lo Studio Paladini e Travertino Sant’Andrea è iniziata da pochi anni, ma ha già prodotto una linea di arredo urbano (Arredo Dipietra) che rivoluziona il concetto di urban design attraverso elementi essenziali, modulari, ecologici e a basso impatto ambientale.
Ho incontrato Raffaella Zizzari, titolare dello Studio Paladini insieme a Paolo Paladini, nella cornice di Build Up Expo, il salone dell’architettura e delle costruzioni che Milano ha ospitato dal 6 al 10 febbraio. All’interno dello stand, ospitate da una sagoma in travertino e circondate da fioriere, cestini e fontane, abbiamo parlato di creatività, di made in Italy, ma soprattutto della straordinaria espressività di questa pietra…

Laura Della Badia: Le vostre attività spaziano dall’architettura all’edilizia, dall’arredamento alla comunicazione e al design. Vi definite studio-impresa e avete un approccio interdisciplinare ai lavori di cui vi occupate. Quanto è importante oggi la creatività e in che misura esiste realmente un rapporto tra aziende e mondo dei creativi in Italia?
Raffaella Zizzari dello Studio Paladini: Siamo nati come studio di progettazione più che di architettura, perchè l’idea era quella di seguire il commitente dalla fase iniziale fino alla realizzazione e alla manutenzione dell’opera stessa, quindi è per questo che ci definiamo studio-impresa. Ci occupiamo anche degli aspetti non del tutto tecnici, dallo sviluppo di prodotto alla comunicazione. Quanto alla creatività penso che esista un rapporto di questo tipo in Italia, non a caso il made in Italy è una realtà consolidata del nostro Paese e il suo successo si riscontra non solo nella moda ma anche nel design. Certo, c’è una grossa differenza tra l’Italia e altre realtà, perchè da noi molto dipende anche dalle relazioni personali, a volte poco chiare e non sempre mirate al prodotto.

L. D. B.: Arredo di Pietra è la linea di Travertino Sant’Andrea con cui avete proposto un nuovo concetto di urban design, caratterizzato da forme essenziali ed elementi modulari, abbandonando la tradizione italiana che si affida per lo più a spessori sottili. Da cosa vi siete fatti guidare: dalle peculiarità del materiale o dalla vostra filosofia progettuale?
R. Z.: L’idea di eliminare lo spessore sottile è legata alla materia: ci siamo fatti ispirare dalla conoscenza del travertino, dalle sue potenzialità e capacità espressive. Crediamo che il travertino in forma massella riesca a valorizzare gli aspetti peculiari e naturali della pietra. Poi è stato molto importante anche l’apporto di Travertino Sant’Andrea, l’azienda che ci ha fatto conoscere ed apprezzare il materiale. Abbiamo capito che è una pietra sempre diversa in ogni punto in cui la guardiamo, quindi, tagliandola con forme molto pulite e lineari, è possibile giocare sulla sua espressività. Se tagliamo un cubo di travertino, vediamo che una faccia non è mai uguale all’altra, e già questo riesce a connotare il prodotto, al contrario di tante altre pietre, belle, pregiate, ma molto uniformi.

Lavorazione
Lavorazioni d’Azienda

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L. D. B.: La linea Arredo di Pietra comprende sedute, portabici, corpi illuminanti, fontane etc. Ci racconta come è nata, quale di questi elementi è stato ideato per primo e come sono stati sviluppati gli altri?
R. Z.: E’ stato più che altro un insieme di idee che sono venute fuori e poi sono state messe a punto via via, anche cercando di capire le esigenze dell’azienda e la fattibilità. Il rapporto tra azienda e creativo è sempre fondamentale per capire se e come l’idea può essere realizzabile, cosa che è molto più facile con una piccola o media impresa.
Anche questo ci ha aiutati a creare un prodotto non standardizzato: questi elementi sono unici, ogni pezzo è diverso dall’altro nelle venature, nelle sfumature, nel colore. A noi sarebbe piaciuto addirittura numerare i pezzi per far capire che si tratta di una collezione e ognuno di essi non è replicabile.

L. D. B.: La realizzazione di elementi monolitici in travertino richiede una particolare lavorazione e specifici trattamenti?
R. Z.: Questi prodotti sono lavorati con taglio sega e la finitura esterna viene lasciata, appunto, a taglio sega. Non è solo una questione estetica, ma anche di durata nel tempo: se si lucidassero o se si levigassero, avrebbero bisogno di manutenzione e trattamenti per mantenere inalterata la lucidità. Il foro aperto, inoltre, fa respirare la pietra. Tutti gli elementi della linea Arredo di Pietra possono essere trattati con resine particolari, per renderli inattaccabili dagli spray per esempio. Alcune amministrazioni ce lo hanno chiesto. Oppure possono essere trattati per eliminare alcuni dilavamenti dovuti a piogge acide, per esempio. Comunque riteniamo che la pietra vissuta risulti ancora più espressiva.

L. D. B.: E le esigenze di manutenzione?
R. Z.: Ha pochissime esigenze di manutenzione. Questa pietra deve esere semplicemente lavata e, se attaccata da spray, basta una sabbiatura per ritornare all’effetto iniziale. Anche il grande spessore facilita questo tipo di operazione perchè, pur eliminando un sottilissimo strato, non si alterano le caratteristiche del prodotto. Inoltre, intervenendo con un’idropulitrice non si avrebbero quegli effetti di deterioramento che si produrrebbero per esempio sul legno, sulla vernice.

L. D. B.: Qual è l’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni verso l’impiego di elementi in pietra per l’arredo urbano? C’è una maggiore affezione in Toscana e nel Lazio, dove questa pietra è più diffusa?
R. Z.: Non ci sono state preferenze di questo tipo. Abbiamo avuto per esempio richieste da Torino, anche perchè il travertino si presta molto all’uso esterno e, grazie alle qualità meccaniche e di resistenza, è molto adatto anche agli ambienti marini.

L. D. B.: Resistenza, versatilità, valenza estetica, basso impatto ambientale: qual è il criterio più importante oggi nella progettazione di elementi di arredo urbano?
R. Z.: E’ difficile dividere una caratteristica dall’altra, anche perchè la definizione del design non si riferisce solo all’innovazione formale e alla valenza estetica. Bisogna rispettare anche determinate regole: una normativa che in Italia non c’è ma all’estero è molto sentita e rispettata dai progettisti. E poi bisogna creare un oggetto che non sia solo bello e accattivante, ma funzionale, adatto ad un luogo pubblico, resistente anche agli atti vandalici. L’impatto ambientale è importantissimo, e oggi c’è una grande attenzione verso questo aspetto, ma c’è anche una certa confusione perchè tutti si definiscono ecocompatibili.

L. D. B.: E quello che la pietra riesce a soddisfare meglio degli altri materiali?
R. Z.: Senz’altro la resistenza e la versatilità. Quest’ultima va intesa anche in un senso più ampio: quando uno di questi oggetti termina la propria funzione di seduta, di dissuasore, etc., può essere frantumato e riutilizzato, in un ciclo praticamente eterno. Inoltre, per la forma semplice o per la modularità, questi elementi possono avere più funzioni, per esempio, seduta e dissuasore insieme. L’idea, per alcuni elementi, è stata quella di accorpare più funzioni: dissuasore+seduta, seduta interattiva+corpo illuminante. E’importante che sia accattivante l’aspetto esteriore, ma non basta. Spesso in Italia si fa solo restyling, cioè si dà un diverso aspetto a un prodotto ma non c’è vera innovazione nè formale, nè tecnologica. Il design deve invece conciliare forma e funzione

Design
Design dello Studio Paladini

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L. D. B.: Veniamo agli aspetti economici: la competitività del Travertino si gioca più sulla lunga durata o sui costi effettivi di realizzazione e posa?
R. Z.: Diciamo che Travertino Sant’Andrea ha voluto fare anche una politica di prezzo: i prodotti sono molto belli e hanno una valenza molto più alta rispetto al valore economico. Il fatto che durino nel tempo e che la manutenzione sia minima gioca a favore. Lunga durata e costi agiscono quindi come due elementi sinergici.

L. D. B.: Quali sono i principali canali attraverso cui è commercializzata la linea Arredo Dipietra?
R. Z.: Abbiamo una rete di vendita e un agente quasi per ogni regione. La linea è nata due anni fa ed è commercializzata da un anno. Facciamo molte fiere, ci facciamo vedere sulle riviste di settore e poi, l’aver fatto determinate realizzazioni ci fa un po’ da biglietto da visita per proporci alle altre amministrazioni. Il rapporto con le pubbliche amministrazioni è anche abbastanza complesso, perchè bisogna interfacciarsi con molti soggetti: dalla fase decisionale alla scelta e all’acquisto del prodotto, fino all’installazione, è un iter molto lungo.
Torino, Cetona, Rimini, Sassari, Gallipoli, sono tra i Comuni in cui abbiamo lavorato. Ora stiamo facendo una cosa interessante anche a Roma.

L. D. B.: Qual è la sua idea sull’arredo urbano oggi? Cosa è cambiato negli ultimi anni e cosa dovrebbe, invece, ancora cambiare?
R. Z.: Mi occupo di arredo urbano da 5-6 anni e mi accorgo che c’è un’attenzione crescente, anche perchè la cura degli spazi pubblici ha un riscontro forte sul piano sociale. Molte amministrazioni pubbliche si stanno muovendo in questa direzione, altre sono ancora legate al prezzo.

L. D. B.: C’è una città per la quale è stata pensata in particolare questa linea? E quella che vorreste arredare con Arredo di Pietra?
R. Z.: La città ispiratrice non c’è stata, forse un’associazione potrebbe farsi però con Pienza, perchè è la città fatta in travertino. Per le forme abbiamo pensato a qualcosa che si adattasse al moderno come all’antico. Una città che ci piacerebbe arredare è Mantova.

Visita Travertinosantandrea.it

L’autore
Laura Della Badia LAURA DELLA BADIA Giornalista e consulente editoriale, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università di Napoli Federico II. Ha indirizzato la propria attività verso la comunicazione, avvicinandosi anche alla realtà aziendale con un master di Orientamento all’Impresa (Isvor – Corporate University del Gruppo Fiat).
Dal 2002 opera nel settore della comunicazione di progetto e di design. Si occupa di web marketing, lavora come consulente e giornalista per associazioni legate all’architettura e al design. È responsabile di testate di architettura.

