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23 Novembre 2007

Eventi

La sfida di “Linking People”. Otto interpretazioni dell’hôtellerie

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Romeo e Giulietta tra invenzione e tradizione. Storia di una possibile identità.
Design Luca Scacchetti

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Ad Abitare il Tempo occhi puntati su “Linking People”. In occasione della XXII edizione delle Giornate Internazionali dell’Arredo, Abitare il Tempo ha arricchito l’intenso programma culturale con la mostra-evento “Linking People” accogliendo per la prima volta a Verona nel nuovissimo padiglione 7b i protagonisti del mondo Contract.
L’inedito palcoscenico ha visto in mostra a Verona otto interpretazioni dell’hôtellerie contemporanea in una nuova liaison tra designer, aziende e imprenditori.
Come è stata accolta la nuova sfida di Abitare il Tempo dedicata al mondo del Contract alberghiero lo abbiamo chiesto all’eterogeneo pubblico degli operatori di settore.

Il “maestro”
“Linking People è una salutare scossa all’interno di un mondo ormai troppo statico e standardizzato, è una mostra dalle interessanti problematiche e aperture. Vari dei progetti esposti mi sono sembrati ricchi di possibili evoluzioni, tuttavia il lavoro che per affinità ho capito meglio è quello di Aldo Cibic che, oltre alla qualità dell’elaborato, ha presentato anche idee innovative di gestione. Personalmente, nell’albergo cerco sempre della magia, della fantasia, e della energia. È su questi punti che vorrei giocare”.
Architetto Alessandro Mendini, Premio Abitare il Tempo 2007

l’architetto
“Linking People? Un evento egregiamente organizzato, decisamente al di sopra delle mie aspettative iniziali. Se il nostro studio fosse nuovamente invitato alla prossima edizione, seguendo il nostro DNA proporremmo ancora uno ‘sguardo diverso’ sul tema che ci verrebbe assegnato. Siamo convinti che l’iniziativa della mostra-evento abbia senso per quanto riesca a distinguersi dalla ‘produzione corrente’ presentata nell’ambito di Abitare il Tempo. Per questo crediamo sia imprescindibile indagare nuove forme di aggregazione spaziale e proporre esclusivamente modi originali di vivere il proprio tempo”.
Architetto Alessandro Pierandrei, Pierandrei Associati, tra i protagonisti di “Linking People”

l’azienda
“La mostra ‘Linking People’ è stata interessante per la formula e le tematiche trattate. Come primo approccio al mondo del Contract il risultato è decisamente buono. Per quanto riguarda il panorama fieristico, credo che l’idea di Abitare il Tempo di diventare punto di riferimento anche per il Contract sia possibile a patto che eviti gli errori fatti dalle fiere ‘svanite’ nel frattempo. A mio avviso, l’errore degli enti fieristici (nessuno escluso) è quello di cercare di vendere spazi senza pianificare un programma di sviluppo di qualità. Se Abitare il Tempo riuscirà a investire, anche in questo settore, nella qualità dell’esposizione, degli espositori e dei visitatori avrà sicuramente successo.
In questa edizione, Moroso non ha partecipato con un proprio stand ad Abitare il Tempo ma ha concesso i prodotti agli architetti e designer che li accolgono nelle proprie mostre e installazioni. La formula mostra collaterale dall’alto valore qualitativo e culturale ha da sempre il nostro massimo supporto”.

Roberta Tortora, Responsabile Contract Italia – Moroso

l’imprenditore alberghiero
“L’astrazione anche se veloce, sporadica, temporanea e solo mentale dalla quotidianità del pensiero produce un gradevolissimo viaggio nell’immaginazione che ‘difficilmente non lascia il segno’. La libertà di espressione senza vincoli nè timori genera un effetto che non è assolutamente semplice ripetere nell’operatività esterna. La vena, scatenata da questa nudità espressiva, è, senz’altro, un fattore da emulare in esterno (naturalmente con alcuni adeguati “però”…)
A Verona ho trovato una interessante ricerca di prodotti desueti e quindi in qualche modo innovativi per il design dell’ospitalità; vorrei sicuramente trovare una proposta di pensiero (e pensatori) più internazionale”.

Pierpaolo Bernardi, Proprietario duoMo hotel – Rimini

la Compagnia Alberghiera
“Certamente è un evento interessante, un’occasione per progettisti e imprese per sperimentare nuove idee, nuovi modi di vivere gli spazi e per proporre nuovi materiali eco-compatibili e riciclabili che, in un momento di grande attenzione all’ambiente, siano in grado di contenere i consumi energetici. L’ispirazione, il vivere attento e l’essere curioso sono elementi fondamentali del mio modo di vivere e progettare; anche la mostra ‘Linking People’ è stata per me fonte di idee e ispirazione, perchè è un concentrato di soluzioni ideate da importanti professionisti del settore. Ritengo Abitare il Tempo un appuntamento imperdibile per la sua dimensione equilibrata e la capacità di concentrare settori e aziende molto interessanti. Per l’anno prossimo mi piacerebbe vedere un ulteriore sviluppo nel settore dell’ospitalità”.
Architetto Andrea Auletta, Interior Designer – Starhotels

A calcare il palcoscenico di “Linking People” sono stati otto studi italiani d’architettura e design. Questi i protagonisti e le loro interpretazioni per vestire, vivere e reinventare l’hotel e gli spazi collettivi oggi.

Lorenzo BelliniViaggiando nella memoria
Un resort di concezione contemporanea aperto alla natura.
Abitato da elementi d’arredo disegnati e realizzati ad hoc dall’architetto Bellini in collaborazione con Presotto Contract, questo progetto restituisce all’ospite uno spazio senza tempo, ricco di atmosfere e forti emozioni.

Bestetti AssociatiTake care of you
Le persone viaggiano, le valige diventano sempre più piccole, tutto ciò che non è nella valigia deve essere nella destinazione. Per questo, pensare all’architettura oggi significa indagare e rivedere il concetto stesso di spazio. Ogni ambiente, ogni elemento, ogni particolare di questo progetto è una declinazione del concetto di wellness, un concetto che ha subito una traslazione in tutti i luoghi di sosta e di relax. Take care of you è uno spazio ispirato, pensato e votato al benessere.

Cibic&PartnersVista con camera
Ripensare la camera d’hotel. Questa è l’idea seguita dall’architetto Aldo Cibic nella creazione di questo spazio in perfetta armonia con la natura circostante. Un luogo per liberare la mente, risollevare il corpo e riempire lo spirito. Vista con camera non è solo una camera d’hotel ma un oggetto tecnologico “ecocompatibile”, interamente realizzato con materiali ecocompatibili, alimentato da fonti di energia rinnovabili e dotato di sistemi di risparmio energetico attivo e passivo.
È una risposta per le tendenze più attuali quali l’impiego di strategie per il risparmio energetico coniugata all’incremento del mercato dell’ecoturismo.

Simone Micheli con Beniamino Cristofani e Salvatore ReThe Transition Hotel
L’hotel è immaginato come una strepitosa oasi di relax per il nomade metropolitano contemporaneo. The Transition Hotel è un progetto ispirato ad un reale lavoro condotto dai tre architetti e amici per l’Hotel San Ranieri di Pisa, ma che rappresenta un “manifesto metropolitano” di progettazione. È un racconto sensoriale in grado di stimolare i sensi del visitatore-ospite in una dimensione sempre mutevole poichè lui stesso è un po’ nomade, un po’ zingaro e costantemente proiettato verso il futuro.

Pierandrei Associati Kulana Nalu
Nato da una riflessione e ricerca su nuovi strumenti e tecniche oggi a disposizione per modificare radicalmente la percezione degli spazi e del tempo in cui viviamo. Il progettista non si limita infatti a “dare forma” a uno spazio perchè il suo compito è piuttosto quello di “configurarlo” indagando e suggerendo innovative modalità di vivere. Ispirato al fenomeno naturale della fotoluminescenza, Kulana Nalu è un progetto realizzato in stretta collaborazione con Lucedentro. Dal forte valore innovativo, l’impiego dei materiali luminescenti risulta particolarmente interessante in termini di risparmio energetico, senza dimenticare l’impatto scenografico di una tecnologia amichevole e confortevole al servizio dell’uomo e dell’ambiente.
Kulana Nalu è il primo spazio sperimentale della fotoluminescenza.

Francesco Lucchese Acqua e fuoco
Ispirata alla contrapposizione tra questi due elementi, Acqua e fuoco è una hall caratterizzata dal forte impatto scenografico per emozionare l’ospite e per creare condizioni ambientali accoglienti.
In questo spazio, il bar e la reception non sono più distinti ma fondono le proprie funzioni accogliendo l’ospite in una dimensione plurisensoriale grazie all’utilizzo di colori, materiali e textures che stimolano la percezione tattile dello spazio circostante.

Ettore MocchettiTropical Dream
Elegante, etereo, intatto. Così viene interpretato dall’architetto Ettore Mocchetti il “sogno tropicale”. L’ambientazione è articolata in una suite, un salotto e un soggiorno separato dal resto dello spazio attraverso una serie di candide colonne. Espressione di un lusso dal sapore esotico, lo spazio disegnato è impreziosito da uno specchio d’acqua, pervaso da luci soffuse e accoglienti, costellato di oggetti, decorazioni e arredi che rimandano ad atmosfere lontane.

