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27 Agosto 2007

Eventi

La via della pietra
Simposio internazionale

Programma aggiornato e definitivo

viapietra.jpg
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Quasi 150 fa, con l’inizio dei cantieri della Gotthardbahn, si sono insediate le prime attività estrattive a carattere industriale nella nostra regione. L’estrazione della pietra veniva già svolta in precedenza, ma si limitava ai bisogni dell’edilizia rurale e abitativa locale o regionale.
Le realizzazioni ferroviarie che vedevano la Pietra come attore principale hanno quindi dato sviluppo e impresso uno slancio tale a quest’industria permettendole di sopravvivere ed affrontare le sfide del tempo, ultima in ordine cronologico la globalizzazione dei mercati.
Da qualche decennio il settore conosce importanti ristrutturazioni. Venute meno le rendite di posizione dei settori pubblici, si è confrontati con la necessità di reinventarsi e trovare nuovi sbocchi. Grazie ad alcuni imprenditori che hanno saputo capire ed interpretare le attuali tendenze di mercato, l’industria della pietra resiste e si sta estendendo. Le richieste di ampliamento delle zone estrattive a Lodrino e a Cresciano ne sono la dimostrazione.
Per la nostra regione la pietra ha sempre significato risorsa, lavoro e cultura. Attraverso questa attività si è sviluppato uno spirito imprenditoriale invidiabile; tramite l’immigrazione della mano d’opera abbiamo vissuto una crescita economica e sociale unica.
Tre anni fa la Comunità della Riviera ha voluto riconoscere l’importante ruolo di quest’attività. E’ iniziato un progetto globale nell’intento di creare un marchio, promuovere il prodotto PIETRA sostenendo l’industria locale, creare un museo territoriale e un’opportunità turistica regionale presentando attraverso il denominatore comune Pietra tutte le nostre peculiarità.
La Via della Pietra, questo il titolo, è tutto questo. Nato sulla base di un mio progetto iniziale, ha conosciuto tramite l’interesse ed il lavoro della facoltà di architettura della EPFL uno sviluppo impensato e ci troviamo oggi addirittura a gestire questo simposio a livello internazionale. Il progetto si articola in 5 componenti principali: il percorso, lo stabile prototipo, gli elementi, il Simposio e gli eventi. Siamo convinti che la sopravvivenza ed il futuro di questo settore dipendano oggi in modo determinante dall’ appoggio del mondo accademico in termini di idee, di ricerca, innovazione e promozione.
La Pietra, al contrario di altri materiali di costruzione (acciaio, calcestruzzo, legno, vetro ecc.) non gode di sufficiente attenzione da parte della ricerca. Inesorabilmente il suo ruolo, nel mondo della costruzione, da protagonista è diventato sempre più marginale riducendosi ad applicazioni di ‘comparsa’ di tipo decorativo o di rivestimento. Auspichiamo che questo Simposio sia l’inizio di una stretta collaborazione tra mondo del lavoro e mondo accademico, che generi il necessario valore aggiunto per reggere le sfide del futuro. Questo è il nostro sogno.

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23 Agosto 2007

Eventi

Pietre ornamentali di Toscana

pietre_ornamentali.jpg
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CONVEGNO
Sabato 1° settembre 2007
Terme Antica Querciolaia
Rapolano Terme (SI)

Coppie di relatori illustrano rispettivamente l’orizzonte estrattivo, trasformativo, valorizzativo della risorsa geologico-litica di riferimento (travertino di rapolano, marmo giallo di siena, pietra serena di firenzuola, alabastro di volterra) e quello dei campi tradizionali ed innovativi di applicazione.
Un workshop informale tra amministratori ed esperti intorno ai nodi critici e alla fortuna di alcuni dei più rinomati litotipi toscani nel quadro contemporaneo di competizione globale dell’economia.

In chiusura due interventi slargano l’orizzonte problematico verso progettualità di processo: Progetto TI-POT e Progetto PIETRE DI TOSCANA inscritto, quest’ultimo, nel networking di ARCHITETTURADIPIETRA.IT

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4 Agosto 2007

News

calitri1.jpg
Con una veduta di Calitri auguriamo a tutti buone vacanze.
Il blog riprenderà gli aggiornamenti alla fine del mese di agosto.
Buone vacanze!

La Redazione

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30 Luglio 2007

News

Pietre e pulizia

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Classica formazione di calcare su piano marmoreo in Giallo di Siena.

Da sempre le pietre hanno fatto parte dell’edilizia popolare, in special modo nelle cucine e nella realizzazione dei loro lavelli.
Nel Veneto, o meglio nel veronese essi erano generalmente costruiti con lastrame proveniente dalla formazione della Scaglia Rossa nella cui successione di 73 strati, si era finito per privilegiare quei pochi strati che avevano mostrato una risposta ottimale proprio a questo utilizzo, e cioè quelli denominati “seciar” e “seciaron”. Con questi strati, spessi rispettivamente 10 e 25 centimetri, si realizzavano i “seciari” (=lavabi) generalmente molto grandi, anche più di un metro di lunghezza con profondità di 70÷80 centimetri e spessore massimo, generalmente, pari a 15 cm.
Altre zone, geologicamente prive di questa successione di strati così particolari e dove i materiali estratti possono avere qualsiasi tipo di spessore, consentivano le realizzazione di lavelli generalmente più profondi ma di dimensioni minori. È indubbio comunque che ogni area trovava conveniente utilizzare i suoi materiali, e quindi forme e colori dei lavelli della vecchia edilizia rispecchiano i materiali e la cultura di quella area precisa: sempre nel Veronese ecco i lavelli in Rosso Verona, nel Trentino quelli in porfido, nel nord della Sardegna quelli in granito, nelle Apuane quelli in marmo di Carrara più o meno venato. E così via…potremmo girare tutta l’Italia, ma al di la della modificazione del litotipo geologico, il concetto e l’utilizzo non cambia e in molte vecchie residenze di campagne stupendi lavabi modellati dall’uso fanno bella mostra di sè nelle cucine di un tempo….
Ai nostri giorni la situazione economica e sociale è cambiata ma, a dire il vero, di poco: se la lavastoviglie è un pezzo immancabile nella cucina di una donna che lavora, è pur sempre vero che il lavello in pietra è considerato un pezzo importante e di arredo. Solo che nell’economia di un mercato globale come il nostro, il materiale proposto non si limita ad essere quello di estrazione locale, ma sarà un materiale di moda, che piaccia come colore, come nuances…. , che sia quindi trendy ed esclusivo…un approccio, ad essere sinceri assolutamente contrario a quello storico, dove era la necessità di un lavello, più che il desiderio di essere alla moda, a gestire tali scelte: lavello quindi con funzione pratica e non estetica come ai nostri giorni.
Le marcate esigenze estetiche dei nostri giorni che richiedono sempre prestazioni ad alto livello e per tempi prolungati, prevedono che tali oggetti vengano trattati, ad esempio con idrorepellenti prima di essere posati, proprio per permettere che rimangano praticamente perfetti a lungo. Può però succedere, talvolta, che qualche cosa vada storto e che alcuni acquirenti lamentino macchie e strane ombreggiature che, a loro dire, deturpano i lavelli.
Come mai? E si che una volta si lavava esclusivamente a mano! Perchè allora i lavelli di un tempo ci paiono così belli e così poco rovinati?
Ci sono una serie di fattori da considerare:
Una volta nei centri abitati vi erano le fontane di solito usate per lavare indumenti e stoviglie. Avevano quindi un doppio uso, utilizzati per la pulizia con contemporaneo utilizzo ricreativo (era un ottimo posto per “far filò”). Quando non si lavava alla fontana, si usava il lavello di casa, ma a quel punto, occorre ricordarlo, lo sporco delle stoviglie non era quasi mai, ahimè così unto e grasso come ai nostri giorni, i lavelli erano solo periodicamente strofinati vigorosamente con cere naturali o con olio di oliva, e i detergenti erano comunque ben poca cosa rispetto quelli attuali, limitati nel numero e nei costituenti…

Ma perchè, che cosa c’è nei detersivi? Ve lo siete mai chiesto? E poi, si possono usare i detersivi tranquillamente sulle pietre? Sì? No? Cerchiamo di vederlo assieme.

pietre_pulizia_2.jpg
L’effetto di un cleaner a base acida su un top di granito

Detergenti
Detergenti, detersivi o anche preparati per lavare sono quei prodotti utilizzati quotidianamente per eliminare lo sporco da una disparata quantità di superfici: stoviglie, tessuti, piani di lavoro…..pelle umana. Sono costituiti da una serie di prodotti che facilitano la rimozione dello sporco intervenendo con la loro azione sui legami che lo fissano alla superficie facendolo diventare e rimanere morbido e aumentando le forze di attrazione tra sporco e bagno di lavaggio. Queste sostanze, denominate tensioattivi in quanto lavorano appunto sulle tensioni superficiali, sono sempre mescolate ad altre sostanze complementari e possono essere posti sul mercato in forma liquida, in polvere, in pasta, ma anche in pani, e in soggetti ottenuti a stampo. Ci sono quelle ad uso domestico, istituzionale o industriale e la loro classificazione può anche far riferimento al fatto che siano saponi costituiti da tensioattivi naturali, o detergenti sintetici.
Generalmente sono considerati sicuri sia per quanto riguarda l’uso quotidiano e sia per l’ambiente…..ma…..