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5 Marzo 2007

Principale

Tempo, forma, immagine dell’architettura

Giornata di studi in onore di Vittorio Ugo

logo

Lunedì 12 marzo 2007
Aula Carlo De Carli campus Bovisa
via Durando 10, 20158 Milano

Programma
Ore 9,15 Registrazione dei partecipanti
Ore 9,30 Apertura dei lavori
Introduce Massimo Fortis
Fulvio Papi “L’esperienza teorica di
Vittorio Ugo: architettura e temporalità”

Ore 10,00 Relazioni su invito
Coordina Franco De Faveri
Gianni Contessi, Elio Franzini, Fulvio Irace

Ore 11,30 Coffee Break
Ore 12,00 Relazioni su invito
Coordina Massimo Fortis
Angelo Ambrosi, Giancarlo Consonni, Roberto de Rubertis, Franco Purini
Ore 13,30 Lunch
Ore 15,00 Testimonianze
Coordina Roberto de Rubertis
Luigi Cocchiarella, Elisa Guagenti, Giovanna A. Massari, Daniele G. Papi, Orietta Pedemonte, Alberto Pratelli, Fabio Quici, Andrea Rolando, Rossella Salerno
Ore 16,15 Testimonianze
Coordina Franco De Faveri
Marco Biraghi, Pierluigi Panza, Daniel Payot, Andrea Pinotti, Philippe Potiè, Bruno Queysanne, Ken-ichi Sasaki, Antonio Somaini, Françoise Vèry
Ore 17,15 Testimonianze
Coordina Massimo Fortis
Amedeo Bellini, Ernesto D’Alfonso, Marco Dezzi Bardeschi, Sergio Giovanazzi, Antonio Monestiroli,
Uzushi Nakamura

Ore 18,00 Chiusura dei lavori

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3 Marzo 2007

Ri_editazioni

Le fughe dall’architettura e la condizione della critica*

Copertina

Fughe
Nel mondo accademico si tratta di una via facile poichè è certamente più semplice insegnare ai giovani una “fuga” dall’architettura, anche se in nome dell’architettura, invece dell’architettura (anche perchè meglio può appagare le frustrazioni di chi non realizza).
Nel mondo reale è più comodo, non solo perchè alla moda ma perchè è un sistema più agevole per riscuotere applausi e consensi, fuggire dalle tematiche dell’architettura per accedere a quelle del recupero o del restauro a ogni costo. La ricostruzione del teatro veneziano della Fenice è solo uno dei molti esempi che si potrebbero fare. La presunta ideologia del “come era e dove era” rappresenta nella fattispecie una via sicura di successo e il successo del progettista è sovente anteposto alle esigenze del progetto d’architettura. Nel caso della Fenice si è poi in presenza di due fughe dall’architettura. Una di carattere squisitamente consolatorio consiste nel voler riproporre un manufatto architettonico nella sua
originaria configurazione in nome della memoria collettiva dei fruitori del teatro stesso. L’altra, detestabile, vede il ricorso, per l’attuazione di tale intervento, all’appalto concorso che, tra tutti i sistemi di appalto, è certamente quello che tiene in minor conto le esigenze dell’architettura perchè, per sua natura, deve privilegiare la logica di impresa esasperando tale situazione, nel caso specifico, con tempi di progettazione risibili.

La “Fuga formalista”
Ci sono state e ci sono, lungo l’intero divenire dell’architettura, diverse e svariate fughe dalla più autentica coscienza architettonica, che fanno da contrappunto all’esistenza invece di momenti autorevoli. La fuga più clamorosa e più pericolosa, presente in ogni epoca storica, è certamente la cosiddetta “fuga formalista”, quella cioè che vede erroneamente nella “ratio venustatis” la sostanza dell’architettura. Deriva probabilmente da un’errata interpretazione della triade vitruviana nel senso che, in tale perniciosa condizione, è la sola venustas ad avere il sopravvento su firmitas e utilitas quando invece dovrebbe essere logico attendersi che la qualità dell’architettura derivasse esclusivamente dalla compresenza di tutte e tre le componenti la triade o, meglio, dalla loro contaminazione reciproca. Così nel rinascimento Sforzinda è la fuga formalista dall’architettura (nella fattispecie dai temi della città reale) mentre Pienza è l’opposto.
Appartiene alla sostanza intima dell’architettura e della città assumendosi i rischi e le responsabilità sempre connessi con operazioni di tal genere. La fuga formalista può essere strumentale per leggere tutta l’esperienza post moderna da una particolare angolazione, così come per analizzare il contemporaneo decostruttivismo o Gehry o l’ultimo Eisenmann dell’Università di Cincinnati in cui l’esuberanza formalista, nel momento in cui pare addirittura contestare una costante universale, che è l’attrazione gravitazionale, denuncia incontestabilmente i propri limiti.
Il discorso sulla forma in architettura, come del resto sui formalismi in generale, consente di affermare come essa rappresenti l’ultima spiaggia di un percorso che iniziato su fatti sostanziali, articolato e sviluppato assecondando il disvelamento di detti fatti, approda infine alla forma solo dopo aver esaurito la sostanza.

La “Forma” della “Sostanza”
E’ evidente che non ci si riferisce alla “forma” della “sostanza”, giacchè ogni sostanza architettonica per essere tale ha pur bisogno di una forma (che si dirà positiva), bensì a ciò che rimane della sostanza architettonica quando è esaurita la propria essenza che è pure forma (che si dirà negativa) ben diversa dalla prima menzionata poichè è solo quest’ultima a generare la problematica del formalismo. Quando un particolare pensiero architettonico si è esaurito, nel senso che ha rivelato tutto ciò che doveva esprimere, è inevitabile che dalla sostanza dell’architettura si passi alla forma. Si tratta ancora una volta del prodotto di quella che si è definita come americanizzazione progressiva, o globalizzazione, con conseguente abbattimento di ogni prefigurazione ideologica. “Con la qual cosa, si è condotti quasi automaticamente a scoprire quello che può anche apparire il dramma dell’architettura: quello cioè di vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideologici l’architettura, preferiremo sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale purezza. Anche se essa stessa nasconde ancora un afflato ideologico, patetico per il suo anacronismo”1 e narcisismo. Si potrebbe dunque sostenere che è la crisi dell’ideologia a generare la “forma”, cioè la “non architettura”. Ciò avviene perchè l’ideologia è inutile per lo sviluppo economico, è fuorviante per le classi deboli e dunque soddisfa, perchè ne può essere considerata il prodotto, in maniera quasi esclusiva l’intellettuale. Per sopravvivere l’ideologia deve anche
sapersi negare in quanto tale, deve saper rompere le proprie forme cristallizzate 2 e deve potersi trasformare anche in utopia, se del caso, con i rischi che tale trasformazione sempre comporta. Perchè la trasformazione in utopia dell’ideologia comporta necessariamente la fuga dal mondo reale e l’architettura che ne consegue finisce per non essere più tale, nel senso che pur possedendo una motivazione utopica, che è un particolare aspetto dell’ideologia, attinge quasi esclusivamente a ragioni formali che prescindono dal mondo reale (come avviene per molti architetti della mia generazione).

“Ideologia” e “Utopia”
E’ forse lecito affermare che la trasformazione dell’ideologia in utopia, di per se stessa non è condizione che possa garantire l’esistenza e la sussistenza del fenomeno architettonico nella sua complessa veridicità, anzi potrebbe accelerarne la fine.Così è stato per gli esponenti di punta del Movimento Moderno, così è stato per Stirling, lo è per Botta, per i Fives in generale e per Eisenman e Graves in particolare 3, per il minimalismo, per moltissimi altri e per moltissime altre tendenze.
Così è per chiunque progettista colto che, non riuscendo a rinnovarsi e riconvertirsi, finisce con l’autorappresentarsi come il manierista di se stesso. Questo particolare genere di fuga dall’architettura può essere compiuto in buona o in malafede. Il primo caso, meno deprecabile, può anche verificarsi per uno stato di necessità (come si è sopra esposto); il secondo invece pretenderebbe, ma a torto, di avere un qualche riconoscimento.
Pretende cioè di essere connotato con gli attributi tipici di una particolare ricerca che, per gli scopi che si prefigge, vorrebbe appunto essere denominata come ricerca formale. Ciò che è peggio è che talvolta tale particolare atteggiamento rifiuta di ammettere il proprio stato di fuga dall’architettura pretendendo di avocare a sè l’identità con l’architettura dando luogo, con il perseverare in tale atteggiamento, a molta confusione nel disciplinare.
E a molta confusione pure e soprattutto nel mondo accademico dove, solo didatticamente, sarebbe forse più auspicabile il ricorso a una diade anzichè a una triade.
Per l’insegnamento della composizione e della progettazione sarebbe infatti auspicabile dimenticare la venustas considerandola implicitamente, o strettamente e automaticamente, connessa con la giusta miscelazione e combinazione di firmitas e utilitas.
Si afferma questo perchè invece la maggior parte degli architetti impegnati nell’insegnamento di tali discipline pare troppo spesso indulgere alla venustas. Che lo facciano consciamente o inconsciamente poco importa; ciò che preme, ed è l’antico discorso, è che così operando si finisce ancora per privilegiare la “facciata” rispetto alla “pianta” mettendo in discussione le idee di stabilità e durata “che sono tradizionale fondamento dell’architettura
e del suo progetto”4.
Ci sono poi altri generi di fughe dall’architettura di forse minore rilevanza di quelle dianzi esposte, su cui è bene riflettere perchè hanno caratterizzato e caratterizzano taluni modi di fare architettura e urbanistica.