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Parete realizzata da Marmi Colombare, Verona

Luca Scacchetti e Stefano Calchi Novati con Sofia RolloRomeo e Giulietta tra invenzione e tradizione
Con il contributo della Camera di Commercio di Verona
Il territorio, le tradizioni materiche e culturali del veronese incontrano la modernità, la creatività e l’invenzione contemporanee che ne esaltano l’identità locale e la riconoscibilità sul mercato internazionale.
Ogni involucro ed elemento d’arredo nella reception e nelle due suite è realizzato grazie alla collaborazione di oltre quaranta aziende presenti sul territorio veronese. Il territorio nelle sue molteplici espressioni viene così interpretato, ridotto a segno e restituito matericamente in un oggetto diverso portando al mercato una nuova sensibilità territoriale, verso una nuova produttività.

Va da ultimo sottolineato un intervento simbolico e fortemente legato al mondo del Contract.
Si tratta dell’installazione Made in Italy for Dubai, a cura dell’architetto Matteo Nunziati, non un vero e proprio interno, come i progetti ospitati da ‘Linking People’, bensì la presentazione del masterplan di 50 ville e 6 torri di 20 e 40 piani che saranno adibite a hotel e residence. Commissionato da Abyaar Company, una delle maggiori società di Real Estate del Medio Oriente, il progetto sarà coordinato in tutte le fasi dall’architetto Nunziati e la sua realizzazione è attesa a Dubai entro il 2008.
Il progetto ha rappresentato un esperimento di alleanza assolutamente inedito tra l’autore e le aziende, coinvolti nella progettazione e realizzazione degli interni e dei singoli prodotti, per garantire uno standard qualitativo ottimale, sia in termini estetici sia funzionali. Quello che oggi si definisce Made in Italy.

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21 Novembre 2007

PostScriptum

Architetture di gabbioni*

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Dettaglio di un gabbione metallico con riempimento in pietrame.

Le più antiche testimonianze dell’impiego di stuoie e di canestri in materiale vegetale intrecciato per il trasporto ed il consolidamento di cumuli di terra o di pietrisco incoerente risalgono alle civiltà sumera e a quelle babilonese ed egiziana. È tuttavia a partire dall’epoca moderna, e più precisamente dal XVI secolo, che i costruttori di opere militari o idrauliche, soprattutto in Italia, iniziano ad impiegare su larga scala veri e propri sistemi costruttivi per trattenere il terreno basati sull’impilamento dapprima di grandi cesti, poi di contenitori in rete metallica. Tale pratica, particolarmente efficace e di semplice e veloce esecuzione, si diffonde rapidamente con la denominazione di sistema “a gabbioni”.
La tecnica produttiva dei gabbioni si è evoluta rapidamente nel corso dei secoli fino a standardizzarsi oggi perlopiù nella fabbricazione di in una forma parallelepipeda di base di 100x100x200 cm, costituita da una gabbia di rete in filo zincato, riempita da pietrisco selezionato di varia pezzatura al posto dell’originario riempimento terroso. L’elemento così composto è estremamente robusto, dotato di buona resistenza ai carichi statici e di discreta resistenza a flessione, suscettibile di numerosissime varianti dimensionali, cromatiche e materiche e può dar vita per impilazione a dispositivi autoportanti resistenti per gravità; le potenzialità di impiego strutturale di tali sistemi nel resistere alle spinte laterali e nel sopportare carichi statici verticali sono evidenti e si sono principalmente esplicate fino ad ora nella realizzazione muri di sostegno e contenimento per argini, terrazzamenti, pendii collinari, scarpate stradali, e in generale in opere anti-erosione e anti-frana di difesa del suolo e di progettazione del verde e del paesaggio, a piccola e grande scala.
Se in passato i gabbioni venivano realizzati sul posto, attualmente sono oggetto di sempre più diffusi processi di prefabbricazione fuori opera: a partire dal gabbione tradizionale, in filo zincato ritorto perlopiù a maglia esagonale1, ancora largamente impiegato nelle opere di landscape design, tali processi di fabbricazione in stabilimento hanno portato numerose aziende specializzate a realizzare sistemi componibili di gabbioni in rete di tondini rigidi di acciaio2, piegati e saldati, a maglia quadrata o rettangolare, zincati a caldo dopo la costruzione della struttura scatolare affinchè nessun punto della struttura metallica rimanga privo del ricoprimento protettivo. La prefabbricazione inoltre prevede il rinforzo del fondo, l’integrazione in ogni elemento di tiranti interni che ne aumentano la stabilità e di appositi ganci che ne facilitano la movimentazione. Il peso di un gabbione cubico di un metro di lato così realizzato, dell’ordine di alcuni quintali, è estremamente variabile a seconda del tipo di riempimento; l’incidenza della massa della sola struttura metallica si aggira tra i 15 e i 25 kg.
Il pietrame di riempimento non deve essere gelivo o friabile e deve presentare una pezzatura media pari a 1,5-2 volte la massima dimensione della maglia della rete; nonostante il riempimento avvenga oggi con efficaci metodi di vibrocompattazione durante la fabbricazione del gabbione viene comunque operato un leggero overfilling, poichè i pezzi litici durante le successive operazioni di movimentazione e posa tende ad assestarsi ulteriormente, lasciando eventuali vuoti che possono diminuire le prestazioni di resistenza statica dell’elemento. I metodi di fabbricazione rendono possibile integrare la struttura dei gabbioni con pannelli fonoassorbenti anti-rumore.
Tali nuovi prodotti, sono altamente modulari, più rigidi e di più facile movimentazione rispetto a quelli tradizionali e si prestano alla realizzazione di muri autoportanti alti fino a 7 metri. I tipi di riempimento lapideo sono numerosissimi e consentono di pervenire a molteplici tessiture di stratificazione e di colore; la facies di un muro in gabbioni è quella di una parete con dispositivo irregolare a secco, percepita attraverso la filigrana metallica e segnata dalle sottili discontinuità tra i moduli appoggiati l’uno sull’altro e l’uno accanto all’altro.
Anche grazie ai perfezionamenti produttivi sin qui descritti, se i gabbioni rappresentano ancora un’efficace soluzione nella progettazione del verde, del paesaggio e delle opere civili di ingegneria idraulica e stradale, per essi si prefigura oggi un nuovo orizzonte applicativo nell’architettura tout court: del resto alcune interessanti sperimentazioni condotte in questo campo dai primi anni ’90 del secolo scorso dimostrano la praticabilità di questo scenario.
Il nuovo concetto di muralità veicolato dai gabbioni, nella sua plasticità, nelle sue superfici irregolari, espressive e vibranti di vuoti e di pieni, di arretramenti e avanzamenti, di chiaroscuri, è riguardabile come una trasfigurazione della redazione architettonica rustica; la rete, diaframma permeabile alla vista ed eventualmente al tatto, imprigiona le pietre semplicemente spaccate o grossolanamente sbozzate, sostenendole, conferendo loro una volumetria ed impedendo ad esse di franare per disporsi nella forma spontanea del cumulo; ma tutto ciò senza intaccare minimamente con la sua presenza l’informalità naturalistica della compagine litica.
Accanto a tali aspetti formali, certo suscettibili di valorizzazione nella cultura costruttiva attuale, l’applicazione dei gabbioni presenta una serie di caratteri tecnico-prestazionali in linea con alcune fondamentali istanze dell’architettura contemporanea: la fabbricazione e la posa di tali elementi sono a bassissimo impatto energetico e sono ecocompatibili; essi hanno una elevata capacità di integrazione espressiva con il paesaggio naturale e, grazie alla loro originale capacità di combinare funzioni di drenaggio con proprietà di modesta ritenzione idrica, possono costituire luogo di sviluppo di una biocenosi vegetale spontanea o indotta; i gabbioni sono permeabili all’aria e, al contempo, hanno in genere elevata inerzia termica; sono, economici, facili da trasportare, durevoli3; non richiedono manutenzione, sono modulari, smontabili e possono essere riutilizzati; inoltre, già dalla prima fabbricazione, possono impiegare materiale di riciclo come riempimento.

MURI AUTOPORTANTI. Se Enric Miralles nel Cimitero di Igualada (1985-96) e nel Centro di Tiro con l’Arco di Barcellona (1989-92) ha utilizzato muri di gabbioni ancora come elementi di contenimento per grandi basamenti o gradonature di terreno, i primi prototipi di architetture “greenfield” che hanno trasferito la tecnologia dei gabbioni dal mondo delle opere idrauliche e stradali ad un campo applicativo più propriamente architettonico sono stati realizzati in Francia e nel Regno Unito da Ian Ritchie e John Smart, progettisti inglesi impegnati in una serie di incarichi in cui, accanto ad una forte integrazione tra architettura e paesaggio naturale, erano necessari un notevole impegno nel campo della sostenibilità energetica ed economie temporali e finanziarie per la messa in opera. In questa complessa gamma di istanze espressive, funzionali e prestazionali, i gabbioni hanno rappresentato una risposta efficace ed innovativa.
Ritchie nella Greenhouse a Terrasson del 1994 e Smart nel London Regatta Centre del 1999, come anche nella Casa del reality show Big Brother a Londra del 20014, impiegano le scatole di rete metallica a riempimento litico per l’esecuzione di muri massivi a scarpa le cui proprietà di notevole inerzia termica, e al contempo di permeabilità all’aria, soddisfano le esigenze prestazionali di edifici ad alta efficienza energetica. Se gli architetti inglesi sono stati i primi a sperimentare l’applicazione in architettura di tali elementi è con l’edificio della Cantina vinicola Dominus in California (1995-97) di Herzog & De Meuron5 che il muro in gabbioni viene elevato per la prima volta a vero e proprio sistema costruttivo architettonico e medium espressivo di una inedita trasfigurazione dell’opera rustica.
Nell’edificio i solidi di rete metallica delle dimensioni di 45x45x90 cm, sono riempiti con bozze di un basalto locale (stratificate all’interno delle “scatole” in letti di differenti pezzature e densità) e formano un involucro spesso che contribuisce a regolare con la sua massa cospicua le notevoli escursioni termiche locali riscontrabili tra il giorno e la notte. Pur essendo ancorate a secco ad una sottostruttura metallica intelaiata, le gabbie danno vita ad un muro autonomo, autoportante, dotato di un suo spessore, di una sua fisicità, e vanno a comporre una dispositivo regolare quasi fossero i blocchi parallelepipedi di un’opera quadrata.

