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17 Ottobre 2008

Principale

Villa Muggia. Un capolavoro del moderno – PROROGATA

Mostra e convegno

La mostra
Imola, Museo di San Domenico, 11 ottobre 02 novembre 2008
inaugurazione: sabato 11 ottobre 2008, ore 17.30
apertura: giovedì, sabato e domenica, ore 16.00-19.00

Realizzazione
Segni del moderno, Imola
Archivio Piero Bottoni, Dpa, Politecnico di Milano
Do.Co.Mo.Mo. Italia
in collaborazione con
Città di Imola, Assessorato alla Cultura, Musei Civici
con il patrocinio di
Regione Emilia Romagna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali
con il contributo di
Fondazione Cassa di Risparmio di Imola
Cooperativa Ceramica d’Imola
Cesi, Impresa generale costruzioni, Imola

Prima sezione
Piero Bottoni a Bologna e Imola: casa, città, monumento. 1934-1969
La sezione, curata da Giancarlo Consonni e prodotta dall’Archivio Piero Bottoni, documenta la vicenda culturale e professionale di Bottoni nell’area bolognese dove egli realizza alcune delle sue architetture più importanti: Villa Muggia e gli edifici annessi nel podere Bel Poggio a Imola (1936-38, con Mario Pucci per la sola villa); il Circolo ippico in via Siepelunga a Bologna (1937-40, sempre con Pucci); il Monumento ossario dei partigiani alla Certosa di Bologna (1954-59). Nel capoluogo emiliano Bottoni ha anche la possibilità di mettere alla prova l’armamentario concettuale e operativo cresciuto nella frequentazione dei Ciam e nutrito da un’autonoma consapevolezza delle implicazioni sociali della prassi urbanistica e da personali interpretazioni del progetto urbano.

Seconda sezione
Villa Muggia. Un patrimonio da salvare
La sezione, curata da Giorgio Bolognesi, Fabrizio Castellari, Claudio Calamelli, Andreas Sicklinger e prodotta dall’associazione Segni del Moderno, documenta sia le caratteristiche dell’edificio prima dell’intervento di Bottoni e Pucci, utili a comprenderne la genesi, sia lo stato in cui versa l’edificio. Le fotografie storiche sono affiancate da riprese attuali realizzate con lo stesso punto di vista. Completano l’esposizione tavole di rilievo e documentazione delle tecniche costruttive e del degrado delle varie componenti strutturali e murarie e di dettaglio. Un modo per dare conto anche dell’assiduo lavoro di indagine e ricerca che ha visto e vede impegnate diverse facoltà universitarie. Arricchiscono la mostra fotografie e filmati originali messi generosamente a disposizione dalla famiglia Muggia.

Il convegno
Imola, Museo di San Domenico, Sala del Capitolo, 18 ottobre 2008, ore 15.00
Relazioni di Maristella Casciato, Giancarlo Consonni, Giuliano Gresleri, Piero Orlandi
Coordina: Cristiana Chiorino

La cultura del recupero e della tutela del Moderno offre un panorama di sensibilità e di significativi esempi a livello internazionale. Occorre portare queste sensibilità e l’esempio di azioni già intraprese all’interno del contesto in cui si trova Villa Muggia. Questo lo scopo di un incontro in cui esperti della materia interagiscono con le forze culturali, amministrative ed economiche che operano sul territorio per sottolineare l’opportunità di un recupero come nuova opportunità per l’intera comunità.

Villa Muggia, 1936-38
Villa Muggia a lmola continua a emanare il suo fascino di architettura misteriosa. Fascino che le deriva non solo dall’imponenza della sua massa, da volumi primitivi e puri ma anche da un destino che le ha consentito solo pochi anni di vero splendore. Poi la guerra, gli anni dell’occupazione militare come sede di un comando dell’esercito tedesco ed infine, la bomba che ha centrato il grande salone, cuore di tutto l’edificio. Da allora la villa realizzata da Piero Bottoni e Mario Pucci ha smesso di stupire, di incantare per la sua bellezza che non aveva paragoni tra le ville moderne di quel periodo. La sua è un’agonia lenta, silenziosa. Villa Muggia si sta consumando lentamente arrivando così a noi con quel suo ventre squarciato, rudere silente su cui infieriscono l’incuria e l’incultura.
L’intero parco della villa è ormai irrimediabilmente perso, ma dal 1979, l’intera area su cui è ubicata la villa è definita nelle tavole di Prg di Imola come zona a parco privato che di fatto ne vincola le alberature, preservando l’intera area da speculazioni edilizie.
Decine di appelli, pubblicati su riviste internazionali di architettura e design, l’hanno fatta oggetto dell’azione di sensibilizzazione volta alla tutela e al recupero. Nel 1990 in concomitanza con la mostra milanese sull’opera di Piero Bottoni realizzata dall’Archivio Piero Bottoni del Politecnico di Milano, si è risvegliato una certa attenzione sulla villa e successivamente, nel 1993 alla conferenza internazionale del Do.Co.Mo.Mo. a Eindhoven in Olanda, questa emergenza architettonica veniva posta all’attenzione internazionale mettendo in guardia sulla precarietà dello stato di conservazione dell’edificio.
Dal 1994 questo capolavoro del razionalismo gode di vincolo storico-architettonico, dopo che l’Ordine degli Architetti della Provincia di Bologna, organizzò una raccolta di firme in favore della tutela del bene. La naturale continuazione di questa azione fu l’emanazione da parte del Ministero dei beni culturali e ambientali del vincolo relativamente all’edificio della villa e alle pertinenze della vecchia proprietà dei Muggia. Da allora nuovamente il silenzio.
Ma la villa e l’intero suo complesso continua a essere meta ideale e di interesse da parte di studenti e ricercatori, segno che per il mondo scientifico Villa Muggia rimane un problema insoluto, un caso-studio appassionante. Grazie a questo continuo interesse conosciamo molto della tecnica costruttiva, della metodologia con cui è stata realizzata, utile al contempo per qualsiasi ipotesi di recupero di restauro ma anche per comprendere quanto tempo ancora la struttura potrà resistere alla nostra indifferenza.
Villa Muggia può e deve entrare nella rosa delle eccellenze di cui la città di Imola va fiera. Il recupero della villa proietterebbe per la sua originalità e peculiarità il territorio e lo specifico caso-studio nel panorama ancora giovane del recupero del moderno a livello internazionale. L’auspicio è che questa emergenza entri nell’agenda delle forze economiche e delle pubbliche amministrazioni a ogni livello. La posta in gioco è la perdita di un manufatto architettonico che l’Europa ci invidia.

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Ringraziamenti
Eredi Muggia
Eredi Bottoni
Famiglia Vannini

Informazioni
Musei Civici di Imola – http://www.comune.imola.bo.it/museicomunali – tel. 0542 602609
Segni del Moderno – http://www.villa-muggia.itinfo@villa-muggia.it
Archivio Piero Bottoni – http://bottoni.dpa.polimi.itarchivio.bottoni@biblio.polimi.it

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17 Ottobre 2008

Principale

STONEXPO MARMOMACC AMERICAS, IL MARMO GUARDA A LUSSO, DESIGN E AMBIENTE

A Las Vegas dal 16 al 18 Ottobre
La prima edizione in cobrand USA-Italia, nata dalla partnership tra Veronafiere e Hanley Wood Exhibitions. Nei primi sei mesi dell’anno, l’export complessivo del settore a quota 250 milioni di Euro.