Storia della detergenza
Il primo “sapone” di cui si ha notizia – in realtà era un prodotto apparentemente molto simile – risale al 2800 a.C. e proviene dagli scavi dell’antica Babilonia dove fu trovato all’interno di cilindri di argilla che recavano anche le incisioni relative la sua preparazione.
Dal papiro di EBE del 1500 a.C. si apprende invece che gli egiziani lo preparavano mescolando grasso animale con oli vegetali uniti ad un sale raccolto nella valle del Nilo e chiamato “Trona” (Na3H[CO3]2.2H2O), minerale che si trova in efflorescenze in alcune regioni aride e che è una importante sorgente di soda.
Galli e Teutoni dei barbari? mica vero! anche loro si producevano il sapone, mentre i Romani, che non erano in grado di prepararlo, lo importavano dalla Gallia più che altro, ovviamente, come prodotto cosmetico.
Sapone e pulizia personale divenne presto un connubio di grande importanza, e già al tempo dei greci, Galeno, medico del 2° secolo d.C., raccomandava la pulizia ed il suo uso come metodo preventivo di alcune malattie.
Ma tant’è la storia è fatta di corsi e ricorsi storici…. ed il Medio Evo portò un periodo di oscurantismo anche nella pulizia. Fiorirono le essenze e l’arte profumiera (la puzza in qualche modo bisognava pur nasconderla sotto vestiti e parrucche puteolenti!…) ma in quanto ad igiene il periodo lasciava molto a desiderare: mica per altro la peste, solleticata da olezzi di lavanda e di profumi sopraffini, decimò senza farsi tanti riguardi la popolazione europea.
Nel 1600, finalmente, bagni e lavacri tornarono ad essere importanti, tanto che nel ’22 il re Giacomo I d’Inghilterra concesse il monopolio della sua produzione di sapone per l’equivalente di 100.000 euro l’anno. Il re sì che aveva il bernoccolo degli affari! E quindi in breve tempo i saponi, sempre più richiesti, si moltiplicarono sul mercato. La necessità a quel punto divenne quella di ottenerne una produzione su larga scala, anche se fino alla fine del 1800 il sapone era l’unico detergente tensioattivo, in grado cioè di rimuovere lo sporco. Fu per aumentarne le prestazioni su tessuti o su stoviglie che le brave massaie si ingegnarono arrivando a pratiche di lavaggio del tutto particolari: per migliorare la pulizia di tessuti, per esempio, esse usavano il sapone assieme alla cenere che serviva ad abbassare la durezza dell’acqua e ad aumentare l’alcalinità delle soluzioni di lavaggio, mentre per la pulizia delle stoviglie esse lo usavano assieme a sabbia per il suo potere abrasivo (come dire…..pagliette abrasive d’antan….).
Anche se pare difficile a credersi, però, furono le due guerre mondiali la causa prima della trasformazione della pulizia da sistema naturale a sistema attuale. Proprio in questi due tragici periodi, infatti, vi fu sul mercato una forte penuria di materiali naturali tra i quali di grassi nella Prima guerra mondiale, e di grassi ed olio nella Seconda. Per questo motivo i produttori di detergenti si misero a cercare, e trovarono, delle valide alternative sintetiche ai prodotti naturali: risale al 1946 l’utilizzo, in America, del primo prodotto per bucato completamente sintetico con tensioattivi di sintesi e sequestranti di durezza (builder). E da qui, negli anni, si è arrivati le creazione di prodotti specifici e differenziati a seconda dell’uso, per bucato, piatti o igiene personale.

Formulazioni
Le formulazioni dei prodotti per la pulizia di piatti e superfici sono particolarmente differenziati tra loro, anche se vi sono degli elementi funzionali che rimangono in comune con tutti. Essi sono: tensioattivi, sequestranti di durezza, acidi, agenti abrasivi, antirideponenti, agenti per il controllo della schiuma, candeggianti, enzimi, coloranti, profumi ed oli essenziali…e tutti dentro a quei deliziosi liquidi profumati con il quale laviamo (rigorosamente a mano per non rovinarlo) il nostro bel servizio di cristallo. Ma cosa sono tutti questi prodotti? E che effetto possono avere sui nostri bei lavelli in pietra?

Tensioattivi
Sono fondamentali per eliminare lo sporco, innanzitutto perchè ne diminuiscono la tensione superficiale, e poi perchè ne favoriscono la rimozione dalle superfici, evitandone la rideposizione. Possono essere di diversi tipi, tra cui:
anionici, cioè con carica elettrostatica negativa, con alto potere schiumogeno e pulente. Tra di essi possiamo ricordare gli achilbenzosolfonati, gli acilsolfonati, gli achiletossisolfati e gli elcoletossisolfati;
non ionici, privi di carica elettrostatica, meno sensibili alla durezza dell’acqua, tra i quali ricordiamo gli alcoli etossilati e gli ossidi di alchilamina. Usati prevalentemente nei lavaggi in lavastoviglie, effettuano una azione forte;
cationici hanno carica elettrostatica positiva, contengono Sali di Ammonio quaternari ed esteri; quaternari (per la pulizia del bucato);
anfoteri possono acquisire carica elettrostatica differente a seconda del tipo di soluzione in cui si trovano. Sono usati per la loro delicatezza, stabilità e potere schiumogeno.

Sequestranti di durezza (builder)
diminuiscono la durezza dell’acqua. Aiutano a tenere lo sporco in soluzione e favoriscono il lavoro dei tensioattivi. Un tempo erano a base di polifosfati, ora quasi aboliti a causa della eutrofizzazione (abnorme sviluppo delle alghe) dei mari. Sono solitamente sostituiti dalle zeoliti.
I prodotti per la pulizia di casa e stoviglie possono essere associati anche ad altri prodotti quali:
– ACIDI , ad esempio l’acido citrico per rimuovere il calcare e stabilizzare il pH del prodotto;
– AGENTI ABRASIVI, come la silice o il carbonato di calcio, per rimuovere meccanicamente lo sporco;
– ANTIRIDEPONENTI, quale la CMC (carbossimetilcellulosa) per mantenere lo sporco in soluzione;
– AGENTI PER IL CONTROLLO DELLA SCHIUMA, saponi siliconi, per mantenere il giusto livello di schiuma;
– CANDEGGIANTI ( a base cloro o ossigeno), Perborato, Percarbonato, Ipoclorito di sodio. Sbiancano e rimuovono le macchie;
– ENZIMI, Proteasi, Cellulasi, Lipasi, rompono lo sporco in parti facilmente rimovibili;
– COLORANTI, pigmenti vari. Migliorano l’estetica del prodotto e possono agire da azzurranti;
– PROFUMI, OLI ESSENZIALI e altri ingredienti profumati, per dare un odore gradevole al prodotto.

Tensioattivi (anionici, non ionici, anfotero) 10 – 35%
Etanolo 0 – 3%
Sali inorganici 0 – 5%
Acqua 65 – 85%
pH 5 – 8

Tab. 1detersivo per stoviglie a mano, liquido. Composizione media

Un detersivo per stoviglie a mano liquido e con composizione media come vista in tabella 1 può dare dei grandi problemi per ingestione o per contatto con le mucose più delicate, ma in realtà chi non ha mai provato quei fastidiosi problemi di arrossamento ed eczemi anche solo per l’uso conforme dei prodotti per pulire i piatti… È per questo che sui contenitori dei prodotti per il lavaggio si consiglia sempre di lavare con un paio di guanti di gomma e di risciacquare abbondantemente le mani dopo l’uso.

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Le macchie lasciate dal prolungato utilizzo di un lavello in porfido

Detergenti e pietra
Proviamo ora a vedere che effetto possono indurre i vari costituenti dei detergenti sulle pietre.

Acidi
Possono essere preparati con leggere percentuali di acido citrico (limoni o agrumi), acetico (aceto o vino), fosforico, cloridrico, più raramente fluoridrico.
Per quanto riguarda i materiali lapidei usati per i top e i lavelli delle cucine, ricordiamo che sono solitamente in marmo o calcari sedimentari e quindi costituiti prevalentemente da calcite (e per inciso anche il calcare da eliminare come calcare dai lavandini è carbonato di calcio…). La calcite (CaCO3 ) fa viva effervescenza (cioè il tipico aspetto del “friggere”) con gli acidi anche diluitissimi a freddo. Ma poichè non vi è differenza di sorta tra il CaCO3 della pietra usata per costruire il lavello ed il calcare su esso depositatosi, va da sè che entrambi vengono disciolti se entrano a contatto con prodotti indicati per l’eliminazione di calcare o brillantanti vari (che hanno proprio la funzione di eliminare gli aloni di calcare).
Ma purtroppo anche la semplice sostituzione con limone o aceto nel nome di un prodotto più naturale può risultare corrosivo per il nostro bel lavello.
Per i graniti la situazione è leggermente più tranquilla, a meno che l’acido usato nei prodotti non sia fluoridrico (usato più raramente, ma pur sempre usato) che ha il potere di disciogliere completamente il quarzo, minerale costituente fondamentale dei graniti e spesso presente anche in altre categorie di lapidei, o fosforico, ma anche i prodotti a base di cloro possono provocare alterazioni anomale del colore o rigonfiamenti deturpanti.
Agenti abrasici
Servono per effettuare un processo di micro abrasione sulle stoviglie per renderle brillanti. Preoccupati? No, non c’è di che! (ironico) è praticamente quello che fa un banalissimo dentifricio sui nostri denti. Sono a base di marmo ridotto in polvere impalpabile. Ovviamente se l’azione abrasiva sulle stoviglie è apprezzata, così non accade se essa si sviluppa sul lavello, partendo con una eliminazione iniziale di eventuali trattamenti, per passare poi alla eliminazione della finitura lucida superficiale (generalmente quasi tutti i lavelli posti in opera sono lucidi…). Il risultato? L’acqua può penetrare nella parte bassa della pietra, risalire per capillarità, non evaporare nelle parti alte, meno abrase, e con tracce di trattamenti ancora in essere, macchiare la pietra: disastro!!!
Antirideponenti.
In linea di massima se il prodotto viene eliminato velocemente da superficie o lavello, non provoca problemi di sorta.
Candeggianti.
Se non perfettamente trattati e purificati potrebbero contenere tracce di inquinanti che potrebbero indurre macchie anomale specialmente sulle pietre chiare, ma un candeggiante può anche sviluppare una azione acida che oltre a corrodere può provocare la perdita del lucido dei lapidei.
Profumi, oli essenziali
Fondamentali per rendere invoglianti i vari prodotti, sono sostanze oleose che quindi anche se in minime percentuali si comportano alla stregua delle materie grasse. Potenzialmente possono essere assorbite per assorbimento capillare e alla lunga macchiare il materiale. Ma attenzione, anche appoggiarvi le posate sporche o le pentole unte può portare allo stesso problema.
Coloranti
Anche in questo caso, visto che le pietre sono – per quanto poco- porose, essi possono provocare locali aloni.