La “Fuga tecnologica”
C’è stata e c’è la fuga tecnologica, quando da parte di qualcuno si è addirittura cercato di conferire all’aspetto tecnologico il significato e il valore tipici dell’ideologia. Ciò ha pure portato a una sopravvalutazione della normativa, in termini e in modi che vale la pena di ribadire.
Non si può non ricordare come le normative siano sorte principalmente per garantire un livello accettabile di talune prestazioni. Pur tuttavia sono state spesso fraintese come strumenti in grado di assicurare un alto livello qualitativo sia della progettazione che della realizzazione. Tale confusione di ruoli è derivata dal fatto che non è stato possibile recepire, nel modo dovuto, che tra normativa e progettazione architettonica c’è una forte distanza metodologica, osservando la prima i principi deduttivi e operando, la seconda, prevalentemente per via induttiva. La normativa in senso lato, cioè il corpus delle normative nel suo complesso, può tutt’al più costituire condizione necessaria, ma certamente non sufficiente, per garantire la qualità del progetto e della realizzazione. Si deve pure rammentare come “il progetto della città e delle sue parti non nasce dalle norme, nè da loro è ucciso. Non dalle norme che cercano di ridefinire l’identità e i
comportamenti dei diversi soggetti, nè da quelle che cercano di definire consistenza e prestazioni degli oggetti. Nelle norme il progetto trova una resistenza, un limite, un termine di confronto non un impedimento. La storia dell’architettura e della città è piena di esempi luminosi di questo confronto”5.
Pur tuttavia è da rilevare come il corpus di norme nel suo complesso esprima esclusivamente la visione e le esigenze “specialistiche” di chi tali norme esprime, mentre le esigenze dell’architettura sono decisamente “generaliste”.
La gran quantità di norme presenti nel disciplinare applicato dell’architettura e dell’urbanistica è tale che non è possibile, per esempio, confrontarle tra loro. Per loro intima natura non lasciano spazio alla critica perchè la loro emissione non può essere che perentoria. Impongono al progettista di attenervisi punendolo quando egli non vi riesce. Non consentono al progettista di proporre alternative. Lo castrano e lo frustrano continuando, per di più, a espandersi. E se il processo di ingigantimento del corpus normativo per l’edilizia e l’urbanistica continuerà a perseverare lungo la via intrapresa si finirà per rendere quasi superflua la progettazione architettonica.
“I progettisti dovranno limitarsi a fornire una rappresentazione alle norme e alle prescrizioni e cioè a materializzare il grande progetto burocratico (…). La decorazione tornerà a essere l’unico, solitario e ristretto, campo di evoluzione dell’architettura”6. Se ciò avverrà sarà proprio per non avere sufficientemente compreso la differenza metodologica tra normativa e progettazione o, almeno, per non avere compreso in tempo che la norma, per essere utile alla progettazione, dovrebbe potersi spogliare di ogni carattere dogmatico e coercitivo per assumere un carattere squisitamente didattico e didascalico. Dovrebbe cioè abbandonare l’atteggiamento di verità rivelata (giacchè in progettazione architettonica non esistono, perchè non possono esistere, verità assolute) per porsi in maniera propositiva nei confronti del progetto. E’ evidente che per operare in tal senso bisognerebbe che l’estensore delle norme conoscesse pure le esigenze dell’architettura, conoscesse correttamente l’approccio progettuale sia in architettura che in urbanistica, ma che soprattutto avesse meno potere di quanto possiede ora; fosse cioè meno legato a lobby o potentati e non solo economici.
Cosa non trascurabile e di difficile se non impossibile concretizzazione.

La “Fuga sociologica”
C’è stata la fuga sociologica, forse una delle più antiche, con l’evidenziazione della sociologia delle comunità che parte dagli anni ’50 con la riscoperta della cultura architettonica mediterranea, mira all’enfatizzazione dell’architettura spontanea (con matrici culturali lontane nel tempo come l’epopea della civiltà contadina rivalutata da Pagano nel ’36), approda alla rudowskiana architettura senza architetti nella metà degli anni ’60 e prosegue con la etorica della partecipazione originando anche un dibattito vivace ma con esiti scontati e contenuti sovente impalpabili. C’è stata, in tempi recenti, la fuga politica, cui pure si è sommessamente accennato, dove a una irrilevante preparazione disciplinare si è ritenuto di far fronte con la ricerca del potere o meglio con il suo possesso e dominio. Tale condizione ha forse riguardato maggiormente l’urbanistica sottolineando lo scarso valore culturale delle sue scelte che finiscono comunque per costituire e rappresentare un sistema di finanziamento più o meno diretto per le forze politiche al potere e all’opposizione. Solo marginalmente ha interessato l’architettura.

La “Fuga informatica”
C’è stata la fuga informatica, in verità di scarsa rilevanza, che però almeno ai suoi inizi ha generato una serie di problemi dovuti alla confusione sul ruolo che avrebbe dovuto assumere il computer. Da mero strumento di ausilio nella progettazione (come è ed è giusto che sia) a surrogato del progettista stesso.

Le “Fughe artistiche”
Ci sono state e ci sono poi diverse fughe che si potrebbero denominare come artistiche e cui appartiene certamente anche la prima citata, cioè la formalista. Sono caratterizzate dalla quasi totale assenza di interesse nei confronti delle problematiche autentiche dell’architettura. In esse le esibizioni estetiche degli architetti finiscono per configurarsi come inessenziali atti di propaganda del proprio “capitale simbolico” per catturare il “cliente” e incrementare il “fatturato”. Tali esibizioni vengono dai più scambiate per poetiche. Ciò è rilevante e grave ma non come quando gli architetti si autopromuovono mistificando come proprie poetiche tali gratuite esibizioni. La Biennale del ’96 costituisce in tal senso un
esempio evidente. Per di più consente di oggettivare un aspetto importante della disciplina progettuale nei rapporti con la storia e la critica dell’architettura.
A livello generale la rassegna veneziana (dal titolo “Sensori del futuro: l’architetto come sismografo”), pare deludente nei contenuti e nelle proposte.

“L’architettura è il modo d’essere di un’epoca”
“L’architettura è il modo d’essere di un’epoca” diceva Le Corbusier sottolineando come architettura e urbanistica siano necessariamente specchio delle società d’appartenenza in ogni epoca storica, dalle origini alla contemporaneità. La scontata scomparsa dell’ideologia comporta il concentrare l’attenzione sulle singole personalità dell’architettura.
Parafrasando il citato Samonà degli anni ’50 Hollein, che è stato il direttore della Biennale ’96, afferma che “l’architettura si è personalizzata, che non è più questione di movimenti, di imprese comuni fondate su un dogma, su una verità o su una convinzione condivisa. Le nuove idee, tendenze, visioni del futuro, trovano invece espressione nell’opera individuale”.
A livello particolare la sezione italiana, curata da Marino Folin, si propone di scoprire, quasi con la lanterna di Diogene (che è una lanterna molto particolare perchè è quella dell’urbanista), figure nuove di giovani scoprendo situazioni di grande interesse sistematicamente ignorate dalle riviste, dalla critica e dall’accademia.

“L’architettura non è algoritmo”
“Indipendentemente dalle sue scelte, che possono essere più o meno condivise, dal lavoro e dalle riflessioni di Folin nascono idee e valutazioni sulla cultura architettonica italiana”, mirate a individuare linee di lavoro diverse da quelle del blocco accademico-pubblicistico che domina il dibattito architettonico. Il tutto per “identificare figure di progettisti che percorrono autonomamente proprie strade di ricerca, anche con esiti qualitativi non omogenei”7. Soprattutto si rivolge alla ricerca dei cosiddetti “giovani emergenti” da porre in alternativa ai cosiddetti “soloni” dell’architettura. Così operando tuttavia, nella ricerca necessariamente forzata dei giovani talenti, compie un inevitabile quanto grave errore di valutazione tipico di chi confonde ancora una volta le regole del pensiero architettonico con quelle del pensiero scientifico. Nel senso che se può esserci una relazione sicura tra età e scoperta scientifica (anche se le eccezioni sono sempre state e continueranno a essere molte) nel senso probabilistico che è più facile per la mente di un giovane che non di un meno giovane far progredire una disciplina tecnico-scientifica, non si ha la medesima situazione in architettura. Se nelle discipline scientifiche a prevalere è infatti l’aspetto algoritmico, in architettura, come peraltro in buona parte delle cosiddette scienze umane ciò non avviene, perchè è la componente dell’esperienza ad avere un peso e un ruolo determinanti. Sta
proprio nella natura dell’architettura, disciplina fortemente contaminata, la necessità di evolversi attraverso l’accrescimento dell’esperienza dei propri operatori. Lo sviluppo dell’architettura avviene sostanzialmente grazie all’innovazione tipologica e all’evoluzione tecnologica. Non può avvenire in presenza di una delle due ma solo con la compresenza di entrambe. E ciò grazie all’incremento di esperienza difficilmente trasmissibile di ciascun progettista che può avvenire solo con il costante aumento della propria “pratica” sempre in coerenza con la propria “teoria”.
Brunelleschi, Michelangiolo, Wright, Mies offrono il meglio della propria produzione architettonica proporzionalmente all’incremento della propria esperienza di progettazione e di realizzazione nel rispetto dei propri convincimenti ideologici.

“L’architettura dei giovani”
Dovrebbe parer chiaro che il voler cercare a ogni costo il giovane talento in architettura, oltre che a essere operazione discutibile, non può approdare ad alcunchè perchè l’architettura dei giovani, per quanto interessante e promettente ( e Giuseppe Pagano lo sapeva benissimo e si muoveva in tale direzione8), non può considerarsi esaustiva di quanto un’epoca è capace di produrre. C’è stato Terragni, certamente, e anche moltissimi altri che rappresentano comunque delle eccezioni. E le eccezioni non possono essere generalizzate in alcun modo. In progettazione architettonica si dovrebbe lasciare ai giovani il diritto ma anche il dovere di saper invecchiare. Dopodichè sarà più facile, perchè più giusto, giudicarli.

L’assenza della critica
Sia dalla mostra nel suo complesso che dalla sezione italiana emerge con chiarezza la scomparsa, o l’assenza o la latenza, della critica vigorosa d’architettura, con critici e storici relegati alla narrazione e all’interpretazione soggettiva delle opere con il conseguente e necessario sopravvento dell’antologia sull’ideologia9. Due soli esempi che possono valere per molti altri: la produzione Electa con particolare riferimento agli “Almanacchi dell’Architettura Italiana” dei primi anni ’90 sino al recente “Storia dell’Architettura Italiana: il secondo novecento” in cui, a parte le presenze indiscutibili e qualche imperdonabile errore di attribuzione, molte sono le assenze ma ancor più sono le presenze insignificanti rese possibili per una serie di ragioni per lo più note (ben oltre la perversa liaison con le esigenze della promozione editoriale) che comunque poco hanno a che vedere con la qualità dell’architettura; e l’Enciclopedia dell’Architettura Garzanti articolata secondo “un’acrobatica traversata della storia dell’architettura dal paleostorico all’high-tech, trapunta di sconcertanti affermazioni”10. Per entrambi gli esempi valgono le stesse ragioni. Come ciò sia potuto accadere e accada, pur non essendo giustificabile, può essere forse meglio compreso se ci si rivolge a considerazioni generali sulla “critica” in senso lato.

