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Cave di Fantiano, Taranto
U.T.C.-Settore LL. PP. di Grottaglie e d_progetti DONATI D’ELIA Associati

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La planimetria generale di progetto

E’ la gravina un crepaccio, una sorta di burrone anche molto profondo, scavato dalla penetrazione delle acque nella roccia calcarea. La Puglia ne è ricca in virtù della specifica formazione geomorfologica, con la conseguente assenza di una ben definita idrografia superficiale in favore di falde e serbatoi d’acqua in profondità (l’argomento è già introdotto in precedente post: Omaggio al Salento). Fuori terra il paesaggio si sfaccetta dunque nella serie di conformazioni tipiche quali ad esempio, oltre alla gravina, il cosiddetto pulo (ad esempio di Altamura, di Andria, di Molfetta) paragonabile alle doline carsiche. Oltre a questo, vi sono gli interventi antropici, spesso orientati a vedere nella ricchezza di materiale lapideo d’origine calcarea la facile opportunità estrattiva. S’incontrano allora sovente sul territorio siti solitamente organizzati secondo la tipologia della cava a fossa: sono esse cave generalmente inserite in un contesto pianeggiante caratterizzate dall’avere i quattro fronti ad un livello inferiore al piano di campagna circostante, e vengono classificate in base alla profondità. E’ così che da una stima superficiale si rileva in Puglia un numero di cave in disuso maggiore di quelle in attività. Rimandando per l’approfondimento ad un articolo di Antonio Aprigliano, nella sola provincia di Bari si contano più di 600 cave abbandonate, nella provincia di Lecce vi sono all’incirca 20 cave abbandonate per ogni 100 Kmq, Taranto ne conta 13 per ogni 100 Kmq, Foggia e Brindisi meno di 10; la maggior parte di questi siti risulta non avere specifici utilizzi.
Il caso di Fantiano nei pressi di Grottaglie può allora risultare emblematico quale segno d’inversione di direzione. In virtù forse della consistenza paesaggistica di per sè già monumentale ed a fronte anche dei solleciti derivanti da utilizzi impropri delle aree dismesse d’attività estrattiva alle finalità della discarica non regolamentata, gli enti territoriali ai vari livelli dal regionale al locale intraprendono dall’anno 2004 la strada dell’intervento di riqualificazione. Esso riguarda area molto ampia: circa 8 ettari a nord-ovest dell’abitato di Grottaglie, a loro volta abitati in passato fino al consolidarsi del centro urbano adiacente. L’attività estrattiva vi ha funzionato tra gli anni ’50 e ’70 di secolo scorso, permettendo d’ottenere discreti quantitativi di conci di tufo e sabbia calcarenitica.
Parallelamente al progetto, la comunicazione degli studi e degli approfondimenti alla base dell’attività di recupero, così come delle modalità del recupero stesso, risulta importante per la condivisione da parte della comunità. Non secondaria a questo scopo è la realizzazione del sito apposito cui si rimanda per approfondimenti anche storici sul caso.
Estrapoliamo infine alcuni passi della relazione di progetto per migliore descrizione delle opere.

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La collocazione dell’area

(…) Le analisi dell’area d’intervento mostrano la coesistenza di zone coltivate ad oliveto, del bosco di Pino d’Aleppo coincidente con la Gravina e le cave.
Si rileva un caratteristico paesaggio fatto di natura ma anche di suggestive forme e presenze architettoniche, resti di antiche presenze (le Grotte) e di più recenti attività estrattive (le Cave) che hanno modificato in modo sostanziale il paesaggio, diventandone parte costitutiva. Gli scarti della produzione, depositati in strati ed in cumuli, raggiungono dimensioni a volte impressionanti, addolciti nei decenni successivi dall’azione degli agenti atmosferici. Il contesto naturale appare segnato da sbancamenti, rilevati, cumuli di materiale sterile prodotto nei procedimenti di estrazione. Le masse più rilevanti e le depressioni formatesi in tutto il periodo di attività della cava, interagiscono con i torrioni (monoliti) di calcarenite rimasti, perchè non idonei allo sfruttamento.
(…) La realizzazione di un Parco Attrezzato per attività teatrali, culturali, spettacolari e del tempo libero nelle Cave di Fantiano, quale intervento di risanamento, recupero, riqualificazione e valorizzazione di tale vasta area, rappresenta l’occasione per costituire, a livello territoriale, un sistema integrato di spazi polivalenti attrezzati per la collettività.
(…) Dall’area di sedime, ove attualmente è presente la depressione del terreno oggetto di discarica abusiva, si prevede la realizzazione di una cavea che utilizzerà in parte i gradoni esistenti (oggetto della lavorazione estrattiva) ed in continuità con questi, iterando il “segno” si realizzeranno le ulteriori gradinate sempre in tufo (riutilizzando in massima parte quelli sparsi ancora presenti nel sito).
Le sedute per gli spettatori saranno realizzate in blocchi squadrati di pietra calcarea del tipo locale, mentre i gradini di smistamento saranno realizzati con mattoni in cotto tipici della produzione ceramica locale. Pertanto, sia altimetricamente che planimetricamente la cavea si adagerà ed integrerà in modo assolutamente rispettoso lo stato dei luoghi. Al di sotto di una parte di tale cavea (come fosse un’opera ipogea) saranno realizzati i servizi igienici degli spettatori e le centrali tecnologiche, sfruttando, altresì parti del vuoto costituito dalla depressione del terreno da bonificare.
Per quanto concerne invece il palcoscenico e il blocco dei camerini e servizi per gli artisti/addetti, questi saranno ubicati a ridosso dell’attuale fronte di cava, che costituirà la quinta naturale per le rappresentazioni spettacolari.
La quota altimetrica del palcoscenico e l’ingombro planimetrico dello stesso elemento coincide con l’attuale banco tufaceo e materiale di risulta presente ai piedi del fronte cava, Si prevede infatti la pulizia di dette superfetazioni e la realizzazione del palcoscenico, risagomando tale piano, il cui calpestio avrà finitura con listoni di legno trattato per esterno. Posteriormente al palcoscenico si realizzerà il blocco di camerini e servizi per gli artisti ed addetti.
Tale manufatto interamente realizzato con blocchi di tufo a vista (utilizzando ove possibile i conci presenti in loco), rispetterà l’ingombro attualmente rappresentato dall’esistente banco di cava, integrandosi pertanto in modo completo all’intorno paesaggistico.
(…)

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L’anticipazione dell’area adibita a rappresentazioni pubbliche

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Progetto: U.T.C. Settore LL.PP. Comune di Grottaglie, d_progetti DONATI D’ELIA Associati

Collaboratori: Geom. Angelo Di Bello, Geom. Vincenzo Latenza, Patrizia Donati, Arch. Alessandro Fischetti, Ing. Gerardo Bonomo, P.I. Marcelo Perrini, Carlo Siciliano, Roberto D’Elia, Chicco Raschillà.

Geologia: Geol. Jean Vincent C.A. Stefani

Fattibilità ambientale: Agr. Pietro Tripaldi

Consulenza pubblico spettacolo: Ing. Pier Paolo Raho, P.I. Luigi Calabretti

di Alberto Ferraresi

(Vai al post Omaggio al Salento)
(Vai al sito del Pulo di Altamura)
(Vai al sito del Pulo di Molfetta)
(Vai all’articolo di Antonio Aprigliano)
(Vai al sito delle Cave di Fantiano)
(Vai alle fotografie della Gravina di Fantiano)

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2 Gennaio 2008

Eventi

ARQUITECTURA ESPAÑOLA
Il linguaggio della pietra tra costruzione e figurazione

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Ingresso alla Mostra organizzata da Vincenzo Pavan in Marmomacc 2007

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Una mostra può diventare un’importante occasione per dare spazio al dibattito e alla discussione sull’architettura. La scelta della Spagna, considerato uno dei paesi più dinamici dal punto di vista della cultura architettonica e progettuale, costituisce una sorta di strumento critico per leggere le trasformazioni intercorse negli ultimi dieci anni e indagare le ragioni profonde di questo successo. Sono state selezionate quindici opere di architetti appartenenti a diverse generazioni e a diverse realtà geografiche, ma accomunati tutti nel rivendicare con l’uso del materiale lapideo i principi inalterabili di bellezza, utilità e solidità, e nel rifuggire quelli più attuali di superficialità, ambiguità e fragilità. Il loro lavoro infatti, pur mantenendo le inevitabili specificità del progetto e del luogo, testimonia una continua tensione nel rendere più profondo il vero significato di una disciplina che incide sempre di più sulla società civile e che sempre più spesso si vuole elevare alla categoria dell’arte.
Questo modo di presentare l’architettura permette di individuare tendenze, sfumature e contrasti nell’impiego di un linguaggio lapideo che appare sempre più diversificato e aperto alle nuove sperimentazioni consentite dall’evoluzione tecnica tecnologica. In questo periodo si sono infatti moltiplicate le tendenze: a quelle tradizionali del rivestimento di pietra secondo un linguaggio minimale e purista, si è affiancato l’impiego di piani litici traslucidi e di elementi massivi, strutturali e di rivestimento, che confermano il preciso ruolo tettonico del materiale lapideo.