Problemi senza soluzione?….
No, senza ombra di dubbio questi non sono problemi e men che meno sono privi di soluzioni.
Innanzi tutto per chi decida di usare nella sua casa top e lavelli in pietra vale il consiglio di vivere con serenità i cambiamenti della propria cucina (non esiste nulla che sia eterno…) magari aiutandosi con trattamenti particolari che andranno periodicamente ripristinati sulla pietra. Esistono ad esempio trattamenti specifici per proteggere tutti i tipi di materiali a base di CaCO3 , definiti commercialmente marmi, e a base silicatica come nei graniti ed affini. Le due differenti linee di prodotti sono protettivi antimacchia idro e oleorepellenti.
Possono essere protettivi idro oleorepellenti a base acqua oppure possono essere protettivi idro oleorepellenti a base solvente e se posseggono magari una certificazione per il contatto alimentare secondo normativa Europea 90/128 ECC, la direttiva di riferimento per le materie plastiche che vengono a contatto con gli alimenti, tanto meglio!
Questi prodotti penetrano e si fissano nelle micro porosità del materiale conferendo l’effetto di idro oleorepellenza senza alterare la naturale traspirabilità della pietra e la sua bellezza.
Un altro piccolo suggerimento, per chi desidera comunque una ulteriore tutela, è quella di chiedere al momento dell’acquisto del lavello il marchio CE sull’oggetto in questione. Tale marchio, in pratica è una scheda tecnica che, in seguito ad una serie di test preventivi sul materiale lapideo usato “conferisce una presunta idoneità dei lavelli da cucina trattati […] per l’/gli impiego/impieghi previsto/i” come preparazione di alimenti, lavaggio di stoviglie e scarico di acque reflue domestiche. Il marchio CE, quindi, dovrebbe garantire e favorire a priori la scelta di materiali lapidei che, per caratteristiche fisico-meccaniche e porosità, possano resistere meglio di altri al logorio da lavaggio.

di Anna Maria Ferrari
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27 Luglio 2007

Eventi

“L‘ARTE DELLA PIETRA.
Teoria e pratica della costruzione in pietra lavorata”

Corso dal 9 al 29 Luglio 2007
Università CEU SAN PABLO in MADRID

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L’Università CEU San Pablo, sotto la direzione di un prestigioso numero di professori, dal 9 al 29 luglio prossimo svolge un corso dal titolo” L’arte della pietra. Teoria e pratica della costruzione in pietra lavorata” col quale vuole dare risposta al crescente interesse della società per il patrimonio costruito, in generale, e in pietra, in particolare.
Il corso affronta, da diversi punti di vista, lo studio degli edifici in pietra da costruzione. La società attuale manifesta una crescente preoccupazione per la conservazione del patrimonio costruito in genere, e quello in pietra in particolare, e fino ad ora i corsi di intervento sul patrimonio storico avevano dato risposta a questo interesse. Da questo corso, molto specializzato, si forniranno strumenti di lavoro e di analisi su questa strada. Tenendo conto che, inoltre, il restauro degli edifici non è l’unico ambito ove applicare le conoscenze sulla pietra e la stereotomia (loro taglio), com’è il caso della costruzione moderna in pietra che sta acquisendo una rilevanza che richiede specializzazione nel settore, riservata fino ad ora allo studio e alla riabilitazione di costruzioni di epoche passate.
Il corso sarà diretto da Josè Carlos Palacios dell’Università Politecnica di Madrid e Alberto Sanjurjo dell’Università CEU San Pablo, e tra i professori che impartiranno i diversi laboratori sono: Joël Sakarovitch, dell’università Parigi 5, Renè Descartes di Francia, Enrique Rabasa , Ana Lòpez e Miguel Sobrino dell’Università Politecnica di Madrid; Begoña Alonso dell’istituto universitario di Storia Simancas; Ignacio Arce dell’Agenzia di Cooperazione internazionale di Giordania, Josè Calvo dell’Università Politecnico di Cartagena,; Rocio Carvajal e Aitor Goitia dell’Università CEU San Pablo; Giuseppe Fallacara dell’Istituto Politecnico di Bari Italia; Jean Luc Tamborero dei Compagnons du Devoir (Compagni del Lavoro) del Tour de France e per ultimo, Miguel Tain dell’Università di Santiago de Compostela.

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Il corso che si rivolge a studenti universitari del secondo ciclo, alunni del terzo ciclo (dottorato) e ricercatori e professionisti in generale, si divide in tre moduli.
Il primo” Teoria del Taglio di Pietra” tratta dell’evoluzione storica e le nuove prospettive e sarà tenuto da cattedratici, professori e ricercatori specialisti negli edifici in pietra da costruzione e in stereotomia.
Il secondo modulo, ” Laboratorio di costruzione”, prevede due cicli formativi: uno centrato sui metodi tradizionali di lavorazione, e l’altro, con un carattere di dimostrazione centrato sulle nuove tecniche di lavoro della pietra.
Il terzo modulo, “Laboratorio infografico”, sviluppa le nuove tecnologie applicate allo studio della pietra da costruzione e gli allievi svolgeranno un lavoro grafico sugli stessi argomenti trattati nel laboratorio sulla pietra da costruzione.

Info: www.uspceu.com/summerschool.

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26 Luglio 2007

Principale

Schindler Award 2008 “Access for All”

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E’ Vienna la città scelta quale scenario dell’edizione 2007/2008 dello Schindler Award for Architecture, concorso rivolto agli studenti di architettura di tutta Europa.
Malgrado i progressi compiuti da norme e prescrizioni, ancora oggi moltissime persone disabili vengono ostacolate da inutili barriere presenti negli edifici e nelle loro immediate vicinanze.
Nel 2003, per dare un proprio contributo all’ “Anno europeo delle persone con disabilità”, il Gruppo Schindler ha indetto per la prima volta il concorso Schindler Award “Access for All”, il cui motto è quello di contribuire a creare un “mondo accessibile a tutti”, indipendentemente dalle loro capacità fisiche e psichiche.
Dato il successo della prima edizione, Schindler ha deciso di dare un seguito all’iniziativa e indire il concorso ogni due anni.
Dopo aver valutato fra diverse possibilità, la giuria del concorso, sotto la presidenza della Prof.ssa Françoise-Hèlène Jourda, ha selezionato per l’edizione 2007/2008 un sito che pone ai partecipanti un compito davvero ambizioso.
Vienna, città ricca di cultura e di storia, vanta edifici che furono all’avanguardia nella loro epoca, progettati da architetti come Otto Wagner, Hans Hollein, Friednsreich Hundertwasser e Coop Himmelblau.
Uno sviluppo urbano guidato da una coscienza sociale è evidente non solo nelle zone residenziali, ma anche nel sistema di aree verdi, con nuovi parchi ricreativi lungo il Danubio, ed un sistema metropolitano che attualmente viene trasformato per adattarsi ai bisogni delle persone con disabilità.
Nonostante ciò, esistono anche a Vienna delle zone neglette e abbandonate. Una di queste si trova all’intersezione fra l’anello ovest (Westgürtel) e la valle del fiume (Wiental): un’area che, pur non essendo lontana dal centro, sembra esser stata dimenticata e rimane completamente avulsa dal resto del vivace dinamismo cittadino.
La sfida rivolta agli studenti di architettura degli atenei europei è proprio quella di sviluppare in quest’area una soluzione urbana e architettonica che sia “accessibile a tutti”, anche a persone con disabilità o anziane.
Ponendo il tema dell’ “accessibilità” e dell’ “urbanismo inclusivo” al centro della competizione, Schindler intende incoraggiare i futuri architetti ad essere artefici di un’architettura “più umana”, dove sensibilità progettuale e sistemi di elevazione intelligenti contribuiscono al superamento di ogni barriera.

Visita il sito Schindleraward

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26 Luglio 2007

Principale

Festival dell‘Architettura

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La quarta edizione 07-08 del Festival dell’Architettura ha inizio con l’apertura di un sito internet – laboratorio dove si potrà seguire l’avanzamento delle ricerche che caratterizzano i contenuti di PUBBLICO PAESAGGIO, il titolo che tematizza il nuovo Festival. In attesa del programma di conferenze, seminari e convegni di dicembre 2007, prima restituzione del lavoro in corso, e degli allestimenti di ottobre-novembre 2008, il sito-laboratorio consente di vedere ciò che normalmente non è esposto: i processi delle ricerche che producono i contenuti del Festival. Si potrà partecipare da semplici curiosi, da interessati spettatori, ma anche da interlocutori competenti capaci di dare un contributo ai curatori delle 12 ricerche attivate. Il Festival dell’Architettura, nel proliferare di un provincialismo culturale troppo spesso ripiegato sui sintagmi comunicazionali dello star system, sviluppa ulteriormente una formula innovativa di approfondimento tematico attr averso il massimo grado di partecipazione e divulgazione, di elaborazione critica per confronto e contaminazione, arrischiando la difficoltà del non già detto, del non già acclamato, in altre parole della sperimentazione interpretativa che sola può nutrire l’autentica architettura.

