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1 Novembre 2008

Eventi

Costruire nelle terre alte
L’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA DI PIETRA NELLE AREE ALPINE

CONVEGNO
SABATO 4 OTTOBRE
VERONAFIERE, SALA ROSSINI, CENTROCONGRESSI ARENA

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Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Valle Maggia, Canton Ticino, Svizzera, 1996-1998.
Opera di Mario Botta,
fotografia di Vincenzo Pavan

Il Convegno “Costruire nelle terre alte” trova sua collocazione ideale all’interno della 43a edizione del Marmomacc di Verona, fiera e mostra di design e tecnologie lapidee, per interrogarsi sul tema dell’architettura contemporanea di pietra nelle aree alpine.
Ad introdurre e coordinare è Vincenzo Pavan, curatore del convegno: egli da principio ci offre la riflessione su come il costruire nelle terre di montagna evochi immediatamente in noi l’idea d’architettura che nell’immaginario collettivo s’identifica con lo “stile alpino”, icona tipologica molto più familiare e riconoscibile rispetto ad un’ immagine d’architettura generica della città.
Queste forme appartengono alla logica costruttiva dell’architettura anche definita vernacolare. Essa ha avuto negli ultimi anni grossa rivalutazione per la sua natura concettuale: infatti non declina in realtà solamente uno stile, ma anche una “ragione” costruttiva. Nello scenario attuale d’espansione urbanistica tipica dell’ultimo decennio, trasformante parti del nostro arco alpino secondo modalità talvolta al limite del kitch, s’innesta invece oggi un filone diverso, d’architettura di qualità, rinunciante alle “maniere” regionalistiche per confrontarsi con altri temi e linguaggi.
La Confederazione Elvetica, in particolare, è tra le scuole più intraprendenti su questo percorso. La ricerca sull’uso dei materiali ha generato nuovi impulsi ed ha fatto sì che pietra e legno della tradizione vengano ora accostati in modi sempre più creativi a materiali della modernità come cemento, acciaio e vetro, così da far prevalere sempre più il linguaggio costruttivo sui modelli formali.

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Restauro di una rovina di cascina in Alpe Sceru, Val Malvaglia, Canton Ticino, Svizzera, 2000.
Opera di Martino Pedrozzi,
fotografia di Martino Pedrozzi

Primo ospite a prendere la parola è Sebastiano Brandolini. La sua lettura critica si ricollega all’accenno di Pavan riguardo la diffusione avvenuta negli ultimi anni di mostre e premi sul tema dell’architettura alpina. In particolare pone l’accento sul premio organizzato dal Comune di Sesto, nel Tirolo italiano, allo scopo di far emergere alcuni progetti d’architettura alpina moderna particolarmente meritevoli: dal ’92 ad oggi la manifestazione di livello locale è divenuta evento di calibro internazionale.
L’intervento di Brandolini muove da una famosa immagine di Sebastiano Serlio, in cui la bellezza della pietra risiede nell’essere materiale preposto a diventare rovina, l’unico in grado d’invecchiare e di mostrare la propria sensibilità al tempo in un ciclo temporale millenario. Il suo racconto sul significato e l’utilizzo della pietra continua con un’immagine bucolica di pascoli alpini: in essi il primo intervento dell’uomo è la costruzione in pietra di muri di cinta e sentieri.
Scorrono poi panorami d’alta montagna, in cui il materiale lapideo è protagonista nel nascondere ovvero rivelare improvvisamente il paesaggio. Altri scatti fotografici di gallerie e ponti fanno invece intendere come la pietra abbia intrinseco nella propria natura l’uso applicativo per così dire ingegneristico. Una stele allo Julierpass e piccoli altari votivi a Santa Barbara, nel tunnel del Gottardo, mettono infine in luce, della pietra, la vocazione espressiva alla sacralità.
Dopo il breve excursus sui caratteri del materiale, si passa a progetti, come quello di Martino Pedrozzi per il restauro di un rudere, trasformato in una sorta d’altare; il giovane architetto premiato all’ultima edizione del Premio Ticinese, nel rustico di Monte di Sora con un intervento, ancora una volta, al limite tra arte e architettura, elimina sporti e superfetazioni tipiche dello stile alpino vernacolare.
La rassegna prosegue con alcuni esempi d’architettura tradizionale di Cereghini – progettista lombardo autore di libri sull’architettura alpina – di Mellano o di Vicentini, od ancora Morassutti e Mangiarotti che in una casa a San Martino di Castrozza tentano di portare il tema della pietra fino all’interno e così facendo trasformano una parete in un “grande arazzo” litico. Giungendo all’oggi, ecco il bel progetto di Romegialli per il Rifugio escursionistico e scuola di Alpinismo a Sondrio, in una località famosa per le maestose placche granitiche; l’edificio a forma di L definisce uno spazio chiuso, quasi un chiostro verso le imponenti rocce presenti e ne diventa il palcoscenico.
Infine è la volta della centrale elettrica di Hans Jorg Ruch in Svizzera, in cui l’assonanza montagna-verticalità viene contrastata dall’orizzontalità di una costruzione che si sviluppa con una copertura piana di 80 m di lunghezza.
Il convegno prosegue con l’intervento di Raffaele Cavadini, architetto di Mendrisio nei cui progetti si può notare la riuscita sintesi fra tradizione e modernità. Queste opere realizzate in Canton Ticino, seppur incentrate su temi talvolta poveri, o piccoli per dimensione, si sono distinte per la loro qualità, per la cura del dettaglio e per l’uso quasi esclusivo della pietra, che ha saputo ben coniugarsi con l’ambiente circostante. Vari interventi, oggetto di premi e riconoscimenti tra cui “l’International Award Architecture in Stone” di Marmomacc, sono stati realizzati nel piccolo centro montano di Iragna in Svizzera, cercando di creare una serie di spazi, quasi come un’infrastruttura, capaci di dare identità ai luoghi ed in cui la pietra da protagonista è stata utilizzata in tutte le scelte di finitura possibili: tagliata, bocciardata, spaccata, fiammata.
Ad Iragna è stato realizzato il Municipio, che assieme alla Piazza della Posta vecchia e alla cappella, crea un insieme unitario. Altro progetto è realizzato a Brissago, sempre in Svizzera: è la Chiesa di Porta che si presenta come una grande scatola in cui sono praticate estese aperture. La chiave del progetto consiste nel collegare le grandi pareti in granito con strisce di cemento, reminiscenza dei metodi costruttivi tipici ticinesi.