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F.Alonso, casa di Puerta da Hierro, Madrid, 1985
Picado – De Blas Arquitectos, Teatro e Auditorium, San Lorenzo de el Escorial, 2006

Per capire questa evoluzione è tuttavia necessario comprendere la specificità dell’architettura in Spagna rispetto al resto dell’Europa, per evitare facili generalizzazioni e banali luoghi comuni, riconoscendo come il linguaggio legato all’uso della pietra non nasca da scelte superficialmente ed esclusivamente estetiche, ma trovi la propria ragione d’essere in precisi intenti figurativi e di rappresentazione dell’architettura stessa, che si fondono con le scelte costruttive e le basilari esigenze pratiche dell’architettura perchè, come scrive L. Kahn, “nell’architettura di pietra, la singola pietra diventa più importante della casa. La pietra e il sistema architettonico erano una sola cosa”.
Nel 1968, quando sulla Spagna gravava ancora il muro dell’isolamento che pdivideva la società dal resto d’Europa, Vittorio Gregotti scriveva “In Spagna c’è una specie di silenzio, di spazio immobile, figurativamente antico, estraneo all’ansia trasparente e al movimento dello spazio centroeuropeo da cui nasce l’architettura moderna”. Oggi a distanza di quaranta anni quel muro è crollato, la Spagna e la sua società sono integrati in Europa, gli architetti spagnoli sono chiamati ad insegnare nelle più prestigiose università europee ed americane mentre alle loro architetture sono stati dedicati libri, riviste, convegni e mostre in tutto il mondo. Tuttavia è rimasto qualcosa di questa inclinazione al silenzio nel loro metodo progettuale che preferisce scelte elementari e minimali che corrispondono al motto di epoca barocca “il buono, se è breve, è doppiamente buono”, dove l’obiettivo di questa “brevità” ricorda molto da vicino il più moderno e noto “less is more”, ma ci ricorda anche valori quali la durata e la solidità costruttiva, concetti che di fronte all’odierna e imperante ansia per la novità ci appaiono ancora più antichi e necessari.

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C. Ferrater, Casa Togomago, Ibiza, 2001
Palerm & Tabares de Nava Arquitectos,telier della Fondazione “C. Manrique”, Lanzarote, 2004

A questo punto è fondamentale ribadire alcune delle ragioni profonde del successo che attraversa l’architettura in Spagna, ragioni di natura diversa e che affondano tutte nella storia spagnola del XX secolo e nella sua realtà politica, economica e sociale.
In primo luogo c’è stato il paziente lavoro culturale e professionale di un’intera generazione di architetti (A. de la Sota, F.J. Saenz de Oiza, J.A. Coderch, O. Bohigas e J.M. Garcia de Paredes) che, distante dal franchismo da un punto di vista intellettuale, ha permesso di gettare le basi di un insegnamento universitario di altissima qualità. La preparazione degli architetti spagnoli si distingue infatti per la perfetta armonia tra un sapere tecnico, che fornisce loro un continuo controllo razionale sul processo progettuale, e una ricerca teorica e compositiva, che riguarda sia la composizione architettonica in senso stretto che quella su scala urbana e ambientale. Il senso della disciplina acquisito durante gli studi consente loro di valutare e gestire con sicurezza le influenze esterne e gli stimoli della storia e del luogo, elementi che, diventando materia di progetto, permettono di sviluppare un rapporto istintivo che annulla il tempo e le contingenze, facendo riemergere i nuclei fondativi dell’architettura stessa quali spazio, luogo e costruzione. Questo si è trasformato nel tempo in una capacità di proiettare l’essenza del passato nel presente rimanendo, per usare un’espressione di Fernando Tavora, “tradizionalmente moderni” e sottoponendola al confronto con le ricerche contemporanee, sia quelle legate allo spazio architettonico generato dal telaio strutturale, che quelle legate alla sua definizione e ai materiali.
Un’altra ragione risiede nel “Patto Sociale” che ha consentito agli architetti di realizzare qualsiasi edificio, dal disegno di progetto al collaudo, ma sotto la loro diretta responsabilità. Questo essere responsabili sotto ogni aspetto comportò per loro la necessità di avere competenze professionali le più complete possibili, sia quelle tecniche che quelle artistiche, e a considerarle tutte parte integrante del progetto.
La preparazione universitaria e la continua pratica progettuale hanno consentito ai progettisti di realizzare opere aderenti alla realtà sociale ed economica in cui intervengono, fino a creare un’architettura diffusa e condivisa da gran parte della società spagnola. Questo ha determinato da una parte lo svilupparsi di una committenza “illuminata” e di una pubblica amministrazione sensibile ai problemi culturali e pratici che l’architettura stessa propone, mentre dall’altra ha garantito l’elevata professionalità degli architetti che, consapevoli delle conseguenze materiali dell’architettura, si sono organizzati in collegi professionali che favoriscono la qualità del prodotto e il cui statuto è determinante nella definizione di una modalità condivisa.

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R.Moneo, Municipio, Murcia, 1998
C. Portela, casa rurale, Galizia, 1979

Il successo della loro architettura risiede anche in un altro aspetto culturale: l’abbandono da parte degli architetti spagnoli delle posizioni avanguardiste e la perdita di qualsiasi pretesa di trasformare programmaticamente la realtà. Questo atteggiamento culturale ha consentito l’affermarsi di un’architettura che è razionale e reale allo stesso tempo: razionale nel senso che il moderno continua ad essere la base di partenza, non da un punto di vista esclusivamente stilistico, ma da un punto di vista metodologico che facendo proprie anche le critiche del post-moderno, ha evitato il rischio di dare vita alle illusioni utopistiche che entrambe le correnti possono generare. Da questo contatto con l’oggettività della disciplina architettonica deriva l’aggettivo di reale che, come sostiene I. de Solà Morales, “non è norma stilistica ma è un riconoscimento delle circostanze quotidiane che fanno da contrappeso al razionale ed evitano le astrazioni a cui il razionalismo potrebbe indurre”.
Questo realismo si manifesta ad esempio nell’uso ricco di immaginazione dei materiali tradizionali ai quali è affidata una precisa funzione espressiva che evita di legarsi ai materiali tipici di una modernità superficiale e dimostra come le proposte progettuali della contemporaneità in campo spaziale e compositivo siano realizzabili anche con materiali tradizionali e tecniche antiche. Questa consapevolezza è stata favorita dalla struttura economica del paese, dove si è conservata un’arte muraria che pratica la costruzione di muri con malta, mattoni o pietra, al posto del montaggio a secco di elementi prefabbricati, con notevoli conseguenze sull’immagine che l’architettura trasmette di sè.
Il rispetto per le condizioni oggettive del fare architettura non limita tuttavia la loro capacità creativa, ma iniziando il discorso progettuale dalla realtà urbana e sociale, sono capaci di rispondere alle sfide della contemporaneità e alle difficoltà che ogni progetto implica. Questa creatività si manifesta ad esempio nel particolare modo di intendere il restauro, sia del singolo monumento che di un brano di città che la storia ha consegnato. Ristrutturazioni, ampliamenti e trasformazioni di manufatti storici o più semplicemente dell’esistente vengono affrontate senza l’imbarazzo per il nuovo e la soggezione per l’antico, ma stabilendo un costruttivo dialogo tra il presente ed il passato, nel quale nulla è stato perduto e dove non si rimpiange nulla, ma con il quale si è trasformata l’architettura in qualcosa di diverso, ora per giustapposizione, ora per stratificazione dei diversi ambiti, e nel quale continuità significa assimilazione.