Visita il sito del Festival dell’Architettura

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25 Luglio 2007

Elementi di Pietra

SOFT-STONE
Origami di pietra

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“I poeti traducono in immagini l’incantamento della materia … “
(Gaston Bachelard, Causeries, Adelphi, Milano, 2007, p.10)

L’interesse del maestro Kengo Kuma per la pietra, per il suo essere materia assoluta e variegata, si evolve all’interno di un’unità tematica di cui è possibile ripercorrerne la “genealogia nascosta”, le filiazioni, a partire dal progetto di Stone Museum, passando per l’edificio Louis Vuitton ad Osaka, il Tokyo Agriculture Museum, il Nagasaki Art Museum, Lotus House ed i più recenti centro commerciale Ciokkura Park e Padiglione di Verona per Il Casone a Marmomacc 2007.
Assumendo come chiave interpretativa le declinazioni con cui, di volta in volta, Kuma ha interpretato il tema litico: massività, leggerezza, sottigliezza, snellezza, sospensione, incisione, deformazione, erosione è possibile rintracciare una continuità tematica tra soluzioni figurative diverse e pur “correlate” nel principio che ne ha governato la genesi. La pietra e le sue poliedriche potenzialità, è questo il tema col quale Kuma si confronta. L’esercizio è svolto su un crinale interpretativo apparentemente paradossale: l’im_materialità dell’architettura. Una “im_materialità costruita” agendo sulle relazioni tra materia e luce, sulle sensazioni tattili, sui significati che entrano nella “costruzione delle forme”.
Kuma taglia, piega, giunta, sovrappone, tesse, replica all’infinito un principio connettivo, che si fa discorso, narrazione. Le sottili oscillazioni tra astrazione e manifestazione sensibile del materiale nel suo agire rinviano ad un “approccio sensitivo” all’architettura, un principio che Kuma recupera dall’arte e dalla tradizione giapponese.

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Stone Museum, Nasu, Tochigi (1996 – 2000). Esterni (Foto di Peppe Maisto)

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Nello Stone Museum la pietra di Ashino – litotipo di origine vulcanica – utilizzata in forma massivo-leggera e continuo-discontinua, genera un ampio repertorio di figure architettoniche: schermo, griglia, passerella, frangisole, superficie pavimentale, rivestimento, cui corrispondono altrettante soluzioni di finitura dell’epidermide litica: liscia, bocciardata, levigata, acidata, fiammata, ecc. La tradizionale “muratura solida e continua” si articola attraverso il disegno della materia, si assottiglia; i muri perdono il senso di pesantezza tipico delle costruzioni tradizionali. Pur usando la pietra in strati massivi, Kuma ne rende ambigua la percezione smaterializzandola, compie un’azione di “desolidificazione della materia“, realizza “recinti litici” porosi. Una “additività materica vibrante” ottenuta sfalsando i giunti, arretrando i blocchi, interrompendo la continuità con lastre di marmo di Carrara, spesse 6 mm, che si lasciano attraversare dalla luce diventando evanescenti.

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Food and Agriculture Museum, Setagayaku, Tokyo, 2004. Interno. Il sistema di frangisole in pietra di Shirakawa e il dettaglio della schernatura litica (foto Archivio Kuma)

L’idea di “muro poroso” è un concetto che “ritorna” nel Food and Agriculture Museum, uno spazio funzionale connesso alle attività didattiche e di ricerca della Facoltà di agraria di Tokyo.
L’involucro litico del museo è segnato dal ritmo dei frangisole di pietra Shirakawa, un litotipo che per effetto della sua porosità subisce nel tempo una mutazione cromatica. La metamorfosi indotta dal processo d’invecchiamento materico diviene parte integrante della figurazione.

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Nagasaki Art Museum, Nagasaki, 2005. (foto: Archivio Kuma)

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Un tema che nel Nagasaki Art Museum assume anche una rilevanza simbolica. La materia si fa elemento di collegamento tra “quanto ha fatto l’uomo e quanto ha fatto la natura”1, “ponte” tra landscape e architettura. Ogni opposizione tra materiali naturali e materiali artificiali sembra essere annullata da una sorta di “naturalizzazione dell’artificiale”.

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Louis Vuitton, Osaka, 2005. (foto: Archivio Kuma)

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Nella sede Louis Vuitton di Osaka la pietra perde massa, si assottiglia, diviene superficie sensuale e policroma. Una lastra di alabastro (spessa 4 mm) posta tra due cristalli, reagisce alla luce rendendo evidente il nascosto, esplicitando il meraviglioso disegno del materiale con le sue infinite trame entro cui scorrono i colori. Kuma ancora una volta ci propone un paradosso: rendere visibile l’invisibile, dissolvere la materia nella luce.


Lotus House, 2006 (foto: Archivio Kuma)

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Porosità, trama, sospensione sono i concetti che governano il progetto di Lotus House. Qui lastre di travertino spesse 3 cm, agganciate ad un’esile struttura di acciaio, definiscono una superficie-tenda discontinua e regolare. La pietra, sottratta alla forza di gravità, sembra “lievitare” nell’aria, dialogando – nei pieni – con la luce e – nei vuoti – con le insondabili profondità dello spazio raggiungibili dallo sguardo.

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Ciokkura Park, Tochigi, 2006 (foto: Archivio Kuma)

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La pietra Ohya, la stessa utilizzata da Wright per l’Imperial Hotel, nel centro commerciale Ciokkura Park a Tochigi si “piega”, invece, a formare un reticolo, che Kuma definisce soft stone.
Kuma re-interpreta un’antica tecnica costruttiva utilizzata per la costruzione di granai: una trama litica compatta, ma ricca di ‘tagli’, di incisioni’ esercitate all’interno dell’apparecchiatura muraria.

Il Padiglione per Marmomacc 2007 a Verona
La piega è il principio generativo che governa il progetto del Padiglione per Il Casone un progetto nel quale l’architettura è intesa come opera artificiale sensoriale, esperienza emotiva a contatto con la materia. Il “potere evocativo” delle figure di pietra cui ricorre, la loro impronta genetica, agisce dentro di noi come memoria di associazioni ereditate e “catena” di nessi per nuovi significati. La sensibilità al linguaggio contemporaneo di Kuma attraversa la tradizione con occhi nuovi, la re-interpreta rinnovandola. Sfugge a quella “latente pietrificazione” dalla quale ci aveva messo in guardia Italo Calvino (Vai a Sulle ali di Perseo).
Ecco allora che Kuma ci appare come Perseo, l’eroe salvifico, che si sottrae alla terribile pietrificazione inflitta da Medusa ai suoi nemici grazie ad un artificio. Un’intelligenza ingegnosa (mêtis) lo soccorre. Quella di Perseo è un’intelligenza molteplice, multiforme, sostenuta da un “saper fare” tecnico consapevole (tèkhne). Kuma, come Perseo, sembra attraversare la realtà secondo un “doppio sguardo”, una doppia prospettiva: esercita sulla tradizione uno “sguardo penetrante” spingendo la sua osservazione oltre l’immagine, fino a cogliere nella materia, nelle sue infinite trame, una virtualità più vasta.

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Schizzo di progetto. Padiglione per “Il Casone”, Marmomacc 2007, Verona (in corso di realizzazione) (foto: Archivio Kuma)