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Nuove infrastrutture comunali ad Iragna, Canton Ticino, Svizzera, 1990-1995.
Opera di Raffaele Cavadini,
fotografia di Filippo Simonetti

Aimaro Isola pone agli ospiti l’interrogativo, richiamato più volte durante la discussione: “perchè ci piace la pietra, perchè ci piace il paesaggio?”. Come lui stesso puntualizzerà, è forse solo nel progetto che si riesce a risolvere questa domanda. Gl’interventi che presenta si collocano in una fascia di mezzo: tra la città, che rappresenta la tekne, e la montagna, il sublime, la non forma.
Mostrando il primo progetto assieme a Flavio Bruna, Isola pone l’accento su come alla pietra s’accostino i temi del Sacro e della sofferenza. Il monumento alla Resistenza degli anni ’70 voleva essere un edificio in cui si potesse camminare e che fosse in continuità con il paesaggio circostante; nell’ascesa faticosa fino in cima si ripresenta il tema della violenza, ma al contempo anche quello dell’amenità con cui in un monumento dedicato ad un tema drammatico e duro, si può godere della bellezza del paesaggio.
Molto significativo è il Monastero Dominus Tecum in provincia di Cuneo: un claustro cistercense prende vita dal restauro di una cascina abbandonata, di un palazzotto e di una cappella, semidistrutti dal fuoco.
Il dialogo con la montagna caratterizza il progetto del centro parrocchiale a Roccabruna. L’edificio costruito in laterizio e pietra e organizzato attorno ad un ampio chiostro sembra abbracciare lo spazio che accoglie il sagrato.
Infine il progetto per il convento delle Monache Carmelitane: è ricavato su un piccolo pianoro nella montagna di Quart, in un luogo in cui l’inserimento paesaggistico risulta essere il tema più importante. Le pietre utilizzate sono state cavate direttamente sul luogo e consentono l’inserimento nell’ambiente tentando un continuum tra la pietra dei pendii e l’edificio che si staglia nello skyline.

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Monastero delle Carmelitane a Quart, Aosta, Italia, 1985-1989.
Opera di Roberto Gabetti, Aimaro Isola e Guido Drocco,
fotografia di Matteo Piazza

Mario Botta ci invita alla riflessione su come la pietra sia forse una reazione dell’architetto all’effimero, affinchè le proprie opere durino per sempre. Ed ancora, secondo Botta, la stratificazione tipica della pietra, che ne sottolinea il lavoro a gravità, obbliga il progettista al rigore, all’idea del radicamento a terra, tipico delle città europee in cui si tenta sempre di trovare un’orma, una traccia, un segno che rimandi a qualcosa di preesistente.
Il primo progetto presentato è la cappella del monte Tamaro sopra Bellinzona, vincitore del Premio Architettura di Pietra, costruito in un sito dove la troppa libertà di spazio, avendo a disposizione l’intera montagna, è stato uno dei problemi iniziali, superato ponendo l’architettura in cima, all’arrivo della funivia, unico accesso possibile. L’opera dalla forma geometrica allungata traccia per così dire l’orizzonte, enfatizzandone la linea mediante l’uso di corsi netti di porfido. L’architettura diviene parte integrante di un percorso, finalmente in piano dopo la fatica della salita, e la Chiesa, punto conclusivo del percorso stesso, diviene belvedere, anfiteatro sulla valle.
Rimanendo legati al filone del tema sacro, è mostrata la Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno. Nel 1986 una frana distrusse la vecchia chiesa seicentesca e parte del paese. La chiesa è ricostituita con un grande cilindro a base ellittica tagliato da un piano sull’asse minore, in modo che la copertura termini in cima con un cerchio perfetto. I materiali utilizzati sono, secondo il linguaggio proprio di Botta, due pietre di cave locali: conci di pietra grigia di Riveo e marmo bianco di Peccia, alternate cromaticamente in corsi orizzontali raccordati in sommità con una lastra vetrata sorretta da struttura metallica.
Un più recente progetto è quello del centro benessere ad Arosa in Svizzera, una costruzione totalmente ipogea in uno spazio delimitato dalle montagne, emergente dalla terra solo con grandi lucernari: quasi delle foglie od alberi vetrati per lasciare interrato tutto il resto dell’edificio. In questo progetto la pietra è protagonista degli interni, impiegata non solo per i muri, di grande spessore, ma anche per i pavimenti, le piscine, gli arredi, diventando tema continuo di design.

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Cappella del Monte Tamaro a Rivera, Canton Ticino, Svizzera, 1990-1995.
Opera di Mario Botta,
fotografia di Pino Musi

Da questa iniziativa di Marmomacc sicuramente si esce con aumentata consapevolezza del potenziale della pietra naturale: nel materiale lapideo e nelle applicazioni dei progettisti si fondono infatti la natura e la tecnica, la modernità e la tradizione, indispensabile connubio per l’architettura del futuro, sia remoto sia prossimo.

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di Debora Giacomelli

(Vai alla presentazione del convegno su Architetturadipietra)
(Vai al sito di Marmomacc)
(Vai al post sul Premio Sesto)

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30 Ottobre 2008

Principale

Il futuro del wellness hotel: tra ecologia e innovazione

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Clikka sull’immagine per scaricare l’invito

Seminario di formazione
L’incontro, dedicato a progettisti, imprenditori alberghieri e a investitori del settore ospitalità, presenta le tecnologie e i servizi per un albergo benessere ecologico. Due settori in espansione, quello wellness e quello ecologico, caratterizzati da una domanda in forte crescita. La formazione, in questo settore, è indispensabile: si tratta di nuove tecnologie e delle loro applicazioni che devono rispondere ad esigenze di funzionalità e a normative specifiche.