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Moneo, Municipio, Logroño, 1976
A. de la Sota, Sede del Gobierno Civil, Terragona, 1957

A questo punto è lecito chiedersi se esiste un linguaggio architettonico spagnolo, intendendo per linguaggio un “sistema di segni, simboli e regole per mezzo dei quali avviene qualsiasi forma di comunicazione”. Fare questo in un panorama architettonico globale che tende a omologare può portare all’individuazione di un presunto “stile Spagnolo” comodo da esportare in altre realtà storiche e culturali diverse, dove tuttavia il rischio maggiore diventa quello di perdere l’elemento “sintattico” del fare architettura in Spagna e quindi il significato stesso che la disciplina ha qui raggiunto. Essi infatti hanno saputo, con una paziente ricerca interiore, smussare gli aspetti più spigolosi del razionalismo, mentre l’architettura è stata riconnessa con il passato, la società e l’ambiente, attraverso un dibattito culturale che ha fatto “parlare” di architettura gran parte del paese. Questo dialogo, che nel corso dei decenni si è arricchito diventando una conversazione a più voci, ha consentito di individuare le coordinate entro cui muoversi: un’indagine scientifica che indaga, esplora e scopre i limiti della disciplina, (materiali, tecniche costruttive, composizione), e la creazione artistica che fa della poesia il mezzo per riconciliare le necessità pratiche dell’architettura con quelle spirituali dell’uomo.

Angelo Bertolazzi

Leggi anche La natural seduccion de la piedra

(Vai a Marmomacc)

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29 Dicembre 2007

Pietre dell'identità Progetti

Il piazzale Rocce Rosse ad Arbatax
Gaetano Lixi – STUDIO CINQUANTUNOUNDICI S.r.l.

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Alcune simulazioni di progetto

In Ogliastra il terreno è aspro e normalmente montuoso: la regione si estende infatti nella zona centro-orientale della Sardegna tra il Golfo di Orosei ed il Monte Ferru, con le alture della Barbagia a schiacciare lingue più docili di terra verso il litorale tirrenico. Qui, al centro dell’Isola ed in prossimità dell’unico porto di rilievo, accanto ai moli di Arbatax in prossimità del mare si trova un’area destinata in secolo scorso ad attività estrattiva. Non solo graniti ma porfido s’ottengono da questo luogo di cava (con un click una foto storica), per altro nella sua qualità più tipica di colore rosso: nel nome risuona infatti la radice vera del porfido, comune alla natura porfirica ed alla porpora, dovuta alle cromie rosse comprese nell’impasto eminentemente vulcanico.
La cava risulta dismessa dai tempi tutto sommato recenti del completamento ai lavori del porto. Essa è in parte riassorbita visivamente dalla ruvidezza del paesaggio montano sardo sul lato del fronte di cava. Tra questa ed il litorale, il piano di cava è invece stato ricoperto da riporti al fine di rendere la superficie rapidamente utilizzabile. Da allora l’attività delle amministrazioni locali ha favorito per così dire il reintegro della zona, finalizzandola ad attività pubbliche tramite le quali ora la comunità locale ha familiarizzato con gli assetti recenti, preferendo la continuità nell’utilizzo alla semplice rinaturalizzazione vegetale. Particolarmente note sono le manifestazioni di musica blues nella scenografia delle Rocce Rosse.
Creare dunque per quest’area un assetto stabile utile alla fruizione pubblica è possibile, ma occorre in primo luogo porre in sicurezza un fronte di cava tanto naturale quanto, per così dire, vivo per via delle frequenti possibilità di movimento e frana, particolarmente dalle bordure più alte della scarpata poste ad un’altezza di circa 30 m sul mare. Seguendo quindi la traccia offerta dalla relazione tecnica fornitaci dallo studio incaricato dell’arch. Lixi, è stato eseguito un rilevamento litologico e geostrutturale di dettaglio della parete rocciosa cui ha fatto seguito, lungo le sezioni rappresentative, lo studio di simulazioni cinematiche relative alla caduta massi.

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Un’anticipazione del risultato finale (Click sull’immagine per una vista della scenografia naturale del luogo)

Le ipotesi delle traiettorie e l’andamento delle energie dei massi sono state eseguite su n° 7 sezioni, scelte tra le più rappresentative nei tratti considerati a rischio e utilizzando il metodo della caduta singola. (…) si è imposto, secondo normativa, un valore beta pari a 45° il massimo angolo d’inclinazione del versante sotto il quale avviene il passaggio da un moto di saltellamento a un moto di rotolamento; il raggio medio del masso come distanza minima per impedire di passare alla fase di saltellamento.
Per l’angolo d’uscita si è utilizzato il metodo “Random”; i punti di partenza della caduta sono stati posti in corrispondenza delle pareti, ipotizzando che il distacco possa avvenire ad altezze differenti, compresa quella più critica, ovvero dal bordo della scarpata.
La simulazione è avvenuta in due fasi: nella prima si è simulata la caduta senza la posa di barriere, nella seconda fase si è posizionata la barriera adeguando l’altezza al superamento per proiezione. Per ciascuna sezione sono state eseguite circa 100 simulazioni di caduta.

Il rilievo e le rielaborazioni d’analisi finalizzate al progetto hanno quindi permesso di censire zone diverse dell’area di cava, su cui intervenire nei modi più convenienti in funzione della specificità di ciascuno, quali fasciature, chiodature e reti ancorate nei tratti di fronte più aspro, mentre risultano più indicate sole barriere paramassi in rilevato a ridosso delle creste più basse, se non addirittura uniche risagomature del terreno finalizzate alla dissipazione dell’energia di rotolamento.
E’ anche in quest’ultimo modo che l’attività antropica e le caratteristiche del paesaggio naturale del sito s’intrecciano, per iniziare nuova fase di vita comune. Il progetto desidera infatti ora riplasmare, ora consolidare plasticamente il calpestio, sulla base di quanto emerge dal letto di cava preesistente. Le linee del nuovo piano in accostamento al litorale sfaccettano con tagli netti e distesi i dossi – parte naturali e parte artificiali – alle spalle del bagnasciuga, come a richiamare visivamente un nastro pieghettato ed appoggiato al terreno, con sensibilità vicina al fare artistico quale è quella dell’arch. Lixi. Anche in questo senso deriva al luogo un principio d’ordine, pur nell’articolazione e nelle peculiarità naturali dell’area specifica.
Nel medesimo gesto d’appropriazione al luogo mediante il piano orizzontale, i progettisti individuano ulteriore chiave della ricerca d’equilibrio col paesaggio. Complice anche la volontà di recupero dei materiali di scarto delle lavorazioni e delle graniglie ai piedi del fronte di cava, s’imposta una campagna di prove e schedature, finalizzata al reperimento delle sabbie di derivazione lapidea locale più adatte alla produzione ed all’invecchiamento di mattonelle di progetto, deputate alla ricopertura di tutti i nuovi piani di calpestio.