Il padiglione progettato2 per Il Casone di Firenzuola, una sorta di origami3 di carta fattosi pietra, propone una personale interpretazione della leggerezza sospesa fra tradizione ed innovazione. Lastre di ‘pietra forte colombino4 spesse 1 cm, sono collegate tra loro a formare un “modulo ordinatore”, una sorta di “muro traforato” in cui la materia sembra distribuirsi e distendersi intorno ai vuoti.
Kuma assottiglia, interseca, indirizza spazialmente la pietra, generando un autoequilibrante sistema reticolare spaziale: l’ordito, l’intreccio, la trama, le texture rimandano ai diversi livelli di senso del racconto architettonico, che oscilla tra densità e svuotamento costruttivo. Il vuoto e la materia rappresentano la dis_continuità del progetto: elementi generatori della composizione, artifici attraverso i quali Kuma dispiega la sua narrazione.
Il padiglione, una sorta di labirinto di dedalica memoria, è costituito da un muro continuo, che nel suo snodarsi assume configurazioni e significati molteplici.
L’elemento generatore – il modulo base – è un tetraedro ottenuto assemblando tre lastre di 25x25x1 cm. La connessione tra le lastre litiche è realizzata mediante colla epossidica, soluzione che garantisce sia la solidarizzazione tra gli elementi, in ragione del carico che i moduli di base devono sostenere, sia la performance strutturale. L’irrigidimento del sistema è affidato da un lato alla “tenuta” trasversale degli elementi orizzontali e dall’altro al peso proprio, che contribuisce alla stabilità rispetto all’azione di ribaltamento.
I moduli litici pesano circa 5 kg (la massa volumica media è 2500 Kg/m3) ed hanno una rifinitura angolare a spigolo “vivo”. Una scelta che ha lo scopo di esaltare da un lato la geometria degli elementi e dall’altro le loro ombre proiettate.
Le lastre, superficialmente, sono rifinite a mano. Il trattamento superficiale della pietra “risente” volutamente di quest’azione della “mano”, che in qualche modo è “impressa” nella materia. I moduli lasciano a vista la naturalità della pietra, la sua costitutività geologica, le sue “impurità”.
Conformazione e orientamento geometrico degli elementi generano una composizione reticolare in cui i vuoti prevalgono sulla massa dei pieni. Questa percezione è tuttavia controbilanciata dall’azione della luce, da un ricercato artificio tecnico, indirizzato verso un più complesso risultato figurativo5.
La luce, attraversando le cavità del muro dal basso verso l’alto, produce lunghe ombre, stempera i vuoti, modifica i rapporti tra pieni e vuoti. La tessitura triangolata è spinta verso la ricerca di una superficie vibrante, arricchita dall’infinita gamma di sfumature che le ombre producono.
Quest’artificio figurativo è esaltato dalla geometria della trama litica, che alla base riduce la sezione di “contatto a terra”. In corrispondenza dell’attacco a terra, i moduli si assottigliano, perdono massa là dove, invece, la performance strutturale ne richiederebbe l’amplificazione. Ancora una volta Kuma sembra volerci porre dinanzi ad un paradosso, contraddire una “necessità statica” per esaltare la provocazione della proposta progettuale. Lo “sbarramento” di luci in corrispondenza dell’attacco a terra genera un effetto di “galleggiamento” del muro, che appare sospeso, fluttuante nel vuoto. Un senso di labirintica e sospesa leggerezza litica avvolge lo spazio.
Superiormente, il muro-diaframma è chiuso da un piano di pietra che ne garantisce la conclusione sommitale in forma continua. L’insieme, sotto il profilo strutturale, si comporta come una trave reticolare spaziale, la cui stabilità ha richiesto una particolare attenzione rispetto alla continuità del sistema, anche in fase di assemblaggio degli elementi. Necessità specifiche hanno richiesto lo sviluppo di procedure di montaggio determinate in parte dalla scelta di rendere reversibile le connessioni ed in parte dalla esigenza di facilitare la movimentazione degli elementi litici. Allo scopo di escludere l’utilizzazione di attrezzature e mezzi meccanici per lo spostamento e il posizionamento degli elementi si è optato per la aggregazione di più moduli, a formare dei macro-moduli.
4200 elementi di pietra formano un muro poroso, permeabile.
L’ipotesi progettuale finale propone un diaframma litico in cui all’idea di solidità e compattezza tipica del muro è contrapposta a quella di leggerezza, labilità, attraversabilità visiva. Concetti che convivono all’interno di un delicato equilibro dicotomico. Il muro, di altezza variabile, si dispiega all’intorno e all’interno dello spazio espositivo consentendo, attraverso le sue “pieghe”, attività e significati diversi: filtro separatore, spazio espositivo, magazzino, giardino. Le funzioni d’uso sono ordinate in ragione delle diverse “specializzazioni”: tavolo, ripiano, scrivania, libreria, espositore, ecc.
Lo spazio del Padiglione è organizzato intorno ad una sorta di grande piazza, a partire dalla quale si snoda il percorso espositivo-comunicativo. Lo spazio è visivamente suddiviso in due macro aree dal muro-tavolo, che costituisce anche il limite fisico tra l’area espositiva e quella di servizio.
Un tradizionale giardino di sassi “circonda” l’intero padiglione, che sembra adagiato su uno strato di ciottoli. Il senso di morbidezza è esaltato dalla relazione tra materiali analoghi, che esprimono una diversa morfologia visiva, un diverso modo di “frammentare”, ridurre, segmentare.
Kuma sembra voler “forzare” la pietra utilizzandola in maniera inusuale, irrituale, provocatoria, ambivalente, ambigua. Del resto ambiguo deriva dal verbo ambiegere “vagare” ed è composto da ambi – “intorno, attorno” e da agere “fare”, che insieme producono il senso di avere due o più possibili significati, di “spostarsi da un lato all’altro” e di “avere una dubbia natura”6 Kuma compie questo spostamento agendo sulle potenzialità espressive del materiale. Com’è nella natura del suo pensiero creativo pone in relazione concetti e significati apparentemente antinomici, fino a produrre nel fruitore una sorta di “spiazzamento”, di apparente aporia. Ci avvicina ad altri mondi figurali della materia, ce ne svela le potenzialità latenti.
La scelta di un monografismo materico rimanda, per analogia, ad un pensiero assoluto. Kuma ci sollecita ad andare ‘oltre’ la figurazione a muoverci nel territorio dell’ “immaginazione come repertorio del potenziale, per mostrarci ciò che è ne è stato nè forse sarà ma che avrebbe potuto essere7. Nel suo agire riflesso e profondità convivono in un’immagine che ha una potenza dirompente, una forza che trascende il suo significato specifico e che parafrasando Warburg potremmo definire un’immagine che ha memoria del futuro.
Attraverso quest’ambigua interpretazione della pietra, Kuma risale ai significati originari che entrano nella costruzione della forma, recupera un patrimonio d’immagini che vivono dentro di noi allo stato latente.
L’unità compositiva è generata dalla ripetizione di un elemento-superficie reiterabile all’infinito. Tra la parte è il tutto esiste un legame di necessità e di reciprocità. Le immagini cui ricorre fluiscono l’una nell’altra, nuovi nuclei di significato emergono dalla profondità del tempo per il tramite della materia, del modo in cui Kuma la mette in forma, la con-forma.
Nel progetto del Padiglione di Verona, il reticolo ordinatore della composizione, i vuoti, la tessitura del materiale, le sue infinite segmentazioni rinviano ad una ‘sacralità’ intrinseca alla materia, analoga a quella che governava l’antica arte della piegatura cerimoniale della carta, il noshi8. Il muro, riguardabile come “specchiatura” di un esile diaframma di carta, è figura architettonica attraverso la quale Kuma propone la sua interpretazione della leggerezza litica: una sfida alla massa, alla gravità, alla pesantezza. Kuma “trasfigura la pietra”, ne esplora le possibilità latenti, agisce all’interno del “codice genetico”della materia che si fa materiale e, alla fine, opera. La materia è l’elemento generatore delle strategie del comporre, è il principio attraverso cui Kuma ci fa cogliere l’esistenza di strutture di significato inesplorate, inesauribili: memoria ereditata,’energia mnemonica‘.
Il Padiglione assume un significato particolare anche in ragione dell’avvio di un’inedita collaborazione tra il mondo della cultura del progetto, il mondo della produzione e quello della ricerca e della formazione universitaria. Le connessioni tra tecnologia e ideazione, l’integrazione tra diverse competenze professionali, l’apporto delle organizzazioni di produzione nella messa a punto di soluzioni costruttive innovative sono solo alcuni degli aspetti che hanno spinto il gruppo di lavoro coordinato da Kuma a verificare la possibilità di sperimentare una nuova processualità di progetto. Aspetti, questi, che hanno spinto Alfonso Acocella e chi scrive (docenti, rispettivamente, presso la Facoltà di Architettura di Ferrara e di Siracusa) ad aderire e collaborare a questa esperienza che si realizza nella convergenza delle conoscenze, all’interno del progetto e della sua produzione, per essere poi trasferita come “sapere vivo” nello spazio della formazione. Estendere la didattica universitaria a ricerche condotte nel vivo della processualità produttiva rappresenta la volontà di aprire l’Università a nuovi spazi di acquisizione dell’informazione. Ed è anche per tentare di dare una risposta a questa necessità che abbiamo scelto di promuovere intorno a quest’esperienza un confronto allargato, utilizzando il blog come luogo del confronto e della verifica, luogo della contaminazione e della partecipazione.

Luigi Alini

(Visita il sito Kengo Kuma & Associates)

Note
1 Dichiarazione resami da Kengo Kuma durante un recente colloquio.
2 Il team, coordinato da Kengo Kuma, è composto da: Javier Villar Ruiz, Kengo Kuma & Associates; Alfonso Acocella, Università di Ferrara; Luigi Alini, Università di Catania; Roberto Bartolomei, Il Casone; Stella Targetti, Targetti Sankey S.p.a.
3 Arte di piegare la carta (dal giapponese ori, piegare e kami carta).
4 Pietra arenaria-calcarea estratta in Toscana.
5 Le soluzioni illuminotecniche sono state sviluppate in collaborazione con Targetti Sankey www.targetti.it.
6 Cfr. Ezio Raimondi, La retorica d’oggi, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 64.
7 Italo Calvino, “Visibilità”, in Lezioni Americane, Garzanti, Milano, 1988, p.91.
8 Ebbe inizò in epoca Muromachi (1392-1573). Akira Yoshizawa, un creatore di origami e scrittore di libri sull’argomento, ha ispirato un moderno rinascimento di questa pratica, con modelli sempre più intricati e nuove tecniche come il wet-folding, la pratica di inumidire il foglio durante la piegatura in modo che il prodotto finito mantenga meglio la forma, o il soft-folding, in cui la carta viene piegata in modo più deciso o più morbido per creare effetti particolari.

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18 Luglio 2007

Eventi

Forum Nazionale del marmo, 22 giugno 2007
La pietra italiana sulla strada d’Oriente

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Il progetto dello Studio Gregotti Associati International per la città di Puijang

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Il dragone e l’elefante scuotono l’Occidente, interrogano i nostri sistemi, mettono in discussione la nostra capacità dialogica invitandoci al confronto ed alla scoperta reciproca. Così Cina e India, mentre sommuovono i più vasti sistemi economici, interrogano anche il settore dei lapidei.
Il Forum Nazionale del Marmo che, come di consueto, precede l’edizione di Marmomacc (4-7 ottobre 2007), si fa opportunità per le aziende ed i professionisti del settore di studio e analisi dei fenomeni del presente, fornendo strumenti conoscitivi per guardare con più coscienza all’Oriente che avanza.
Dopo l’introduzione del Presidente di Verona Fiere Luigi Castelletti, l’incontro svoltosi nel suggestivo scenario di Villa Quaranta di Pescantina, si apre con il saluto di Andrea Segattini, Gran Maestro dell’Antica Libera Corporazione dei Maestri della Pietra.
Il Direttore Generale di Veronafiere Giovanni Mantovani segue presentando l’edizione di Marmomacc 2007 illustrandone i dati di settore, le opportunità, i punti di forza e le mancanze in esso insite. È poi Vincenzo Pavan a introdurre i relatori protagonisti dell’incontro.
Si susseguono con incessante intensità i tre interventi – forte lo spessore, penetranti le narrazioni – volti ad osservare società, architettura e mercati delle potenze asiatiche con particolare attenzione verso la realtà cinese. Tre punti di vista d’eccezione, tra loro dissimili ed insieme affini, ad inquadrare e tradurre ai nostri occhi, nel breve tempo di un pomeriggio, multiformi aspetti del continente futuro protagonista del Terzo millennio.