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Cantina vinicola Dominus in California di Herzog & De Meuron. Dall’alto, vista del fronte e studi di sezioni costruttive dell’involucro in gabbioni.

Alla rete metallica contenitiva sono affidate le qualità di definizione e rettificazione dimensionale e volumetrica della massa strutturale, dello spessore murario; all’accumulo interno di pietre incoerenti la coesione per forza di gravità, il peso necessario agli elementi per formare una compagine solidale per impilamento, oltre che la definizione dei caratteri cromatici e di grana materica del muro.
Il “fare muro” con i gabbioni apre ad implicazioni importanti anche dal punto di vista della modulazione luminosa al di qua e aldilà della cortina muraria; la dimensione delle pietre imprigionate nelle gabbie come detto varia, andando a costituire, nell’alternanza di tessiture più fitte o più rade, un diaframma differenziato che modula il passaggio della luce e dell’aria all’interno dell’edificio. Il muro litico contemporaneo si presenta ancora una volta con un volto ambiguo di pelle massiva, spessa e sottile al tempo stesso, pesante e leggera, arcaica e innovativa. In linea con la tradizione dei bugnati antichi è la progressione dei dosaggi statici e figurali della materia che prevede un alleggerimento della compagine litica procedendo da terra verso la sommità dell’edificio: infatti, la tessitura più minuta e regolare delle pietre ingabbiate negli ordini più bassi fa sì che la massa lapidea sia più compatta, opaca e pesante alla base mentre, un progressivo aumento della pezzatura delle bozze, nonchè della loro irregolarità procedendo verso l’alto, impone al muro di gabbioni una crescente rarefazione e ricchezza di vuoti, fino alla decisa smaterializzazione della consistenza traforata negli ultimi ricorsi in prossimità della copertura. Ma è ancora una volta una sottile ambiguità a caratterizzare anche l’aspetto della gradazione degli ordini di questa muraglia rustica contemporanea: se infatti i registri delle facciate bugnate del passato nel procedere dalla base verso l’alto andavano dalla redazione informe di bugne plastiche ed espressive fino alla versione di conci sempre più lisci e regolari, nella Cantina Dominus tale canone è invertito e le pietre “più rustiche” stanno in sommità.
Ai gabbioni, Herzog & De Meuron affidano il compito di conferire alla realizzazione una forte riconoscibilità nel panorama architettonico internazionale e allo stesso tempo chiedono a questi elementi, da tempo usati per dissimulare nel paesaggio naturale le imponenti presenze delle opere artificiali di contenimento del terreno e irregimentazione idraulica, di fondere la cospicua e rigida volumetria chiusa della cantina nel morbido paesaggio fatto di colline e verdi vigneti distesi a perdita d’occhio; e dei gabbioni sfruttano anche appieno le qualità tecniche di inerzia termica e di permeabilità all’aria particolarmente indicate per il tipo di funzionalità produttiva richiesto al progetto. A partire dalla realizzazione dell’edificio californiano il processo di trasferimento della tecnologia delle gabbie metalliche con riempimento litico dal campo del landscape design all’architettura si è consolidato, uscendo dalla dimensione sperimentale, per ripetersi più volte con esiti progettuali discontinui ma in ogni caso stimolanti per le molteplici valenze figurali che può offrire tra le scelte oppositive di dar vita a forti segni scenografici o a dispositivi mimetici rispetto ai diversi contesti in cui si esplica; felice esempio di quest’ultimo atteggiamento progettuale è la recentissima Villa a Garrigàs di Boncompte & Font Arquitectes6, in cui un lungo muro in gabbioni fa da sfondo alla costruzione inserita nel paesaggio collinare alle porte di Girona.

RIVESTIMENTI A SPESSORE. Due progetti d’avanguardia di particolare interesse hanno dimostrato nel corso degli ultimi anni come le peculiarità formali e prestazionali dei gabbioni possano esplicarsi al meglio anche in applicazioni in cui tali elementi vengono assottigliati fino a spessori di 10-15 cm, dando vita a sistemi di rivestimento non più autoportanti ma agganciati come veri e propri pannelli di chiusura a sottostanti strutture metalliche o in calcestruzzo armato.
Il primo esempio in tal senso è rappresentato dall’edificio per 64 alloggi popolari a Montpellier (1997-2000) di Edouard Francois & Associès7. Il grande corpo residenzile è stato realizzato grazie ad una ibridazione tra la tecnica esecutiva dei normali gabbioni metallici con riempimento litico e la tradizionale prefabbricazione a piè d’opera di pannelli di chiusura in cemento armato. La misura dei pannelli compositi così ottenuti e di 277 x 135 cm e lo spessore varia dai 30 ai 40 cm. Lo spessore del gabbione, che va a costituire il paramento esterno di facciata, è di circa 15 cm ed esso risulta irreversibilmente integrato allo strato di cemento retrostante.

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Alloggi popolari a Montpellier di Edouard Francois & Associès. Dall’alto, vista parziale della facciata e schemi delle fasi di esecuzione dei gabbioni.

La rete metallica del gabbione con maglie di 5 cm di lato è stata, in una prima fase esecutiva, posizionata sul fondo della cassaforma in cui è stato poi gettato il pannello; successivamente si è proceduto al riempimento di pietrame e alla battitura di uno strato di terra, sabbia e semi di piante che ha agito da spessore separatore per impedire al getto concretizio finale di penetrare negli interstizi tra le pietre; infine si è operato il getto dopo aver annegato nello spessore del pannello le staffe utilizzate per il montaggio dei vari moduli alla struttura metallica intelaiata dell’edificio. Il pacchetto di chiusura che si è venuto a costituire presenta una integrazione delle caratteristiche di coibenza della pietra (in particolare si tratta di pietra lavica dotata di un alto coefficiente di porosità) e dello strato di isolante interno posizionato a montaggio avvenuto primo dell’esecuzione dell’intonaco di finitura.
I semi di piante tappezzanti e cascanti inseriti nei pannelli, germogliando in parte con l’umidità atmosferica e in parte grazie ad un sistema integrato di microirrigazione, danno vita ad un giardino appeso in verticale, un piano inerbato dove pietra rustica e vegetazione compartecipano nella definizione di un’immagine rocciosa, naturalistica e informale.
Il secondo caso è rappresentato dalla Casa privata a Stadtbergen, (2002-03) di Titus Bernhard8, costituita da un semplice volume parallelepipedo di 9x9x6 m con copertura a padiglione. La costruzione è interamente ricoperta anche sul tetto da una serie di sottili gabbioni di acciaio zincato contenenti frammenti di pietra dolomite di un color avorio-dorato. Sotto l’aspetto espressivo gli elementi di rivestimento, posti in continuità a mostrare una compagine litica rustica, enfatizzano l’immagine scultorea di solida massività dell’edificio, intagliata da poche e semplificate vetrate rettangolari. Dal punto di vista prestazionale la massa lapidea che si viene a formare, con il suo peso complessivo di circa 40 tonnellate, assolve alla funzione di grande accumulatore di calore e di spesso involucro isolante contro il freddo.

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Casa privata a Stadtbergen di Titus Bernhard. Dall’alto, vista del fronte principale e immagini delle fasi esecutive dell’involucro in gabbioni.

Ogni gabbione-pannello misura 100×50 cm, per 12 cm di spessore, pesa circa 80 kg ed è installabile, ed eventualmente smontabile, singolarmente in facciata tramite agganci metallici fissati ad una sottostante orditura di acciaio. Tra i gabbioni e la struttura cementizia della casa, procedendo nell’analisi del pacchetto dall’esterno verso l’interno, si trovano uno strato di drenaggio impermeabile di 1 cm che consente all’acqua piovana o di condensa di raccogliersi e scorrere dal tetto fino a terra (i gabbioni infatti sono assolutamente permeabili e la casa non è dotata di pluviali e sistemi di raccolta delle acque meteoriche), uno strato di 14 cm di isolamento in polistirene, e un’ulteriore guaina bituminosa di tenuta di 5 mm.
Unitamente ai rivestimenti a spessore irregolari, riguardabili come inediti aggiornamenti del tema del bugnato, i muri in gabbioni e queste ultime particolarissime applicazioni degli stessi elementi in involucri di rivestimento dimostrano come nelle tendenze attuali dell’architettura in pietra le categorie concettuali ed estetiche di espressiva solidità, rude schiettezza materica, primitivismo ciclopico, polimorfismo naturalistico, rappresentino un contraltare praticabile e alternativo ai valori di leggerezza, regolarità, minimalismo, ermetismo figurale di una certa contemporaneità.

di Davide Turrini

Note

*Il post è una rieditazione riveduta dell’articolo già pubblicato nella rivista Costruire n. 293 – 2007.