Sabato 15 novembre 2008, Fiera di Vicenza
sala Tiziano – padiglione G1
www.benewellnessexpo.it

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30 Ottobre 2008

Videointerviste

A Il Casone con Claudio Silvestrin il “Best Communicator Award” di Marmomacc 2008

[videointervista]13_interviste08.swf[/videointervista]

Con il progetto “La Cava” intendo esprimere la forza, il valore, l’anima della roccia nella sua totalità, il suo spessore, il suo peso, il suo apparire come forma e come superficie.
Superficie che è essa stessa co-essenza dell’essere roccia.
Questo progetto ci fa percepire che la crosta non vuole separarsi dal cuore della roccia, che esiste invece un tutt’uno, un’unità.
L’energia della roccia consiste in questa totalità materica.

Claudio Silvestrin

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La planivolumetria di progetto dello stand

Ars
Raccogliamo volentieri il testimone offertoci dagli approfondimenti di Alessandra Acocella sugli spazi dedalici di Robert Morris, poichè in effetti l’opera di Silvestrin per Il Casone a Marmomacc 2008 ripropone, nella sintesi dimensionale possibile entro gli spazi a disposizione in fiera, il tema del labirinto da sempre caro al mondo dell’arte. Sono numerosissimi i contributi su questo tema anche tra gli autori più noti: ci piace ricordare Mirò, per la vicinanza geometrica di alcuni suoi tratti celeberrimi alla spirale litica di Silvestrin, e particolarmente Kounellis per la significativa contemporaneità della sua opera. Il labirinto in ferro e carbone dell’artista italo-greco alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma è, per parole dell’autore, strumento personale per rifuggire la frammentarietà del mondo contemporaneo, alla volta del raggiungimento di una centrica unitarietà. Afferma, sul tema, nel ’93: “Nessuna scorciatoia risolve il problema, il viaggio all’interno del labirinto deve essere reale fino al cuore del problema e questo ti dà anche la misura del tuo destino.”
Il labirinto assume simbolicamente significato, nella storia, in parallelo all’arte, in ambito religioso: oltre a costituire citazione diretta dell’intrico materializzato nei camminamenti catacombali, il labirinto è metaforicamente trasposto ai calpestii di alcune cattedrali europee, ad esempio Chartres, dove è rappresentazione del percorso di fede in avvicinamento a Dio, situato al centro. Il movimento concentrico e contemplativo è del resto già presente, senza alcuna foggia labirintica eppur solitamente curvilineo, nel camminamento absidale dei fedeli attorno l’altare.
Problema di Dio a parte, come direbbe Silvestrin (Claudio Silvestrin, Octavo, pag. 219), il labirinto rappresenta nella sua medesima figura l’itinerario mentale compiuto dall’uomo verso la conoscenza. Racchiude in sè i temi dell’inconoscibilità certa della meta, nonchè della linearità logica dell’avvicinamento alla meta stessa. Il raggiungimento del centro, scopo del viaggio, risposta alla propria domanda esistenziale, sempre è associato ad un momento di catarsi, di conoscenza del mondo e di sè, conseguentemente anche di redenzione personale nel senso spirituale più ampio, non necessariamente cristiano.

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Un’inquadratura colta durante le fasi della fiera chiuse al pubblico (fotografia di Giovanni De Sandre)

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Ulteriori richiami all’espressività artistica contemporanea sono le sculture quali ad esempio Band di Richard Serra, per forma, senso di compressione fra le pareti del percorso, curiosità ovvero dubbio sul punto d’arrivo: di fronte al labirinto infatti non esiste mai la certezza di riuscita, ma solo la necessità d’affrontare la prova, l’ingresso.
Avvicinandoci all’architettura, ricordiamo il labirinto sulla collina vicino Messina ad opera dello scultore Italo Lanfredini; ancor più, ci pare infine suggestivo il richiamo al recente muro per la preghiera, opera dell’architetto Pietro Carlo Pellegrini al Monastero di Santa Gemma Galgani in Lucca, con il suo slancio verticale centrale in conclusione di percorso labirintico.
Se dunque una delle funzioni dell’arte, se non “la” funzione dell’arte, è provocare il pensiero, Silvestrin per Il Casone sceglie di misurarsi con uno dei temi artistici più classici, quello del labirinto, per stimolare ciascuno, nello straniamento provocato dall’arte collocata al di fuori dei suoi spazi canonici, ad un ragionamento sulla natura propria della pietra.

Tèkne
La finitura superficiale del monolite svettante al centro è opera scultorea di Studio Arte Marmo. La realizzazione del monolite vede, operativamente, la sovrapposizione di 3 cilindri tagliati “al filo” dal blocco originario di cava, poi scavati: il peso della materia infatti, se non svuotata al centro, non sarebbe stato tollerato dal pavimento del padiglione della fiera, di portata caratteristica di 4.000 kg/mq.
Il piano pavimentale è sostenuto da piedini regolabili, appositamente studiati da Goldbach per l’installazione di Silvestrin. La speciale finitura con rigatura continua su lastra di grande formato è ottenuta mediante macchina “rigatrice ad una testa”.
I pannelli verticali, di spessore massimo intorno agli 8 cm finali, sono tutti differenti: per larghezza e rastremazione in spessore; taluni si differenziano anche per altezza, nel tratto detto “volante”. I pannelli sono pure tagliati “al filo” direttamente dal blocco di cava, poi messi in prova.
Il progettista sceglie, come lavorazione superficiale: la sabbiatura sulla faccia esterna, invece la calibratura con mola all’interno del pannello. I segni di rigatura frutto della lavorazione sul lato interno sono lasciati a vista. I collegamenti fra i pannelli avvengono mediante spinotti in acciaio inox e zanche metalliche a scomparsa.
Complessivamente sono utilizzati circa 50 mc di pietra serena di Firenzuola.