La crisi della critica
E’ la critica11 nel suo complesso a essere in crisi e non solo quella dell’architettura, così come in crisi è la figura del critico, cioè del mediatore o dell’interprete della manifestazione espressiva nei confronti della società. Ciò è molto evidente oggi, almeno nel nostro paese, in virtù della crisi generale di valori, soprattutto etici, che l’attraversano. Soprattutto per il fatto che il ruolo del critico è importante anche dal punto di vista etico quando ciò di cui scrive (come sosteneva De Sanctis), cioè l’oggetto dell’interpretazione o della mediazione, diviene soggetto esso stesso con le denotazioni e le connotazioni tipiche dell'”opera”.
La crisi contemporanea della critica può peraltro essere fatta risalire indietro nel tempo a cavallo fra ottocento e novecento o meglio ancora nel primo quarto del novecento quando la cultura che sino ad allora era patrimonio pressochè esclusivo di una èlite finisce per aprirsi e diffondersi capillarmente nella società di massa. Che ciò avvenga grazie alla critica violenta e puntigliosa di gruppi, che erano le avanguardie culturali, ancor più elitarie rispetto a quella cultura di èlite da cui derivavano, è poco importante. Importante è invece notare come proprio allora cominciò a esser messa in crisi la critica ufficiale nel senso che essa, da sola, non era più in grado di farsi interprete e tramite efficace tra manifestazione espressiva e società d’appartenenza. In architettura ciò è maggiormente sentito, nel nostro paese, proprio quando l’architettura comincia ad appartenere alla cultura di massa. Ciò avviene nel dopoguerra, durante gli anni della ricostruzione, quando l’architettura finisce di essere patrimonio “collettivo” per privilegiare ruoli e assunti “individuali” secondo il già citato pensiero di Samonà. Tale fenomeno contribuisce a indebolire il ruolo della critica architettonica parendo quasi sostituire questa e il suo oggetto tradizionale, l’opera architettonica appunto, con l’artefice dell’oggetto, cioè con il progettista.

Il protagonismo
“E’ quel protagonismo che in ogni campo creativo ha messo in primo piano l’artista e in secondo piano l’opera”12. Situazione da cui non ci si è più ripresi e che anzi è andata progressivamente enfatizzandosi sino ai giorni nostri con la spettacolarizzazione dell’autore e la sua trasformazione in feticcio anche grazie all’uso sapiente, ma pure irriverente, nei confronti dell’architettura, dei mass media.
Quasi come a dire che tutto il peso e la responsabilità di una critica d’architettura onesta e autorevole, vigorosa e efficace, si basa ancor oggi, nel nostro paese, sull’incontestabile personalità di Bruno Zevi. Così come nel secondo dopoguerra il suo carisma, forse ancor più di quello di Rogers, fu di riferimento per tutta la critica occidentale dell’architettura rappresentata da Rowe, Banham, Stevens, Rykwert.
Ciò dispiace per due ragioni. Prima di tutto perchè è impensabile pretendere troppo da chiunque. Nel caso di Zevi è troppa la responsabilità di cui si sente investito che finisce inevitabilmente per portarlo talvolta oltre la misura. Non si può chiedere a nessuno di rimanere sulla “breccia” così a lungo per di più rinfacciandogli i cedimenti o le debolezze in cui è costretto a incorrere. Poi perchè nonostante la grande pletora di storici e di critici d’architettura nel nostro paese manca sicuramente l’erede o il successore spirituale di Zevi, cioè il faro, il riferimento, la guida per chi si accinge al mestiere o per chi, il mestiere, lo pratica da lungo tempo. Condizione che enfatizza non la mancanza di progettisti quanto piuttosto la mancanza del critico “coraggioso” che sappia assumersi la responsabilità della scelta. Critico e progettista, nella società massificata quale l’attuale, paiono viaggiare di conserva alla ricerca del reciproco beneficio che è poi la reciproca autopubblicizzazione. “Tutti sono amici-nemici di tutti, nessun schieramento ideale, solo una serie di piccoli aggiustamenti”13, e di grandi sfortune per l’architettura.

La “Fuga pubblicistica”
Conseguentemente nel nostro Paese, in cui l’editoria specialistica di settore è in costante e progressivo aumento14 perchè tutti scrivono e tutti vogliono pubblicare e pubblicano, manca ancora, nonostante gli sforzi di taluno (peraltro ancora da verificare nella necessaria sedimentazione temporale), una rivista d’architettura che sappia essere autentico portavoce di una linea culturale e critica (ideologica o utopica poco importa), sia di riferimento sicuro per chi crede nei valori autentici dell’architettura e di veicolo pubblicitario per quei progetti e per quelle realizzazioni elaborati e costruite secondo quella particolare angolazione che maggiormente interessa: la costruzione rigorosa del progetto d’architettura coerente.
C’è infine la fuga pubblicistica cui si è accennato dianzi con il progressivo aumento dell’editoria specialistica15. Incremento che si riproduce a dismisura in occasione dei concorsi universitari e da cui ci si deve sforzare di prendere grande distanza perchè rivolto non tanto alla divulgazione o all’approfondimento di particolari tematiche dell’architettura, quanto al consolidamento di quell’aspetto deteriore dell’insegnamento universitario che intende privilegiare, come si è già rilevato, la “carriera” anteponendola allo “stare” con i giovani.
Il concetto di fuga dall’architettura è sinonimo di rinuncia nei confronti dell’architettura medesima. Finisce infatti per tessere sempre più il cosiddetto elogio dell’estetica della consolazione.
E’ da rifiutare, oltre che per le ragioni esposte precedentemente, soprattutto per il fatto che tale atteggiamento non può in alcun modo essere propositivo ma al più consolatorio. L’architettura deve prima di tutto essere propositiva poi, successivamente e secondariamente, può forse anche essere consolatoria o consolatrice.

Alberto Manfredini

L’autore
alberto_manfredini ALBERTO MANFREDINI nasce a Reggio Emilia (1952) dove ha studio uno professionale di architettura.Ingegnere (Bologna, 1977) e architetto (Firenze, 1983), dopo aver insegnato nelle Università di Bologna, Ferrara e Parma è attualmente professore Associato di Composizione Architettonica e Urbana nell’Università di Firenze. Primo premio CNETO (1977), primo premio “Michelucci” – ex aequo- (1981), primo premio IN/ARCH Regione Emilia Romagna -ex aequo- (1990, con Enea e Giovanni Manfredini).


* Il saggio è contenuto in La condizione della progettazione architettonica nell’Italia contemporanea, Firenze, 1998)
1 M.Tafuri, Progetto e Utopia, Laterza, Bari, p.3.
2 M.Tafuri, op.cit., p.49.
3 I New York Fives (Eisenman, Graves, Gwathmey, Hejduk, Meier) erano considerati, ai loro esordi, internazionalisti, astratti e classici in contrapposizione ai Greys di Philadelphia (Venturi, Moor, Giurgola, Rauch) ritenuti figurativi e vernacolari. Entrambi i gruppi si inseriscono con vigore nel dibattito d’allora sul recupero della continuità storica nel progetto d’architettura. Il loro lavoro si pone, almeno agli inizi, come riflessione critica sui principi e sui codici formali della tradizione architettonica moderna e contemporanea. In tal senso e nonostante le apparenze, rifiuta la categoria della “forma” in architettura. L’approccio progettuale è tra i più rigorosi e i più intellettualistici del periodo. L’esito formale cui ora sono approdati è scontato perchè deriva dalla crisi dell’ideologia di partenza; dalla sua utopizzazione e volgarizzazione con conseguente presa di distanza dalla realtà; dall’essersi infine, loro americani, “americanizzati” all’inverosimile. Cfr. M.Graves, Idee e Progetti, Electa, Milano, ’91.
4 V.Gregotti, Piccole sfortune, Casabella n.604, settembre ’93, p.2.
5 B.Secchi, Nuove regole per la città, Casabella n.604, settembre ’93, p.21.
6 G.De Carlo, Facciamo il punto, Spazio e Società, n. 68.
7 Da una lettera di P.Ceccarelli ai docenti della Facoltà di Architettura di Ferrara in data 21 novembre ’96.
8 G.Pagano, Architettura di giovani, “Casabella-Costruzioni”, n.158, febbraio ’41, pp.24-29.
9 F.Irace, Sogni di calcestruzzo e palazzi di cartapesta, Il Sole 24 Ore, 15 settembre ’96, p.35.
10 C.Conforti, Pre editoriale, Casabella n.643, ’97.
11 “Quando si colpisce alla radice il principio di identità si apre la strada alla formazione di stati di passività generalizzata dove non c’è posto per la critica. La critica comincia infatti dalla registrazione del proprio modo di consistere nello spazio fisico e si sviluppa attraverso il confronto con i modi di consistere di altri nello stesso spazio e in altri spazi vicini e lontani. Non c’è critica senza un sistema di coordinate sul
quale si possano tessere idee che finiscono per travalicare le circostanze della loro origine, ma, allo stesso tempo, a queste circostanze restano indissolubilmente legate”. G.De Carlo, Storia natura contesti, in Gli Spiriti dell’Architettura, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp.XXI-XXII.
12 V.Gregotti, Piccole sfortune, Casabella n.604, ’93, p.3.
13 V.Gregotti, ibidem, p.3.
14 “Tale vasta produzione editoriale, specializzata o di divulgazione, svolge un discorso disciplinare interno di tipo scientifico-accademico oppure sceglie di passare direttamente alle pagine dell’intrattenimento e della promozione pubblicitaria; non prevede la critica, l’analisi politica e sociale, e non fa polemica. Casomai ignora. Alcune riviste, la parte migliore di questa editoria, operano in un contesto di scambi internazionali, forniscono le basi dell’aggiornamento, tengono i legami con il dibattito dell’architettura contemporanea, partecipano alla ricerca del nuovo, eppure non riescono a mantenere i legami con la pratica architettonica e lavorano sul target di una ristretta fascia elitaria. Le ragioni di questo distacco vanno rintracciate in una crisi più profonda che investe nel suo insieme il progetto modernista”.
P.Nicolin, Notizie sullo stato dell’architettura in Italia, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp.56-57.
15 “Non si può dimenticare che vi è oggi in atto un cambiamento radicale nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere. Nel passato, anche in quello più recente, tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, ora invece è l’opulenza informativa che viene privilegiata. La nuova scelta strategica consiste dunque nel facilitare, entro certi limiti, l’accesso all’informazione. Ma, di fronte alla prodigiosa quantità di informazioni che lo raggiungono, non tutte affidabili o verificabili, il cittadino è destinato a reagire, prima o poi, con un crescente disinteresse, e persino con insofferenza nei confronti dell’informazione. Perchè in fin dei conti, nelle pieghe più nascoste dell’opulenza informativa si cela l’indigenza informativa”.
T.Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano, 1997, p.91.