1Le dimensioni standard della maglia esagonale sono di 8×10 cm, ma vengono anche realizzate maglie di 6×8 cm, o 10x12cm; il filo ha in genere un diametro di 2,7 mm, ma si possono impiegare anche fili di 3; 3,4; 3,7 mm.
2In genere il diametro del tondino rigido è di 6 mm e le dimensioni standard della maglia rettangolare è di 5×8 cm.
3I sistemi di zincatura e di trattamento anticorrosivo delle maglie più avanzati permettono di garantire la durata dei gabbioni per oltre 70 anni anche in contesti estremi di inquinamento o in ambiente marino.
4Sulle opere di Ritchie e di Smart si veda David Dernie, New stone architecture, Londra, Laurence King Publishing, 2003, pp. 52-53 e pp. 72-79.
5Si vedano: Vincenzo Pavan (a cura di), Spazio pietra architettura, Faenza, Faenza Editrice, 1999, pp. 50-71; Jean Francois Pousse, “Gabions de Lumiere. Dominus Winery, Yountville, Californie”, Techniques & Architecture n. 442, 1999, pp. 94-99; Maria Argenti, “Herzog & de Meuron. Dominus Winery”, Materia n.31, 2000, pp. 34-45.
6Cfr. Francesco Pagliari, “Villa a Garrigàs – Girona, Spagna. Boncompte & Font Arquitectes”, The Plan n. 16, 2006, pp. 54-63.
7Si vedano: Jean Francois Pousse, “Roc qui posse. Logements, Montpellier”, Techniques & Architecture n.442, 1999, pp. 102-107; Jean Francois Pousse, “Around the rock. Logements, Montpellier”, Techniques & Architecture n. 448, 2000, pp. 72-75; David Dernie, New stone architecture, Londra, Laurence King Publishing, 2003, pp. 94-97. Le prime sperimentazioni su pannelli prefabbricati in cemento con paramento esterno in gabbioni metallici a riempimento litico sono state realizzate sempre in Francia nei primi anni Novanta del secolo scorso da Bertrand Bonnier, grande precorritore di questa tecnica tesa a “reinventare” l’applicazione architettonica dei gabbioni. Il progettista ha realizzato con tali tipi di pannelli la sede del Centro Ricerche Agronomiche di Reims (1992), il basamento dell’edificio CESNAC all’aeroporto di Bordeaux (1993) e una serie di alloggi sociali a Pont-Audemer (1999): per un approfondimento cfr. Jean Francois Pousse, “Matieres. Logements PLA, Pont-Audemer”, Techniques & Architecture n.442, 1999, p.101.
8 Si vedano: Redazionale, “Wohnhaus in Stadtbergen”, Detail n. 11, 2003, pp. 1274-1277; Barbara Borello, “Titus Bernhard Architects. House” pp. 82-85, scheda in Alessandra Coppa (a cura di), Facciate a secco, Milano, Motta, 2006, pp. 404; Manuela Grecchi, “Scultura da abitare”, Arketipo n. 15, 2007, pp. 52-59.

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19 Novembre 2007

Principale

Geografia Emozionale

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Settimo appuntamento di Creative Revolution 2 nelle Bolle della Ditta Nardini

“Vedere e viaggiare sono inseparabili. non solo sight (vista) e site (luogo), ma anche motion (moto) e emotion (emozione), sono irrevocabilmente connessi”.
Dall’Atlante delle Emozioni di Giuliana Bruno una serata nelle Bolle emozionali della distilleria Nardini con Laura Broggi, Direttore di Aria magazine, Francesco Carcano, Photo Editor di Aria Magazine, Marco Cavalli, critico, scrittore e saggista, Giuseppe Nardini, Presidente della Ditta Bortolo Nardini S.p.a., Angelo Tabaro, Segretario Generale della Cultura Regione del Veneto.

Aria, nato dall’idea di giovani creativi, divisi tra Milano e Berlino, è il primo magazine di Geografia Emozionale, la nuova teoria contemporanea elaborata dalla docente di Harvard Giuliana Bruno, che da New York ha tenuto a battesimo il primo numero. Diffuso trimestralmente a livello internazionale, articolato su 148 pagine con testi in italiano e inglese, Aria magazine è stato selezionato per la pubblicazione nel volume “Magazines’ Last Stand” (rizzoli Usa, 2006) come esempio di rivista che espande la nozione di magazine.
Dopo il successo del primo ciclo di Creative R’evolution, vincitore del primo Premio Longhi per l’innovazione, ritornano in Veneto gli incontri di raccordo tra cultura, impresa e territorio sul tema del genius loci con tre declinazioni: paesaggio e città, produzione e società, arte e sviluppo.
Il progetto è promosso ed organizzato da Fuoribiennale, realtà di produzione del contemporaneo, e dalla Regione del Veneto.
La cartella stampa e il catalogo completo della manifestazione sono scaricabili sul sito www.fuoribiennale.org.

23 novembre ore 21
Bolle di Nardini
Bassano del Grappa
Via Madonna di Monte Berico, 7

INVITO SU PRENOTAZIONE PER NUMERO LIMITATO DI POSTI. PREGASI CONFERMARE LA PARTECIPAZIONE A:
Fuoribiennale_Agenzia del contemporaneo
press@fuoribiennale.org
o ai numeri
0444.327166/ 3485236069.

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18 Novembre 2007

Eventi

La bellezza del marmo

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Ad un anno dalla fondazione, l’Associazione donne del marmo, ha promosso un convegno, all’interno della manifestazione fieristica di Marmomacc 2007, sul tema della Bellezza. Intesa in differenti maniere, e contrapposta alla forza fisica, la bellezza diventa caratteristica peculiare della donna, che nel corso dei secoli se ne è fatta portatrice ed icona. Da qui nasce il sottile legame tra il mondo delle donne, e della bellezza. Ma il convegno non ha analizzato solo l’elemento della bellezza in rapporto alla donna, ha fatto molto di più; affiancando la bellezza al marmo, ha cercato un connubio tra donna, marmo e bellezza, appunto. Premesso che marmo è da intendersi nel senso antico del temine, e quindi come materiale nobile per i rivestimenti tanto parietali quanto pavimentali, questo materiale deve la sua bellezza a tre caratteristiche fondamentali: il colore, la finitura superficiale e la sua storia. Il tentativo del convegno dal titolo “La bellezza del marmo” ha toccato le tre argomentazioni, chiudendo così il cerchio delle premesse iniziali.
L’Architetto Alessandra Ubertazzi ha svolto il ruolo di moderatore, ed ha introdotto gli ospiti presenti; nella sua introduzione ha ripercorso le scelte dell’origine di questo convegno, ponendo l’accento sulla centralità del ruolo della donna, tanto all’interno della comunità, quanto del ruolo svolto nel mondo dei lapidei. L’Associazione donne del marmo, fondata durante la fiera Marmomacc del 2006, non vede la donna collegata alla sola funzione ispiratrice; ad oggi, infatti, sono numerosissime le donne che lavorano nel mondo delle pietre, sia a livello manageriale che a livello operativo, donando a questo ambiente un assetto tradizionale e caratteristico. Si ispira al passato l’idea della donna che ricerca la materia prima, con la quale potrà realizzare la propria abitazione. Ed infatti, ancora oggi, il ruolo della donna non è limitato alla scelta dei materiali con cui adornare la propria casa. Sempre più impegnate ed esigenti, le donne del terzo millennio pretendono dai materiali determinate caratteristiche prestazionali.
Oltre alla bellezza, quindi, entrano in gioco durabilità, semplicità di pulizia, e manutenzione.
Gli interventi di questo convegno portando la definizione e lo stato dell’arte di quelle che sono le caratteristiche principali del lapideo per interni, tenta di dare delle risposte a coloro che intendono scegliere il marmo per la propria abitazione. Un’analisi della situazione attuale delle pietre, e del loro uso storico paragonato al presente: tradizione e innovazione che si declinano al femminile.

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Marmi policromi al Foro di Traiano a Roma

Il primo intervento da parte del geologo Laura Fiora, ripercorre le principali cause del colore nelle pietre, affrontando la tematica sia dal punto di vista della fisiologica percezione del colore, sia dal punto di vista del fenomeno mineralogico che sta alla base dell’effetto cromatico. Proprio a questo aspetto è dovuta la bellezza del marmo. Da pietre monocromatiche, come le arenarie, a marmi policromi che, all’interno della stessa lastra possono avere variazioni cromatiche anche molto distanti. Infatti, se da un lato alcune pietre vengono apprezzate per la loro uniformità, altre vengono amate soprattutto per la loro capacità di essere sempre uniche ed inconfondibili.
Attraverso i principali colori presenti, la professoressa Fiora ponendo l’accento sulla causa dei differenti colori, ha anche ricordato come essi rappresentino una fase per il minerale, e che tale fase può talvolta essere dovuta ad un’alterazione nociva. La scelta, quindi, non deve prescindere da ricerche che dimostrino conclusa la fase di alterazione, garantendo la non-tossicità del materiale. L’intervento ha toccato le principali colorazioni: bianco, nero, azzurro-blu, rosso, arancio, verde, giallo, bruno, grigio. Per ogni colorazione la professoressa Fiora ha portato esempi ed immagini: dal Marmo Bianco di Carrara e delle Alpi Apuane, al Granito Nero Assoluto, al Labrador azzurro, ai Graniti Rossi, e al Porfido Imperiale color porpora, dalla Malachite, e dal Marmo Serpentino verde, al Calcare Giallo di Numibia, al colore bruno delle Rocce Carbonatiche di varia natura. I numerosi esempi illustrati hanno reso possibile la comprensione delle diverse origini del colore e della mutazione dei minerali, che anche se chimicamente uguali, possono avere risposte cromatiche e quindi fisiche, differenti. Lo studio del colore, quindi, non è utile solamente alla catalogazione dei marmi ma serve soprattutto alla loro identificazione dal punto di vista chimico, fisico e qualitativo.

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Afrodite, II secolo a.C.