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Alcuni dettagli dello stand di Claudio Silvestrin per Il Casone

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di Alberto Ferraresi

(Vai al sito di Claudio Silvestrin architects)
(Vai al post su Robert Morris)
(Vai al sito Casone)
(Vai al sito di Marmomacc)
(Vai al sito di Giovanni De Sandre)
(Vai al video sull’opera Band di Richard Serra)
(Vai al sito di Studio Arte Marmo)
(Vai al sito di Goldbach)

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27 Ottobre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte III)

I LABIRINTI DI PIETRA TRA ARCHITETTURA E PAESAGGIO

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Robert Morris, Labirinto, 1982

Costruzioni site-specific: operare nell’ambiente naturale
Nel noto saggio La scultura nel campo allargato (1978), Rosalind Krauss, giudicando non più appropriato l’utilizzo del termine “scultura” per definire tutta una serie di interventi artistici realizzati a partire dai primi anni Settanta1, individua ed argomenta un nuovo raggio d’azione per l’arte contemporanea – includente le categorie di architettura e paesaggio – all’interno del quale si inscrivono i labirinti di Robert Morris radicati nell’ambiente naturale.
La comprensione di questa apertura della pratica scultorea ad innovativi orizzonti interpretativi richiede un excursus inerente al rapporto opera d’arte/contesto attraverso tre tappe fondamentali: la scultura tradizionale, quella modernista ed infine la concezione minimalista.
Per secoli, argomenta la Krauss, la scultura è stata inseparabilmente legata alla logica del monumento: ha agito nel caratterizzare puntualmente un luogo specifico (tombe, artefatti e spazi celebrativi, vie cerimoniali…) esaltandone emblematicamente il significato. In tali ambiti insediativi, il piedistallo ha svolto un ruolo duplice e di primo piano in quanto ha connesso la scultura al sito reale, ma allo stesso tempo ne ha sancito la sua valenza virtuale e simbolica, innalzandola dal livello del suolo.
Questa logica, radicata nella storia delle arti plastiche, comincia ad essere erosa nel tardo Ottocento fino ad incrinarsi, salvo rare eccezioni, vivamente nel giro di alcuni decenni.
Il Balzac di Rodin (1898) è un esempio chiarificatore di tale processo: nonostante sia stato concepito come monumento – da erigere in un determinato luogo di Parigi – figura oggi in numerosi spazi espositivi eccetto che nella sua destinazione originaria e logicamente significativa.
L’autonomia dell’opera scultorea rispetto al contesto paesaggistico o urbano – esemplificata dal caso di Rodin – viene portata alle estreme conseguenze dall’arte di Brancusi. Svariate opere dell’artista rumeno (Le Coq, Cariatides, Adam et Ève) assorbendo e annullando nel corpo stesso della scultura il basamento, segno tangibile dell’aderenza e della “saldatura” ad un luogo specifico, affermano così il loro carattere essenzialmente materico-formale e sostanzialmente a-contestuale.
La totale rimozione delle relazioni significanti col contesto dall’oggetto scultoreo, apre le porte ad una nuova fase caratterizzata da una totale antitesi rispetto alla preesistente logica del monumento: il modernismo. Definire il raggio d’azione della scultura è adesso possibile esclusivamente in termini di una vera e propria negatività, data dalla somma del non-paesaggio e della non-architettura.
Diversi protagonisti del minimalismo, primo fra tutti Robert Morris, dichiarano apertamente il loro rifiuto ad una concezione dell’artefatto plastico come “una pura astrazione, un puro riferimento o un puro piedistallo, privo di localizzazione funzionale e ampiamente autoreferenziale”2.

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Robert Morris, Untitled (Mirrored Cubes), 1965
Robert Morris, esposizione alla Green gallery, dicembre-gennaio 1965

Al contrario tendono ad assottigliare sempre di più il divario che separa l’opera dall’ambiente circostante attraverso dispositivi artistici in grado di fondersi col paesaggio o con lo spazio espositivo come nel caso dei quattro cubi specchiati installati all’aperto o delle entità geometriche di compensato presentate alla Green Gallery di New York nel dicembre-gennaio 1965, entrambi realizzati da Morris.
Coinvolti nell’interesse per il contesto promosso dalla stagione “riduzionista”, un gran numero di artisti americani – Robert Smithson, Michel Heizer, Richard Serra, Walter De Maria, Robert Morris … – scelgono, agli inizi degli anni Settanta, di confrontare il loro lavoro con i due termini positivi di paesaggio e architettura, realizzando non più oggetti scultorei esposti in gallerie o musei bensì alterando veri e propri luoghi esterni attraverso costruzioni denominate site-specific.
Per gli artisti precedentemente citati – più o meno segnati dall’esperienza artistica del minimalismo – operare all’interno dell’asse complesso paesaggio/architettura non assume il mero significato di un rifiuto del contesto siteless di molta scultura modernista o di un ritorno alla demarcazione del luogo reale attraverso una rappresentazione simbolica, propria della scultura tradizionale. Realizzare costruzioni site-specific equivale ad interagire direttamente nel “campo allargato” della pratica artistico-scultorea così come era avvenuto in passato in culture altre rispetto alla nostra.
“I labirinti e i dedali – afferma la Krauss – sono al tempo stesso architettura e paesaggio, e lo stesso vale anche per i giardini giapponesi (…) Il che non significa che si trattasse di una forma primitiva, o degenerata, o deviante di scultura, ma di una parte di un universo o spazio culturale di cui la scultura era a sua volta solo una parte”3.
Ed è proprio l’insegnamento di tale orizzonte culturale, che Robert Morris – insieme ad altri numerosi artisti – recupera ed allo stesso tempo reinterpreta, realizzando strutture labirintiche radicate nell’ambiente naturale in grado di estendere il raggio d’azione della pratica scultorea.

Cerchi concentrici, spirali e segni stilizzati: apertura al paesaggio
L’asse complesso architettura/paesaggio comincia ad essere occupato ed esplorato da Robert Morris con la realizzazione di Observatory, un’imponente struttura legata alla morfologia labirintica da un’accentuata tendenza centripeta.