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Mino Trafeli

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Mino Trafeli nasce a Volterra nel 1922. Sin dall’infanzia nella bottega di alabastraio del padre lo scultore apprende le tecniche di lavorazione della pietra. Adolescente si trasferisce a Firenze dove prosegue la sua formazione artistica frequentando la sezione Magistero dell’Istituto d’Arte: Alessandro Parrochi è suo professore di letteratura italiana e nel capoluogo toscano egli studia le opere di De Chirico, Soffici, Conti, Rosai. Dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza, continua la sua militanza politica, dapprima nel Partito d’Azione, poi nel Partito Socialista Italiano dove comunque mantiene una posizione autonoma d’impronta libertaria.
Pur mantenendo vivi i contatti e i legami con la sua città d’origine, Trafeli è presente e attivo nei centri più significativi della cultura e dell’arte italiana del dopoguerra: a Milano si lega alla Galleria delle Ore di Fumagalli dove si ripetono sue mostre per tutti li anni ’50 e ’60 del Novecento; a Roma è alla Galleria Schneider nel 1973; a Torino alla Galleria Antidogma nel 1974 con la personale intitolata “Con impossibilità”; partecipa inoltre più volte alla Biennale d’Arte di Venezia, alla Biennale di Scultura di Carrara, alla Quadriennale d’Arte di Roma.
Nel 1973, nella sua città, organizza con Enrico Crispolti la manifestazione “Volterra 73”, esperienza inedita di incontro tra creatività artistica e spazio urbano, e sullo scorcio degli anni ’70 è protagonista di un forte impegno politico e sociale dapprima come interlocutore critico e provocatore intellettuale della contestazione giovanile, poi come promotore di progetti in favore della Legge Basaglia sulla riforma degli ospedali psichiatrici.
A partire dagli anni ’80 si dedica anche al teatro creando “sculture agibili” con l’intento di coinvolgere direttamente il pubblico nella sua opera. Parallelamente a questa ricerca inizia a sperimentare l’uso del video in narrazioni in cui l’immagine gioca con musiche originali create dall’artista riarrangiando e deformando radicalmente la struttura di opere note.
Nel 2006 Mino Trafeli è stato protagonista di “Cantiere Trafeli”, un laboratorio di pratiche della scultura attuale promosso dalla Regione Toscana – TRAART rete regionale per l’arte contemporanea, dalla Provincia di Pisa, dai Comuni di Pontedera, Ponsacco e Lajatico e dalla Fondazione Piaggio. Tale esperienza ha coinvolto in un lavoro comune di confronto tra linguaggi, saperi e creazioni l’artista stesso, un gruppo di allievi provenienti dalle Accademie e dalle Università e il territorio della Valdera con la sua popolazione.
Le riprese del videoreportage qui pubblicato, realizzate nell’ambito del progetto Pietre di Toscana, sono state effettuate nel mese di dicembre 2006, nello studio del Maestro all’interno dell’ex-ospedale psichiatrico di Volterra.

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di Davide Turrini

Approfondimenti bibliografici:
– Francesco Russoli, Trafeli, Milano, Galleria delle Ore, 1964;
– Enrico Crispolti, Mino Trafeli: sculture 1968-1973, Roma, Carucci, 1973;
– Marco Tonelli, Mino Trafeli. Ambiguità del tempo, Livorno, Le Sillabe, 2000;
– Marco Tonelli (a cura di), Mino Trafeli. Squilibri, Firenze, Regione Toscana-TRAART Poetiche, 2006.

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Cantina Vignaioli Contrà Soarda di Henry Zilio a Bassano del Grappa (Vicenza)*. La barricaia
(II Parte)

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Le volte della barricaia.

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Materiali
Aspetto fondamentale nella realizzazione delle volte è stato scegliere il materiale da costruzione: esso doveva essere in grado di resistere alle sollecitazioni indotte dalla forma che si voleva realizzare e, naturalmente, costituire un elemento d’interesse estetico.
Si è valutata la possibilità di usare il laterizio (con getto in calcestruzzo collaborante), il calcestruzzo con superficie a vista trattata (ad es. con bocciardatura o, semplicemente, intonacata con impasto contenente coccio pesto), la pietra (con getto in calcestruzzo collaborante).
La tradizione costruttiva privilegiava la scelta del mattone in laterizio faccia vista o la superficie intonacata; dopo varie elaborazioni, l’idea di utilizzare questi materiali è stata abbandonata. Infatti l’uso del mattone è sembrato fin troppo scontato e, inoltre, presentava grandi problemi di posa: per ottenere un disegno regolare nelle due direzioni ortogonali, tenendo fisso il numero dei corsi, si sarebbero dovute realizzare fughe in malta di larghezza variabile, sino a raggiungere spessori di vari cm. La superficie intonacata, più semplice da realizzare, è sembrata poco accattivante sul piano estetico.
La pietra a faccia vista è parso un materiale molto interessante sul piano costruttivo ed estetico; non si era però a conoscenza d’analoghe esperienze applicative e si trattava, perciò, di individuare il modo più idoneo per costruire.
Dopo varie visite effettuate presso cave dell’Altopiano d’Asiago (Vi) si è deciso di utilizzare pietra calcarea con tonalità grigio-rosate, proveniente da una cava di monte Corno in blocchi della grandezza di circa un metro cubo.
I blocchi, accumulati in cantiere, sono stati ridotti in pezzi di pietra utilizzando perforatrici e cunei in acciaio e, successivamente, con lavoro di mazzetta e scalpello, sbozzati, intagliati e martellinati in modo da poter essere pronti per la posa.
Questa operazione è stata preceduta dalla realizzazione di un campione di volta: si trattava di definire una precisa modalità di posa in quanto il risultato si sarebbe potuto valutare solamente a lavoro ultimato, al momento del disarmo dell’opera, quando non si sarebbe più stati in grado di modificare.
Si è perciò stabilito come si sarebbero dovuti posare i corsi di pietra, la loro larghezza, il tipo di lavorazione, il tipo di fuga; di conseguenza si sono potuti preparare blocchetti di pietra di misure tra loro diverse e, in ogni caso, idonee al risultato prefissato.
Per quanto riguarda le casseforme si è dapprima presa in considerazione l’ipotesi di utilizzare legno o acciaio. A causa delle difficoltà costruttive ci si è successivamente orientati verso l’uso del polistirolo ad alta densità sostenuto da idoneo banchinaggio.
Era necessario costruire, contemporaneamente, le tre volte principali a causa sia della statica in fase di disarmo, sia dell’esigenza di dare continuità visiva al giunto tra le volte; le riprese rappresentano, infatti, un punto in cui il materiale può avere sgradevoli sfalsamenti.

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Le volte della barricaia.
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La costruzione della cassaforma in polistirolo ha, in ogni caso, rappresentato una certa difficoltà: molti produttori non erano in grado di eseguire piani curvilinei con la strumentazione d’uso comune.
La cassaforma è stata realizzata da un artigiano locale; per essere prodotta e trasportata, essa è stata suddivisa in blocchi, poi ricomposti in cantiere.
La posa dei blocchetti di pietra è stata svolta da un abile capo mastro del luogo e da un suo giovane collaboratore: ogni pietra è stata scelta “a misura”, rifinita con martellina e posata con malta impastata con inerte di tonalità giallastra proveniente dai vicine cave, usando l’accortezza di ottenere una fuga “a vista”poco intasata.
Il periodo di posa della pietra ha rappresentato un momento di emozione e partecipazione da parte di tutti coloro che stavano lavorando nel progetto, ivi compresi gli operai che stavano costruendo opere accessorie alla volta: una situazione che sarebbe bello perseguire in ogni cantiere di costruzione.
Dopo aver posato la pietra, si è lavorata l’armatura in tondino d’acciaio per passare al getto di calcestruzzo dello spessore di 20 cm che ha completato la realizzazione strutturale delle tre volte principali.
Le casseforme dovevano, in parte, essere riutilizzate per completare la realizzazione nella zona strombata e così, dopo una settimana dal getto della cappa integrativa, la struttura è stata disarmata e messa a vista.
Il risultato è parso subito soddisfacente: la posa appariva regolare e le fughe omogenee. L’impressione generale è stata di grande entusiasmo. Gli operai erano talmente presi dalla propria opera che accompagnarono, all’insaputa del direttore dei lavori e del committente, le loro famiglie e loro conoscenti a visitare il cantiere.
Per consentire un regolare deflusso dell’acqua meteorica l’estradosso delle volte è stato livellato con un impasto alleggerito; infine, si è provveduto ad impermeabilizzare e ad isolare la copertura utilizzando il polistirolo che era servito per le casseforme, tagliato a lastre. Successivamente è stata realizzata la ricopertura della zona voltata con terreno vegetale.

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Fasi di posa delle volte.