Il secondo intervento dal titolo “Realtà e immagine del marmo nella casa romana, tra l’età imperiale e l’età bizantina” ha ripercorso l’uso storico del materiale lapideo, accreditando la veste tradizionale e l’uso per interni di questo materiale. La professoressa Annapaola Zaccaria, grazie a numerose immagini, ha mostrato esempi di ville pompeiane, in cui l’uso del marmo è riconoscibile su molte superfici. Il marmo, infatti, era largamente usato nella costruzione di residenze private della classe aristocratica prima, borghese poi. L’imitazione del materiale lapideo avveniva anche nelle case dei meno abbienti, che volevano simulare le grandi domus patrizie. Grazie alla decorazione, infatti, elementi in materiale più semplice e meno costoso, come in mattoni poi stuccati, riprendevano le forme e le apparenza del materiale lapideo. La principale fonte di ispirazione tanto per le case nobili e patrizie, quanto per le case della nuova classe borghese, era il foro, e gli edifici monumentali della Roma Imperiale, come le basiliche, i portici, le terme.
Ogni periodo storico è stato caratterizzato da scelte specifiche in quanto a marmi. Il primo fattore determinante nella scelta era ovviamente la reperibilità e la facilità del trasporto. E se non si disponeva della possibilità economica per l’acquisto del materiale vero, si procedeva alla “copiatura” delle venature e del colore. Nella Roma imperiale i principali marmi usati erano: il Giallo antico, l’Alabastro fiorito, l’Onice della Valle del Meandro, e i Marmi bianchi e neri. L’intarsio tra i diversi colori dona alle pavimentazioni degli effetti cromatici davvero unici.

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Pavimentazioni in opus sectile policromatico della Casa dei Cervi ad Ercolano

Il terzo intervento è stato teso ad evidenziare i principali trattamenti superficiali per i lapidei.
Il professor Paolo Davini, ha suddiviso i trattamenti in tre categorie: migliorativi, protettivi, e di conservazione e restauro. All’interno della prima categoria rientrano tutti quei trattamenti effettuati su una nuova lastra, per ottenere determinati effetti di finitura. Tali trattamenti ottenuti con l’uso di acidi specifici, cere e resine particolari tendono a migliorare l’effetto finale della lastra, donandole più lucentezza, o un effetto invecchiato, o creano una patinatura per antichizzare la pietra. Questi effetti, però, quasi mai sono duraturi, e vanno ripristinati nel tempo per evitare l’imbruttimento della lastra.
Nella seconda categoria, rientrano i trattamenti che consentono al marmo di essere utilizzato in ambienti particolarmente aggressivi, come bagni e cucine. Prevalentemente grazie all’uso di polimeri fluorurati e di cere e siliconici, i marmi vengono resi idrorepellenti e oleorepellenti. Esistono inoltre trattamenti antimacchia, antiacido, antiscivolo e antigraffiti. Anche questi trattamenti necessitano di una manutenzione periodica, ma garantiscono il mantenimento del materiale il più intatto possibile.
All’interno della categoria dei trattamenti di conservazione e restauro, rientrano tutti quei trattamenti che consentono al marmo storico di ripristinare il suo disegno originale. Esistono, infatti, trattamenti in grado di rinforzare il materiale, di eliminare le croste nere e le fioriture di licheni, di eliminare l’affioramento dei sali dal sottofondo, e di smacchiare in profondità il paramento. Oltre a questi vanno considerati gli interventi di ripristino della forma grazie a stucchi studiati appositamente sia nella colorazione, sia nell’eventuale dilatazione termica differente. Questi trattamenti sono sempre effettuati con resine poliuretaniche e solventi ad hoc per i diversi materiali.
Esistono poi trattamenti specifici che vengono utilizzati in casi molto particolari o limitatamente ad alcuni materiali; come ad esempio, soluzioni silossanti per proteggere il granito lucidato, oppure soluzioni specifiche per eliminare le macchie di ferro. Ma anche l’eliminazioni di xenoliti(piccole conformazioni all’interno della lastra) che ne diminuiscono il valore commerciale, pur non alterandone le caratteristiche fisico-chimiche.

di Veronica Cupioli

Convegno Venerdì 5 Ottobre 2007
Relatori:
Arch. Alessandra Ubertazzi
Architetto, Docente di Progettazione di elementi e sistemi,
Facoltà di Architettura e Società,
Politecnico di Milano.
Dott. Geol. Laura Fiora
Geologo, Docente di Petrografia applicata,
Dipartimento Scienze Mineralogiche e Petrologiche,
Università di Torino
Prof. Annapaola Zaccaria
Docente di Archeologia e storia dell’arte greco-romana
Dipartimento Scienza dell’antichità e Vicino Oriente,
Università Ca’ Foscari di Venezia
Prof. Ing. Paolo Davini
Docente di Tecnologie dei materiali lapidei
Dipartimento Ingegneria Chimica, Università degli Studi di Pisa

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16 Novembre 2007

English

Parabita cemetery (1967 – 1977)
Alessandro Anselmi and Paola Chiatante*

Versione italiana

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“While in Anselmi’s view the project is an “act of tendentious restructuring”, which “can and must give some meaning” to the slow process of corruption and renewal that we call history, the semantic and spatial ambiguity of the wall appears to be one of the compositional keys. The wall, as perceived by Anselmi, is not a simple diaphragm, a vertical structure definable in terms of its surfaces, but a three-dimensional architectural fragment characterised by a vigorous material quality, whose peremptory consistency occupies the perspective space with persuasive expressiveness. Conceptually speaking, Anselmi’s wall is an archaeological find; the remaining, eloquent fragment of a distant constructive, urban reality, yet one that is still capable of arranging the present and orienting the future. Anselmi’s “wall” thus denounces history as the “logical antecedent to architecture” (and geometry as a condition of theoretical cohesion)”.1
A high, winding wall encloses the lower, urban front of Parabita cemetery: further walls, coiled in a spiral, delineate the paths leading to the upper slope’s semi-subterranean tombs, their layout resembling the symmetrical volutes of a Composite capital.
Why the shape of an unexpected fragment of classical architecture ? The answer, according to Anselmi, is not to be found in ritual, typological or constructive meanings, but in the categories of geometry and history, that is, in the rigour and coherence of shape, perceived as constructive concepts of architecture. In evoking the geometrical matrix of the most “naturalistic” of the elements of the architectural order, the contemporary project is linked to the authentic spatial substance of the temple, seen as a symbol of the natural, archetypal matrix necessary for any development of architectural research.
This is the sophisticated process of composition whereby the many different spatial features of the cemetery are gathered together to form a coherent whole, built up vertically using solely strong stone walls.
The architecture of Parabita cemetery consists only of thick, load-bearing walls; long, homogeneous wall faces devoid of any basement or crowning features, where tufa from Gallipoli (carparo) dominates the solid, isodomic masonry – the regular opus quadratum so infrequently found in contemporary architecture.
In the middle of the cemetery, the geometrical and conceptual barycentre of the entire composition, the walls converge to form a fan-like series of perspectives and the pattern of the high, severe openings of the ossarium. In the bending of the entrance façade and the spiral pathways situated within the burial ground, the motionless presence of the walls takes on a more dynamic aspect, becoming almost a sumptuous Baroque stage set.
In the private chapel area, in the small orthogonal-shaped graveyard. The walls of tufa ashlars takes on a different design, with the ashlars laid in a variety of different ways.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

1Claudia Conforti, “L’apologia dell’architettura nell’opera di Alessandro Anselmi”, p.8, in Claudia Conforti and Jacques Lucan, Alessandro Anselmi, Architetto, Milan, Electa, 1999, pp.198.

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Cimitero comunale a Parabita (1967-1977)
di Alessandro Anselmi con Paola Chiatante*

English version

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I setti murari radiali dell’ossario (foto: Alfonso Acocella)

“Se per Anselmi il progetto è un “atto di ristrutturazione tendenziosa”, che “può e deve dare senso” alle tracce disseminate dal lento processo di corruzione e rinascita che chiamiamo storia, l’ambiguità semantica e spaziale del muro sembra esserne uno dei cardini compositivi. Il muro, nell’accezione in cui lo impiega Anselmi, non è un semplice diaframma, una struttura verticale definibile attraverso la sua superficie, quanto un frammento architettonico tridimensionale, segnato da una vigorosa matericità, la cui perentoria consistenza occupa lo spazio prospettico con persuasiva espressività. Concettualmente il muro di Anselmi è un reperto archeologico, il lacerto residuo ed eloquente di realtà costruttive ed urbane remote, tuttavia ancora in grado di ordinare il presente e orientare il futuro. Il “muro” di Anselmi, pertanto, denuncia la storia come “antecedente logico dell’architettura” (e la geometria come condizione di coerenza formale)”1.
Ed è un alto setto murario, dall’andamento sinuoso, a chiudere, a valle, il lungo fronte urbano del cimitero di Parabita. Ancora muri, avvolti a spirale, per incidere nel declivio più a monte i percorsi sepolturali semi-ipogei che attingono, nel disegno planimetrico dell’impianto, alle volute simmetriche di un capitello composito.
Perchè il profilo di un inatteso frammento dell’architettura classica? La risposta secondo Anselmi non è in significati rituali, o tipologici, o costruttivi, ma si trova, appunto, nelle categorie della geometria e della storia, ovvero nel rigore e nella coerenza della forma, intesi come concetti costitutivi dell’architettura. Evocare, nella planimetria del campo santo, la matrice geometrica del più “naturalistico” tra gli elementi dell’ordine architettonico, significa legare il progetto contemporaneo all’autentica sostanza spaziale del tempio, visto come simbolo della matrice naturale ed archetipo imprescindibile per ogni possibile sviluppo della ricerca architettonica.