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Robert Morris, Observatory, 1977 (1971)

Nonostante risalgano al 1965 i primi progetti caratterizzati da un evidente interesse per gli osservatori astronomici del neolitico, solo nel 1971 – in occasione di Sonsbeek ’71, manifestazione internazionale organizzata dalla città olandese di Arnheim – viene concessa all’artista la possibilità di erigere una costruzione site-specific in un vasto terreno pianeggiante.4
La complessa struttura – costituita da terra, legno, blocchi di granito e acciaio – consiste in due cerchi concentrici dal diametro esterno di settantuno metri, separati da un fossato.
Il recinto interno – formato da un muro di zolle erbose addossato ad uno steccato di legno – presenta quattro aperture, una delle quali costituisce la porta d’accesso. Quest’ultima può essere raggiunta attraversando un tunnel dalla sezione triangolare, ricavato nel terrapieno occidentale dell’anello esterno, e percorrendo un canale che divide l’osservatorio nel suo asse est/ovest. Delle tre rimanenti aperture del recinto interno, la prima guarda ad est verso la conclusione del canale (un terrapieno perforato da due lamine d’acciaio che formano una V, tali da indicare la posizione del sole durante gli equinozi); le altre interruzioni sono rivolte verso i restanti argini anch’essi conclusi in alto da due lastre disposte a novanta gradi e poste a marcare la posizione del sole durante il solstizio d’estate e d’inverno.
L’aspetto complessivo dell’opera attinge, in maniera esplicita, a fonti neolitiche prima fra tutte il misterioso complesso di Stonehenge, orientato verso il punto esatto nel quale sorge il sole durante il solstizio d’estate, notoriamente strutturato su una composizione di monoliti che dà vita ad una forma planimetrica circolare.
Nell’intervista rilasciata ad Achille Bonito Oliva pubblicata su Domus (1972) l’artista dichiara esplicitamente la forte influenza che ha esercitato su di lui l’arte preistorica e tenta di rintracciarne le intime motivazioni: ” È solo che esiste qualcosa nell’arte orientale e in quella preistorica che ha un certo fascino per me. Forse la rispondenza che la loro arte ha alla natura, ai cicli della natura – il tempo, gli edifici orientati, magari in direzione di una stella, o di un sole (…) La complessità delle funzioni di certe costruzioni neolitiche è quello che mi affascina”5.
Il recinto arcaico di Stonehenge diviene una sorta di cornice temporale nella quale si inscrive l’esperienza fisica dell’opera; al fruitore è concessa la possibilità di muoversi come in un meandro ma di occupare infine – al pari di un labirinto vero e proprio – l’esatto centro della costruzione. Una fotografia dell’epoca, approvata dall’artista, sintetizza efficacemente tale concetto.
Nonostante tale immagine bidimensionale catturi visivamente la posizione assoluta e centrale occupata dall’individuo all’interno della struttura, la sensazione che suscita, paradossalmente, è quella di uno sconfinamento, di un decentramento della figura umana nella vastità del paesaggio circostante. Il recinto interno, delimitato da un basso steccato, non isola il fruitore dal contesto naturale – come avverrà nei successivi labirinti di Celle e Pontevedra – ma al contrario lo invita ad entrare in contatto con la sconfinata pianura olandese che si estende fino all’orizzonte.
Il paradosso tra la tendenza centripeta dell’opera e l’impressione di una decentralizzazione dell’individuo rispetto all’ambiente naturale è alla base di una ulteriore opera la cui realizzazione precede di un anno quella dell’osservatorio: Spiral Jetty di Robert Smithson.

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Robert Smithson, Spiral Jetty, 1969-1970

Rocce, terra e cristalli di sale sono i materiali che costituiscono lo sconfinato “molo” disteso in lunghezza per 450 metri nel lago rosso a Rozelle Point, nello Utah, il cui andamento topologico spiraliforme rievoca i mitici vortici generati da correnti sottomarine al centro della distesa di acqua salata.
Rosalind Krauss, in Passaggi (1977), pone questo intervento di Land Art come ultimo esempio di un’impresa di decentramento, indirizzata ad investire la conoscenza e l’esperienza che abbiamo di noi stessi e condotta – attraverso un lessico astratto – da numerosi artisti negli anni Sessanta e Settanta.
L’opera di Robert Smithson, converge verso un centro che il fruitore può raggiungere e occupare stabilmente; la sua forma spiraliforme – al pari di un tracciato labirintico univiario – delinea un univoco percorso che, avvolgendosi su se stesso, culmina in un preciso spazio interno. “Tuttavia – congettura la Krauss – l’esperienza che suscita è quella di un continuo decentramento nell’immensa distesa di acqua e cielo” data dalla totale apertura del molo ad illimitati orizzonti6.
La vastità del paesaggio naturale, tanto in Spiral Jetty di Smithson quanto in Observatory di Morris, diviene parte integrante non solo dell’intervento artistico quanto dell’esperienza fruitiva che entrambe le opere richiedono. Vengono così rimesse in gioco le nostre usuali e rassicuranti posizioni centriche (sia fisiche che psicologiche), sottoposte in qualche modo alla “dispersione” di fronte all’evidenza illimitata del mondo.
Tale presa di coscienza dell’osservatore di fronte all’aperto e sconfinato paesaggio è vicina alle manifestazioni del sublime teorizzate da Edmund Burke nel XVIII secolo. Lo sconvolgimento emotivo suscitato da maestosi elementi naturali descritto dal britannico, viene però aggiornato da artisti come Morris e Smithson in senso fenomenologico, attraverso una ricezione attiva del contesto paesaggistico nel quale le opere si radicano. Ne consegue la scoperta dell’appartenenza del nostro corpo ad un sistema vasto e complesso, dove si perviene ad una piena consapevolezza solo in virtù di un investimento fisico, di un’esperienza di un passaggio a cielo aperto.
L’articolo di Robert Morris “Aligned with Nazca” comparso su Artforum nell’ottobre 1975, risulta proprio incentrato sulle relazioni fisiche e psicologiche che legano lo spettatore ad un contesto naturale dall’estesa spazialità7.