Locali di produzione
I locali di produzione (fermentazione, stoccaggio in vasca, imbottigliamento, stoccaggio prodotto finito) costituiscono il blocco più semplice dell’insieme: sono due vani (9x16m) con caratteristiche tali da consentire il posizionamento di vasche di fermentazione e stoccaggio di tipo standard (sono normalmente in acciaio, di diametro circa 250 cm, disposti in batteria su doppia fila) ed altezza compatibile con il ciclo produttivo “verticale”, oltre alle macchine per imbottigliamento (di tipo mobile o fisso) e per il deposito di prodotto in bottiglia, movimentabile con sollevatori meccanici. Uno dei due moduli è stato studiato in modo tale che, all’occorrenza, possa essere realizzato un solaio intermedio in acciaio al fine di consentire un diverso uso dello spazio interno. I locali di produzione comunicano tra loro, con il portico e con la barricaia. Sono provvisti di finestre che consentono una buona ventilazione naturale ed un livello minimo di illuminamento naturale. Il modulo di fermentazione è provvisto di due fori posti in corrispondenza della mezzeria del solaio, tali da consentire, tramite idonei condotti, di far passare l’uva dal piano soprastante (dove avviene la cernita dell’uva e la pigiadiraspatura) alle vasche di fermentazione (fermentini). Nel lato comunicante con l’esterno del modulo di fermentazione è stata predisposta una apertura che, tramite un sistema di passarelle e scale, consente la comunicazione tra l’esterno (zona pigiadiraspatura) e i fermentini. Questo accorgimento ha consentito di omettere di costruire scale interne oltre a evitare la realizzazione di un corpo emergente rispetto alla sala.

Locali di servizio
Sul lato rivolto verso l’esterno dei locali di produzione trovano collocazione alcuni spazi di servizio (portico, ufficio, laboratorio prove, sala produzione olio, servizi, ingresso barricaia); la loro altezza contenuta ha consentito di pensare ad un progressivo degradare del terreno di ricoprimento tale da modellare l’insieme in modo meno invasivo. Inoltre, essi hanno una funzione di protezione climatica dei luoghi di vinificazione in quanto interposti tra l’esterno e i locali di produzione.
Il prospetto si presenta come una facciata in pietra ed intonaco in cui emergono l’ingresso alla barricaia ed il portico.
L’ingresso alla barricaia è caratterizzato da un setto-portale con trattamento superficiale in spatolato bianco glaciale e logo aziendale in bassorilievo con finitura a foglia d’oro; esso emerge rispetto alla muratura in pietra della facciata.
Il portico si articola in una sottile vela ad andamento irregolare dipinta grigio-antracite con tonalità olivastra a riflessione opaca. Due contrafforti murari ai lati della vela danno la sensazione del sostegno laterale del sistema voltato e contribuiscono a contenere la terra di ricoprimento interrompendo la continuità formale della facciata.
La vela è stata realizzata accostando opportunamente pannelli prefabbricati in calcestruzzo tipo predalle ed intervenendo successivamente con una idonea rasatura per dare continuità alla curva; tale sistema costruttivo ha consentito di evitare l’uso di una più costosa cassaforma curvilinea.
In secondo piano rispetto alla vela si trova un paramento in legno costituito da tavole inclinate; esse fanno filtrare la luce all’interno dei luoghi di produzione ed hanno un benefico effetto di schermatura nei confronti dei raggi solari di ponente.
Oltre ai locali di produzione sono stati realizzati la degustazione ed i locali di deposito attrezzi agricoli.
La concezione formale di questi interventi ha avuto un travaglio non minore di ogni altra parte dell’edificio perchè concorrono, essi stessi, nell’immagine complessiva dell’intervento.
La degustazione è direttamente accessibile dal piazzale di distribuzione tramite un percorso esterno nel verde; essa è collegata alla barricaia per mezzo di una scala elicoidale. Il locale si caratterizza per l’essenzialità di uno spazio che intende mettere in evidenza gli aspetti tecnici del vino da degustare. Una parete interamente vetrata e opportunamente schermata con assicelle in legno fa percepire al visitatore la bellezza del paesaggio collinare circostante.

Materiali vari
Al fine di consentire una veloce progressione di lavoro oltre che per motivi di sicurezza dovuti al pericolo dato dalla possibilità di distacchi di materiale lungo il fronte di scavo, i muri perimetrali del fabbricato sono stati realizzati con pannelli prefabbricati a doppia lastra in c.a.v. dello spessore complessivo di cm 45; all’interno dei pannelli è stato eseguito, previo posizionamento d’acciaio aggiuntivo, un getto in opera di calcestruzzo.
I solai piani sono stati realizzati con pannelli di calcestruzzo prefabbricato precompresso o ad armatura lenta.
Il “volume-cantina” presenta sette lati su otto a contatto del terreno; i solai piani, oltre ad essere isolati con polistirolo ad alta densità dello spessore di 10 cm, sono ricoperti con uno strato di 1-1,5 m di terra; il solaio della barricaia ha un ricoprimento in terra dello spessore compreso tra 5 m e 1 m.
Le pavimentazioni della barricaia e della degustazione sono in pietra di Lessinia con superficie rullata su base a piano sega. Le pavimentazioni “tecniche” della zona produzione sono in grès granitico.
Trattamento superficiale delle pareti in muratura con impasti costituiti da inerti naturali e calce.
Serramenti e le porte in legno di larice. Portoni zona produttiva rivestiti in acciaio inox o legno.
Canalette di raccolta delle acque e battiscopa zona produzione in acciaio inox.

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La cantina all’interno del fondo agrario.

Sistemazioni esterne
Le sistemazioni esterne oltre ad un’accorta modellazione del terreno, eseguita anche per mezzo di terre armate e scogliere in pietrame, hanno previsto la realizzazione di strade, percorsi e piazzali in materiale inerte stabilizzato e la messa a dimora del verde. Particolare cura è stata posta per la scelta di arbusti tappezzanti a rapido accrescimento e scarsa manutenzione (robur tricolor), arbusti con caratteristiche di barriera non transitabile usati in corrispondenza di punti pericolosi (berberis julianae, berberis testar, limone selvatico, phiracanta firedance), arbusti rustici (hippophae rhamnoides, navaco, pistacia lentiscus, spartium junceum, lonicera nitida, punica granatum).

Impianti e climatizzazione
La costruzione degli impianti ha riguardato sia le reti tradizionali (idrotermosanitario, elettrico, aria compressa, ecc.) sia le strutture di produzione vinicola. E’ stata posta attenzione affinchè gli impianti non costituiscano elemento invasivo o casuale.
I corpi illuminanti sono stati individuati dopo verifiche illuminotecniche e prove in loco.
Le macchine di trattamento dei fluidi di produzione sono state sistemate in luogo esterno posto vicino al punto d’utilizzazione, facilmente accessibile e poco percepibile dall’intorno.
La climatizzazione della cantina e, in particolare, della barricaia, ha costituito tema di ricerca e sperimentazione.
In primo luogo essa è ottenuta per mezzo della protezione dovuta al ricoprimento di terra, all’effetto schermante dei locali e degli elementi frangisole.
Ad integrazione di questo, in particolari periodi dell’anno, potrà essere attivato un sistema di trattamento dell’aria della barricaia.
L’aria viene aspirata attraverso bocchette poste a pavimento, canalizzata, fatta passare lungo le tubazioni di drenaggio predisposte durante la fase di movimentazione delle terre, immessa nuovamente nella zona voltata dopo essere stata eventualmente miscelata con aria esterna o aria ambiente allo scopo di ottenere le adeguate caratteristiche fisico tecniche.

(Dalla relazione di progetto)

Note
* Cantina “Vignaioli Contrà Soarda”, Città: Bassano Del Grappa (VI) ITALIA. Committente: “Vignaioli Contra’ Soarda” di Mirco Gottardi – Bassano del Grappa (Vi). Impresa di costruzione: Impresa Roberto Vettoruzzo – Bassano del Grappa (Vi).
Collaboratori al progetto: arch.Tatiana Prest, geom.Davide Giacobbo
Progettista: ing. arch. Henry Zilio.
Henry Zilio nasce nel 1956 a Maracay, in Venezuela.
Si laurea in ingegneria a Padova nel 1980 e in architettura a Venezia (IUAV) nel 2000. Dal 1983, a Bassano del Grappa (Vi), coordina uno studio attivo nella progettazione architettonica, strutturale, urbanistica ed infrastrutturale. Lo studio si distingue per lo spirito di laboratorio multidisciplinare rivolto alla ricerca e alla sperimentazione, avvalendosi di specialisti propri di vari settori oltre che dell’esperienza e collaborazione degli artigiani del luogo.

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21 Febbraio 2007

Opere di Architettura

Snøetta, Oslo Opera House

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Renderings progettuali dell’edificio. In evidenza il sistema di terrazze rivestite in marmo bianco di Carrara.

L’edificio del Teatro dell’Opera di Oslo, disegnato da Snøetta e in corso di realizzazione, sorge dal mare nel fiordo dove si affaccia la capitale norvegese, interamente rivestito all’esterno di marmo bianco della cava apuana de La Facciata. L’intento dei progettisti di ricreare un frammento di pack artico, una sorta di candido spezzone di banchisa arenato nelle acque del porto, ha dato vita ad un volume architettonico articolato, definito da una serie di piani inclinati per lo più praticabili come terrazze rivolte verso la baia.
Le gravose condizioni climatiche nordiche hanno imposto di impiegare masselli litici al posto delle usuali lastre sottili da rivestimento e di limitare al massimo il numero dei giunti tra gli elementi che rappresentano possibili punti deboli nei confronti delle infiltrazione dell’umidità. Inoltre, ulteriori esigenze tecniche dettate dalla situazione ambientale, hanno indotto a scegliere un durissimo granito locale per il rivestimento dello spiccato basamentale che, immergendosi direttamente nel mare, risulterà a diretto contatto con l’acqua salata e con il gelo durante i rigori invernali. Così tutta l’opera, eccezion fatta per la stretta fascia granitica di base, è ricoperta da grandi masselli di marmo di Carrara, con spessori che vanno dagli 8 ai 10 cm, fino a raggiungere i 20-30 cm in alcuni pezzi speciali di bordo o di compluvio e displuvio. Molti elementi sono ripiegati a libro e formano angoli che si possono chiudere fino ad un’ampiezza di 45° o aprire fino a 170°. Le dimensioni massime dei lastroni e dei masselli arrivano a 2,3 m di lato. La superficie totale del rivestimento è di oltre 20.000 metri quadrati, la massa di marmo impiegato supera le 8.000 tonnellate.
Alla omogeneità della scorza litica di rivestimento, una distesa marmorea continua variata soltanto nel pattern diversificato di molteplici finiture superficiali, è affidato il trasferimento di una suggestione di massa solida monolitica, generata dalla intersezione di piani dalle giaciture ripetutamente variate, incidenti tra loro secondo spigoli sghembi, mai ortogonali, a formare una scogliera, o un mega-cristallo di ghiaccio ricco di angolature e di dorsali, che emerge dall’elemento liquido instaurando con esso un rapporto di dualità oppositiva, di contrasto cromatico e materico.