Las Vegas, 16 Ottobre -. Al via oggi l’edizione 2008 di StoneExpo Marmomacc Americas (la prima in cobrand Usa-Italia), rassegna dedicata alle pietre naturali, tecnologie e beni strumentali, in programma a Las Vegas dal 16 al 18 Ottobre, alla quale partecipano oltre 330 aziende tra cui 25 italiane, che presentano a produttori, installatori, costruttori edili, distributori e architetti i propri prodotti, con particolare riguardo al segmento del lusso, design e al rispetto dell’ambiente.
La manifestazione nasce dall’accordo tra Hanley Wood Exhibitions (controllata di Hanley Wood, uno dei massimi editori di testate dedicate al comparto edile-costruzioni negli USA), tra i principali organizzatori di rassegne (circa una ventina) dedicate al settore costruzioni tra le quali World of Concrete – la più importante al mondo – con un giro d’affari complessivo del gruppo pari a 250 milioni di dollari, e Veronafiere, tra i primi organizzatori diretti di fiere in Europa e in Italia, con un fatturato di quasi 100 milioni di Euro.
“Negli ultimi tre anni, StonExpo ha visto una crescita del 95%. Ora, con l’unione delle forze tra i marchi di StonExpo e Marmomacc, possiamo proiettare questo evento verso il mercato globale”, dice Galen Poss, Presidente di Hanley Wood Exhibitions.
“E’ una tappa fondamentale nel processo di internazionalizzazione nel quale Veronafiere è fortemente impegnata, in particolare nei settori dell’Agroalimentare e Abitare. In tale direzione, attraverso la creazione di un nuovo brand che unisce le due rassegne StonExpo e Marmomacc otteniamo un duplice risultato: accrescere la presenza e visibilità in Nord America di Marmomacc; dare un’opportunità alle imprese del settore di radicarsi in un mercato che, nonostante il difficile andamento dell’economia mondiale, con 250 milioni di euro complessivi di esportazioni nel primo semestre 2008 di prodotti lapidei grezzi, finiti, macchinari e accessori, rimane un importante sbocco per le nostre produzioni di qualità. In tal senso, ci presentiamo coesi con ICE – Settore Abitare e Confindustria Marmomacchine tramite l’iniziativa “Marmoteca” che propone i differenti materiali di qualità made in Italy”, sottolinea Flavio Piva, Direttore Mercato e Condirettore Generale di Veronafiere.
A Las Vegas, inoltre, Veronafiere-Marmomacc organizza numerosi seminari e corsi di formazione per architetti, designer e progettisti, che coinvolgono il prestigioso American Institute of Architects (AIA), tra i quali “Stone Sourcing & Selection”, “Natura Stone from Trentino”. Inoltre, Veronafiere ha istituito il premio Grand Pinnacle Award rivolto al progetto più innovativo concernente l’utilizzo della pietra, in collaborazione con il Marble Institute of America.
L’accordo con Hanley Wood e la creazione di un unico brand per gli USA è un risultato ottenuto, infatti, anche grazie al know how che Veronafiere ha acquisito nel settore della formazione professionale. Oltre dieci anni fa, infatti, l’American Institute of Architects – l’ordine degli architetti statunitense – ha riconosciuto Marmomacc, unico organizzazione fieristico mondiale, quale provider autorizzato a offrire formazione agli architetti americani. Anche l’associazione degli architetti canadesi RAIC ha conferito analoga qualifica a Veronafiere.
I partner ufficiali di StonExpo/Marmomacc Americas sono Natural Stone Council e Marble Institute of America (MIA). Il MIA ha lo scopo di promuovere l’uso delle pietre naturali e di essere il principale e più autorevole centro di informazioni in materia nel mondo, dove conta oltre 2.000 soci tra produttori, esportatori/importatori, distributori/grossisti, costruttori, rifinitori, installatori e fornitori industriali nel settore delle pietre naturali, tutti impegnati a mantenere la più elevata qualità artigianale e i massimi valori di responsabilità sociale.
Il Natural Stone Council, proprietario del marchio Genuine Stone®, è leader dell’industria delle pietre naturali e rappresenta le maggiori associazioni dedicate alla promozione e alla divulgazione, nell’industria stessa e tra il grande pubblico, dei valori e dei benefici della pietra naturale.
“Questa alleanza tra StonExpo e Marmomacc contribuisce a sostenere la crescita e la reputazione del maggiore evento settoriale negli Stati Uniti e riteniamo di grande importanza il rapporto stretto e continuativo tra Marmomacc e MIA, evidenziato anche dal sostegno da parte di Veronafiere come sponsor del nuovo Grande Pinnacle Award”, ha sottolineato Garis Distelhorst, Executive Vice President del Marble Institute of America.

Comunicato Stampa del Servizio Stampa Veronafiere
Tel.: +39.045.829.82.42 – 82.85 – 82.10
Fax: +39.045.8298.113
E-mail: pressoffice@veronafiere.it

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16 Ottobre 2008

Appunti di viaggio

La Pietra di Apricena
Il colore della luce

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Un immagine lunare si presenta al viaggiatore che da nord attraversa il Tavoliere per recarsi in visita estiva alle meraviglie del Gargano, sono le cave di Apricena che si mostrano come grandi crateri di inerti ad annunciare un paesaggio intriso di luce e di drammatica bellezza.
Ci si avvicina con curiosità a vedere da presso quei grandi massi accumulati che crescono e ingrandiscono sempre più con l’incedere del cammino fino a mostrare, in tutta la grandezza, le dimensioni eccezionali di una montagna artificiale.
Invitano, quasi, alla salita per capire dall’alto cosa nascondono, ma nello stesso tempo incutono timore per il loro equilibrio precario e costringono a girarci intorno, fino a trovare un varco, dal quale si scorgono in lontananza, profondità inattese ed uno spazio inedito e difficile da misurare con lo sguardo.

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La curiosità rapisce e costringe, poco a poco, ad avventurarsi al suo interno. Un percorso a spirale, come di girone dantesco, accompagna lungo pareti verticali che si alzano in misura proporzionale alla discesa. Enormi superfici segnate da linee orizzontali di lievi fratture, sfaldate, che rimandano a dimensioni megalitiche di possenti mura poggiate l’una sull’altra.
La luce si fa accecante ed il sole riverbera, sul biancore delle pareti, tutta la sua forza, diffondendo nel tremolio della calura estiva un’assordante silenzio di pietra.

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Si passa progressivamente, dall’iniziale configurazione incerta dei meandri della cava ad una geometria sempre più regolare, stereotomica, come a svelare di regole e di segreti nascoste al di sotto delle proprie viscere. Una sorta di architettura al negativo presenta, sempre più netta, i suoi caratteri ed i suoi dettagli, fatti di pieni e di vuoti in un continuum spaziale completamente dissolto nella luce.

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Grandi stanze a cielo aperto si aprono in affaccio una sull’altra, distribuendo piccoli depositi di massi informi in attesa di essere rimossi, a testimoniare di come solo la pietra possa abitare questi luoghi, apparentemente inospitali ma capaci di restituire il fascino surreale di un paesaggio ciclopico nel quale vince, ancora una volta, la forza della Natura.

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Una Natura che mostra tutta la sua forza nelle dimensioni inafferrabili di cavità che si sovrappongono una nell’altra. Una Natura che svela, tuttavia, nelle sue pietre, i segni dell’artificio umano. E’ tutto qui il fascino di questa drammatica bellezza, la consapevolezza che, nonostante le dimensioni impossibili, questo paesaggio lunare è il frutto delle trasformazioni dell’uomo.
Trasformazioni continue, costanti nell’alternare giorni, mesi ed anni. Trasformazioni trascritte su ognuna delle pareti della cava, come in un grande libro della storia che narra di massi e di informi sottratti alle cavità della terra, per costruire in superficie palazzi, chiese, fortezze, in una sorta di ricomposizione regolata ed artificiale della Città. Una città come espressione misurata di quelle stesse pietre cavate alla Natura.

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Massi inizialmente informi e privi di vita si trasformano, come per incanto, a restituire paesaggi altri da quelli originari, nuove figure si sostituiscono a quelle iniziali geometrie, in una Natura artificializzata e domestica nella quale solo l’alchimia del progetto restituisce un ordine a quegli scavi apparentemente privi di significato.
Un significato che, invece, si traduce con la necessità, tutta dell’uomo, di modificare l’originaria configurazione naturale per la realizzazione di una dimensione diversa, artificiale. La città. Con i suoi tracciati, le sue strade, i suoi spazi, i suoi abitanti.