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Robert Morris, Looking down on a Nazca Line, 1975

Il saggio è suddiviso in due sezioni: la prima, essenzialmente narrativa, si focalizza sul viaggio compiuto dall’artista in Perù per osservare le misteriose linee di Nazca8 e sul suo processo investigativo; la seconda, di taglio critico, verte sulla connessione esistente tra i tracciati peruviani e numerosi interventi artistici coevi alla stesura dell’articolo.
L’intima connessione tra i tracciati peruviani e i labirinti viene esplicitata sinteticamente da Morris – seppur all’interno di una riflessione più ampia – nella seconda sezione del saggio.
Sia gli antichi disegni che i labirinti – argomenta l’artista – se osservati da una posizione privilegiata, come quella aerea, vengono ridotti ad un insieme di linee tracciate su un piano disposto a novanta gradi rispetto ai nostri occhi. Una simile “elevazione” dello sguardo rinnega totalmente la spazialità in cui vivono tali artefatti artistici fortemente legati al suolo; l’unica dimensione in grado di valorizzare la composizione “orizzontale” che li caratterizza è quella di un’esperienza fenomenologica da vivere a contatto diretto con l’esteso deserto peruviano (per quanto riguarda i disegni stilizzati), o con un angusto vano spaziale delimitato da alti muri (proprio delle costruzioni labirintiche).
Se la matrice comune che connette gli antichi tracciati alle strutture dedaliche è dunque un’estensione nello spazio, ciò che li differenzia è l’approccio a tale “vuoto tangibile”: nel primo caso un’apertura – priva di delimitazioni – verso il paesaggio peruviano, nel secondo una vera e propria enclosure rispetto all’esterno.

Dure idee di pietra: il caso di Celle e Pontevedra
Robert Morris negli anni Settanta si apre al contesto paesaggistico: un intervento in grande scala (Observatory) e un testo critico (“Aligned with Nazca”) rappresentano due momenti significativi di questa proiezione dell’attività artistica da contesti interni di musei e gallerie verso lo spazio aperto e la natura.
Nei due decenni successivi l’artista ritorna, in più di una occasione, ad intervenire nel paesaggio attraverso la realizzazione di vere e proprie costruzioni dedaliche che attraggono lo spettatore in spazi isolati ed enucleati – ma non per questo privi di legami rispetto al contesto naturale circostante – quali possono essere considerati i labirinti litici di Celle e Pontevedra.
Il 12 giugno del 1982 ha luogo nella Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia, l’inaugurazione degli “Spazi d’arte”: quindici installazioni – nove all’aperto e sei all’interno della villa dall’attuale aspetto settecentesco – concepite e realizzate da artisti contemporanei di diverse nazionalità (Dennis Oppenheim, Alice Aycock, Anne e Patrick Poirier, Mauro Staccioli, Richard Serra, Dani Karavan, Robert Morris …) invitati dal collezionista Giuliano Gori, industriale pratese e proprietario della stessa tenuta. Le opere presentate costituiscono il primo nucleo di una collezione d’arte, di alto valore internazionale, che negli anni si arricchirà notevolmente di artefatti artistici collocati sia negli spazi esterni che interni del complesso residenziale.
Risale alla primavera del 1982 la prima visita di Morris alla Fattoria di Celle. Il progetto ideato in tale occasione prevede la realizzazione di un labirinto in marmo di Trani, marmo serpentino e cemento, eretto su uno specifico sito all’interno del vasto parco romantico, personalmente scelto e tracciato dall’artista.

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Robert Morris, Labirinto, 1982

La costruzione si sviluppa al centro di un piccolo prato in declivio, circondato da fitta boscaglia. Ad una prima fruizione si mostra come un corpo quadrangolare, delimitato da alte pareti e caratterizzato da una sottolineata alternanza cromatica di fasce orizzontali bianche e verdi. Un angusto vano d’entrata, tale da consentire l’accesso ad una sola persona per volta, immette lo spettatore all’interno di un corridoio obbligato che si snoda in pendenza tra angoli fortemente acuti. Il traguardo di questo lungo e tortuoso tragitto unidirezionato della lunghezza di sessanta metri, è costituito da un muro bloccante, un cul-de-sac, che obbliga il fruitore a tornare sui propri passi.
In uscita della struttura, viene offerta una differente lettura dell’opera rispetto a quella proposta mediante l’esperienza diretta nel disorientante sentiero. Una pedana rialzata, situata nelle vicinanze e celata alla vista dagli alberi, permette di comprendere come la forma volumetrica del labirinto non sia originata da un quadrilatero bensì di un triangolo equilatero e, inoltre, notare come il punto di origine e quello finale siano adiacenti e divisi tra di loro solo da un muro.
Numerosi gli spunti di riflessione offerti dal labirinto realizzato da Robert Morris in questo parco di sculture, a partire dal dialogo con il contesto naturale nel quale si inserisce. Nonostante la struttura dedalica non sia una “finestra architettonica” aperta verso il contesto paesaggistico, riesce ad intessere con questo profonde relazioni.
Bruno Corà, nel saggio “Robert Morris: il dono che scioglie il nodo” dedicato ai lavori dell’artista americano presenti a Celle, si sofferma sull’importanza del sito scelto per edificare tale opera: la selva.9
La collocazione rievoca immediatamente i primi versi della Commedia di Dante Alighieri, che Morris ha posto in apertura del breve commento testuale al labirinto di Celle, pubblicato nel catalogo della collezione Gori. Riletto alla luce dell’incipit del celebre componimento trecentesco, la costruzione dedalica riceve un significato ulteriore rispetto al mero spazio fisico, divenendo metafora di una maturazione individuale a seguito di un disorientante smarrimento.
Oltre alla relazione significante con l’ambiente naturale, un ulteriore aspetto che caratterizza tale “dispositivo d’inganno” è l’evidente riferimento alle architetture romaniche a fasce marmoree bianche e verdi innalzate in particolar modo in Toscana, quali la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas e il battistero di San Zeno, entrambi a Pistoia.