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Vista della cava de La Facciata sulle Alpi Apuane (foto cortesia Campolonghi Italia).

Ad affiancare lo studio di architettura norvegese nella fase esecutiva di un’opera così complessa e innovativa è stata la Campolonghi Italia di Montignoso (MS) responsabile di tutto il ciclo produttivo, dalla escavazione per la fornitura del marmo, alla lavorazione del prodotto finito. Mettendo in campo un know how di alto profilo, l’ufficio tecnico aziendale è partito dal disegno bidimensionale della tessitura geometrica del rivestimento per arrivare a risolvere la modellazione esecutiva tridimensionale dei pezzi massivi (che saranno posati con malta o montati a secco su di una sottostruttura metallica); il maggiore nodo problematico da sciogliere ha riguardato la necessità di progettare e conformare lastroni, masselli e pezzi monolitici di forte spessore con cui risolvere salti di quota, variazioni di pendenza, morfologie complesse, limitando il più possibile il frazionamento degli elementi e conseguentemente, come detto, la presenza di commessure.
Unitamente a tutto ciò l’azienda ha messo a punto un manuale della qualità specifico per il progetto, con controlli sul materiale, sulle macchine, sulle lavorazioni, sulle malte cementizie e sui sigillanti sintetici da impiegare poi per la posa in opera del rivestimento e per la chiusura dei giunti. Una particolare attenzione è stata dedicata alle prove di laboratorio sul marmo: dapprima sono stati fatti test su alcuni siti estrattivi apuani, poi, una volta scelta la cava de La Facciata, sono stati eseguiti saggi in diversi punti del fronte di cava, ed infine sul materiale estratto vengono condotti monitoraggi in continuo, attraverso prove fisico-meccaniche di qualità specifiche per il clima gelivo norvegese che arriva a minimi di -30° C in inverno e a massimi di 25° C in estate, con escursioni stagionali di oltre 50°.

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Masselli del rivestimento della Oslo Opera House alla fine della linea di produzione, pronti per il trasferimento al cantiere (foto Davide Turrini).

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Il processo di lavorazione degli elementi del rivestimento a spessore è così articolato:
– sbozzatura fatta con sagomatori a filo diamantato;
– rettifica dei pezzi ottenuta con contornatici a controllo numerico a 5 assi (grazie alla rettifica il pezzo viene portato entro la tolleranza dimensionale che ammette al massimo 2 mm di scostamento);
– finitura delle superfici con diversi trattamenti: levigatura, o sabbiatura, o bocciardatura, o rigatura a disco per ottenere canaletti larghi 5 mm, profondi 5 mm ad intervalli di 1,5 cm;
– successivamente alla finitura superficiale si procede al taglio a misura finale degli elementi con la conseguente ultima rettifica dei bordi e l’ottenimento dei necessari spigoli vivi per una tipologia inusuale di pezzi tutti diversi, con tutte le facce fuori squadro, facenti parte di un abaco di elementi specificatamente dedicato al progetto, non inscrivibile in alcun criterio di serialità.
Il caso dell’Oslo Opera House è esemplificativo di una concezione avanzata della progettazione architettonica e del processo produttivo che vede il lavoro integrato dello studio d’architettura e di una realtà aziendale capace di risolvere realizzazioni complesse e consistenti su commessa specifica, ingegnerizzando il progetto attraverso lo studio del prototipo, la realizzazione in genere di un mock up al vero del sistema costruttivo, il trasferimento alla linea di produzione industriale, l’ottimizzazione della catena di lavorazione in termini di tempi, risorse umane, abbattimento degli sfridi. In tale contesto i valori della riproduzione seriale sono soppiantati da un adattamento continuo del design, delle lavorazioni, delle stesse macchine alle esigenze del progetto, in un iter che tende a trovare di volta in volta punti di approdo nella standardizzazione di procedure e processi ma che non può prescindere da una attenzione continua alle esigenze di “personalizzazione” del prodotto.

di Davide Turrini

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20 Febbraio 2007

Principale

Architettura e costruzione: presentazione del corso A.A. 2006/2007

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Mercoledì 21 febbraio 2007 alle ore 11.30 presso l’aula magna del Politecnico di Milano – Polo Regionale di Mantova verrà presentato il

Corso di alta specializzazione – Architettura contemporanea con la pietra a.a. 2006/2007

interverranno:
Prorettore prof. Cesare Stevan
arch. Massimiliano Caviasca
arch. Vittorio Longheu
Brand Manager di Marmomacc Mauro Albano
arch. Vincenzo Pavan


Corso di:
Progettazione contemporanea con la pietra
Polo regionale di Mantova
Secondo semestre
12 marzo – 29 giugno 2007CONTENUTI DEL CORSO
Il corso, di 60 ore (4 cfu tipo tirocinio) comprensivo di lezioni frontali e workshop, si propone di attivare una riflessione interdisciplinare finalizzata all’approfondimento dei temi della Progettazione Architettonica e della Tecnica costruttiva storica,
moderna e contemporanea, fornendo ai partecipanti una preparazione specialistica superiore nell’ambito dei temi della progettazione con la pietra, da intendersi come basi per un principio progettuale che parta dall’uso del materiale per arrivare alla realizzazione
che diventi immagine dell’idea progettuale.
Le tematiche saranno sviluppate nell’ambito di lezioni ex-cattedra ed incontri seminariali, workshop in aziende e visite ad architetture.DESTINATARI DEL CORSO
Si individuano come destinatari gli studenti iscritti ai Corsi di Laurea, Lauree Specialistiche e dottorati di ricerca e professionisti del settore.Gli studenti potranno richiedere il riconoscimento dei cfu all’avvenuto superamento dell’esame finale. Sarà inoltre possibile concludere il tirocinio attraverso stage in aziende del settore lapideo.

FINALITA’ DEL CORSO
Grazie ai propri caratteri di aggiornamento interdisciplinare, il corso si pone la finalità di sviluppare una figura professionale altamente specializzata ed in grado di interpretare, realizzare opere contemporanee, o conservative nelle discipline attinenti la progettazione in pietra, in grado di porsi quale punto di riferimento ed a supporto delle strutture già operanti nel settore.
Tale figura professionale presenterà un alto profilo di sensibilizzazione verso le nuove tematiche espressive dell’architettura, critico e progettuale coinvolte dalla trasformazione urbana e dalla nuova edificazione di architetture in pietra.

STRUTTURA DIDATTICA
Docenti:
Prof. Cesare Stevan
(Direttore del corso)
Arch. Massimiliano Caviasca
(Coordinatore)
Arch. Vittorio Longheu

Contributi Esterni
Arch. Vincenzo Pavan
(Consulente scientifico dell’Ente
Fiera di Verona)

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16 Febbraio 2007

Principale

Materiali & Architetture: Rassegna di convegni dedicati ai materiali innovativi per l’architettura contemporanea

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Si apre a Milano, il 19 febbraio, presso il Complesso dei Chiostri di San Simpliciano, il primo appuntamento della rassegna di incontri “Materiali & Architetture”, giunta alla quinta edizione, dedicata ai materiali innovativi e alle tendenze dell’architettura d’esterni e di interni.
Gli incontri sono promossi da DEMETRA, Studio di Comunicazione in Architettura, in collaborazione con le riviste Abitare e Costruire.
La rassegna, rivolta a un pubblico di specialisti, è un’ottima occasione di confronto tecnico–scientifico tra designer, architetti e ingegneri, i produttori di materiali e le aziende del settore.
Sono tre le tappe italiane che vedranno, come le passate edizioni, la partecipazione di affermati esponenti del panorama architettonico internazionale.
La rassegna si aprirà il 19 febbraio a Milano per proseguire con le tappe di Napoli (maggio) e Stra-Pd (giugno). In autunno verranno proposti due appuntamenti in Belgio (Bruxelles) e Spagna (Barcellona).
I convegni sono realizzati grazie alla collaborazione di prestigiose aziende, produttrici dei seguenti materiali: vetro (GLAVERBEL ITALY), piallacci di legno naturali, tinti e multilaminari (TABU), grès porcellanato (REFIN CERAMICHE) e alluminio (HYDRO BUILDING SYSTEMS). Sponsor tecnici saranno l’azienda BELLOTTI per il legno e ALTUGLAS INTERNATIONAL, produttrice di lastre in metacrilato e policarbonato.
Moderatori degli incontri i Direttori delle riviste Abitare e Costruire, Italo Lupi e Maurizio Favalli.
Il convegno di Milano si terrà presso la prestigiosa cornice dei Chiostri di San Simpliciano, sede della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Via dei Chiostri, 6), lunedì 19 febbraio, a partire dalle ore 14.30. Il convegno sarà seguito da seminari tecnici di approfondimento sui singoli materiali, che si svolgeranno in contemporanea in salette separate.
L’incontro, moderato da Italo Lupi, vedrà la partecipazione dell’arch. Guido Canali, che presenterà i suoi progetti più significativi. Docente universitario, già all’Istituto di Architettura di Venezia e a Ferrara, per anni si è impegnato a restituire, attraverso un’attenta opera di restauro e di progettazione, alcuni straordinari complessi storici, tra cui il palazzo della Pilotta (ampliamento della Galleria Nazionale, 1970-90). Asciutto, sintetico elegante, il linguaggio che Canali ha istituzionalizzato nel suo consapevole uso della tecnologia dimostra una profonda riflessione sulla storicità della città italiana, fuori da ogni moda od effimera convenzione stilistica. Esemplare, tra le opere più recenti, il progetto di restauro e riuso dell’antico complesso ospedaliero di Santa Maria della Scala a Siena, in corso di trasformazione dalla metà degli anni 90 in centro museale e congressuale, che rilancia in modo originale la grande tradizione allestitiva italiana degli anni 50. Memorabili gli allestimenti della mostra su Duccio da Buoninsegna, sul Parmigianino, e il Museo Archeologico di Siena.
La partecipazione ai convegni è gratuita, previa iscrizione. L’iscrizione può essere effettuata inviando il modulo di partecipazione a DEMETRA al n° di fax 0341/353776 o tramite il sito www.demetraweb.it nella sezione convegni compilando il modulo “Iscrizione”, indicando nelle note a quale seminario tecnico si desidera partecipare.