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Assonometria generale del complesso cimiteriale

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Questo il sofisticato processo di elaborazione della legge compositiva con cui i molteplici e differenti episodi spaziali del cimitero vengono riuniti in un insieme coerente, costruito in elevazione unicamente con possenti murature litiche.
Soltanto muri a Parabita, spessi setti portanti, lunghe superfici parietali omogenee, prive di incisive caratterizzazioni basamentali o di coronamento, e soltanto il carparo – il tufo di Gallipoli – per dar vita ad una muralità piena, isodoma, ad un permanere dell’opera quadrata regolare così infrequente nell’architettura contemporanea.
Nel punto centrale del campo santo, baricentro geometrico e concettuale dell’intero impianto compositivo, i setti convergono individuando un ventaglio di accelerazioni prospettiche e la teoria delle alte e severe aperture dell’ossario. Nell’inflettersi del fronte d’ingresso e nei percorsi a spirale delle aree di sepoltura, l’immota presenza dei muri si fa più dinamica, assumendo quasi i caratteri di una sontuosa macchina scenica barocca. Nell’area delle cappelle private, nella piccola città dei morti dall’impianto ortogonale, la muratura in conci di carparo è diversamente declinata in variati dispositivi di posa.

Alfonso Acocella

Note
*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

1 Claudia Conforti, “L’apologia dell’architettura nell’opera di Alessandro Anselmi” p.8, in Claudia Conforti, Jacques Lucan, Alessandro Anselmi. Architetto, Milano, Electa, 1999, pp. 198.

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15 Novembre 2007

Principale

Future Systems – Working with Artists

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“Future Systems sono architetti determinati a disegnare edifici che non si ripetono mai, non guardano mai indietro e non somigliano mai ad altri edifici”
Deyan Sudjic.

La mostra Future Systems- Working with Artists in programma alla British School at Rome (20 novembre – 7 dicembre 2007) porrà un accento particolare sulle collaborazioni instaurate dallo studio Future Systems negli ultimi anni con artisti come Anish Kapoor, Matthew Barney e Antony Gormley.
Saranno esposti modelli concettuali e fotografie che illustrano il processo di progettazione della stazione per la metropolitana di Napoli, del Southbank, del Diana Memorial, dell’Egg Cinema e del Wembley Bridge di Londra. Insieme a questi progetti saranno presentati anche il Media Centre at Lord’s a Londra, il magazzino Selfridges a Birmingham, il Drift Bench, oggetto di design per la Established & Sons. Tale scelta è dettata dall’intenzione di dare conto delle sovrapposizioni tra architettura, arte e design.
Questo tema, insieme all’eterna questione della tensione tra forma e funzione, saranno discussi nella conferenza di Amanda Levete, attraverso l’illustrazione dei suoi progetti realizzati negli ultimi quindici anni.
Future Systems è uno studio d’architettura e design che realizza lavori estremamente originali. Il loro design è innovativo non solo dal punto di vista architettonico e del grande impatto visivo, ma anche per la realizzazione di apparati altamente funzionali, ispirati tanto dalla natura quanto da tecnologie mutuate dalla produzione industriale.
Lo studio è riconosciuto a livello internazionale per il costante sforzo di mettere in discussione i preconcetti legati all’idea di spazio e per la continua attenzione verso un’efficiente utilizzo delle energie ambientali, senza tuttavia mai abdicare alla forma contemporanea. La ricerca è un ingrediente vitale nella pratica dello studio, e fa sì che i progetti concepiti siano un prodotto equilibrato tra sperimentazione e realtà.
Tra i progetti più noti ricordiamo il nuovo Lord’s Media Centre, che ha ricevuto il prestigioso Stirling Prize per l’Architettura nel 1999, il Floating Bridge nei Docklands di Londra del1994, gli shop designs di Comme des Garçons, Marni e New Look a New York, Tokyo, Parigi e Londra . Nel 2003 è stato inaugurato il famoso magazzino Selfridges a Birmingham.
Tra i progetti in corso spiccano la Czech National Library, un complesso scolastico a Londra, una torre per appartamenti a Copenhagen, un ponte a Dublino, un hotel e centro commerciale a Bangkok e i mobili per Established & Sons.
In Italia, Future Systems sta lavorando al Museo Maserati di Modena, a La Rinascente a Milano e alla realizzazione di una stazione della metropolitana a Napoli.
Tra i programmi di ricerca hanno particolare rilevanza: la collaborazione con Arup per la progettazione di gallerie e uffici ad alto rendimento ambientale ed un progetto congiunto con il Martin Centre alla Cambridge University, finanziato dall’Unione Europea.
Fondato nel 1979, lo studio Future Systems è diretto da Jan Kaplicky e Amanda Levete, che lavorano con un’equipe di 30 persone in uno studio nel centro di Londra. Le opere dello studio sono state ampiamente pubblicate in riviste e cataloghi ed esposte in numerose mostre in tutto il mondo. I due direttori tengono regolarmente conferenze in Inghilterra e all’estero. Quella all’Accademia Britannica sarà la loro prima mostra in Italia.
A cura di Marina Engel e con il sostegno della John S. Cohen Foundation, la Cochemè Charitable Trust, la Bryan Guinness Charitable Trust, Arup Italia, Buro Happold, I Guzzini, Page Service, Secondome e il British Council, INARCH.

Amanda Levete- Future Systems
Martedi 20 Novembre 2007 Ore 18.00
Conferenza presentata da Massimiliano Fuksas e Livio Sacchi
Traduzione consecutiva

Future Systems- Working with Artists
Ore 19.30 Inaugurazione mostra
20 novembre – 7 dicembre 2007
Orari: lun-sab h. 17.00-19.30
Curatore: Marina Engel
Info: Tel. 06 3264939

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15 Novembre 2007

Letture

Verso una progettazione stereotomica

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VERSO UNA PROGETTAZIONE STEREOTOMICA
Nozioni di Stereotomia, Stereotomia Digitale e Trasformazioni Topologiche: ragionamenti intorno alla costruzione della forma

Di Giuseppe Fallacara
con un saggio di Luc Charles Pierre Tamborèro
Editore Aracne, Roma, 2007
(pp. 187, con DVD allegato, € 20,00)

Verso una progettazione stereotomica rappresenta l’esito di una ricerca progettuale condotta da Giuseppe Fallacara per valutare il dipanarsi di attuali possibilità operative evidentemente latenti nella disciplina stereotomica. Nel ripercorrerne l’evoluzione storica, lo studioso recupera lo statuto scientifico di un’arte – quella del “trait geomètrique” – che, prima della sistematizzazione metodologica di Philibert de l’Orme, era nota come una pratica di cantiere utile alla costruzione e, in quanto tale, legata a forme massoniche di apprendimento. In questo affondo storico, il Fallacara individua nei libri III e IV de Le Premier Tome de l’Architecture di Philibert de l’Orme i prodromi dello sviluppo scientifico della disciplina, se è vero infatti che nei trattati successivi fino a quello di Frezier, la stereotomia da originaria “arte del taglio delle pietre” è riguardata come “scienza del taglio delle pietre” ed assume pertanto i connotati di una disciplina accademica necessaria alla formazione tecnica del professionista ingegnere o architetto.
I ‘points de repère’ che meritano di essere ricordati sono rappresentati da quegli elementi stereotomici, quali la vis di Saint – Gilles, la trompe de Montpellier, l’arrière – voussure di Marseille e Montpellier, la volta detta Pendentife di Valencia, nei quali il Fallacara ha individuato i modelli della costruzione di natura stereotomica per il loro ben esemplificare le soluzioni tecniche adottate a fronte di complesse problematiche progettuali.

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In alto: progetto per il Ponte piccolo, come evoluzione del sistema voltato Abeille per la mostra Città di Pietra (Biennale di architettura, Venezia 2006). In basso: progetto della Volta Abeille all’ingresso della mostra Città di Pietra (Biennale di architettura, Venezia 2006)

Indagando così “sulla compenetrazione e sulle intersezioni che i corpi solidi possono determinare”, la stereotomia può offrire risposte geometriche tese a garantire la continuità plastica dei volumi che costruiscono lo spazio e, nel progettare la conformazione geometrica dello stesso, si fa “pensiero costruttivo della forma”. La sua “tecnica aedificandi” crea una forma dell’architettura ontologicamente aggettivata, in quanto è al tempo stesso struttura fondamentale e sostanza.
La ricerca sperimentale sull’aggiornamento e rinnovamento della stereotomia, su cui da anni l’architetto dispiega il suo impegno, si focalizza su di un obiettivo di natura epistemologica, dirimente le derive della pratica dell’architettura, quale quello di un’espressività della stessa non figurativa, ma derivata dalla tettonica per un’architettura che sia, come afferma Kenneth Frampton, non un segno ma una cosa.
Mutuando una felice espressione pasoliniana, l’architettura stereotomica si pone come un dròmenon tettonico, così come è intenzionalmente espresso dai progetti realizzati dal Fallacara, ampiamente illustrati nel DVD allegato al testo, per la 10. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia e per la Summer School di Madrid, intitolata The art of Stone. Theory and Practice of Masonry. L’architetto ha consumato l’esempio consegnatoci dalla storia dell’architettura – quale quello relativo alla dimostrazione della plasticità della “voute plate”, declinata secondo i brevetti d’Abeille per Venezia e di Truchet per Madrid – per enucleare e palesare la componente fortemente progettuale della stereotomia e surclassare la soglia del subliminale, per quelle potenzialità congenite alla sua “tecnica aedificandi” in attesa di contemporanee espressioni topologiche.
Condurre dei ragionamenti per forme che oggettivizzano la natura logica dell’architettura, attraverso lo sviluppo topologico del materiale e della struttura, è ciò che viene indicato dal Fallacara in questo testo che costituisce un’interpretazione seminale per gli studi a venire.

di Donatella Chieco

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Viste del progetto Lago_Rgone (La Gorgone) per la città di Vema, Padiglione Italiano alla 10ª Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, 2006: il ricovero barche, la torre serbatoio, il sistema delle residenze, il teatro e l’hangar

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Marmomacc incontra il Design.
Allestimenti e oggetti contemporanei in pietra

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Progetto di Simone Micheli per il padiglione Pietra della Lessinia al 42° Marmomacc di Verona.