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San Giovanni Fuorcivitas
Battistero di San Zeno

L’architetto e critico Luigi Moretti, in un articolo del 1950 pubblicato sulla rivista Spazio da lui stesso diretta, dedicato alle trasfigurazioni delle strutture murarie in termini formali astratti, ha evidenziato come l’alternarsi delle fasce colorate conferisca alle pareti delle architetture romaniche una sorta di pulsazione vitale: “Il seguirsi delle spartizioni a fasce o a superfici orizzontali bianche e verdi o nere, degli alternati bagliori e oscurità, del precipitarsi della luce e ritrarsi in tagli abissali, è puro ritmo. I corsi delle pietre sulle pareti così trasfigurate vanno letti lentamente l’uno appresso l’altro; si sentirà allora scandire il loro battito sonoro”10.
Tale riflessione è in grado di gettar luce sulle motivazioni che hanno indotto l’artista americano a trasferire e reinterpretare, in maniera del tutto originale, l’astrazione bicromatica propria delle architetture del passato, ad una struttura labirintica. Il ritmo crescente del serrato e angusto passaggio, generato dal progressivo avvicendarsi di fasce chiare e scure, è infatti funzionale ad accrescere nello spettatore una sensazione di vertiginoso disorientamento.
Questo forte senso di illusività – intensificata rispetto alle precedenti strutture labirintiche mediante il ritmico ripetersi delle fasce cromatiche dall’andamento orizzontale e continuo – viene resa testualmente da Morris attraverso uno stile sintetico e incalzante: “Giri senza fine cercando un centro che continua a sfuggire. L’inseguimento, con o senza filo, minaccia un collasso, uno scivolamento, un perdersi ad ogni giro d’angolo. Ogni passaggio: una strategia, un calcolo, un abbandono, un recupero, una ri-iniziazione. Un possibile orientamento ruota sopra una precessione elusiva. La vertigine minaccia”11.
Alla distanza di circa quindici anni dalla costruzione dedalica di Celle, Robert Morris realizza un ulteriore dispositivo spaziale, immerso nel paesaggio naturale, tale da offrire nuove opportunità di riflessione concettuale e intensità emotiva di fruizione: un labirinto litico le cui radici affondano nella storia geologica e culturale della provincia spagnola di Pontevedra.

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Robert Morris, Pontevedra Labyrinth, 1999

“Isla de Esculturas” è il progetto più generale all’interno del quale tale opera prende vita: una striscia di terra sulle sponde del fiume Lèrez nella quale venti artisti di varie nazionalità – così come è avvenuto precedentemente nel parco di Celle – sono stati invitati a realizzare interventi site-specific dialoganti col contesto paesaggistico.
L’intento di Rosa Olivares e Anton Castro, curatori del progetto, è quello di realizzare un “paesaggio contemporaneo” nel quale il passato e il presente appaiano come due dimensioni temporali imprescindibilmente e coerentemente fuse tra di loro; si ricerca una trasformazione del contesto portatrice di legami con le antiche tracce sedimentate nel territorio galiziano.
Il tridimensionale “segno” impresso da Robert Morris sul terreno dell’isola sembra inscriversi pienamente all’interno della concezione di partenza che soggiace all’idea di questo “paesaggio atemporale di sculture”.
La fonte d’inspirazione dell’opera appartiene infatti ad un remoto passato; un passato distante circa tremila anni e fissato nell’incisione di un labirinto su una roccia granitica a San Xurxo do Monte, in provincia di Pontevedra, poco distante dal sito dell’intervento morrissiano.
Così come era avvenuto per il tracciato pavimentale di Chartres, anche l’incisione labirintica viene reinterpretata e rielaborata dall’artista: ridotta nel numero di sentieri (da sette a cinque), trasposta dalla dimensione bidimensionale a quella tridimensionale per consentirne l’attraversamento. L’antico tracciato viene trasformato così in un artefatto in grande scala (9×12 metri) dalla forma ovoidale, impiantato in una vasta area circondata da alberi di eucalypto. Le alte pareti che lo strutturano, costituite da lastre di pietra alte due metri e disposte verticalmente, delimitano un percorso unidirezionale che, a differenza del labirinto di Celle, non si snoda tra angoli fortemente acuti ma tra sinuose e morbide curve.

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Robert Morris, Pontevedra Labyrinth, 1999

La materia scelta da Morris per erigere tale costruzione è un’ulteriore omaggio al territorio nel quale l’opera è radicata: il granito. Quest’ultimo rappresenta il substrato simbolico della regione galiziana: parte integrante del tessuto geologico sin dalla sua formazione nell’era neolitica, nonchè perno dell’economia contemporanea della provincia di Pontevedra, tra i maggiori centri al mondo nella produzione ed esportazione di questo materiale.
Ad accomunare i labirinti di Celle e Pontevedra non concorre, dunque, esclusivamente la collocazione in un contesto naturale ma anche la scelta del materiale lapideo, funzionale alla resistenza e, quindi, alla durata delle opere stesse sottoposte incessantemente all’azione “erosiva” da parte degli agenti atmosferici.
A differenza del legno, impiegato da Morris a partire dalle prime sperimentazioni scultoree sino alle strutture labirintiche in grande scala e quasi tutte smantellate il giorno stesso di chiusura della mostra, la pietra offre una “mole” corposa e dura, sfida il tempo, anela all’eternità.
Gli spazi dedalici di Celle e Pontevedra sono stati, dunque, costruiti per durare, per fissare e materializzare indelebilmente forme ed esperienze labirintiche tridimensionali, “idee dure come pietre”12 mai completamente cancellate dalla mente dell’uomo e dallo stesso Morris, che ne ha fatto un tema cardine della sua riflessione critica ed artistica.

di Alessandra Acocella

Leggi anche
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte I)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte II)