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Gli Ospiti relatori. Da sinistra Renata Pisu, Augusto Cagnardi, Giancarlo Radice

Per prima è Renata Pisu, sinologa ma anche scrittrice, traduttrice, giornalista, interprete, dotta “culturologa” d’Oriente. Il ritratto della Cina che dipinge con l’eleganza descrittiva che la contraddistingue, avviene attraverso chiari esempi tratti dalla lunga esperienza consumata sul campo. Difficile tracciare per sommi capi il profilo di un paese composto di mille volti e culture diverse. Ascoltare la Pisu sorprende come potrebbe esser stato verso il racconto dei viaggiatori dell’epoca delle esplorazioni; tuttavia le riflessioni lasciano pensosi, lo slancio ed entusiasmo verso l’esotico sono calmierati infatti dall’affronto di temi difficili e fortemente problematici relativi alla realtà sociale del paese.
La Cina, osservando come sia stata attraversata da rivoluzioni e sconvolgimenti in tempi quanto mai accelerati che ne hanno stravolto società, cultura ed ingegni, pare avere l’attitudine al cambiamento radicale. Ciò che di più rilevante è emerso dalla narrazione della Pisu è infatti la capacità e forza di rinnovamento continuo ed “auto-rivoluzionamento” che distingue il “drago rampante”, alla ricerca oggi nuovamente di una identità.
Per comprenderne le grandi trasformazioni economiche e urbanistiche la Pisu insegna a considerare la spinta all’innovazione come motivata dallo slancio a cercare benessere ed efficienza attraverso lo “sviluppo”. Ma l’analisi della sinologa è lucida e disincantata quando descrive quel solido Impero come un “gigante anacronistico dai piedi d’argilla – un colosso che si muove, ma non tutto”. La compattezza per antichità e dimensioni che si percepisce a distanza è artefatta, costruita dal regime odierno per rafforzarne l’influenza sul mercato internazionale; in realtà è un paese diverso al suo interno come un bacino marino, “composto da 800 milioni di persone ancora del tutto fuori dalla marcia del capitalismo, tuttora senza tutele e protezioni. Un immenso giacimento di mano d’opera a basso prezzo che l’egoismo crescente verso le classi più deboli sfrutta alla ricerca di guadagno veloce e immediato”.
Così anche la minaccia che si avverte è tale “solo se ne intromettiamo l’immagine come minacciosa, ed il paese si pone allora come il nostro specchio. La Cina è un mammuth pesante e enorme che può costituire per sua natura una potenza ma anche una zavorra”.
Dall’appassionato intervento della Pisu emerge un quadro sintetico della complessità del tema cinese, non privo di un accorato accento di pessimismo-dispiacere proprio di chi ha vissuto di quella cultura con l’attenzione partecipata della sociologa.
Più positiva la ricognizione di Augusto Cagnardi. Il progettista amministratore delegato dello Studio Gregotti Associati International, coglie l’attenzione del pubblico con la sua dialettica avveduta e incantatrice, per raccontare della sua personale avventura trascorsa nell’ultimo quinquennio a stretto contatto con la realtà del mondo delle costruzioni cinese; strada avviata a 65 anni con l’entusiasmo fresco e curioso dell’architetto mai stanco di conoscere e mettersi alla prova. L’Oriente per Cagnardi è sottoporsi ad uno shock attivo per risvegliare la propria mente, una sfida.
A Sud di Shangai sorgerà una città di fondazione progettata dallo studio Gregotti e realizzata in “Italian Style”. Il progetto, esito della vittoria ad un concorso internazionale ed inscritto nell’ancor più vasto programma di “One City and Nine Towns”, è stato sviluppato nel tempo record di un mese e mezzo, mettendo alla prova tenacia, conoscenze e capacità di tutta la squadra di progettisti italiani. Il fervore della Cina è evidente proprio in questi tempi procedurali ed esecutivi da primato.
La Cina chiede oggi che le si proponga il meglio di cui si è capaci mentre muove passi straordinari nello sforzo di conoscere le culture d’Occidente – la vocazione del paese può dirsi infatti quella dell’imparare. Gli italiani sono stati invitati a insegnare il loro modo di operare attraverso le forme della città ed i materiali dell’architettura. La città “italiana” a Shangai, Pujiang, non sarà tale nel senso della mimica di stilemi del nostro passato, rispondendo invece al concetto di città classica attraverso la rilettura dei tipi – piazze, canali, parchi e palazzi – ed adattando questi modelli alle necessità della società cinese.
In più sarà interamente realizzata in granito bianco, scelta in Europa improponibile. Il litotipo italiano, deciso in concertazione con l’amministrazione locale, raggiungerà al grezzo la Cina dove sarà invece lavorato e trattato dalle maestranze locali. Dopo la fase dell’apprendimento e dell’imitazione delle tecniche altrui, i cinesi cominciano ad applicarsi escogitando soluzioni originali, aggiungendo l’ingegno alla straordinaria quantità di manodopera a disposizione. I professionisti cinesi sono giovani e preparati, lavorano a ritmi incalzanti affrontando gli ostacoli con le risorse a loro disposizione; anche il governo a capo esercita il suo ruolo “misurando e contromisurando” – dalle parole di Cagnardi – “e se le cose non funzionano viene spedito a casa”.
Chiude il pomeriggio Giancarlo Radice, giornalista ed economista inviato del Corriere della Sera, mettendo a confronto la Cina alle altre economie d’Oriente delle quali ha diretta conoscenza e delineando per il pubblico attento il terzo punto di vista sul mondo d’Oriente, quello della “scienza triste” che è l’economia e che con la sua esposizione traduce in chiare e brillanti notazioni comprendibili ai più.
Delinea in brevi ed efficaci parole, i diversi modelli di sviluppo di Cina ed India, ne osserva le differenze rispetto alle contemporanee scelte di espansione, verso l’industria e le tecnologie.
Entrambe lavorano e investono, la crescita è inarrestabile. Radice non teme a precisare, con lucido disincanto, che per alcuni settori della nostra economia occidentale, “la partita è persa in partenza”. Non è tuttavia attraverso il protezionismo o sperando in un rallentamento delle economie orientali o bloccandone la crescita, che possiamo tutelare le nostre ricchezze, in quanto è l’economia stessa cinese ormai a mantenere vive quelle dei paesi occidentali attraverso uno scambio reciproco. L’affermazione di Radice è seria, impegnativa e senza rammarico: una parte della Cina si è già proposta di cominciare ad affrontare i problemi come quello ecologico e forse troverà soluzioni al di fuori del modello occidentale.
Alla consueta domanda se Cindia rappresenti rischio od opportunità per l’Occidente, Radice risponde indicando all’Europa, ed all’Italia in particolare, una prospettiva di riuscita, positiva ma che necessita di impegno ed attenzione: invita a recuperare un atteggiamento di conoscenza e considerazione delle realtà d’Oriente, “senza pregiudizi nè sensi di inferiorità, aggiungendo genio, umiltà e partecipazione; e soprattutto focalizzando energie su quel concetto impalpabile cui solo l’Italia è in grado di dar vita, quello di marchio, di lusso, di preziosimo”.
Scienza, ricerca e apertura mentale e culturale e livello sempre più alto di specializzazione. Questa la sola prescrizione possibile per il nostro avvenire.

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Avveniristici scenari progettati per le città d’Oriente

Sempre nello scenario di Villaquaranta, in conclusione all’evento del Forum si è svolta la cerimonia di premiazione dei “Maestri della pietra” diretta a tre protagonisti dell’imprenditoria e delle istituzioni. Sonia Dal Corso, imprenditrice della Valpatena, Luigi Oriano Bocchese, imprenditore vicentino e Fabio Bortolazzi, presidente della Comera di Commercio, Industria, Artigianato ed agricoltura di Verona, sono stati insigniti del riconoscimento che L’Antica Libera Corporazione dell’Arte della Pietra conferisce ogni anno a categorie produttive che con il loro impegno abbiano contribuito a valorizzare e promuovere il settore.

di Veronica Dal Buono

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16 Luglio 2007

Pietre Artificiali

Alle origini dei pavimenti in laterizio*

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Solunto (foto di Alfonso Acocella)

In quel crocevia antichissimo che è il Mediterraneo, spazio acqueo magico su cui si affacciano da tempi immemorabili territori, etnie e civiltà autoctone legate fra loro da intensi scambi commerciali e culturali, si collocano le origini abbastanza “tarde” – rispetto alle testimonianze del Medio Oriente – della cottura di elementi in argilla volti alla realizzazione di manufatti per l’architettura, e in particolare la creazione e la diffusione dei pavimenti in cocciopesto.
Segue, alla lunga stagione delle terrecotte architettoniche greche e poi magnogreche, l’aggiornamento delle tecniche costruttive dell’ellenismo.
È da ascrivere allo spirito sperimentale ellenistico l’innovazione del laterizio cotto nelle murature che, dal III secolo a.C., affianca e integra i metodi stereotomici più arcaici e originari in pietra. La cottura dell’argilla consente una produzione di elementi, sia standard che speciali (dalla durata, “portanza” e inalterabilità confrontabili con le caratteristiche della pietra), attraverso una fabbricazione rapida, economica, seriale.
L’introduzione dei mattoni in argilla cotta, anche se non avrà conseguenze rilevanti riguardo agli aspetti quantitativi dell’architettura ellenistica, pone sotto il profilo storico e tecnologico le premesse di un progresso essenzialmente futuro, conseguito a breve dai Romani a partire dalla prima età imperiale.
Una diffusione ampia registra, invece, l’altro significativo ambito della sperimentazione tecnica ellenistica legato al settore delle malte, che trovano esteso sviluppo applicativo nei pavimenti conosciuti con il nome di “battuti” : redazioni pavimentali continue a base di calce e granuli di pietra e/o di cotto. Questi particolarissimi pavimenti si diffondono e si evolvono velocemente, a partire da un’origine probabilmente punica, in tutto il bacino mediterraneo.