Una radicale innovazione delle tecnologie di produzione e trasformazione dei lapidei restituisce oggi alla pietra un’anima più che mai multidentitaria, capace di esplicarsi in continue nuove invenzioni e possibilità espressive ed emozionali. Anche il mondo del design contemporaneo rinnova il suo interesse per questo materiale facendolo oggetto di inediti percorsi creativi, indagandone le vocazioni e le potenzialità trasformative e performative.
In tale scenario si è inscritta l’esperienza “Marmomacc incontra il Design“, promossa da Veronafiere dal 4 al 7 ottobre 2007 durante il 42° Marmomacc e segnalata con un percorso tematico all’interno dei padiglioni della fiera.
Per l’occasione 10 designer internazionali hanno lavorato in stretta relazione con altrettante aziende specializzate nella produzione e lavorazione di lapidei, impegnandosi in una ricerca di progettazione per individuare i possibili caratteri del prodotto industriale di natura litica. Si sono così create interessanti opportunità di sperimentazione a partire da un tema conduttore unificante: “la leggerezza della pietra”.
Declinando il concetto di levità in dieci variazioni traslucide, o traforate, o galleggianti, Riccardo Blumer, Denis Santachiara, Alberto Meda, Michele De Lucchi, Marco Piva, Aldo Cibic, Kengo Kuma, Simone Micheli, Odile Decq e Tobia Scarpa hanno dimostrato che la pietra può essere protagonista a tutto campo nell’interior design contemporaneo come anche nella realizzazione di oggetti perlopiù multifunzionali destinati ai luoghi dell’abitare, al mondo della cucina e della tavola, ai nuovi spazi per il benessere del corpo e della mente.
Blumer ha legato il tema della leggerezza al galleggiamento e ha progettato per Cedal Graniti una serie di recipienti litici che emergono sul pelo dell’acqua. Denis Santachiara ha alleggerito il marmo in sezione sottile rendendolo traslucido o affilandolo come una lama tagliente e ha ideato per l’azienda Testi Fratelli un monoblocco-cucina luminoso e dalle forme fluide, con coltelli anch’essi di pietra.
Anche Meda, per Campolonghi, ha giocato sulla traslucenza realizzando un oggetto multifunzione: un tavolo-lampada per esterni con un basamento costituito da anelli sovrapposti e digradanti nello spessore e nel diametro dalle cui fessure traspare la luce posta nella cavità della struttura; pure il piano di appoggio è traslucido e lascia passare una parte del flusso luminoso. Michele De Lucchi per Piba Marmi ha ideato lampade sospese in marmo traslucido collocate ad illuminare alcune microarchitetture in materiali litici di colori diversi; piccole case-scultura, forme attraenti e stimolanti che il designer è solito realizzare in legno e che per l’occasione ha pensato in pietra.

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Monoblocco da cucina con coltelli in marmo di Denis Santachiara per Testi Fratelli.

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È invece l’idea della pietra alleggerita con lavorazioni a traforo ad aver caratterizzato il lavoro di Marco Piva per Santa Margherita grazie al quale le capacità compositive di lastre sottili in quarzo sono state sfruttate per dar vita a pareti, stesure pavimentali, piani di appoggio e lampade con diverse texture che si lasciano attraversare alla vista.
Sempre nel tema delle superfici litiche traforate e discontinue si sono mossi Aldo Cibic, Kengo Kuma e Simone Micheli per realizzare i padiglioni espositivi di tre aziende all’interno del Marmomacc. Cibic ha progettato per Grassi Pietre un allestimento in Pietra di Vicenza, costituito da una grande parete di sottili lamelle litiche e da una serie di monoliti disposti a terra a disegnare un sinuoso percorso orizzontale. Kengo Kuma ha pensato per Il Casone uno spazio definito da pareti-diaframma tridimensionali composte da moduli triangolari traforati in Pietra Serena di Firenzuola. Micheli ha lavorato sulla riproducibilità tecnica di un modulo mobile per dar vita a schermi anch’essi permeabili alla vista nel padiglione di Pietra della Lessinia.
La presenza femminile nel gruppo, la francese Odile Decq, ha ideato per Rocamat una microarchitettura realizzata con le più moderne tecnologie di trasformazione dei materiali lapidei, un grande oggetto tridimensionale, architettura-scultura-elemento di design in cui la pietra si ripiega in spigoli e dorsali sfidando le leggi della gravità. Infine Tobia Scarpa, grande manipolatore della materia, ha utilizzato frammenti di varie misure di marmo dalle forme ben definite, mescolandoli e impastandoli con resine e leganti cementizi per ottenere monoliti levigati e tagliati in sezioni diverse che danno origine a nuovi paesaggi cromatici e materici per Agglonord.

Grazie ad esperienze come “Marmomacc incontra il Design” accanto al progetto dell’architettura litica d’interni anche il design dell’oggetto in pietra, della singola unità tecnica-formale-simbolica può riacquistare un particolare significato in una visione arricchente del numero di classi oggettuali da affiancare a quelle degli elementi funzionali per la cura e l’igiene del corpo già discretamente diffuse. Le sperimentazioni in tal senso realizzate in occasione dell’iniziativa veronese fanno apparire ancora più urgente la riattivazione di un dibattito teorico e di una riflessione critica sul design dell’oggetto litico che risultano oggi affievoliti e che dovrebbero riprendere forza, a nostro avviso, a partire dalla considerazione della nuova identità bifronte della pietra nel nuovo millennio; fatta ancora della tradizionale solidità connaturata alla struttura minerale della materia ma al contempo di una fluidità vitale, di una dinamica e flessibile disponibilità al polimorfismo applicativo e alle contaminazioni, assicurata da innovative tecnologie digitali di progettazione e da filiere di produzione a controllo numerico.
In tal senso la presenza lapidea può, alla stessa stregua di altre presenze materiche della modernità, incarnare lo spirito del nostro tempo ed è in grado di rispondere con efficacia alle esigenze generali del design contemporaneo identificate con chiarezza da Ezio Manzini: “la società contemporanea sembra perdere di solidità: le sue organizzazioni diventano plastiche, le forme di vita che in essa hanno luogo diventano fluide, ogni progetto tende ad essere flessibile ed ogni scelta si propone come reversibile. O almeno così si vorrebbe. Ne deriva che le migliori metafore da utilizzare per descriverla vengano dalla fisica dei fluidi, più che da quella dei solidi, più dai sistemi viventi che da quelli minerali. Nulla di veramente nuovo in termini filosofici: stiamo semplicemente ritornando al mondo fluido di Democrito e di Lucrezio, al mondo di Venere contro quello di Marte […].
Ma se pur nulla è poi così nuovo in termini filosofici, tutto cambia in termini pratici. La “normale” visione del mondo, almeno per quel che riguarda la cultura occidentale, è stata infatti costruita a partire da un modello di pensiero in cui la “realtà” viene considerata come un insieme di forme e funzioni immerse e congelate in materiali solidi. Un modo di vedere iniziato nell’epoca neolitica, con la rivoluzione agricola, ereditato dalla società industriale ed utilizzato fino ad ora […].
Ed è in questo contesto che il design è nato e si è sviluppato costruendo la propria cultura ed i propri tradizionali strumenti concettuali ed operativi. Oggi, quasi un secolo dopo, quel mondo che appariva solido semplice e illimitato non esiste più. La solidità si è sciolta nella fluidità delle informazioni. […] La profondità e la velocità del cambiamento avvenuto non può che mettere in crisi la cultura e la prassi del design. A partire dai suoi stessi fondamenti. Questo è oggi del tutto chiaro. Forse meno chiaro è che, in questa fase, come in tutti i momenti di crisi, è la crisi stessa che, destabilizzando l’esistente, apre anche nuove, impensate possibilità”
( Ezio Manzini, “Il design in un mondo fluido” pp. 15-16, in Paola Bertola, Ezio Manzini (a cura di), Design multiverso, Milano, Polidesign, 2004, pp. 256).

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Padiglione Grassi Pietre al 42° Marmomacc di Aldo Cibic.

Biografie dei designer presenti a “Marmomacc incontra il Design”

RICCARDO BLUMER si laurea in architettura nel 1982 al Politecnico di Milano. Dal 1983 al 1988 lavora con Mario Botta a Lugano. Collabora con aziende quali Alias, Artemide, Desalto, Lumina, Poliform. Riceve nel 1997 il premio Design Preis Schweiz e nel 1998 il Compasso d’Oro e il premio Catas con la sedia Laleggera, prodotta da Alias. Nel 1995 partecipa alla nascita della Accademia di Architettura di Mendrisio dove dal 2002 è professore incaricato. Il suo lavoro è oggetto di mostre monografiche in città europee quali Berlino, Monaco e Parigi.

ALDO CIBIC, vicentino, si trasferisce nel 1978 a Milano per lavorare con Ettore Sottsass di cui diventerà socio; nello stesso anno partecipa alla nascita di Memphis, come designer e fondatore. Nel 1989 fonda Cibic & Partners, studio di design, progettazione d’interni e architettura. Sviluppa parallelamente un lavoro di ricerca su modalità progettuali alternative nel campo del design e dell’architettura, sia con il suo studio che in ambito accademico, con la Domus Academy, il Politecnico di Milano, l’Università IUAV di Venezia e la Tongji University di Shanghai, di cui è Professore Onorario. Tra le aziende con cui ha collaborato: Cappellini, Artemide, Foscarini. Progetta allestimenti per la Biennale di Architettura di Venezia, la Biennale di Shanghai, la London Architecture Biennale e per Abitare il Tempo.