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Da sempre l’identità di un territorio passa attraverso la riconoscibilità delle modificazioni operate sui materiali e sulle forme del suo paesaggio. L’interpretazione di quella stessa identità, infine, non può tacere l’immagine che essa stessa produce sul territorio, attraverso le figure elementari della trasformazione sapiente che dalla Natura conduce all’artificio. Dalla cava alla Città.
Nella città, quasi d’incanto, la pietra ri-prende vita nelle forme dell’abitare, portando con sè il colore della luce, quella stessa luce diffusa e riverberata dalle grandi pareti della cava che l’ha custodita negli anni, impreziosendo ogni suo singolo riflesso.
I monumenti, le strade, le piazze si illuminano al chiarore del Sud, restituendo la magìa di quel riverbero rapito alla natura del materiale, sia che si tratti di superfici lisce e distese, sia che si increspi nella lavorazione virtuosa delle abili mani degli artigiani di Apricena.
Quella di Apricena è una pietra che vive, una pietra capace di farsi interprete privilegiata delle trasformazioni del paesaggio, mostrando, sulla propria superficie il tempo e gli eventi che l’hanno segnata, nel succedersi incessante degli uomini e della storia.

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Quelle stesse pietre che il viaggiatore ritrova, oltre quegli immensi crateri, nei centri storici del Tavoliere nei palazzi, nelle chiese, nelle fortezze di queste città e che riportano direttamente alla memoria i luoghi della loro estrazione ed il riverbero luminoso sulle grandi pareti della cava … il colore della luce.
Una luce stratificata dal tempo. Il tempo della pietra che è un tempo lungo, un tempo che oppone resistenza così come il materiale, duro al lavoro degli uomini, ma capace di trasmettere più di ogni altro elemento il valore della propria trasformazione. Un valore duraturo, che si tramanda con le tradizioni e con la storia, di generazione in generazione… per quelli che verranno.

di Domenico Potenza

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14 Ottobre 2008

Appunti di viaggio

Gabriele Basilico ad Apricena:
dietro lo sguardo del maestro nel paesaggio delle Pietre di Puglia

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Cave 2000 Franco Dell’Erba

Pochi giorni fa Gabriele Basilico, fotografo di fama internazionale, ha fatto visita alla città di Apricena per un lavoro fotografico che sta svolgendo sul paesaggio delle cave per conto della Regione Puglia. Una presenza eccezionale per la nostra città e per i nostro territorio una firma d’autore che con la sua arma preferita, la macchina fotografica, sta dando il suo personale contributo a questa terra. Un lavoro di una giornata, ma un lavoro intenso cui ho avuto la fortuna di assistere ammirato ed emozionato per la vicinanza ad un maestro di spessore unico nel campo della fotografia.

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Gabriele Basilico

Non tocca a me certamente raccontare il fotografo Gabriele Basilico, ma mi sento in dovere quasi di testimoniare la sua presenza qui ad Apricena, sicuramente unica e spero non irripetibile. Ho seguito tutti gli istanti del suo lavoro, nel silenzio delle cave e sotto il sole cocente di una giornata di metà luglio.

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Gabriele Basilico è rimasto sorpreso ed affascinato dal territorio della cave del comprensorio marmifero di Apricena Lesina e Poggio Imperiale. Insieme all’architetto Domenico Potenza abbiamo avuto modo di fare da guida nelle cave accompagnando Basilico ed il suo amico-fotografo Cosmo Laera nelle cave del rag. Franco Dell’Erba e nelle Cave Giovanni Pizzicoli di Apricena, luoghi spettacolari, affascinanti e tra i più importanti del comprensorio.

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“Paesaggio lunare, unico, nessuno scatto riesce ad imprigionare la bellezza, la dimensione e la drammaticità di questi posti, se non l’emozione diretta della vista di questi posti” è il commento a metà giornata di Gabriele Basilico, fatto in una video-intervista all’amico Cosmo, dopo aver macinato scatti uno dietro l’altro, dopo essersi mosso nelle cave con il desiderio di chi vuole portare con se da questo posto l’assoluto e l’essenziale.

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E’ stata un’emozione vera vedere all’opera un artista della fotografia della sua caratura, vederlo soffermarsi a leggere la stratigrafia delle pietre, a contemplare il lavoro degli uomini che in quel momento lavoravano in cava, a dialogare con loro, ad intervistarli, a vedere ammirato il movimento delle macchine e di come queste con semplicità sollevano tonnellate o tagliano pietre, a chiedere a noi storie della nostra terra, notizie sull’escavazione, sulla materia e sui materiali, sull’economia di questo lavoro prodotto dall’uomo e dalle macchine in un contesto che non ha più una dimensione umana.

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La necessità di sapere notizie sembrava dettata forse dalla volontà e dalla necessità di Basilico di avere informazioni per completare con lo scatto il suo lavoro di fotografo. Il nostro è stato un muoversi dietro lo sguardo del maestro, cercare di catturare con i nostri occhi quello che lui con la sua arte stava imprigionando in quell’istante unico. Un racconto di emozioni, anche divertente, che ci ha permesso di fotografare, con tutto il rispetto, Gabriele Basilico che fotografava e che lui con grande simpatia non si è sottratto permettendoci di documentare la sua presenza nel territorio della pietra di Apricena.

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Cave Giovanni Pizzicoli

Alle immagini di questa giornata, più di qualsiasi altra parola vorrei affidare la testimonianza della giornata con Gabriele Basilico ad Apricena, un documentario fotografico per il più noto documentarista europeo che privilegia il bianco e nero per i suoi paesaggi e che a breve, invece, ci omaggerà del suo lavoro svolto per il paesaggio di Apricena terra di pietra di Puglia.

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di Arch. Giuseppe Di Lullo

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11 Ottobre 2008

English

The Hellenistic theater in Morgantina

Versione italiana

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Excavations and published reports or the U.S. expedition
After the discovery in 1956 of a massive wall at the southwest (subsequently explored further in 1957, and then in 1959 of a similar wall to the north, the area between the two walls was fully excavaed in 1960, leading to the recognition that these two heavy walls are the analemmata or retaining waIls or a theater, and the ruins in between to the east are the remains of the scene building.
The first report on the theater dealt with the campaigns of 1960-61. Prof Erik Sjöqvist of Princeton University posed such fundamental questions as the date of the monument and its original dedication. Sjöqvist’s dating indicated the time of the Syracusan tyrant Agathokles (ca. 310 BC), but on the basis of numismatic evidence the date has reeently been lowered to the middle of the third century BC, during the era of Hieron II of Syracuse. As for the dedication, Sjöqvist published a surviving inscription on the outer face of the tenth row of seats in the third section of the cavea (counting from the north), reading “ARCHELAS SON OF EUKLEIDAS [DEDICATES THIS] TO DIONYSOS “. We know nothing else of the rich local citizen Archelas, who at is own expense constructed the cavea, or perhaps even the entire theater.

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Subsequently Prof. Richard Stillwell of Princeton University published a more detailed account of the theater in the journal KOKALOS, and the following year in a preliminary report Stillwell discussed for the first time the restoration of the building.

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Description of the cavea
As preserved today the theater of Morgantina was constructed toward the middle of the third century BC, on the site of an earlier and more modest structure of the same function. The existing theater is part of an ambitious unitary project of the embellishment of the agorà. The koilon or cavea, constructed in roughly squared blocks of local limestone, has a maximum diameter of m 57.7. and is divided horizontally in two parts: below, the ima cavea composed of sixteen rows of seats, and above, the summa cavea, an earthen embankment which was never furnished with stone seats (except for four straight seats behind the fourth sector). The ima cavea is divided into six kerkides or wedge-shaped sections, by seven klimakes or rows of steps, two of which are placed next to the analemmata.
The cavea was constructed on an extension of the hill slope, over which was deposited a large quantity of sand and earth. This material was contained within the heavy external walls of the analemmata, which were in turn strengthened by internal buttresses. These external retaining walls each consist of a western section at right angles to the axis of the theater, and another joining the first at an obtuse angle, inclined toward the hill-slope. Both are double-faced in construction, with pseudo-isodomic masonry facing outwards and an irregular surface on the inside, with rubble packing between.

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The theater-restoration of 1963-67
The northern analemma had collapsed in antiquity and was set upright in 1963, when a secondary retaining wall was also added internally to help resist the outward pressure of the earthen fill behind the first wedge-shaped section of the cavea. In 1966 the first two sections of seating were restored, the second two the following year. In the first section the missing seats were restored using cement, as can still be seen today in the lower seats. This method was not judged to be entirely successful, and in the other sections local rubble limestone was used far the missing seat-blocks. The cavea was consolidated with two concentric underground walls of masonry, located beneath seat-rows V-VI and X-XI. The surviving seat-blocks were put back in place and cleaned, with replacement blocks added as described above. In spite of the visual uniformity of the restored sections of seats, it is easy to distinguish the original blocks from the replacements.