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Domus a Solunto. (foto Alfonso Acocella)

Le tappe principali di tale processo sono sinteticamente riassunte da Hans Lauter:
“Un secondo settore d’innovazione tecnica è costituito nell’ellenismo dal campo dei materiali stucco e malta. Lo stucco di marmo, buono e assai duro, era certo familiare già all’architettura greca più antica e serviva tra l’altro, come cosiddetto stucco idraulico, per rivestire, impermeabilizzandole, vasche e cisterne.
A partire dal tardo V secolo a.C. viene utilizzato come legante per pavimenti, e in particolare per i mosaici a ciottoli; nelle case e nei palazzi macedoni del primo ellenismo di Pella e di Vergina anche pavimenti assai semplici di cocciopesto e lastrine di marmo vennero stesi in questa massa simile a malta.
Una speciale evoluzione d’impronta punica è il pavimento a “terrazzo” (o cocciopesto dell’Occidente) dove uno strato di malta di ottima qualità è mescolato a polvere di terracotta, a particelle d’argilla cotta e a singole pietre bianche (in genere calcari).
Lo si ritrova negli edifici greco-punici di Selinunte prima della distruzione del 272 a.C., e già allora era stato adottato dappertutto dai greci di Sicilia e della Magna Grecia, dai quali lo ripresero a loro volta i vicini italici” .1
Dalle civiltà insediate nelle regioni del Mediterraneo orientale, quindi, la tecnica dei battuti passa agli italici, facendo il suo ingresso presso i Romani che la utilizzano in larga scala sia come intonaco impermeabilizzante (in cisterne, vasche, terrazze, impluvi, piscine termali, opere murarie contro terra ecc.) sia come superficie funzionale e ornamentale per pavimentazioni d’interni, sviluppando un repertorio decorativo semplice ma raffinato, unitamente a un piano di calpestio economico, robusto e continuo. I Romani chiameranno tale tecnica esecutiva opus signinum (dal nome della città di Signia, l’odierna Segni, grosso centro di produzione laterizia, famosa soprattutto per la fabbricazione di tegole).
L’approfondimento del tema decorativo connesso ai pavimenti in opus signinum utilizza l’apporto di piccoli elementi lapidei; nel tempo si assiste a un “arricchimento” del disegno del piano di calpestio attraverso l’integrazione dei materiali cementanti di fondo con frammenti di pietra (in forma di scaglie irregolari o tessere quadrangolari bianche, nere o policrome) che conducono a “scritture” pavimentali più elaborate e raffinate, sia pur mantenendosi sempre entro caratteri di essenzialità, di sobrietà.
Più in generale l’opus signinum evolve la stesura omogenea e “povera” del cocciopesto d’origine, attraverso una ricerca figurativa che approfondisce temi disegnativo-decorativi specifici. Fra i temi più ricorrenti è possibile evidenziare la ripartizione della superficie in uno o più campi pavimentali, l’adozione di fasce e riquadrature, l’enfatizzazione dei punti focali (centri), infine la realizzazione di temi ornamentali policromatici.
Questa classe pavimentale si fa apprezzare, oltre che per i suoi valori estetici, per le elevate caratteristiche di impermeabilità e resistenza.
In Naturalis Historia Plinio, dopo aver presentato per sommi capi l’arte pavimentale in Grecia, soprattutto attraverso le tipologie più elitarie quali quelle del mosaico e del lithostroton, passa a illustrare le più antiche manifestazioni di tale magistero esecutivo in ambito romano agganciandosi direttamente alla tradizione dell’opus signinum, ovvero a quei pavimenti a battuto allestiti per dare compattezza, resistenza e pulizia agli spazi coperti.
Nel libro XXXV, dove tratta degli impieghi delle terre, in forma di apprezzamento esplicito per l’ingegno umano, afferma:
“Che cosa non escogita la vita usando anche cocci rotti in maniera che i cosiddetti Signini pestati i cocci e aggiuntavi calce siano più solidi e durino più a lungo! Hanno escogitato di fare anche i pavimenti di questo materiale”. 2
E più avanti, nel libro XXXVI, dedicato alle pietre e ai marmi:
“I primi pavimenti ad essere allestiti credo siano stati quelli noti col nome di “stranieri” (barbarica) e di “coperti dal tetto” (subtegulanea), che in Italia sono di terra battuta a mazzeranga: il che si potrebbe arguire dal nome stesso. A Roma il primo pavimento a scaglie fu fatto nel Tempio di Giove Capitolino dopo l’inizio della terza guerra punica”. 3
I pavimenti in opus signinum da Plinio sono appellati barbarica perchè già da tempo (almeno a partire dal I secolo a.C. quando si diffondono su larga scala i mosaici e prende il via la moda dei sectilia pavimenta) sono stati declassati dalle sale di rappresentanza delle domus di Roma ai “quartieri” residenziali; continueranno, invece, a svolgere un ruolo importante nell’architettura d’interni delle abitazioni collocate in aree periferiche del mondo romano.

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Anzio, ville repubblicane, particolare di opus signum con reticolato a losanghe e crocette

Se i ritrovamenti archeologici, che sono pur numerosi, non appaiono confrontabili quantitativamente con la serie vastissima dei mosaici a tessere, ciò è dovuto soprattutto alle ampie ricostruzioni edilizie d’età imperiale effettuate sui contesti topografici d’età repubblicana (età di massima diffusione dell’opus signinum) con la perdita o il seppellimento degli strati più antichi.
Il riferimento di Plinio a questi particolarissimi pavimenti rinvia unicamente ai battuti di calce con frammenti di laterizio cotto, dal tipico colore rosso. In realtà la ricerca archeologica ha precisato come in tale tecnica esecutiva vadano inclusi tutti i pavimenti ottenuti per battitura, conseguentemente anche quelli con fondo cementante bianco o colorato.
A partire dal III secolo a.C., com’è attestato attraverso numerosi scavi, i cocciopesti e i battuti rossi e bianchi hanno rappresentato in ambito italico la più antica soluzione pavimentale in voga per conferire igiene e resistenza ai piani di calpestio degli ambienti domestici sottoposti all’usura del vivere quotidiano e del soggiorno delle persone.
Le grandi serie pavimentali di Pompei, Ercolano, Roma ne fissano la loro massima adozione lungo il II secolo a.C.
L’opus signinum si diffonde e si sviluppa attraverso l’impiego di tessere e scaglie litiche bianche o – più raramente – anche colorate, distribuite casualmente o disposte secondo precise geometrie di posa, contribuendo a elevare il valore decorativo dei pavimenti rendendoli consoni alle aspettative di crescente preziosità che caratterizzano già l’edilizia romana e lo stile di vita d’età repubblicana fra il II e il I secolo a.C.
È importante altresì evidenziare come i pavimenti in cocciopesto insieme a quelli in battuto di calce bianca, con i loro disegni lineari punteggiati ottenuti a mezzo di tessere litiche, vadano a svolgere – in età tardorepubblicana – un’influenza determinante nel formare quel repertorio geometrico d’avvio della nuova tradizione del mosaico bicromatico bianco e nero di tipica elaborazione romana. In particolare saranno “trasferiti” da questa tecnica pavimentale più antica i motivi del meandro, del reticolato con meandro o con losanghe, delle crocette, del puntinato regolare.
I pavimenti in opus signinum, pur nelle loro più elaborate redazioni, non si allontaneranno mai – a differenza dei pavimenti in mosaico o di quelli in opus sectile – dalla sobrietà d’origine dovuta alla tonalità cromatica omogenea di fondo e alla “leggera” linearità degli ornati; in particolare non tenderanno mai ad affollare i campi pavimentali fino a invaderli e annullarli con eccessi di decorativismo.
La natura specifica del tema pavimentale, valutato nella sua autentica essenza di superficie funzionale, fa sì che queste redazioni in opus signinum mantengano sempre una continuità e una solidità strutturale accompagnata da un’eleganza essenziale – sostanzialmente “grafica” – ottenuta attraverso geometrie ornamentali di tipo lineare.
Con l’opus signinum prende avvio, comunque, sulla stesura omogenea del cocciopesto, quella sperimentazione figurativa che mette a fuoco i tipici e ricorrenti temi del progetto pavimentale: ripartizione e gerarchizzazione della superficie di calpestio in uno o più campi, disegni geometrici di tracciati (quali fasce, cornici, riquadrature), intensificazione ornamentale di punti focali delle composizioni, adozione di virtuosismi decorativi quali figure, aree impreziosite mediante texture policromatiche ecc.
L’opus signinum decorato è un punto di arrivo di una lunga elaborazione. La decorazione è ottenuta mediante l’uso di scaglie quadrangolari (di dimensioni prossime alle tessere musive) oppure di frammenti irregolari in forma di scaglie. L’utilizzo di litotipi colorati (meno frequente dell’impiego delle tessere bianche o nere) è legato prevalentemente all’esecuzione di campiture centrali a tappeto omogeneo entro cui gli elementi litici vengono mischiati liberamente.
Più frequentemente il decoro è ottenuto attraverso tessere bianche (a volte, invece, solo nere, o bianche e nere utilizzate contestualmente in alternanza), sempre allettate nello spessore del cocciopesto, poste a formare disegni geometrici lineari.
Gli ornati lineari sono redatti accostando le tessere bianche (che mai si toccano fra di loro) per angolo e non per lato. Sono queste tessere a dar vita alle decorazioni geometriche (sottoforma di punteggiati lineari, crocette, squame, reticolati, meandri ma anche in motivi più elaborati quali stelle a otto punte, rombi, esagoni, ottagoni e cerchi intrecciati) e a consolidare conseguentemente un repertorio decorativo di motivi “filiformi” capace di esaltare – con la forza del disegno geometrico e il forte contrasto cromatico – la più povera stesura in solo cocciopesto.

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Museo Etrusco di Marzabotto. Esagoni laterizi.