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Il fronte di cava

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Progetto:
Arch. Gaetano Lixi
Ing. Ginevra Balletto
Ing. Enrichetto Piroddi
Arch. Fabio Balia
Arch. Jorge Burguez

Cronologia progetto:
2004-2005

Localizzazione:
Arbatax

di Alberto Ferraresi

(Vai agli itinerari dell’Olgiastra)
(Vai alle informazioni su Arbatax)
(Vai al sito di Rocce Rosse blues)
(Vai al sito dello studio Lixi)

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27 Dicembre 2007

English

The Chancellor’s Block at the Universidade Nova in Lisbon (1998-1999)
Manuel and Francisco Aires Mateus*

Versione italiana

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Two specific features make the Aires Mateus brothers’ creation an exemplary one: the first is the urban value of this remarkable work, considering the potentially problematic historical setting of the neighbouring Jesuit College and Monsanto Park; the second is its institutional role within the city.
Moreover, there is also the innovative nature of the work in itself. The volumes in someway resemble the sculptures of the Basque artist, Chillida, in that the incisions cut into the solid object lend equal importance to both empty spaces and the material that contains these spaces. The architectonic volumes are clearly defined and solid, but at the same time ambivalent, for if we view them from particular angles, they resemble “thin sheets” positioned to envelope space, or appear open to the outside through narrow slits. This general framework also includes the use made of stone – the only material left in view, so as to lend character to this public space within the city.
A careful examination of the work reveals the underlying conceptual principle to be the continuity of those surfaces that generate the work from the urban and architectural points of view.
The Chancellor’s Block is a single, L-shaped volume with a constant width of eleven metres: the vertical side reaches up to the same height as the guttering of the adjacent Jesuit College, while its short side forms the horizontal basement platform at ground level. The two sides form a clear right-angle, which in turn redefines the existing spaces and their relationship with the building’s urban surrounds. The Block consists of a single volume clad in light-coloured stone. The elementary, sculptural form set into the slope renders the new university building part of the surrounding urban fabric.
The vertical volume hosts the offices, while the horizontal plateau structure – the roof of which constitutes the new square, while its façade consists of the monumental staircase – contains the entrances, the foyer, the meeting rooms and conference halls. In order to maintain spatial continuity between the two parts of the building, a hinge-like, full-height space linked to the foyer on the ground floor has been created.
Once inside the building, it is thrilling to walk across the large space that suddenly curves, changes direction and grows higher, up towards the light that spectacularly descends from the top of the vertical body of the building. On the outside, the harmonising tone renders the vertical volume lighter and more majestic, linking it permanently to the horizontal body; when viewed head on from the square, the three-dimensional solid is transformed into a series of two-dimensional surfaces (in truth, 45 cm. thick) furthered by the design of the horizontally-laid stone cladding. In metaphorical terms, a single curved sheet anchored to the blind side of the staircase, rises up vertically to the roof and then down again the other side (animated by the chiaroscuro of the wall openings) to ground floor level, and then continues at ground level to pave the square. In this way, the curved sheet, seen from the side, appears as a line, and thus renders the front of the staircase permeable and open: the “empty space” of the glassed loggia (letting in the light) on one side, the “plinthed” staircase of the square on the other.
The geometrical accuracy of the volumes, and the empty-full effects they produce, give the university complex a solid, unified appearance.
The stone surface of the cladding, consisting of 3 cm.-thick slabs, is the result of a fabric-like design (resembling that of certain stone paving) consisting of horizontal courses of various height and staggered vertical joints. The master stroke of this work consists in the openings, in the form of slits, cut into the surface of the emerging volume; the horizontal slits, from one side to another, in interrupting the stone plane, dictate both the figurative and the functional relationship between the wall, the basement and the square.
At the same time, in keeping with the continuity of the surfaces, the office windows facing out onto the square have been created by taking out a number of courses of stone and replacing them with sheets of glass mounted flush to the wall. This free façade reveals no reference to the load-bearing structures, which have been skilfully concealed in the background, thus giving the wall composition a design strongly influenced by “dark marks” of various thickness which, engraved into the material, spread out in a horizontal direction across the façade, with no hint of verticality. The variously-sized openings seem to belong to the stratification of the stone cladding, each positioned in an apparently random fashion, independent of the next. Behind the flush glass surfaces – that guarantee the continuity of the wall – the windows’ intradoses are of dark metal, and as such are an integral part of the set-back window frame. In this way, the layer of stone loses all thickness, and becomes an example of “pure decoration” – a positive symbol of the project as a whole.

Gabriele Lelli

* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

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Rettorato della Universidade Nova, Lisbona (1998-1999)
di Manuel e Francisco Aires Mateus*

English Version

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Veduta generale del Rettorato universitario

Due caratteristiche specifiche rendono esemplare l’opera dei fratelli Aires Mateus. La prima è legata al valore urbano dell’intervento: un’operazione insediativa molto delicata per la morfologia del luogo, per le preesistenze storiche del contesto come il Collegio dei Gesuiti e il parco di Monsanto; la seconda al ruolo istituzionale che l’edificio rappresenta per la città trattandosi del Rettorato della Universidade Nova di Lisbona.
Alto valore disciplinare assume, poi, in sè, la carica innovativa dell’opera. I volumi raccolgono lo spazio come le sculture del basco Chillida dove le incisioni nel pieno assegnano pari importanza ai vuoti rispetto alla materia che li contiene. I corpi architettonici sono chiari e ben saldi, ma anche ambivalenti e si trasformano – se traguardati da particolari angolazioni dello spazio urbano – in “fogli sottili” posti ad avvolgere lo spazio, oppure ad “aprirsi” attraverso sottili fessure. In questo quadro generale s’iscrive l’uso della pietra, l’unico materiale declinato a vista per dare carattere e permanenza a questo luogo pubblico della città.
Ad un’analisi attenta si coglie il principio che alimenta la concezione dell’intero intervento affidato alla continuità delle superfici che generano l’opera sotto due aspetti: urbano e architettonico.
Nella soluzione avanzata dai Mateus il Rettorato è un unico corpo di fabbrica (caratterizzato da un volume con spessore costante di undici metri) piegato ad L con il lato verticale alto fino alla gronda dell’adiacente Collegio dei Gesuiti e il lato corto posto a formare la piattaforma basamentale orizzontale adagiata sul terreno. Un angolo retto, chiarissimo in sezione, che ridefinisce chiaramente gli spazi esistenti e i rapporti urbani. Un unitario volume rivestito omogeneamente di pietra chiara. La forma scultorea, elementare, incastrata nel pendio, rende la nuova istituzione universitaria parte dell’orografia urbana circostante.
Il volume verticale accoglie gli uffici mentre il plateau orizzontale, che assume come copertura la piazza e come fronte la scala monumentale, contiene funzioni diversificate: ingressi, foyer, sale riunioni e sale conferenze. Al fine di mantenere la continuità spaziale fra i due corpi di fabbrica viene strutturato, nel punto di cerniera, uno spazio articolato a tutta altezza collegato allo spazio fluido del foyer al piano terra.

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La suggestiva captazione della luce zenitale

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Spazi di distribuzione interni

All’interno si riceve l’emozione di percorrere un grande spazio orizzontale che si ripiega, improvvisamente, a cambiare direzione e sviluppo per essere proiettato in alto, verso la luce fatta discendere scenograficamente dalla sommità del corpo verticale. All’esterno, l’intonazione perentoria, rende il volume verticale più leggero e maestoso allo stesso tempo legandolo indissolubilmente con quello orizzontale; il solido tridimensionale si trasforma – se guardato frontalmente dalla piazza – in “superfici bidimensionali” (in realtà spesse 45 cm) alimentate dal disegno del rivestimento litico in lastre orizzontali. Metaforicamente un unico foglio ripiegato che – agganciato al lato cieco della rampa – sale verticalmente, chiude la copertura in alto, scende (animato dai chiaroscuri degli sfondamenti parietali) fino al piano terra, continuando, poi, con la superficie del suolo, nella pavimentazione della piazza. In questo modo il foglio ripiegato, visto lateralmente, è una linea e rende il fronte della gradinata permeabile ed aperto: da un lato, il vuoto della loggia vetrata e filtrante verso l’interno; dall’altro la scalinata, “stilobate” della piazza.
La precisione geometrica dei volumi e gli effetti pieno-vuoto che ne derivano favoriscono una lettura unitaria e solida della complessità del polo universitario.
La superficie lapidea del rivestimento, ottenuto con lastre di spessore di 3 cm, è costruita attraverso un disegno tessiturale (che ricorda le pavimentazioni in pietra a correre) impostato su corsi orizzontali con altezze differenziate e giunti verticali sfalsati. Il tocco magistrale di questo intervento si condensa nelle aperture in forma di tagli praticati sulla superficie del volume emergente; le incisioni orizzontali, da parte a parte, interrompendo virtualmente il piano litico risolvono – figurativamente e funzionalmente – anche il rapporto fra parete, basamento e pavimento della piazza.