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The new restoration
Carried out in 2003-2006, the restoration concerned sectors V and VI of the cavea, as well as the consolidation of the south analemma, which risked collapse. In the course of work several probes were carried out. In probe no. 7, in front of the analemma, the foundation was uncovered in order to reveal the courses below ground, in addition to those in elevation; and also to establish the extent of the outwards lean of the latter. The presence of a wider foundation suggested the existence of a euthynteria or foundation-cap. But from the diversity of the outwards tilt, from the differing dimension of the blocks, and from the different quality of limestone, another hypothesis suggested itself: originally wall C1-C3 existed here, then suffered a collapse and was replaced by wall C4-C9, with new stone, a different wall-structure, and in a slightly set-back position; and it was thus this wall that survives today, having suffered an outwards lean.
To determine the causes of this problem various laboratory studies were made to evaluate the mechanical structure of the materials. Two campaigns of geological analysis were carried out, identifying two principal horizons. A) The first concerned the nature of the fill-material placed within the south analemma, heterogeneous material with a granular size ranging from clay to gravel; and B) clay and sand mud representing one of the geological formations of the site itself, and also the sedimentary consequences of the foundations of the analemma. Analysis of the laboratory results showed that the south analemma, because of the pressure of the earth (consisting of more than 50% of fine grained material, in which the ground water exerted an outward pressure), had suffered a rotation, resulting in an outward distortion of the wall of up to cm 40. The originaI fill-material was certainly not appropriate here and for this reason needed to be entirely the replacement consisted of loose sand and gravel, which will (it is hoped) allow water to drain away and not generate any outwards pressure.

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Consequently the analemma wall was partially dismantled, the original earthen fill behind it removed and replacement by new dry material; a drainage pipe was installed at the interior base of the wall, and the wall surface was covered with a reinforced and impermeable geo-membrane. In conjunction with this, geocomposite materials were laid down in order to improve the drainage of ground water. Geo-textile material was also placed in the dry material behind the wall at a vertical distance of m 0.6 -0.9. These steps are supposed to assure an appropriate exterior support far the stone seats in sectors V and VI of the cavea. There two kinds of procedure were undertaken: l) seats that were still in situ but had slipped forward were placed in their original positions, with stones added as fill; and 2) missing blocks were replaced by new construction utilizing smaller stones, as was done in the earlier restoration of the 1960’s.
The prof. Alberto Sposito designed and directed the restoration. This restoration was sponsored by the Regional Province of Enna, with financing provided by the European Fund for Regional Development (F.E.R.S.) to the amount of € 1,549,371.

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Alberto Sposito*, Vanna. Lisa Ruggirello**

* Professore Ordinario, Facoltà di Architettura – Università di Palermo
** Assegnista di Ricerca, Dipartimento di Progetto e Costruzione Edilizia – Università di Palermo

Bibliography:
“American Journal of Archaeology” (AJA) 61 (1957) 152-153; 62 (1958) 162; 64 (1960) 129-130; 65 (1961) 279; 66 (1962) 137-138; 71 (1967) 245-246; 74 (1970) 359-366; 86 (1982) 584-585. KOKALOS 10-11 (1964-65) 579-588; 21 (1975) 226-230.
Karina Mitens, “Teatri greci e teatri ispirati all’architettura greca in Sicilia e nell’Italia meridionale, c. 350-50 a. C.,” in Analecta Romana Instituti Danici, suppl. XIII, 1987;
Sposito A. et Al., Morgantina e Solunto: analisi e problemi conservativi, Dipartimento DPCE, Palermo 2001;
Sposito Alberto et Al., Morgantina: Architettura e Città Ellenistiche, Alloro, Palermo, 1995;
Sposito Alberto, “Il Teatro ellenistico di Morgantina” in Dioniso n.2, Palumbo, Palermo 2003, pp. 318-349;
Ruggirello V.L., “Regole progettuali di alcuni edifici teatrali in Sicilia”, in Dioniso n.5, Palumbo, Palermo 2006, pp.284-296.

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11 Ottobre 2008

Opere Murarie

Il teatro Ellenistico di Morgantina (EN)

English version

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Il teatro dopo il recente restauro

Le campagne di scavo e i rapporti archeologici della Missione Americana
Dopo il rinvenimento di un primo muro di sostegno a sud-ovest nel 1956, ulteriormente esplorato nel 1957, e di un secondo muro simile più a nord nel 1959, nel 1960 fu scavata in profondità l’area tra i due muri e vennero in luce diversi elementi significativi, riconosciuti come gli analemmata di un teatro e i resti di un edificio scenico.
Il primo rapporto sugli scavi del teatro, che furono condotti nelle campagne del 1960 e del 1961, è stato curato da Prof. Erik Sjöqvist della Princeton University. Nel rendiconto dello Sjöqvist, trovano posto questioni di fondamentale importanza quali la cronologia del monumento e la sua dedica antica. L’archeologo ha sostenuto che il teatro fu costruito nei primi anni del tiranno siracusano Agatocle (c. 310 a.C.); più recentemente questa data è stata abbassata alla metà del III sec. a.C. nell’epoca di Ierone Il, sulla base di reperti numismatici. Per quanto riguarda la dedica, nell’alzata del decimo sedile del terzo settore della cavea è ben conservata l’iscrizione greca “ARCHELAS FIGLIO DI EUKLEIDAS [DEDICA QUESTO] A DIONYSOS”, cioè la dedica al dio Dioniso. Non sappiamo altro del ricco cittadino Archela figlio di Eukleida, che costruì a sue spese la cavea, o forse l’intero edificio.

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Planimetria del sito di Morgantina

Successivamente l’archeologo americano Richard Stillwell ha fornito una più analitica lettura del monumento, e poco più tardi, nel rapporto preliminare sulla campagna di scavo del 1966, lo stesso Stillwell ha descritto il primo intervento di restauro.

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Il Rilievo del teatro nel 1957

Descrizione del teatro
La cavea del teatro di Morgantina com’è oggi conservata fu costruita verso la metà del III sec. a. C., sul sito di un più antico e modesto edificio teatrale. Il teatro fa parte di un grande progetto unitario per l’abbellimento dell’agorà. Il koilon o cavea, costruito in opera quadrata con blocchi di calcare locale, ha un diametro massimo di m. 57,70 ed è suddiviso orizzontalmente in due sezioni: l’ima cavea, composta da sedici ordini di sedili, e la summa cavea, in terra battuta, che non presentava posti a sedere (se non le quattro file rettilinee dietro settore n. 4). L’ima cavea, è suddivisa in sei kerkides o settori da sette klimakes o scale, di cui due costruite a ridosso degli analemmata.
Il koilon poggia, per un quarto, su uno spiazzo in leggera pendenza del dorsale roccioso, sul quale venne posto materiale di riporto composto da sabbia e da terra. Questo materiale era contenuto dalle spesse mura o analemmata, supportate da contrafforti interni. Gli analemmata, tutti e due costituiti da un tratto perfettamente ortogonale all’asse del teatro e da un altro inclinato, come un trapezio rovescio, sono composti da paramenti murari a doppia cortina; quello esterno presenta una tessitura pseudoisodomica, mentre quello interno è irregolare; tra i due paramenti è stato posto del materiale a sacco con pezzatura informe.

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Il Rilievo del teatro dopo il restauro del 1963

Il restauro degli anni Sessanta
Nel 1963 è stato operato il restauro dell’analemma settentrionale, rinvenuto in posizione di crollo; in quell’occasione è stato costruito un contromuro interno all’analemma frontale, con lo scopo di sostenere il reinterro, che era necessario a ripristino del primo cuneo a nord. Nel 1966 sono stati restaurati i settori I e II, mentre nell’anno successivo il III e il IV. Nel primo settore a destra i restauratori avevano iniziato a rivestire le pietre di integrazione con intonaco, così com’è oggi visibile nei primi gradoni inferiori. L’intervento non era giudicato interamente riuscito, e in seguito si preferì la faccia-vista per il pietrame di integrazione. Il koilon è stato consolidato dalla costruzione di due briglie concentriche di muratura, in corrispondenza dei gradoni V-VI e X-XI. I gradoni sono stati ricollocati, ripristinati ed integrati mediante l’utilizzo della pietra locale. Malgrado l’uniformità complessiva che presentano i cunei restaurati, è possibile distinguere i blocchi originari da quelli utilizzati per il ripristino.