MICHELE DE LUCCHI, laureato in architettura a Firenze, è stato tra i protagonisti di movimenti d’avanguardia quali Alchymia e Memphis. Ha disegnato per Artemide, Kartell, Mandarina Duck, Rosenthal, Sambonet, Alias, Unifor, Dada, Moroso e Poltrona Frau. Dal 1992 al 2002 è responsabile del Design Olivetti. Ha curato progetti sperimentali per Compaq, Philips, Siemens, Vitra. Ha progettato in Giappone per NTT, in Germania per Deutsche Bank, in Svizzera per Novartis e in Italia per Enel, Telecom Italia, Banca Intesa, Poste Italiane, Piaggio. Cura allestimenti di mostre d’arte e design per la Triennale di Milano e il Neues Museum di Berlino. Tra i progetti in corso: ristrutturazione della Fondazione Cini di Venezia, il rinnovamento dei musei del Castello Sforzesco di Milano. Espone nei più importanti musei d’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali per il suo lavoro. Dal 2001 è Professore Ordinario presso l’Università IUAV di Venezia.

ODILE DECQ si diploma in architettura nel 1978 a Parigi e approfondisce gli studi in urbanistica all’Institute of Political Studies nel 1979; nello stesso anno fonda lo studio dove lavora fino al 1998 con Benoît Cornette. Nel 1990 lo studio associato firma la sede della Banque Populaire a Rennes e ottiene diversi riconoscimenti, tra cui il Leone d’Oro alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1996. Nel 1998 vince il concorso per la costruzione del terzo porto della città di Rotterdam. Dopo la morte di Cornette la Decq guida lo studio ODBC, vincendo il concorso per il Museo d’arte contemporanea della città di Roma, il Macro. Nel 2000 vince il concorso per la realizzazione degli arredi della sede dell’Unesco di Parigi. Odile Decq si dedica all’insegnamento presso l’École Spèciale d’Architecture di Parigi.

KENGO KUMA compie i suoi studi a Tokyo e New York. Nel 1987 fonda lo Spatial Design Studio e nel 1990 il Kengo Kuma & Associates a Tokyo. Il linguaggio architettonico delle sue opere è contraddistinto dalla passione per i materiali. Fra le realizzazioni più emblematiche: il Kyodo Grating di Tokyo, la Water/Glass House di Shizuoka, il Takayanagi Community Center, il Nasu History Museum, il Great Bamboo Wall di Pechino, il Murai Masanari Art Museum a Tokyo, l’edificio LVMH Osaka, la Lotus House, il Nagasaki Prefectural Art Museum e la Chokkura Plaza di Tochigi. Tra i progetti in corso: l’ Asahi Broad Casting Corporation, il Suntory Museum, il Dellis Cay Spa Resort, un complesso progetto residenziale a Suzhou e un progetto per una casa da tè a Francoforte. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali.

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Schizzo progettuale e prototipo del tavolo in marmo traslucido di Alberto Meda per Campolonghi.

ALBERTO MEDA si laurea in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Milano nel 1969. E’ direttore tecnico di Kartell dal 1972 e dal 1979 Industrial designer. Collabora con aziende tra cui Alias, Alessi, Ittala, Mandarina Duck, Ideal Standard, Luceplan, Vitra, Olivetti. Riceve il premio Compasso d’Oro per l’innovazione tecnologica nel 1989 e nel 1995, con la serie di lampade Lola e Metropoli, prodotte da Luceplan. Dal 1994 il MoMA di New York include nella Design Collection le sue sedie Light light e Soft light progettate per Alias e la lampada On-Off prodotta da Luceplan. Ha svolto attività didattica e di ricerca alla Domus Academy, al Politecnico di Milano e all’Università IUAV di Venezia.

SIMONE MICHELI fonda negli anni’90 del secolo scorso l’omonimo studio di architettura e nel 2003 la società di progettazione Simone Micheli Architectural Hero. Insegna Industrial Design all’Università degli Studi di Firenze e alla Scuola Politecnica di Design di Milano, al Politecnico di Milano, alla Domus Accademy, allo Iulm di Milano, alla facoltà di Architettura dell’Università la Sapienza di Roma. Le sue realizzazioni nel campo dell’architettura, del contract, della progettazione d’interni e di mostre, della grafica e della comunicazione si relazionano con particolari approfondimenti alle esperienze sensoriali. Ha realizzato edifici residenziali, alberghi e SPA, negozi e showroom, palazzi per uffici, fabbriche. Ha collaborato con Alcantara, Arflex, Baumann, Confalonieri, Crassevig, Ducati, Guzzini, Bonacina.

MARCO PIVA, laureato al Politecnico di Milano, è stato membro fondatore dello Studiodada Associati. Realizza progetti di architettura, interior e industrial design. Dal 1987 al 1990 è membro del Board dell’ADI. Con designer, sociologi ed esperti di marketing internazionali fonda EDEA, società di consulenze strategiche per il Design. Dal 1997 al 2002 coordina Hot Group, gruppo interdisciplinare di aziende specializzate in tecnologie per l’Hotel ed il Contract. Dal 1999 insegna presso il Politecnico di Milano, la Scuola Politecnica di Design e lo IED di Milano. Nel 2001 fonda “Atelier Design”, centro di ricerca e sviluppo per l’industrial design. Tra gli altri, collabora con Arflex, Guzzini, Leucos, Moroso, Poliform, Rapsel, Tisettanta.

DENIS SANTACHIARA. Le sue prime opere, tra design e arte, sono state esposte alla Biennale di Venezia, al Palazzo dei Diamanti a Ferrara, alla Triennale di Milano. È curatore di mostre e allestimenti a Lione, Milano, Parigi, Amsterdam. Riceve il Compasso d’Oro nel1986. Nel 1999 è premiato con il Good Design Award e nel 2000 con il Design World. I suoi lavori fanno parte delle collezioni permanenti di alcuni tra i più importanti musei, come il MoMA di NewYork, il Musèe des Arts Decoratifs del Louvre, il National Museum of Modern Art di Tokyo. Ha collaborato con B&B, Luceplan Artemide, Swatch, Mandarina Duck, Rosenthal, Panasonic, Domodinamica, Vitra, Campeggi, Superga, De Padova, Foscarini, Serralunga, Fontana Arte. In ambito accademico ha tenuto conferenze e seminari ed è professore incaricato al Corso di Laurea in Disegno Industriale all’Università IUAV di Venezia.

TOBIA SCARPA si laurea allo IUAV di Venezia nel 1969. Inizia la sua esperienza professionale assieme alla moglie Afra Bianchin, progettando lampade, sedie, poltrone. Il loro lavoro in questo ambito ha continuamente alimentato musei in tutto il mondo. Contemporaneamente, la loro attività di architetti li ha visti impegnati in opere di restauro e di costruzione industriale, in particolare per il gruppo Benetton, per il quale hanno progettato tutte le fabbriche. La conoscenza profonda dei materiali e delle lavorazioni si rispecchia nei loro lavori, dove si contano importanti incarichi: tra i restauri, i Palazzi Bomben e Caotorta della Fondazione Benetton, il Palazzo della Ragione di Verona. Altri, come il Museo del Mercato Vecchio di Verona o le Gallerie dell’Accademia di Venezia, sono attualmente in corso. Tra le aziende con cui ha lavorato si ricordano B&B, Cassina, Flos, Leucos, Mizar.

di Davide Turrini

Sitografia web
AZIENDE
Agglonord
Campolonghi Italia

Casone
Cedal Graniti
Grassi Pietre
Piba Marmi
Pietra della Lessinia
Rocamat
Santa Margherita
Testi Fratelli

DESIGNER
Riccardo Blumer
Aldo Cibic
Odile Decq
Michele De Lucchi
Kengo Kuma
Alberto Meda
Simone Micheli
Marco Piva
Denis Santachiara
Tobia Scarpa

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10 Novembre 2007

Citazioni

Labirinti

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Robert Morris. Cinque labirinti. Lito-serigrafia a colori. (1993-95).

“Suppongo che i labirinti si collochino […] da qualche parte tra l’architettura e la scultura. Tempo, spazio, la relazione tra la pianta vista dall’alto e la perdita di questo orientamento quando si è all’interno dei muri, sapere che si tratta di una forma molto antica, della quale possiamo far risalire l’origine alla cava magdaleina, passando per le culture celtiche e greche – il labirinto è carico di tutte queste esperienze e associazioni. È una forma che va più lontana della memoria. Sembra una sorta di architettura metafisica, un’architettura che non sia mai stata costruita realmente in tempi antichi ma piuttosto iscritta sui petroglifi , o impressa sulle monete, e più tardi rappresentata nei mosaici e nei dipinti. Oltre al fatto che le sue origini si dissolvono in un passato indecifrabile, la funzione del labirinto nei tempi passati è il soggetto di infinite controversie. Qui le metafore affluiscono e rifluiscono, i significati labirintici si riflettono nella loro stessa forma. Del resto non ho redatto queste osservazioni come sorta di raccomandazioni sul modo di esperire i labirinti che ho costruito in quanto non posso predire l’esperienza soggettiva di nessun spettatore”.1

(traduzione di Alessandra Acocella)

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Robert Morris. Labirinto 1982. Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia (foto Alessandra Acocella)

Note
1Robert Morris, From Mnemosyne to Clio: The mirror to the labyrinth (1998-1999-2000), Milano, Skira, 2000, pp. 275. Citazione a pag. 180.

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