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Cantina “Vignaioli Contrà Soarda” di Henry Zilio a Bassano del Grappa (Vicenza)*
(I parte)

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Le cantine nel contesto ambientale

Il programma
L’azienda vinicola “Vignaioli Contrà Soarda” sorge sulla zona collinare di Bassano del Grappa in provincia di Vicenza.
L’intervento, iniziato nel 1999, ha riguardato la sistemazione agraria del sito, l’impianto del vigneto, la costruzione della cantina e locali accessori (degustazione, annessi rustici) e la ristrutturazione della casa colonica ancora in corso.
La progettazione, nell’insieme, ha inteso richiamare il concetto del borgo agricolo tradizionale nel quale si è desiderato introdurre aspetti formali e tecnologici innovativi, tali da rendere l’intervento attuale, moderno.

Le sistemazioni agrarie
Al momento dell’acquisizione l’appezzamento di circa 6 ha era area incolta infestata da arbusti spontanei e rovi. Nel fondo insisteva una casa pericolante.
Sono stati realizzati grandi lavori di movimento di terra con l’obiettivo di consentire l’impianto colturale di viti ed ulivi, nel rispetto del paesaggio agrario del sito.
La sistemazione agraria del sito è stata condotta in diverse fasi in modo da consentire l’impianto del vigneto in tempi il più possibile contenuti.
I lavori di sistemazione agraria hanno consentito di bonificare l’area e regimare il deflusso delle acque meteoriche di scorrimento superficiale e sotterraneo. Il sistema di drenaggio e captazione delle acque ha consentito di realizzare una vasca a tenuta per attingere l’acqua da utilizzarsi per i trattamenti fitosanitari del vigneto e di un bacino per l’irrigazione del fondo.

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Il fronte architettonico

L’intervento edilizio
Aspetti generali. La realizzazione della cantina ha rappresentato l’aspetto più delicato dell’operazione: ci si è posti l’obiettivo di introdurre nel paesaggio agrario un manufatto non invasivo e di modellare l’insieme, costituito da terreno e fabbricato, in modo tale da ottenere un risultato in armonia con la natura del luogo.
Nelle intenzioni progettuali, la cantina doveva essere un edificio quanto più possibile sotterraneo, in modo da apparire all’esterno solo parzialmente e da consentire di ottenere un microclima interno favorevole.
Le sistemazioni agrarie del fondo hanno consentito di analizzare con grande attenzione la geomorfologia del sito e, abbandonate le prime ipotesi che prevedevano la costruzione in vicinanza della strada, ci si è prefissi di insediare il nuovo manufatto nella zona meno interessante del fondo: una stretta ed impervia valletta priva d’insolazione e perciò non utilizzabile ai fini colturali.
Tale obiettivo ha rappresentato una vera e propria sfida in quanto le condizioni iniziali del sito parevano screditare una ipotesi di questo genere.
L’edificio è stato pensato come un fabbricato compatto il cui unico prospetto percepibile fosse quello rivolto verso valle. La facciata doveva essere contenuta in altezza per potersi omogeneizzare con il terreno. La stessa doveva, in ogni caso, costituire un elemento architettonico d’interesse in quanto non si trattava di nascondere l’opera bensì di valorizzarla.
Ci si è orientati ad organizzare gli spazi di maggiore altezza (produzione, invecchiamento) nella zona più interna in modo che altri vani di servizio (portico, ufficio, servizi, ecc. con altezze poco rilevanti) potessero trovare collocazione verso valle.
Il dimensionamento di progetto è stato orientato verso una relativa sovrastima, in quanto la costruzione completamente interrata non avrebbe dato luogo, in tempi successivi alla costruzione, ad ampliamenti facilmente perseguibili.
Oltre a ciò l’aspetto geotecnico ha rappresentato un delicatissimo aspetto di cui tener conto. Se da un lato la consistenza del terreno derivante dagli scavi di sistemazione agraria (argille sovraconsolidate e argille marnose) dava una certa tranquillità sul buon esito dell’operazione, dall’altro sorgevano diverse riserve sulla stabilità del versante a monte della cantina interessato dalle opere di sistemazione e sulla stabilità del fronte di scavo (presenza d’acque di scorrimento sotterraneo, disomogeneità dovuta a lenti argillose).
Sono stati svolte indagini e studi sulla stabilità globale dell’opera, in particolare, su aspetti dovuti alla spinta del terreno, alla stabilità del versante, alle modalità di sbancamento e successivo riempimento dello scavo.
La localizzazione del nuovo manufatto ha tenuto conto, inoltre, della stabilità della vicina casa colonica pericolante, della presenza di terreno di riporto posto a parziale riempimento della valle, dei livelli a cui impostare la costruzione in relazione alla sistemazione del terreno, ai percorsi delle strade carrarecce e pedonali e al collegamento con la casa colonica.

Organizzazione funzionale. L’ipotetica capacità produttiva del fondo (circa 1000 hl di vino/anno) ha indotto a delineare uno schema funzionale composto da locali di produzione (fermentazione, stoccaggio vino in vasca, imbottigliamento, stoccaggio prodotto imbottigliato) e di invecchiamento in botte o bottiglia (barricaia) oltre a locali accessori quali il portico, il laboratorio, l’ufficio, i depositi, i servizi, i locali tecnici.
Motivazioni di ordine produttivo legate all’ottenimento di un vino di qualità superiore hanno consigliato la previsione di un processo con sviluppo verticale: l’uva viene lavorata seguendo un percorso di vinificazione “verticale”, dall’alto verso il basso.
Si sono inoltre identificate alcune funzioni complementari quali la degustazione, il locale per la produzione dell’olio, il deposito di carri ed attrezzature agricole, l’officina.

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Schizzo autografo della barricaia

Barricaia: la concezione. Lo studio della barricaia ha avuto grande risalto: essa doveva divenire il cuore dell’azienda, il luogo dove produrre il vino di qualità e dove si far percepire al visitatore l’alto rango del prodotto.
Nella tradizione la barricaia si configura come uno spazio voltato con mattoni a vista: si è dapprima pensato alle volte di tipo semplice, anche nell’ipotesi di poterne estendere la realizzazione alla zona di produzione. Limiti dovuti alle altezze dei locali oltre a motivazioni di carattere strutturale hanno indotto a concentrare la ricerca delle volte nell’ambito della sola barricaia.
L’aspetto strutturale ha rappresentato un parametro molto importante nella concezione del manufatto: si trattava di sostenere carichi verticali (nella zona della barricaia sino a 10.000 Kg/mq) e contenere azioni dovute al terreno di ricoprimento (spinte laterali) di tipo non comune.
L’orientamento progettuale si è diretto verso la realizzazione di una serie di scatole rigide formate da muri di spina e solai posti a livelli distinti, oltre ad un solaio voltato nella porzione della barricaia.
Le esperienze di alcuni maestri dell’architettura come Antonì Gaudì ed Eladio Dieste hanno stimolato la ricerca verso un sistema voltato a doppia curvatura: se da un lato si potevano ottenere risultati estetico-formali di grande interesse, dal punto di vista statico la soluzione consentiva di chiamare in causa la resistenza per forma in ambito spaziale piuttosto che monodirezionale.
La barricaia è un vano che si articola in una sala principale (9 x 12 m), in sei nicchie poste a margine (1,5 x 3,2 m) e di una zona strombata (profonda circa 7,5 m) che consente alla stanza di entrare nella montagna sino a far divenire la roccia stessa una parete del vano.
La barricaia comunica con il piazzale esterno tramite un percorso-ingresso, con la zona produzione e con la stanza di degustazione per mezzo di una scala elicoidale.
L’idea che caratterizza questo ambiente è data da un insieme di volte a doppia curvatura che rendono la sala principale e la zona strombata un unico spazio avvolgente.
La doppia curvatura determina una lettura del solaio di copertura come l’inviluppo di un arco e di una onda sinusoidale; il passo dell’onda è di 4 metri, la luce dell’arco è di 9 metri. Queste misure determinano la cadenza delle nicchie, la posizione della scala elicoidale, la misura ed il passo strutturale della zona di produzione. In tal modo vengono tra loro combinati un aspetto estetico-formale ed uno statico dovuto alla stringente necessità di trasferire i carichi dalla zona d’imposta delle volte al terreno.

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Visioni interne della barricaia

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L’andamento spaziale della doppia curvatura ha obbligato a determinare i valori della freccia entro cui far scorrere la sinusoide. Anche in questo caso è stato necessario tener conto di aspetti formali (la presunta eleganza di un andamento più o meno marcato) e di aspetti statici (i diversi effetti dovuti alle forze che si scaricano alle imposte degli archi). Dopo vari tentativi, che hanno fatto capire quali potessero essere le condizioni per garantire il buon esito dell’operazione (in particolare quello statico), si è stabilito che la freccia doveva oscillare tra 200 cm e 270 cm. Oltre a ciò, in questa fase si è stabilito, preminentemente sulla base di aspetti percettivi, che la generatrice trasversale doveva avere un’altezza rispetto al pavimento di 205 – 275 cm all’imposta e 400 – 470 cm in chiave di volta.

(Dalla relazione di progetto)

Note
* Cantina “Vignaioli Contrà Soarda”, Città: Bassano Del Grappa (VI) ITALIA. Committente: “Vignaioli Contra’ Soarda” di Mirco Gottardi – Bassano del Grappa (Vi). Impresa di costruzione: Impresa Roberto Vettoruzzo – Bassano del Grappa (Vi).
Collaboratori al progetto: arch.Tatiana Prest, geom.Davide Giacobbo
Progettista: ing. arch. Henry Zilio.
Henry Zilio nasce nel 1956 a Maracay, in Venezuela.
Si laurea in ingegneria a Padova nel 1980 e in architettura a Venezia (IUAV) nel 2000. Dal 1983, a Bassano del Grappa (Vi), coordina uno studio attivo nella progettazione architettonica, strutturale, urbanistica ed infrastrutturale. Lo studio si distingue per lo spirito di laboratorio multidisciplinare rivolto alla ricerca e alla sperimentazione, avvalendosi di specialisti propri di vari settori oltre che dell’esperienza e collaborazione degli artigiani del luogo.

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