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Scorci del volume verticale che contiene gli uffici del Rettorato

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Contemporaneamente, nello spirito della continuità delle superfici, le aperture degli uffici sulla facciata prospiciente piazza sono ricavate sostituendo direttamente alcuni tratti di corsi orizzontali di pietra con lastre di vetro a filo. Nella “facciata libera” così concepita, viene abolito ogni riferimento alle strutture portanti, sapientemente poste in secondo piano, assegnando alla composizione della parete, una connotazione grafica fortemente debitoria dei “segni scuri”, di diverso spessore, che incisi sulla materia si distendono con ritmo orizzontale sul fronte respingendo ogni riferimento alla verticalità. Le aperture, di altezze diverse, sembrano appartenere alle stratificazioni litiche del rivestimento distribuite liberamente ignare l’una dell’altra. Dietro il vetro a filo, che garantisce la continuità parietale, gli imbotti delle finestre sono di metallo scuro e risultano parte integrante dell’infisso arretrato. In questo modo lo strato litico perde ogni spessore diventando “grafica pura” e felice icona dell’intervento.

Gabriele Lelli

*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

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23 Dicembre 2007

Ri_editazioni

RACCONTI DI PIETRA*
Madre, Abraccio, Casa, Forza, Silenzio, Rispetto, Bellezza, Architettura, Unicità, Patrimonio non rinnovabile

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Foto Palmalisa Zantedeschi

Abbraccio
Una tenue carezza, un lieve tepore, amicizia, amore.
Camminando per le assolate vie di campagna costeggio bianchi muri di pietra su cui giacciono, immobili e svagate, lucertole insonnolite. Le fronde rade e cadenti dei salici mi attorniano, mentre una mano leggera sento che si poggia sulla mia spalla. Mi volto e non vedo nessuno, mi guardo intorno: sola.
Il frusciare dei pioppi nell’aria odorosa di vento alimenta il mio respiro, indirizza il cammino e segna il mio destino. Fra realtà e fantasia, fervida immaginazione si confonde con inquieto e presente pensare, creando palpitazioni, accesi focolai di gioie e dolori.
È il sole che mi cinge e mi avvolge, cullandomi nel suo infinito essere astrale. Mistero e poesia, spensieratezza e malinconia: un abbraccio sublime, soffice e nebbioso come l’aria di primavera, soave, affettuoso e suadente come un candido petalo in fiore. Nel suo felice connubio rivivo primordi di vita e passione, attimi di esistenza segreta nascosti dietro tremori e paure, rubati alla tristezza per seguire un sentiero comune.
Non sono più sola: intorno a me c’è luce, calore profondo che irradia il mio volto come quello di mille altre persone, fascio di stelle che si poggia lieve sulla natura e sul creato, indistintamente. Non valgono razze, generi e stili; ogni diversità si stempera e si acquieta nella magia di un’anima universale, che restituisce dignità e presenza, diritto di esistenza.
Ma improvviso mi sorge un dubbio, mi attanaglia un irrisolto pensiero:
“Amante segreto e universale, che regali armonia, dispensi pace e tranquillità, chi ti ha mandato sulla terra? Chi ti ha indicato la strada, sporca e fangosa, ripida e impervia, per giungere al nostro umile, disprezzato e crudele mondo?”
Un bianco afflato di nuvole risponde, facendo spirare tiepido scirocco africano e fresco maestrale dal sapore di mare:
“Ho scelto con ardore di donare ogni mio raggio e ogni mio bagliore a voi. Che il mio abbraccio vi porti consiglio, che la consapevolezza del mio sentire infonda in voi clemenza e bontà. Che vi aiuti a far nascere dalla terra ricchi frutti, con i quali sfamare popoli bisognosi. Il fuoco che splende in me alimenti le vostre case, bruci la vostra legna e nutra le vostre affaticate membra. Ma bando alla cattiveria e al dolore! Che fra di voi non ci siano mai conflitti e ostilità, ma solo quiete e integrazione. Che il mio dolce amplesso vi ispiri, che possiate stringervi, proteggervi l’un l’altro scacciando il freddo di solitudini e incomprensioni, vincendo ogni affanno e preoccupazione.”
“E come faremo, mio intrepido signore, a spezzare le forti catene della nostra incivile ostinazione, che ci comanda ricchezza a tutti i costi, successo anche a mezzo di prevaricazione?”
“Ricetta universale purtroppo non v’è, per l’ascesi fino al sommo piacere; ma mi appello al vostro buon cuore, e che sia di buon auspicio l’augurio che vi faccio: predico un futuro roseo, col solo, nobile gesto di un semplice abbraccio.”

Nicoletta Gemignani

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* Racconti di pietra, testi di Alfonso Acocella e Nicoletta Gemignani, foto di Palmalisa Zantedeschi

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20 Dicembre 2007

Interviste

Si torna sempre da Bell*

Ogni visita alle opere dello scultore canadese di origine irlandese rivela nuovi dettagli

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Intervista a cura di Stefano De Franceschi

Robin Bell nasce a Seaforth, Ontario, nel 1949. Dopo le prime esperienze lavorative in patria, si trasferisce a Carrara per apprendere la scultura del marmo. Dopo un breve ritorno a Ottawa, torna in Italia e dal 1974 lavora in Versilia dove vive con la moglie e le figlie in una vecchia casa ristrutturata attorniato dagli ulivi sulle colline di Pietrasanta.

Stefano De Franceschi: Per un appassionato di sport come il vostro cronista, la curiosità suscitata dalla statua di un portiere di hockey è irresistibile. Salendo, infatti, verso la casa di Robin Bell sulle colline a ridosso di Pietrasanta, nel viale d’ingresso si intravede l’inquietante figura del giocatore.
Robin Bell: Si tratta del tributo a Ken Dryden, famosissimo portiere dei Montreal Canadians della National Hockey League – in Canada è lo sport nazionale -, che si è laureato in legge durante l’attività agonistica ed oggi è membro del parlamento. E’ famoso in Nord America come da voi lo è Dino Zoff. La statua, in bronzo, chiamata “The Goalie” si trova a Montreal, nel Quebec e la postura è quella che Dryden era solito tenere sempre in partita, a disco lontano, sia che la sua squadra vincesse, sia che perdesse; nel primo caso, questa posizione di attesa, di sfida, innervosiva molto gli avversari…”.

S.D.F.:
Durante gli studi universitari pensava che si sarebbe occupato di cinema. Come è avvenuta la “conversione” all’arte?
R.B.: Frequentavo il corso di laurea in lettere antiche all’Università di Toronto e fra gli studenti miei amici c’erano anche alcuni aspiranti attori che mi convinsero a fare il regista. Subito, però, mi rendo conto che non era questa la mia strada: troppi interventi di altre persone ed io non avevo il controllo totale del lavoro. Un giorno, ad una festa, incontro uno scultore giapponese di steatite, una pietra da cui si estrae il borotalco e che può essere usata come lubrificante solido, detta infatti “soap-stone” per la sua untuosità. Rimango colpito e il giorno successivo acquisto gli attrezzi che mi permettono di realizzare in poche ore la mia prima opera, mentre oggi mi sono necessari almeno due anni. Divento poi apprendista dello scultore Bruce Gardner, (da cui apprendo i primi rudimenti nella lavorazione del bronzo) che mi spedisce ad imparare il mestiere dal suo amico Bart Uchida a Carrara, dove mi fermo 6 mesi a lavorare il marmo. Ritornato a Ottawa per riguadagnare qualche soldo, ritrovo Bart a Pietrasanta nel 1974, e da allora non mi sono più mosso.

S.D.F.: Deve dunque molto ai maestri artigiani di Pietrasanta…
R.B.: I riflessi dei loro insegnamenti sul mio lavoro sono tanti. Un operaio in fonderia una volta mi disse: “Se è curato l’orlo interno dei pantaloni vuol dire che la scultura è fatta bene”. Voglio sempre rifinire le mie opere alla perfezione, in tutte le minime parti, anche quelle che non si vedono. Cerco sempre di mettere dei particolari che si notano solo alla seconda o terza visita della mia scultura, qualcosa da scoprire ogni volta. In laboratorio a Pietrasanta ho imparato anche una altra regola: un bozzetto può essere ingrandito quattro volte. Dalla quinta volta in su occorre un nuovo bozzetto più grande. E’ una questione di numeri, puoi fare matematica solo all’inizio, poi i numeri delle dimensioni, degli spazi e delle proporzioni ti sfuggono”.