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Il Rilievo del teatro dopo il recente restauro

Il nuovo restauro
Operato negli anni 2003-2006, il restauro ha coinvolto i settori V-VI e il consolidamento dell’analemma meridionale che rischiava il ribaltamento. In corso d’opera sono stati eseguiti vari saggi. Nel saggio di scavo n. 7, operato a ridosso dell’analemma, è stata messa in luce la fondazione per evidenziare sia i filari interrati e in elevazione, sia il fuori-piombo. La presenza di una risega al piede del muro faceva avanzare l’ipotesi di una euthynteria, l’estradosso di fondazione; ma dalla diversità dei fuori-piombo, dalle dimensioni lapidee, e dalla diversa natura della pietra deriva un’altra ipotesi più attendibile: che esisteva il muro CI-C3 che aveva subito un ribaltamento; in seguito, demolito parzialmente il muro di elevazione, è stato costruito il nuovo muro C4-C9 con altro pietrame, con diversa tessitura muraria, e in posizione leggermente rientrata, che a sua volta ha subito un’altra deformazione.
Per ricercare le cause di queste deformazioni sono state eseguite prove di laboratorio necessarie per valutare le proprietà meccaniche dei materiali. Due campagne di indagini geognostiche sono state eseguite ed hanno individuato due principali orizzonti: a) un materiale di riempimento posto nell’intradosso dell’analemma meridionale, materiale eterogeneo con granulometria che va dalle argille alle ghiaie; b) limi argillosi e sabbiosi che rappresentano la formazione geologica in situ ed il sedimento di fondazione dell’analemma. Analizzando le risultanze di laboratorio è stato rilevato che l’analemma meridionale, a causa delle spinte esercitate dal terrapieno, costituito da materiale con una percentuale superiore al 50% di fini ed in cui le acque di infiltrazione esercitano pressioni idrostatiche, ha subito in alcuni setti una rotazione, facendo registrare tra la testa della struttura e la base della fondazione un fuori-piombo di circa cm 40. Questo materiale non era certamente adeguato per il rinterro e pertanto se ne consigliava la totale rimozione; si sono invece sostituti materiali sciolti, sabbie o ghiaie, evitando in modo assoluto l’impiego di materie che, con l’assorbimento di acqua, gonfiano generando spinte.

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Ipotesi geometrica della pianta del teatro secondo il modello vitruviano dei tre quadrati (teatro greco) e dei quattro triangoli (teatro romano); in basso l’ipotesi che la geometria del teatro possa essere regolata dalla rotazione di due pentagoni.

Pertanto è stato operato lo smontaggio parziale del muro, la sostituzione dell’attuale rinterro, utilizzando materiale arido nell’intradosso, la posa di un tubo dreno alla base dello scavo, l’impermeabilizzazione delle pareti con geomembrana rinforzata, accoppiata a geocomposito per agevolare il drenaggio delle acque di infiltrazione, l’utilizzo di geogriglie tessute ogni cm 60-90 di rinterro arido. Un tale procedimento assicura un idoneo supporto ai gradoni dei settori V e VI. Per essi sono stati realizzati due tipi di intervento: 1) la ricollocazione dei gradoni che si trovano ancora in situ, scivolati almeno di un filare, e che sono stati posti in opera, con l’ausilio di materiale lapideo di riempimento; 2) l’integrazione dei filari mancanti con blocchi di piccola pezzatura, così come realizzato nel restauro degli anni Sessanta.
L’intervento di restauro, progettato e diretto dall’arch. Alberto Sposito, è stato promosso dalla Provincia Regionale di Enna ed è sato finanziato con il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (F.E.R.S) per un importo di € 1.549.371,00.

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Il paramento murario dell’analèmma di sinistra (sopra) e di destra (sotto)

Alberto Sposito*, Vanna. Lisa Ruggirello**

* Professore Ordinario, Facoltà di Architettura – Università di Palermo
** Assegnista di Ricerca, Dipartimento di Progetto e Costruzione Edilizia – Università di Palermo

Bibliografia:
“American Journal of Archaeology” (AJA) 61 (1957) 152-153; 62 (1958) 162; 64 (1960) 129-130; 65 (1961) 279; 66 (1962) 137-138; 71 (1967) 245-246; 74 (1970) 359-366; 86 (1982) 584-585. KOKALOS 10-11 (1964-65) 579-588; 21 (1975) 226-230.
Karina Mitens, “Teatri greci e teatri ispirati all’architettura greca in Sicilia e nell’Italia meridionale, c. 350-50 a. C.,” in Analecta Romana Instituti Danici, suppl. XIII, 1987;
Sposito A. et Al., Morgantina e Solunto: analisi e problemi conservativi, Dipartimento DPCE, Palermo 2001;
Sposito Alberto et Al., Morgantina: Architettura e Città Ellenistiche, Alloro, Palermo, 1995;
Sposito
Alberto, “Il Teatro ellenistico di Morgantina” in Dioniso n.2, Palumbo, Palermo 2003, pp. 318-349;
Ruggirello V.L., “Regole progettuali di alcuni edifici teatrali in Sicilia”, in Dioniso n.5, Palumbo, Palermo 2006, pp.284-296.

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10 Ottobre 2008

Principale

Tempo Rivelato

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Tempo Rivelato è il titolo dell’ultima opera di Francesco Cremoni costituita da dodici colonne in marmo bianco alte 3,80 metri ciascuna. In essa lo scultore ha voluto evocare, attraverso simbologie legate alle due culture antiche a noi più vicine, quella celtica e quella mediterranea, i dodici mesi dell’anno.
Tempo Rivelato è un opera nata dalla collaborazione con l’architetto Paolo Portoghesi per un progetto che fonde scultura e architettura

Mercoledì 15 ottobre 2008 ore 18.30
Via Carriona 263, Avenza – Carrara

(Vai a Carlo Telara Marble)

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9 Ottobre 2008

Letture

Creative Book Casalgrande Padana

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Una veste editoriale attenta e accurata, numerosi spunti di riflessione, non solo sulle potenzialità espressive e applicative del grès porcellanato, sulle sue qualità strutturali ed estetiche – insieme a suggerimenti, esempi, soluzioni – ma anche sugli elementi architettonici che con esso possono essere realizzati: questo in essenza è Creative Book, un progetto editoriale di Casalgrande Padana, sviluppato in collaborazione con Casabella, rivista internazionale di architettura.
Il volume presenta, nella prima parte, una selezione dei progetti che hanno partecipato all’ultima edizione del concorso internazionale di architettura Grand Prix, organizzata secondo le principali tipologie d’intervento: centri commerciali e direzionali; edilizia pubblica e dei servizi, edilizia industriale; edilizia residenziale; rivestimenti di facciata; piscine; ogni opera illustrata con una serie di immagini accompagnate da una scheda tecnica con i materiali utilizzati e una biografia sintetica dei progettisti.
La seconda sezione di Creative Book affronta il tema del dettaglio di finitura nelle pavimentazioni e nei rivestimenti, prendendo in considerazione alcuni nodi tipici dell’edificio, dall’attacco a terra al coronamento. Una raccolta grafica di appunti utili per il corretto impiego dei componenti ceramici nelle varie applicazioni, dalle più semplici alle più complesse. L’ultima parte è dedicata ai materiali. Le caratteristiche prestazionali e le qualità estetiche di Granitogres, Marmogres, Pietre Native, Granitoker e Padana Piscine, evidenziate attraverso le schede tecniche dei prodotti accompagnate da una suggestiva palette di colori.
Creative Book può essere richiesto direttamente a Casalgrande Padana al numero verde 800210311 oppure via e-mail all’indirizzo info@casalgrandepadana.it

Scarica il bando e la scheda di adesione della ottava edizione del Grand Prix Casalgrande Padana.