A fronte di queste soluzioni ben “ordinate”, legate a una scrittura grafica e geometrica del progetto pavimentale, se ne rintracciano altre nel mondo romano caratterizzate da frammenti litici colorati mescolati alla rinfusa. Si tratta di un repertorio che sfugge a ogni precisa suddivisione per tipi o classi, valutatane la notevole eterogeneità interna. In questi casi le tessere (alcune volte regolari, ma più frequentemente costituite da scaglie lapidee prive di una precisa geometria: bianche, nere, policrome) sono distribuite liberamente nella ricerca di un effetto decorativo “punteggiato” con accentuazioni coloristiche diverse. In numerose redazioni pavimentali le scaglie sono così fittamente avvicinate da dare davvero l’impressione di un battuto alla veneziana ante litteram.
Come già accennato, la diffusione di elementi d’argilla cotta per applicazioni murarie e pavimentali si colloca cronologicamente, in base alle attuali testimonianze archeologiche, per le civiltà del Mediterraneo nella prima età ellenistica, in Epiro (regione di formazione della cultura macedone), nelle colonie della Magna Grecia (ELEA-Velia, Reggio Calabria) e della Sicilia (Morgantina, Gela, Tindari).
La cottura dell’argilla consente una produzione di elementi, sia standard che speciali, dalla inalterabilità dimensionale e dalla durata temporale confrontabile con quella della pietra in una metodica produttiva rapida ed economica.
Accanto alle tipologie pavimentali continue in cocciopesto è da evidenziare come in ambito romano già in epoca repubblicana sull’infuenza ellenistica – venga elaborato un più diversificato repertorio di elementi laterizi (tessere) dalle forme geometriche variegate. Si tratta di serie pavimentali numericamente esigue (sicuramente anche per la scarsa attenzione degli scavi archeologici concessa a tale classe pavimentale, questo almeno fino a qualche lustro fa) ma estremamente interessanti e poco note, realizzate con elementi regolari di forma triangolare, romboidale, esagonale, ottagonale, cubica, mandorlata (o “lunata”) ecc. Tali formati, oltre ad un uso ripetuto in stesure omogenee uniformi, sono in alcuni casi anche combinati fra loro in texture più ricche e articolate geometricamente.
Più che all’ambito della città di Roma (e all’area centromeridionale di più specifica influenza della capitale) la serie più numerosa di pavimentazioni in elementi a tessere appartiene all’Italia Settentrionale (alla regione della Cisalpina in particolare), con una concentrazione dei ritrovamenti soprattutto nell’area dell’Emilia Romagna e diramazioni significative nelle Marche e nella Toscana costiera meridionale.
“Nell’Italia settentrionale – come rileva Maria Luisa Morricone redigendo, nel 1973, la voce “Pavimento” dell’Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale posta ad aggiornare il quadro della Blake – sono relativamente numerosi i pavimenti di mattoni di questo tipo: a Bologna, Modena, Imola, Galeata, Ravenna, Faenza, Sarsina, Reggio Emilia, sono frequenti i trovamenti di pavimenti di mattonelle esagonali talora associate a mattonelle romboidali. La data di questi pavimenti non è sempre precisabile ma si possono ritenere datati con sufficiente sicurezza l’esemplare di Imola, associato a mosaici databili al I sec. a.C. (le cui mattonelle recano al centro una tessera bianca), un pavimento di Faenza, recentemente venuto in luce, a esagoni e losanghe, che rimonta allo stesso periodo, i due pavimenti a esagoni tornati in luce a Bologna (Via Ca’ Selvatica) che sono certamente del I sec. a. C., anzi uno di essi potrebbe essere ancora più antico; anche l’esemplare di Sarsina, che fu trovato sotto un mosaico in bianco e nero con decorazione geometrica, è con ogni verosimiglianza ancora di età repubblicana”.4
Benchè siano trascorsi oltre settant’anni dalla ricognizione pionieristica di Marion Elisabeth Blake sulle pavimentazioni romane (in cui già si evidenziava lo scarso interesse della ricerca archeologica e la mancanza di studi specifici di sistematizzazione) ancora oggi non sembra essere stato realizzato un repertorio che cataloghi le variegate tipologie degli elementi in cotto dei ritrovamenti in forma di lacerti di diversa morfologia e fattezza. Il materiale di scavo è, inoltre, ancora poco fruibile in quanto prevalentemente conservato nei depositi degli enti preposti alla tutela del patrimonio storico (musei e Soprintendenze, in particolare).
Gli elementi in cotto si presentano, frequentemente, con caratteristiche di conservazione di elevata qualità; questa condizione è evidente particolarmente negli elementi di piccolo formato della Cisalpina. Molto probabilmente in epoca romana viene perfezionato un processo di produzione per colatura in stampi, proseguendo la tradizione delle terrecotte architettoniche, impiegando un impasto semiliquido di argilla molto selezionata e preparata, anzichè seguire il più usuale procedimento di formatura dei laterizi per pressatura manuale.
Non mancano, comunque, fuori dal nord Italia, rinvenimenti pavimentali in cotto dai disegni geometrici particolari come nel caso dei resti recuperati a Bolsena: piastrelle in forma di triangoli curvilinei e di fusi, disposti in modo da comporre il noto motivo della rete di fiori a sei petali.

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Museo Etrusco di Marzabotto. Opus spicatum bicromo

Agli inizi del I secolo d.C., quando il laterizio cotto inizia la sua grande ascesa all’interno dell’architettura imperiale romana, molti ambienti dell’edilizia domestica, insieme a spazi a destinazione pubblica, sono pavimentati con elementi laterizi di diversa dimensione e morfologia.
Con grandi mattoni quadrati (pedali, bipedales, sesquipedales) si allestiscono le superfici di calpestio di botteghe e grandi magazzini (ma anche ambienti funzionali di terme e di anfiteatri); con piccoli mattoncini posati a spinapesce (opus spicatum) si pavimentano porticati, anditi, cortili e spazi pubblici.
Vitruvio, nel libro VII del De Architectura, enunciando le corrette regole per la buona esecuzione dei pavimenti e dei sottofondi di posa, cita esplicitamente l’opus spicatum – realizzato a mezzo di mattoni di laterizio – di specifica ideazione romana:
“Sopra si stenda il nucleus, uno strato di cocciopesto mescolato con calce nella proporzione di tre parti per una di spessore tale che il pavimento non sia inferiore a sei dita. Sopra quest’ultimo strato si dispongano i pavimenti tirati a squadra e livella, di lastre tagliate o di tessere a cubetti.
Quando questi saranno stati disposti e avranno la pendenza che le è propria, si proceda a strofinarli, in modo tale che, se si tratta di pietre tagliate, non rimanga alcun dislivello fra le losanghe o fra i triangoli o i quadrati o gli esagoni, ma le commessure nell’insieme siano allineate fra loro sullo stesso piano, e se il pavimento è fatto di tessere a cubetti queste abbiano tutti gli angoli allo stesso livello, poichè se gli angoli non risulteranno uniformemente livellati, la lisciatura non potrà dirsi eseguita come si deve. Così anche i pavimenti a spina di pesce fatti con mattoni di Tivoli (spicata testacea Tiburtina) vanno accuratamente rifiniti in modo da non presentare vuoti nè sporgenze ed essere invece spianati e levigati a riga”. 5
In generale l’opus spicatum in laterizio rappresenta il tipo di pavimento più diffuso in età imperiale.
I mattoni impiegati per realizzare il piano di calpestio sono elementi di piccole dimensioni; normalmente cm 10-12 di lunghezza, 2 di larghezza, 5-6 di altezza. La larghezza in età cesariana e augustea varia generalmente da un minimo di cm 1,7 ad un massimo di cm 2,6.
L’utilizzo frequente dell’opus spicatum per spazi pubblici all’aperto (o comunque di intensa pedonabilità) prevede una posa di taglio (o a “coltello”) degli elementi e una disposizione a spina di pesce con intersezioni a 90° fra i mattoncini che sono, normalmente, fissati su uno strato di malta di spessore variabile.
Noti sono gli esempi di pavimentazione a spina di pesce rinvenuti a Roma, nella Villa Adriana a Tivoli, a Ostia e in molte altre città anche fuori dall’agro romano (Bologna, Faenza, Pompei, Venosa sono solo alcuni dei numerosi esempi).
Grazie all’efficacia del dispositivo geometrico di posa tale schema si è mantenuto vivo fino agli interventi contemporanei.
Un unicum nel mondo romano è rappresentato dal Foro di Scolacium in Calabria dove una grande area pubblica – pavimentata con elementi laterizi quadrati a forte spessore (cm 40x40x8) – è stata scavata recentemente, restituita alla luce e resa disponibile alla fruizione di visita all’interno di un parco archeologico.
In epoca imperiale le pavimentazioni in cotto, a causa della nuova moda dei pavimenti in marmo, danno testimonianza di un repertorio attestato su stesure con superfici uniformi e monocromatiche, più raramente bicromatiche. L’effetto di unitarietà e omogeneità è dato dall’accostamento di elementi a unico formato geometrico e dimensionale.
Sia pur in serie quantitativamente non rilevanti si rintracciano in epoca romana redazioni pavimentali più articolate e ricercate con impiego di elementi in cotto a formati diversificati, l’accostamento di paste argillose a cromie variate, il trattamento dei campi figurati con elementi a ritaglio; queste linee di approfondimento rappresentano i nuovi indirizzi progettuali che le fasi storiche successive – soprattutto l’età rinascimentale – esploreranno con maggiore sistematicità arricchendo, alla fine, il repertorio delle soluzioni dell’Antico, in grado comunque già di “garantire il proseguimento” di quella che, in oltre due millenni di storia, si è costituita come la tradizione tipicamente italiana dei pavimenti in cotto.

Alfonso Acocella, Gianni Masucci

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Note
* Il presente saggio è tratto da Alfonso Acocella e Davide Turrini (a cura di), Rossoitaliano. Pavimentazioni in cotto dall’Antico al Contemporaneo, Firenze, Alinea, 2006, pp. 204, ill. 496.

1 Hans Lauter, “Nuove tecniche di lavorazione”, p. 58 in L’architettura dell’ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt, 1986), pp. 299.
Più in generale, sui pavimenti in opus signinum, sui pavimenti a tessere e lastre di epoca romana, si veda l’ampia bibliografia finale del volume curata da Giovanni Maria Masucci.
2 Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 165, ed. consultata Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, Mineralogia e storia dell’arte. Libri 33-37, a cura di Gian Biagio Conte e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1988.
3 Plinio, Naturalis Historia , XXXVI, 185, op. cit.
4 Maria Luisa Morricone Matini, “Pavimento” p. 605 in Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, Roma, Poligrafico dello Stato, 1973, pp. 601-605.
5 Vitruvio De Architectura, VII, 3. La citazione è tratta da Vitruvio, De Architectura, a cura di Pierre Gros Torino, Einaudi, 1997.

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