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Robin Bell. Tributo a Ken Dryden

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Robin Bell. La balena franca

La Right Whale deve il suo nome alle antiche popolazioni che la cacciavano per sopravvivere: essa infatti vive vicino alle coste, resta a galla una volta uccisa e quando catturavi un piccolo il resto del branco entrava nella baia per cercarlo e soccorrerlo, facilitando il lavoro dei cacciatori.
L’opera, chiamata “Open Sea”, si trova nel più grande centro commerciale del mondo, il West Edmonton Mall.
“La committenza – dice Robin – voleva qualcosa attinente all’elemento acqua, tema ricorrente del centro: al suo interno ci sono fontane, acquari, riproduzioni storiche di navi, percorsi turistici sottomarini. In origine si pensava ad un coccodrillo ma poi la scelta è caduta sulla balena. I miei studi mi hanno portato alla “Right Whale”, una razza in via d’estinzione presente nel Pacifico e nell’Atlantico, oceani su cui si affaccia il Canada. All’interno della scultura si trova una panchina e sulla pancia- parete ho inciso dei “geroglifici” che rappresentano una tribù a caccia di balene. Lo scheletro del mammifero l’ho trovato a Pisa, nei magazzini del Dipartimento di Biologia Marina dell’Università; la stavano portando al Museo di Storia Naturale della Certosa, a Calci. Ho approfittato dell’occasione e mi sono messo a prendere le misure della testa, della mandibola e del teschio. Ho fatto un modello di creta, la forma in gesso e sopra il gesso ho rimesso la creta. Così ero sicuro della proporzione anatomica delle misure”.

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Robin Bell. Il nido dell’aquila

“Un industriale inglese, E.D. Healey, mi ha chiesto per la sua casa in Portogallo di creare una grande aquila in bronzo. Ho scelto quella reale perchè ha nobili comportamenti. Nelle ricerche preliminari al lavoro, ho verificato che mai ne era stata scolpita una che cammina con le ali spiegate nella fase di chiudere le ali.
Ha più di dodici tipi di piume diverse; così anch’io le ho scolpite tutte diverse l’una dall’altra”.
Ho anche scoperto, tra l’altro, che negli Stati Uniti esistono due ditte specializzate nella vendita di scheletri di animali. Il teschio è più importante di una foto perchè è come una road-map che indica l’angolazione degli occhi, la direzione del becco, la profondità e la misura esatta delle proporzioni”.

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Il giardino degli eroi
Felix Dennis, magnate dell’editoria (Maxim, Men’s Fitness, Custom PC), ha creato in Inghilterra, nel Warwickshire, un giardino privato con le statue degli eroi dell’ultimo secolo. Due le opere di Bell che vi si trovano: Winston Churchill e Robert Crumb
“Sono molto pignolo nella ricerca storica dei soggetti. Ho letto tremila pagine sulla vita di Churchill, comprato ogni video che lo riguarda. Tutti, compresa mia moglie, mi hanno dato del matto. Ma alla fine sapevo esattamente quello che dovevo fare”.
“Ho scoperto che lo statista inglese portava solo papillons a pois, mai cravatte. Sul pomello del bastone ho inciso la sua data di morte”. “Intanto mai cedere terreno, mai stancarsi, mai disperare”.
Ultimo discorso in Parlamento di Winston Churchill, nel 1955. Incisione sulla base dell’opera.
Il bassorilievo di Bell riguardante Robert Crumb, famoso autore statunitense di fumetti che ha lavorato per la rivista underground “Oz” di Felix Dennis. Denunciato nel 1971 per aver pubblicato fumetto osceno riguardante la Regina d’Inghilterra, la casa editrice viene prima condannata ma poi assolta in appello. Il caso divenne molto famoso e da quel giorno in poi fu il termine di paragone per la censura inglese su cosa poteva essere pubblicato o meno.

*Il post è una rieditazione dell’articolo pubblicato in VersiliaProduce n.58 dicembre 2007.

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19 Dicembre 2007

Principale

L’Abbazia del Goleto premiata al Concorso Nazionale “Intraluoghi”

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Goleto, la nuova piazza di notte

Il progetto Integrato dell’Abbazia del Goleto, da poco ultimato in Altairpinia, è stato premiato al Concorso Nazionale per Architetture realizzate “INTRALUOGHI” promosso dagli Ordini di Genova, Avellino e Vicenza con il Consiglio Nazionale degli Architetti.
Il Progetto Integrato ABBAZIA del GOLETO, realizzato nell’ultimo triennio, è stato co-finanziato da diverse “misure” del POR Campania 2000-2006. Sui millenari luoghi dell’ex cittadella monastica , l’intervento ha mirato a connettere azioni sia di tipo pubblico che privato, con l’obiettivo di riqualificare e attrezzare per una fruizione multi-culturale luoghi che versavano in stato di abbandono e degrado. Completamento, restauro e adeguamento funzionale dell’Abbazia, recupero dell’invaso spaziale antistante dedicato a P.Lucio M. De Marino, Wine bar: tematiche e scale progettuali diverse; restauro, arredo urbano, architettura d’interni, comunicazione integrata; nuovi segni di Architettura premiati per l’interpretazione di un luogo di stratificazione millenaria, ancora oggi in perenne trasformazione.
Intraluoghi “intende promuovere l’architettura che si confronta con influssi territoriali, culturali, sociali -spiega il Coordinatore nazionale Arch. Natale Raineri- L’architettura che fa territorio nel territorio, ossia lo modifica facendo interagire la memoria dei luoghi con le dinamiche dell’oggi”. L’obiettivo lo evidenzia l’Arch. Ibleto Fieschi, Vice Presidente dell’Ordine degli Architetti di Genova e curatore della Mostra: “Premiare opere di architettura che, pur se realizzate con linguaggio moderno e tecnologie innovative, evocano lo spirito del luogo e le tradizioni costruttive storiche proprie del territorio” .

Questa la motivazione del Premio:
“Il Progetto Integrato attuato al Goleto ha coinvolto e reinterpretato numerose parti del complesso monastico e degli spazi rurali correlati, stabilendo un dialogo con il luogo, creando nuovi spazi, nuovi suggestioni, nuovi percorsi, nuove visioni, nuovi luoghi. I nuovi manufatti realizzati, tutti di natura artigianale, disegnati e lavorati in cantiere, con materiali del luogo, si integrano con il territorio, reintrepretandone la natura e la storia in un nuovo scenario contemporaneo”.

E’ un risultato importante per il nostro territorio –spiega Angelo Verderosa, architetto progettista e direttore dei lavori con l’ausilio di Giovanni Maggino e Franco Archidiacono- L’Abbazia è il progetto portante del P.I. Valle dell’Ofanto ed è il portale d’ingresso del sistema turistico dell’Alta Irpinia; i lavori sono stati portati avanti grazie ad uno sforzo corale da parte delle maestranze, delle imprese e della committenza“.
Luigi D’Angelis, responsabile del procedimento per il Comune di S.Angelo dei Lombardi, aggiunge: “E’ la prima opera pubblica, finanziata dai fondi europei 2000-2006 ad essere ultimata nei tempi previsti dall’appalto e senza contenzioso con le imprese. Ed è significativo che sia stata premiata in un Concorso che ha selezionato a livello nazionale opere realizzate con grande qualità di architettura“.
La Mostra dei 50 progetti selezionati dal Concorso ‘Intraluoghi’ si è aperta a Genova al Palazzo della Borsa nello stesso giorno della Premiazione, 6 dicembre 2007. La mostra proseguirà per Palermo nel mese di Gennaio. A Febbraio sarà a Vicenza, a Marzo sarà ad Avellino.

Maggiori informazioni su:
www.intraluoghi.it
www.flickr.com
www.europaconcorsi.com/pro/verderosa

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19 Dicembre 2007

Eventi

Le più innovative finiture dei materiali lapidei

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Clikka sull’immagine per scaricare il pdf

“Le più innovative finiture dei materiali lapidei”
Sabato 12 Gennaio 2008, ore 10.00.