Vai a:
Nuovi scenari ceramici
Casalgrande Padana

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7 Ottobre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte I)

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Robert Morris e il Labirinto di Celle

Introduzione
Il tema deve molto alla visione di un’opera realizzata da Robert Morris nella Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia: un labirinto a fasce marmoree bianche e verdi che ogni visitatore del parco, nel proprio incedere, si trova di fronte come una presenza forte, caratterizzata nella volumetria e nelle sue superfici bicromatiche. Tale artefatto – compatto e attrattivo a distanza, disorientante poi nella sua fruizione ravvicinata – ha stimolato il desiderio di approfondire il tema dedalico, posto a costituire una trama di rimandi molto vasta ed interconnessa all’interno della multiforme opera di Morris.
Se quest’ultima è stata caratterizzata, fin dai suoi esordi, da percorsi molteplici ed imprevedibili, da cambiamenti inaspettati e apparentemente incoerenti rispetto alle ricerche precedenti, leggiamo nel tema del labirinto – mai completamente rimosso dall’immaginario dell’artista – una chiave d’accesso e d’interpretazione del lungo itinerario di Robert Morris, in grado di riconnettere – in qualche modo – l’intera opera di una delle figure più controverse ed interessanti della cultura artistica contemporanea.
Il percorso interpretativo proposto dal saggio è articolato in quattro sezioni.
La prima, di natura introduttiva, individua le due dimensioni intorno a cui gravitano gli spazi dedalici concepiti da Morris: quella fisica dei “tridimensionali dispositivi d’inganno” indirizzati ad un coinvolgimento attivo dello spettatore e – simmetricamente – quella ideale delle “astrazioni labirintiche” disegnate su supporti bidimensionali.
All‘incipit interpretativo seguono le successive sezioni.
La seconda è dedicata agli artefatti disorientanti in grande scala (corridoi, installazioni di specchi, veri e propri dedali) collocati negli spazi espositivi; la terza ai labirinti litici inscritti paesaggisticamente nei parchi di Celle e Pontevedra. Entrambe le categorie di opere si dimostrano capaci di produrre esperienze multisensoriali dilatate nello spaziotempo reale.
Nell’ultima sezione – la quarta – diventano protagonisti i disegni labirintici inscritti in una dimensione altra, sospesa, astrattiva. Dalla materia si ritorna, così, al mentale.

L’AMBIVALENZA DEL LABIRINTO
Un duplice punto di vista

Del termine labirinto, nella sua accezione spaziale, può essere data una duplice definizione, a seconda del punto di vista adottato nel rapportarsi ad esso.
Nell’ottica dell’artefice il labirinto è una struttura architettonica della quale egli “ha equilibrato l’effetto di inganno e l’effetto di seduzione negli aggrovigliamenti, nelle ramificazioni, nelle giravolte e nei ritorni”1.
Al contrario per chi vi s’imbatte, ignaro del disegno complessivo dell’intricato percorso, il labirinto è lo spazio che si mostra progressivamente per parti davanti ai suoi occhi, una volta varcata la soglia ed iniziato l’ignoto cammino.
Il punto di vista del creatore, totalizzante e onnicomprensivo, è paragonabile a quello di un osservatore che contempla da un luogo distante e sopraelevato. La visione dall’alto riduce l’articolata figura geometrica ad un insieme afferrabile nella sua complessità, ne svela l’intima logica e composizione. I muri fungono da linee lungo le quali si sposta lo sguardo, mentre lo spazio da essi delimitato si palesa come il sentiero da percorrere. Quest’ultimo, nel labirinto in senso proprio, è lungo e tortuoso ma non offre possibilità di scelte nel suo intero svolgimento che conduce inevitabilmente al centro; tale caratteristica lo differenzia dall’intrico di vie (in inglese maze; in tedesco Irrgarten) il quale presenta numerose alternative e vicoli ciechi.
Se la visione dall’alto presuppone un osservatore desituato rispetto alla dinamica spazio-temporale propria dell’esperienza labirintica, “quella dal basso suggerisce un’idea di partecipazione e comunità, l’effetto fenomenologico di camminare attraverso lo spazio”2. Questa seconda condizione, comune ad ogni uomo in azione nella realtà fisica, rappresenta l’elemento significante e specifico del labirinto, “dispositivo d’inganno” teso al disorientamento dell’uomo.
Il tratto distintivo che contrappone la condizione dell’esperienza fruitiva da quella di presa di distanza dell’artefice è dunque da rintracciare nell’immersione – priva di coordinate – in uno spaziotempo reale: l’esploratore sarà infatti all’oscuro della geometria complessiva del luogo, quanto della durata del percorso da compiere. Per soddisfare la sua brama di conoscenza non gli è concessa che l’azione dell’esplorazione, dell’immettersi in uno spazio angusto e isolato da scoprire esclusivamente attraverso l’esperienza diretta. Una volta raggiunto il centro, il viaggiatore potrà solo girare intorno ad esso ed invertire il senso di marcia, ritornando sui propri passi per uscire – alla fine – dalla medesima porta dalla quale era iniziata la sua esplorazione.
Riemergere dal labirinto assume un valore ben più profondo del semplice ritorno al mondo esterno. Fuoriuscire dall’angusto passaggio simboleggia il raggiungimento di un traguardo catartico, una sorta di rinascita spirituale, una proiezione in un’esistenza più consapevole della precedente, ma pur sempre relativa, in quanto sarà continuamente rimessa in questione dai tanti meandri labirintici o prove che accompagnano tutta la vita.
L’esperienza del labirinto contiene, dunque, nella sua ultima essenza “la proposta di una rigenerazione attraverso il percorso meditativo e “critico” (e anche di “crisi”) di un cammino intricato e pericoloso”3.

Gli spazi dedalici di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
L’opera di Robert Morris, accompagnata fin dagli esordi da una lucida coscienza critica, si è contraddistinta a partire dagli anni Sessanta per la sua mutevolezza e diversificazione (sia nei mezzi che nei contenuti), al punto da sfuggire ad ogni definizione lineare indirizzata a ridurne la complessità.
In questa sorta di continuous project altered daily, il labirinto costituisce una costante, un tema mai completamente cancellato dalla memoria dell’artista. Tale interesse al tema dedalico si sviluppa in un arco di tempo molto dilatato, che abbraccia l’intera carriera artistica di Morris – da Passageway del 1961 al Pontevedra Labyrinth del 1999 – e viene indagato, da un lato, nelle installazioni in grande scala all’interno degli spazi espositivi o nel paesaggio, e dall’altro nella produzione grafica.
Nella mente creatrice dell’artista la riflessione sul tema del labirinto è dunque un qualcosa che affiora e riaffiora. Per comunicare e fissare tali idee in costante evoluzione Morris si muove così su di una duplice traiettoria: quella della rappresentazione concettuale, ideale, nei disegni fissati su supporti bidimensionali e quella della realizzazione concreta di veri e propri labirinti nei quali è possibile imbattersi.
Infatti le “strutture d’inganno” realizzate dall’artista – Passageway (1961); i dedali di specchi; i labirinti di Philadelphia (1974), Celle (1982), Lione (1999) e Pontevedra (1999) – acquistano senso solo nella dimensione “orizzontale” del passaggio da parte del fruitore all’interno dell’opera, come tende a precisare lo stesso Morris: “A labyrinth is comprehensible only when seen from above, in plan view, when it has been reduced to flatness and we are outside its spatial coil. But such reductions are as foreign to the spatial experience as photographs of ourselves are to our experience of our selves”4.
L’esperienza “iniziatica” compiuta dall’esploratore all’interno dell’arduo cammino labirintico viene così ricreata da Morris al fine di imprimere in ogni spettatore questo disorientamento “rigenerativo”, le cui radici affondano nei miti del passato.
Ma non è solo tra le mura di veri e propri dedali che l’artista indaga le modalità di un coinvolgimento attivo da parte dello spettatore. A partire dai primi anni Sessanta il rapporto col contesto del fruitore costituisce una riflessione costante e radicale dell’artista americano – influenzata dalla Fenomenologia della percezione di Merleau Ponty (1945) e da forme espressive quali il teatro e la danza sperimentale – molto evidente in opere che, nonostante non possano essere considerate labirinti in senso letterale, ne indagano la medesima condizione: quella dello scopritore.
Al pari di quest’ultimo che non può comprendere la complessa geometria del luogo nel quale si sta addentrando da un unico punto di vista, lo spettatore che si rapporta alle “labirintiche” opere di Morris non può far affidamento su conoscenze aprioristiche o logiche per cogliere le forme nella loro eterogeneità.
La “scompaginazione” di un punto di vista privilegiato costituisce un fondamentale snodo concettuale all’interno della citata Fenomenologia della percezione, che Robert Morris ha avuto modo di leggere nella sua fase di formazione. Il filosofo francese afferma che un oggetto non è mai risolvibile in un’univoca prospettiva (geometrale), ma è sempre percepito da diversi punti di vista – in base alla mutevole posizione assunta dal nostro corpo in un dato momento e in un dato luogo – acquistando significati e forme sempre variate.
L’obiettivo che Morris si pone, a partire dalle opere minimaliste realizzate intorno alla metà degli anni Sessanta, è proprio la messa in scacco dei limiti del pensiero oggettivo denunciato da Merleau Ponty che fa economia delle specifiche condizioni sia spaziali che temporali. Le diverse strategie impiegate a tal fine agiscono nel campo propriamente tridimensionale – quello della gestalt (la forma) – per dimostrare come “even its most patently unalterable property (…) does not remain constant”5.

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Robert Morris, Untitled (Battered Cubes), 1965

Untitled (Battered Cubes) del 1965 consiste in quattro parallelepipedi identici in fibra di vetro, disposti direttamente sul pavimento; due lati di ciascun “cubo” si espandono minando la solidità della forma. Attraverso l’alterazione della gestalt l’artista nega all’osservatore la possibilità di comprendere l’installazione attraverso una prospettiva unica; al fine di ottenerne una dinamica comprensione sarà necessario muoversi intorno ad essa e percepirla attraverso una molteplicità di punti di vista.
Una diversa strategia dell’artista indirizzata a rompere col tradizionale rapporto unidirezionale di ricezione – dall’oggetto artistico verso l’osservatore – è quella di reiterare più volte la stessa forma e collocare le copie in posizioni diverse.

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Robert Morris, Untitled (Three L-Beams), 1969 (1965)

Celebre è l’esempio di Untitled (Three L-Beams) del 1965 costituito da tre identici solidi ad L di compensato disposti sul pavimento della galleria: il primo in verticale, il secondo disteso a terra e il terzo in equilibrio sulle due estremità col fine di rendere incomprensibile l’identicità della forma di partenza. Scrive Rosalind Krauss a proposito di questo strategico dispositivo artistico di “disorientamento”: “Morris ci fa così sentire che il fatto della somiglianza degli oggetti ha a che vedere con una logica preesistente all’esperienza poichè, nel corso dell’esperienza, nell‘esperienza, le L mettono in scacco questa logica della somiglianza e sono “diverse”. La loro “identità” ha a che vedere solo con una struttura ideale, un’assenza interna invisibile; la loro “differenza” invece partecipa dell’esteriorità, sorge nel mondo della nostra esperienza”6.
La negazione di un punto di vista privilegiato porta lo spettatore a compiere un passaggio nello spazio e nel tempo reale al fine di strutturare percettivamente la forma attraverso continui mutamenti di prospettiva, esperienza che lo accomuna all’esploratore, il quale – privo di mappa o di bussola – non può far altro che addentrarsi all’interno del territorio labirintico per svelarne l’intimo disegno.
L’estetica modernista della pura presenza, di una sorta di incontro epifanico tra opera d’arte e spettatore, cede così il passo ad una nuova pratica artistica che sembra “attendere lo spettatore (…) e ingaggiarlo in un rapporto temporalmente dilatato e virtualmente illimitato, che frantuma la soggettività nell’infinita molteplicità sensoriale del mondo fisico”7.
Al disorientamento iniziale, causato da un abbandono delle solide coordinate cartesiane su cui poggia la nostra razionale esistenza, seguirà un’esplorazione attiva e ricettiva che, se condotta fino in fondo, conferirà al fruitore un nuovo livello d’indipendenza rispetto al reverenziale oggetto artistico e alla stessa realtà: “alla cosa e al mondo è dunque necessario presentarsi come “aperti” (…) promettere sempre altro da vedere”8.
Tale mondo fenomenico, in continuo mutamento, ha rappresentato il terreno d’azione per articolare la riflessione di Morris sul tema dedalico al fine di agire sul punto di vista del fruitore. Per poter essere dispiegato, ha necessitato la creazione di dispositivi artistici tridimensionali, concreti e articolati al punto tale da essere attraversati.
Nonostante l’opera dell’artista – e più specificatamente la riflessione sul tema del labirinto – si sviluppi prevalentemente in quello che Rosalind Krauss ha definito “il campo allargato” della scultura – che abbraccia adesso altre categorie quali l’architettura e il paesaggio – non può essere trascurata l’importanza che Morris dedica ai disegni. Realizzati attraverso una varietà di tecniche (grafite, carboncino, inchiostro…), vanno considerati “nella loro totalità – afferma Thomas Krens – come un testo parallelo all’opera scultorea, tanto necessari per la sua comprensione quanto la scultura lo è per la comprensione dei disegni”9.

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Robert Morris, Investigations, 1990

L’artista infatti non subordina tale pratica al ruolo di mera progettazione; lo dimostrano le serie grafiche dedicate, più o meno esplicitamente, al tema del labirinto che non vanno interpretate come appendici ai “dispositivi d’inganno” realizzati nelle tre dimensioni, ma come opere d’arte autonome.
La dimensione nella quale si inscrivono i disegni è infatti ben altra cosa rispetto alla realtà fatta di oggetti fisici tridimensionali, il cui significato è afferrabile esclusivamente attraverso l’esperienza diretta. Il mondo delle immagini rappresentate sulla superficie bidimensionale del foglio è quello dell’astrazione, di un allontanamento dalla realtà fisica per poterla osservare, “concepire” da una certa distanza. È la dimensione virtuale nella quale si inscrive la facoltà creatrice dell’artefice, di colui che indaga le “contingenze labirintiche” del mondo fenomenico nel quale siamo immersi.

di Alessandra Acocella

Leggi anche
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte II)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte III)

Note
1 Pierre Rosenstiehl, “Labirinto” in Enciclopedia Einaudi, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1979, p. 7
2 Brian Wallis “Prefazione” in Jeffrey Kastner (a cura di), Land art e Arte ambientale, London, Phaidon, 2004, p. 30
3 Paolo Santarcangeli, “Labyrintyca 1981” in Achille Bonito Oliva (a cura di), Luoghi del silenzio imparziale. Labirinto contemporaneo (catalogo della mostra, Milano, Palazzo della Permanente, giugno-agosto 1981), Milano, Feltrinelli, 1981, p. 53
4 Robert Morris, “Aligned with Nazca”, Artforum, XIV (1975), n.2, p. 36
5 Robert Morris, “Notes on Sculpture, Part 2”, Artforum, V (1966), n.2 in Robert Morris, Continuous project altered daily: the writings of Robert Morris, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1993, p. 16
6 Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Milano, Mondadori, 2000, p. 268
7 Alessandro Nigro, Estetica della riduzione. Il Minimalismo dalla prospettiva critica all’opera, Padova, Cleup, 2003, p.40
8 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2005, p. 43
9 Thomas Krens “Introduzione” in Thomas Krens (a cura di), I disegni di Robert Morris (catalogo della mostra, Milano, Padiglione d’Arte Contemporanea, 18 aprile-28 maggio 1984), Milano, Nava, 1984, senza pagina

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4 Ottobre 2008

Interviste

Intervista al designer Raffaello Galiotto

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Raffaello Galiotto, giovane designer vicentino, dopo una intensa esperienza ed attività nel campo del design industriale, è ora dedito ad una singolare azione di avvicinamento del mondo della pietra al Design.
Presso la recente esposizione di Abitare il Tempo si è alzato il velo sopra una ricca produzione di oggetti di design in pietra che traggono ispirazione da una originale ricerca sui temi, disegni e realizzazioni, del maestro Andrea Palladio. I progetti di Raffaello Galiotto confluiscono infatti nella mostra itinerante “Palladio e il Design Litico”, promossa dal Consorzio Marmisti del Chiampo. L’attenzione del pubblico sarà riaccesa in occasione di Marmomacc presso gli spazi di VeronaFiere.
Lo incontriamo presso il suo vivace studio, localizzato, non a caso, nella Valle del Chiampo e dove, con i suoi collaboratori, oltre al progetto di design industriale si occupa anche di immagine coordinata e di progettazione di spazi espositivi, per rivolgergli alcune domande.