Interventi di
Prof. Arch. Alessandro Ubertazzi, Ordinario Facoltà Architettura Firenze
Dott. Annamaria Ferrari, Consulente Geologico
Prof. Arch. Alfonso Acocella, Ordinario Facoltà di Architettura Ferrara
Giovanni Bonfiglio, Presidente di “Finitura e Oltre”, Bergamo
Prof. Arch. Giuseppe Lotti

Programma:
Ore 9.45 Accoglienza partecipanti

Ore 10.00 Saluto Introduttivo
Sig. Giuliano D’Angiolo
Presidente Cosmave

Presentazione del Convegno: Un nuovo volto della pietra
Prof. Arch. Alessandro Ubertazzi
Ordinario di Disegno Industriale alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze e alla Facoltà di Ingegneria degli Studi di Brescia

I materiali lapidei
Dott. Annamaria Ferrari
Consulente Geologico

La Magia delle Superfici Litiche
Prof. Arch. Alfonso Acocella
Ordinario di Tecnologia dell’Architettura alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara

Ore 11.30 Break

Ore 12.00 Nuovi scenari del settore produttivo delle finiture
Sig. Giovanni Bonfiglio
Presidente dell’evento fieristico “Finitura e Oltre” a Bergamo e Vice Presidente della UCIF (Unione Costruttori Impianti di Finitura)

Ore 12.30 Attese ed innovazione nel settore lapideo
Prof. Arch. Giuseppe Lotti
Ricercatore e Docente presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze

Ore 13.00 Conclusioni del moderatore
Prof. Arch. Alessandro Ubertazzi

Durante il convegno sarà a disposizione per parlare della finitura effetto carezza il sig. Daniele Scasserle, Responsabile divisione abrasivi Tenax S.p.a.

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Dal Giallo Antico al Giallo di Siena.
La fortuna dell’oro litico*

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Dettagli di marmi antichi caratterizzati da una pigmentazione dominante giallo-dorata.

L’occasione di dedicare una giornata di studi alle pietre ornamentali toscane è utile per focalizzare l’attenzione sul Marmo Giallo di Siena a partire da una rapida “incursione” nel mondo dei marmi antichi, di quei litotipi che da sempre hanno dischiuso agli occhi dell’uomo un universo policromatico stupefacente, alimentando una sofisticata e a tratti sfrenata creatività, suscitando sentimenti di ammirazione e offrendo materia colorica preziosa per ostentazioni di opulenza e potere.
Seguendo in particolare le tracce del giallo si va alla ricerca di una tinta largamente apprezzata nell’antichità, considerata unitamente al rosso prerogativa dei governanti, richiamo diretto all’immagine dell’oro, del sole e della luce, simbolo di visibilità, di lusso e di forza; colore cardine quindi della tavolozza delle cerimonie ufficiali come anche di quelle private, dei trionfi militari, delle incoronazioni, dei matrimoni1.
Nel passato si ritrovano numerosissimi marmi caratterizzati dalla predominanza della pigmentazione gialla, e primo tra tutti il Giallo Antico, pregiatissimo e ricercatissimo, che compare nell’Editto di Diocleziano del 301 d.c. come uno dei litotipi più costosi assieme al Porfido Rosso Imperiale2. Cavato nei dintorni di Chimtou nell’attuale Tunisia e anche detto Marmo Numidico, il Giallo Antico è celebrato da Plinio il Vecchio come un materiale compatto di grana finissima, lavorabile e resistente, dalla ricchissima gamma di sfumature che va dai gialli intensi aranciati, ai paglierini più pallidi e tenui, ai venati, ai brecciati e nuvolati3.

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Vista interna del Pantheon con il rivestimento parietale e le colonne in Giallo Antico.

Il Giallo Antico si diffonde in tutto l’Impero, soprattutto nella penisola italiana, ma anche in Francia, e nelle capitali d’oriente: fra le opere monumentali più emblematiche in cui trova applicazione nell’antichità si ricordano i teatri di Arles e di Orange, il Ginnasio di Smirne, il Ginnasio fatto costruire dall’imperatore Adriano ad Atene ed infine il Pantheon romano che ancora oggi mostra al suo interno una cospicua presenza di marmo giallo in forma di grandi lastre di rivestimento e di imponenti colonne monolitiche.
Accanto all’utilizzo nelle grandi architettura pubbliche, il Giallo Numidico è impiegato capillarmente e con continuità nei preziosi e policromatici sectilia pavimenta4 delle più sontuose residenze patrizie romane, per arrivare poi – dopo un periodo di declino nel Medioevo dove nell’immaginario cromatico il giallo diviene il colore del male, della menzogna e dell’infamia – ad una ulteriore stagione di successo con la riabilitazione dei litotipi gialli in epoca tardorinascimentale e barocca, allorquando fiorisce il commercio dei marmi di spoglio e il Giallo Antico ritorna ad essere protagonista in architetture d’interni fatte di intarsi e macromosaici e come sfondo di membrature architettoniche e modellati scultorei. Realizzazioni romane quali l’ Estasi di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria (1650 circa) di Gian Lorenzo Bernini o il monumento funebre di Luca Olstenio in Santa Maria dell’Anima (1660 circa) dimostrano come tale pietra sia ampiamente declinata in svariate applicazioni architettoniche, scultoree, decorative.

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Palazzo Corsini a Firenze. Dettaglio di colonne in Giallo Antico.

Tra l’ultimo quarto del XVI secolo – grazie all’impulso in tal senso dato dalle importanti committenze papali romane – per tutto il XVII secolo, non c’è chiesa in Italia che non registri la presenza di commessi in marmi di spoglio e in particolare, accanto ai verdi e ai rossi, di marmi antichi gialli – oltre al Giallo di Numidia, i Portasanta, gli Astracani, le Brecce Gialle o Dorate, gli aurei Alabastri Egiziani – come anche non c’è famiglia, tra Maniera cinquecentesca e affermazione del gusto barocco, che rinunci ad esibire marmi gialli nella propria cappella gentilizia o nel proprio palazzo, assegnando loro il valore simbolico di un recupero di una “romanità dorata”, sfarzosa e opulenta.
Tale richiamo di una romanità che passa anche attraverso l’affermazione di un colore rappresenta il passaggio chiave che permette di giungere a rintracciare e ad osservare nella Storia dell’Architettura il Giallo di Siena. Si è detto dell’ampio utilizzo di marmi antichi gialli praticato da committenti privati tra Cinquecento e Seicento: tra i numerosi casi spicca quello dei Corsini a Firenze, famiglia con un “versante” romano rafforzato da stretti legami con la curia papale, che nella sua grandiosa residenza seicentesca sul lungarno esibisce stupendi pezzi di spoglio in Giallo Antico, testimoniando nella capitale medicea di un culto per questo “oro litico” assimilato dalla dinastia granducale nella realizzazione delle Cappelle dei Principi in San Lorenzo ma restituito attraverso il cromatismo giallo di un nuovo marmo, autoctono, toscano, il Giallo di Siena cavato sulla Montagnola Senese.

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Cappella dei Principi in San Lorenzo a Firenze. Al centro il sepolcro di Cosimo II de’Medici.

Sono ancora una volta contenuti e significati di matrice antica, legati all’universo policromatico dei marmi, a ritornare in questo sepolcreto familiare, simbolo di un’esaltazione medicea per cui Don Giovanni de’ Medici e Matteo Nigetti pensano all’inizio del ‘600 una seduttiva fodera litica interna, un caleidoscopico firmamento minerale fatto di pietre a cui si affidano addirittura virtù magiche. Sul fronte estrattivo i granduchi promuovono una vera e propria politica autarchica delle pietre: si attivano nuove cave o si incentivano attività estrattive già esistenti di materiali quali il Mischio di Seravezza, gli alabastri e i diaspri toscani, il Giallo di Siena, appunto, che entra così nel mito delle pietre medicee per restarvi a lungo e a pieno titolo, particolarmente apprezzato nell’impresa tecnologicamente avanzata di taglio e posa del rivestimento della Cappella (impresa che si concluderà soltanto nell’Ottocento inoltrato) per le sue qualità tecniche e per il suo colore saturo e intenso5.
Da questo momento la fortuna del Giallo di Siena cresce ininterrotta grazie al diffusissimo impiego che ne fa la manifattura granducale fiorentina dell’Opificio delle Pietre Dure nella realizzazione di commessi figurati destinati alla realizzazione di decorazioni architettoniche, elementi di arredamento e oggetti preziosi6.