Veronica Dal Buono: Dai polimeri ai lapidei, dalla “materia d’invenzione” della modernità, la plastica, a quello per eccellenza della “permanenza”, la pietra. Quali gli obietti che ha scelto di perseguire avvicinandosi al mondo della pietra e quali le difficoltà incontrate?
Raffaello Galiotto: Il traguardo affascinante che mi sono posto è stato di lavorare un materiale unico, naturale, non ripetibile. Subito è nata la curiosità di capirne la provenienza, la natura, l’origine e l’eccezionalità; d’altra parte ho cercato di osservare l’atteggiamento di discrezione e rispetto che merita una materia tanto importante quale la pietra. Quindi, rispetto alle altre mie sperimentazioni, una differenza enorme: pensando ai polimeri, si tratta di un materia amorfa che non ha una tradizione remota; dall’altra parte invece la pietra, con un intero mondo alle spalle e una serie di caratteristiche dalle quali il progetto non può prescindere. Un approccio completamente diverso dove la materia gioca un ruolo fondamentale, quello di attribuire all’opera, in un certo senso, l’unicità. Quindi, nel progetto di design litico, alla riproduzione in serie si accompagna l’unicità del materiale, la venatura, l’intrusione, la stratificazione, la macchia di colore, elementi tante volte considerati “difetti” ma che divengono in questo caso caratteristiche ad impreziosire e rendere unica l’opera stessa.

V.D.B.: Che influenza ha avuto sul Suo percorso di designer-progettista la ricerca applicata al materiale lapideo e quali conseguenze pensa possa esercitare sul Suo orientamento progettuale futuro?
R.G.: Probabilmente da oggi in poi, dopo essermi misurato con la pietra, ci sarà un cambiamento nel mio atteggiamento verso la materia e il progetto di design. Lo verificherò a breve avvicinandomi ad un altro bel mondo, quello del legno, che peraltro sto già affrontando. Un materiale naturale ma che dall’altra parte ha anche la caratteristica della rinnovabilità. L’albero cresce, muore e si ripianta mentre il marmo lo si estrae una sola volta. Tuttavia il legno porta in sè alcune caratteristiche simili a quelle della pietra naturale, conoscenze di cui poso avvalermi.
Per quanto riguarda invece il mondo dei polimeri e dei metalli la ricaduta di cui posso giovare è sicuramente come approccio culturale. In questo senso dunque l’esperienza mi sta aiutando ad affrontare gli altri mondi materici.

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Doccia in moduli di pietra naturale, dal disegno alla realizzazione. Raffaello Galiotto Designer

V.D.B.: Collaborando con le 18 aziende del Consorzio Marmisti del Chiampo coinvolte nel progetto “Palladio e il Design Litico”, come si è articolato il rapporto impresa/committente e designer/progettista?
R.G.: Alcune di queste aziende, quelle alla prima esperienza di rapporto con il design, sono cambiate molto durante il percorso: hanno incontrato un mondo nuovo, un modo nuovo di pensare gli oggetti e sentirli propri quindi affrontare una produzione “personale” e dunque affacciarsi sul mercato con un atteggiamento completamente diverso. E l’interesse è forte, il mercato lo sta dimostrando. Con altre con le quali invece il rapporto era già consolidato, il progetto “Palladio e il Design Litico” è una operazione rafforzativa per consolidare il lavoro intrapreso e sicuramente giovare a sviluppi futuri.
Nel dialogo con il designer, in generale, la principale difficoltà che le aziende affrontano è nella relazione con una persona esterna che si “intromette” nel ciclo produttivo, nell’intimità aziendale, snaturandone in qualche modo le caratteristiche: diffidenza dovuta alla paura che il designer possa carpire e portare altrove il know-how e i segreti industriali. Nel mio caso il fatto non si è verificato, grazie alla reciproca conoscenza e stima – anzi, le aziende si sono aperte in modo disponibile e trasparente alla ricerca e alla messa a punto dei processi produttivi per realizzare questi oggetti. Non solo, hanno scoperto che attraverso questa apertura hanno più da imparare che da perdere.

V.D.B.: Per la realizzazione delle opere in pietra pensate per la mostra, marmo, granito e pietre come vengono scelti? Quali le caratteristiche del materiale che interessano particolarmente? Prima il litotipo e poi il disegno dell’oggetto o come si articolano le fasi di creazione dell’oggetto?
R.G.: La scelta del materiale è stata effettuata in funzione del litotipo che l’azienda già dispone, conosce e lavora. Il progetto è pensato per creare un prodotto con un determinato materiale per una specifica azienda che già lo sa lavorare. Il Consorzio marmisti del Chiampo, nel suo complesso, è capace di lavorare qualsiasi tipo di materiale lapideo; se la singola azienda è specializzata a lavorare il marmo difficilmente lavora il granito o la pietra e viceversa.
Sono stati dunque abbinati materiali precisi a precisi progetti perchè ci sono funzionalità e caratteristiche da rispettare. Per esempio i pavimenti da esterno o gli oggetti da arredo urbano hanno richiesto l’uso di pietre particolari, resistenti agli agenti atmosferici. Allo stesso modo sono stati scelti materiali più teneri, magari fonoassorbenti, meno lucidabili, per oggetti da interni che non hanno necessità specifiche o ben valorizzano queste caratteristiche. Non ultimo il colore, la bellezza del marmo che, secondo il mio punto di vista, influiscono in modo rilevante sulla scelta nella produzione di un oggetto. Perchè un oggetto della serie creata per “Palladio e il Design Litico”, come dicevo pocanzi, non può prescindere dal materiale. La vena e il colore, il disegno forte che posseggono questi materiali, può essere di giovamento al progetto o, d’altra parte, può giocare a svantaggio creando ridondanza tra disegno dell’oggetto e disegno del marmo, innescando conflitto.
Quindi ad ogni oggetto la propria pietra e ad ogni materiale la propria azienda. Se si produrranno degli esperimenti di intercambiabilità lo si farà tenendo sempre presente questo rapporto.

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Vasche in pietra naturale, dal disegno alla realizzazione. Raffaello Galiotto Designer

V.D.B.: Riproducibilità tecnica, precisione, dettaglio consentito dalle tecnologie automatiche da un lato; singolare originalità del progetto d’autore dall’altro: come si conciliano questi due aspetti nella realizzazione delle opere e più in generale nella Sua specifica visione del design?
R.G.: Questa è una considerazione molto importante. Non stiamo parlando di artisti o di arte ma di design. Il designer è un progettista che non mette mano direttamente all’opera ma la affida a un esecutore esterno, quindi non vi è la capacità manuale come fattore primario di resa dell’opera ma vi è la progettualità, la forza del progetto e la precisione, la forza dell’esecuzione meccanica. Certi oggetti non sarebbero realizzabili o non avrebbero lo stesso fascino, se fossero realizzati con l’imprecisione manuale, non sono pensati per consentire l’irregolarità, una invenzione, un apporto anche creativo, positivo, dello scalpellino come esecutore. Questo è un concetto importante che deve essere chiarito. Il designer progetta gli oggetti già prevedendo la loro fattibilità, l’azienda cerca di realizzarli tramite un processo produttivo fattibile, economico e riproducibile.

V.D.B.: Produzione in serie corrisponde spesso a diffusione di massa. Secondo Lei il design e, in particolare, il design litico, a che pubblico si rivolge?
R.G.: Un materiale così prezioso, così limitato nelle quantità, non è pensabile che possa affrontare mercati di grande scala ma tuttavia ciò non per forza va a scontrarsi con il concetto di serialità, dove essa va ad esaltare quegli aspetti del progetto messi a punto proprio per una vista di scala. Per spiegarmi: se produco un lavello singolo non mi soffermo troppo sui dettagli, raggi, finiture, angoli, curvature perchè il costo stesso del dedicarmi al dettaglio porta fuori prezzo; progettare un oggetto per la serie mi consente di studiare in modo preciso tutti gli aspetti e spalmare il costo del progetto su più pezzi – quindi rendere competitivo un oggetto progettato correttamente. Ecco che la serialità va a giovare anche in questi prodotti, oggetti che non hanno specificatamente come obiettivo quello della grande serie ma hanno quello dell’alta qualità. E design non può che essere produzione di serie.

di Veronica Dal Buono

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