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Basilica di San Giovanni Bosco a Roma. Vista di un altare sullo sfondo del rivestimento parietale in Giallo di Siena.

Seguendo le orme di questo marmo senese attraverso opere esemplari per rintracciarne la presenza e identificarne i campi applicativi tradizionali, come è stato fatto per il Giallo Antico tra antichità e rinascenza, con un ulteriore salto temporale imposto dal taglio di questo contributo destinato ad approfondimenti futuri, è possibile ritrovare tale litotipo in un’opera di architettura del secondo dopoguerra, appartenente ad una contemporaneità comunque ispirata da una monumentalità antica, ancora una volta “romana”, pervasa da una sacralità austera eppure magniloquente e sfarzosa.
Si tratta della Basilica di San Giovanni Bosco sulla Via Tuscolana a Roma, portata a termine fra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60 del Novecento su progetto di Gaetano Rapisardi7. In questo pantheon dei Salesiani 4.000 metri quadrati di lastre di Giallo di Siena posate a macchia aperta foderano lo spazio sacro come prezioso sfondo agli altari e ad una selva di pilastri rivestiti in Rosso Orobico. L’opera del Rapisardi è emblematica dell’orizzonte applicativo contemporaneo del Giallo di Siena che ancora oggi è considerato insuperabile a livello mondiale per colore e grana cristallina, e trova impiego privilegiato in rivestimenti interni, stesure pavimentali e opere di decorazione.

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Dettagli di una lastra e di un traforo in marmo Giallo di Siena.

È importante sottolineare che l’universo cromatico del marmo senese si presenta estremamente ricco di varianti e sfumature: la limonite ocracea variamente dispersa nella massa calcitica che compone questo litotipo può infatti dar vita a sfumature avorio, grigio perla, rosate e a tessiture più o meno fittamente striate o broccate8.
Attualmente il mondo produttivo del Giallo di Siena è fatto di alcune cave, ancora aperte sulla Montagnola nell’attuale territorio comunale di Sovicille, dove il marmo viene estratto in forma di piccoli blocchi direttamente instradati verso il mercato nazionale o i mercati esteri, primi fra tutti quello americano e quello arabo. I blocchi vengono perlopiù trasformati lontano dai luoghi di estrazione, nei due poli dell’industria lapidea di Carrara e Verona o, appunto, all’estero, fino ad ottenere semilavorati o prodotti finiti anche di grande raffinatezza e per la maggior parte destinati ad un target commerciale elevato.

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Chiesa del Corpus Domini nel quartiere San Miniato a Siena di Augusto Mazzini. Dettaglio dello zoccolo in Giallo di Siena che circoscrive lo spazio liturgico.

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Casa privata a Milano di Attilio Stocchi. Dettaglio del pavimento in marmi colorati tra cui spicca una lista in Giallo di Siena.

Grazie ad innovative tecniche di preconsolidamento che ne migliorano la lavorabilità, il marmo senese si presta oggi ad una gamma pressochè illimitata di lavorazioni e trattamenti di finitura che includono anche tecniche di incisione e traforo estremamente complesse. Così, come dimostrano alcune opere recenti di Augusto Mazzini e Attilio Stocchi, il Giallo di Siena è un’alternativa materica praticabile e pienamente inscrivibile nel progetto d’architettura contemporaneo e rappresenta una delle risorse più pregiate del ricco mondo litologico toscano, suscettibile di una rinnovata valorizzazione e di un ulteriore, oculato, sfruttamento.

di Davide Turrini

Note
* Il post qui pubblicato è un estratto della relazione presentata dall’autore al Convegno “Pietre ornamentali di Toscana. Tra magisteri tradizionali e innovazioni nel mercato globale” tenutosi il 1 settembre 2007 a Rapolano Terme (SI).

1 Si veda Michel Pastoureau, Dominique Simonnet, Il piccolo libro dei colori, Firenze, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 107.
2 L’Editto di Diocleziano (Edictum de maximis pretiis rerum venalium) è un calmiere sui prezzi dei generi di lusso promulgato dall’imperatore romano nel 301 d.c. Attraverso tale documento è possibile ricostruire il valore di 19 varietà di marmi antichi nella Roma imperiale. In proposito si veda Giorgio Blanco, “Editto di Diocleziano” p. 74, voce in Dizionario dell’architettura di pietra, vol I, Roma, Carocci, 1999, pp. 300.
3 Sui marmi antichi si rimanda all’imprescindibile Raniero Gnoli, Marmora romana, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1988, pp. 374, a cui si aggiungono i numerosi e importanti contributi di Enrico Dolci, Dario del Bufalo e Caterina Napoleone. Si ricordano in ordine cronologico per anno di pubblicazione: Enrico Dolci (a cura di), Il marmo nella civiltà romana, la produzione e il commercio, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine, 1989, pp. 182; Enrico Dolci, Leila Nista (a cura di), Marmi antichi da collezione. La Raccolta Grassi del Museo Nazionale Romano, Carrara, 1992, pp. 94; Caterina Napoleone (a cura di), Delle pietre antiche. Il trattato sui marmi romani di Faustino Corsi, Milano, Franco Maria Ricci, 2001, pp. 167; Dario Del Bufalo, Marmi colorati. Le pietre e l’architettura dall’Antico al Barocco, Milano, Motta, 2003, pp. 167.
4 Sull’opus sectile pavimentale o parietale si veda la consistente bibliografia di studiosi quali Giovanni Becatti e Federico Guidobaldi. Per un primo approccio al tema si rimanda a Federico Guidobaldi, “Sectilia pavimenta e incrustationes: i rivestimenti policromi pavimentali e parietali in marmo o materiali litici e litoidi dell’antichità romana” pp. 15-76, in Annamaria Giusti (a cura di), Eternità e nobiltà di materia. Itinerario artistico fra le pietre policrome, Firenze, Polistampa, 2003, pp. 270; si veda inoltre Alfonso Acocella, “L’opus sectile policromatico romano” pp. 374-393, in L’architettura di pietra. Antichi e nuovi magisteri costruttivi, Lucca-Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 623.
5 Per un approfondimento sulla Cappella dei Principi in San Lorenzo a Firenze si veda il recentissimo contributo di Alessandro Rinaldi, “San Lorenzo” pp. 389-391, scheda in Mario Bevilacqua, Giuseppina Carla Romby (a cura di), Atlante del Barocco in Italia. Firenze e il Granducato, Roma, De Luca, 2007, pp. 668. Cfr. anche Umberto Baldini, Anna Maria Giusti, Anna Paula Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Milano, Electa, 1979, pp. 355.
6 Sul commesso di pietre dure e sulla storia dell’Opificio fiorentino si vedano: Ferdinando Rossi, Pitture di pietra, Firenze, Giunti Martello, 1984, pp. 170; Annamaria Giusti (a cura di), Splendori di pietre dure: l’arte di corte nella Firenze dei Granduchi, Firenze, Giunti, 1988, pp. 280; Annamaria Giusti, “Da Roma a Firenze: gli esordi del commesso rinascimentale” pp. 197-230 e Annamaria Giusti, “Da Firenze all’Europa: i fasti delle pietre dure” pp. 231-270, entrambi in Annamaria Giusti (a cura di), Eternità e nobiltà di materia. Itinerario artistico fra le pietre policrome, Firenze, Polistampa, 2003, pp. 270.
7 er un approfondimento sull’edificio si veda Ruggiero Pilla, La Basilica di San Giovanni Bosco in Roma, Torino, Società Editrice Internazionale, 1969, pp. 247.
8 Per un inquadramento generale riguardante i marmi gialli senesi Cfr. Giorgio Blanco, “Marmi gialli di siena” p. 132, voce in Dizionario dell’architettura di pietra, vol I, Roma, Carocci, 1999, pp. 300. Si veda anche l’accenno ai marmi di Siena alle pp. 287-288 di Francesco Rodolico, Le pietre delle Città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 501.

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