Note
1 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, pp. 283-297
2 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, p. 288
3 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in, L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, p. 291
4 Il lavoro è stato distrutto l’anno successivo e ricostruito nel 1977 a Flevoland, sempre in Olanda; un altro osservatorio temporaneo è stato inoltre eretto al Walker Art Center di Minneapolis.
5 Achille Bonito Oliva, “Robert Morris intervistato da Achille Bonito Oliva”, Domus, (1972), n.516, p.44
6 Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Milano, Mondadori, 2000, p. 282
7 Robert Morris, “Aligned with Nazca”, Artforum, XIV (1975), n.2, pp. 26-39
8 Geoglifi delineati durante la fioritura della civiltà di Nazca (300 a.C.-500 d. C.) nell’altopiano arido che si estende per circa cinquanta chilometri nel Perù meridionale. Le linee, tracciate asportando dal suolo lo strato superficiale di ciottoli vulcanici in modo tale da creare un contrasto col pietrisco sottostante (di colore più chiaro) vanno a formare più di 800 disegni stilizzati.
9 Bruno Corà, “Il dono che scioglie il nodo” in Bruno Corà, Robert Morris, Robert Morris: un percorso verso il centro del nodo (con una testimonianza dell’artista), Santomato di Pistoia, Fattoria di Celle, 1995, p. 19
10 Luigi Moretti, “Trasfigurazioni di strutture murarie”, Spazio, II (1950), n. 3 in Federico Bucci e Marco Mulazzani (a cura di), Luigi Moretti. Opere e scritti, Milano, Electa, 2000, p. 168
11 Robert Morris, “Labirinto” in Arte ambientale: la collezione Gori alla Fattoria di Celle, Torino, Allemandi, 1993, p. 240
12 Robert Morris, “Labirinto” in Arte ambientale: la collezione Gori alla Fattoria di Celle, Torino, Allemandi, 1993, p. 240

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24 Ottobre 2008

English

PIBAMARMI AS THE PROTAGONIST OF 2008 MARMOMACC
Marble “palissade” gets the first prize at the “Best Communicator Award”

Versione italiana

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Some weeks after the ending of 2008 Marmomacc here is the first of a series of reportages about the exhibition that took place in Verona.
After the presentation of the event, of the involved companies and of their collaborations
with highly acclaimed designers, it seems helpful to present a summary of “Marmomacc Meets Design” and of the “Best Communicator Award”, proposed this year as well after its successful first edition in 2007.
The fair, held in Verona between 2nd and 5th October, confirmed the success of the previous exhibition and proved the high professionalism and productive quality of the stone manufacturing companies. This quality is linked to the “culture of the product” and to a design project research that has had the possibility to express and improve in several new ways through successful collaborations between firms and designers since last year.
The 15 participant companies have been involved in the second edition of the “Best Communicator Award” designing and manufacturing their stands.
The two initiatives have confirmed as precious instruments of motivation to the development of a new kind of culture, both in the financial and productive world, that finds in the design of exhibition stands a preferred way to present the firm’s identity to the public. This medium, that of exhibition stands, takes part in the creative expressivity adding to a mere commercial instrument a new, rich communicative meaning.
The stand becomes a true temporary micro-architecture, which is able to show the art of creating high-quality products elaborating stone materials and in which each company invites and receives its public showing its identity through new products and project researches.
This renewed attention toward stand design seems somehow paradoxical within a fair that sees the stone manufacturing as its main protagonist. However, the apparent detachment of the stone from the stand temporary character becomes a challenge and, at the same time, a motivation for the experimentation of new working methods and conformations even going against the traditional conception of the stone materials as heavy and solid elements.
The marble is consequently proposed in previously unseen forms and manufactures linked to the suggested themes.
If in the first edition of “Marmomacc Meets Design” the main theme was the lightness of marble, this year companies and designers have faced the interpretation of stone potentials through the game of its surfaces.
“Pelle, Skin, Texture” was indeed the issue suggested in the 2008 edition: a theme with topical and up-to-date characteristics which gave the chance to transform stone materials into surprisingly metamorphic elements with conformations not typical of their nature and with metaphors of particular values in their surfaces.
Stone plates with manufactured surfaces, differently worked with the contribution of both mechanized production and handmade methods, let the visitors perceive their characteristics through touch and vision. This extremely tangible communicative approach allowed to give a surplus value to design, production and construction phases, through the interaction experienced by the public.
Visits into the stand allowed to fully appreciate and perceive the essential experience of it.

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Surface texture of Pibamarmi’s stand for Marmomacc 2008

Professionalism and originality shown by winner companies in the first edition of the “Best Communicator Award” have been confirmed this years too, re-affirming as absolute protagonists.
A representational judging panel composed by Mauro Albano – Marmomacc Brand Manager, Aldo Bottoli – ADI (Industrial Design Association) representative, Oscar Colli – “Il Bagno Oggi e Domani” magazine, Vicenzo Pavan – Marmomacc cultural manager for Architecture and Livio Salvadori – “Casabella” magazine, awarded the prize ex aequo
to companies Pibamarmi from Veneto and Il Casone from Tuscany.
Winners last year as well together with Grassi Pietre, the two firms has renewed the guiding concepts of their stands thanks to the collaboration with important contemporary designers.
Il Casone, which won in 2007 collaborating with Kengo Kuma, presented to the public a project by architect Claudio Silvestrin based on metamorphosis of serena stone into orange peel, identified in the visit into the pavilion with a spiral development.
Pibamarmi, on its hand, renewed its stimulating relationship with Michele De Lucchi and Philippe Nigro started during last year edition. While in 2007 the stand was designed by Damiano Steccanella and contained objects conceived by De Lucchi, this year it’s the result of the collaboration between Steccanella himself and the two designers.

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Pibamarmi’s stand for Marmomacc 2008, project by Michele De Lucchi, Philippe Nigro, Damiano Steccanella

Pibamarmi pavilion is presented as an harmonic architectural object with neutral colours and welcoming forms, offering a moment of relax and peaceful observation of a marble manufacture characterized by refined design, inviting the observer to stop by, come closer, touch surfaces, enter into the structure.
Externally, the enveloping structure seems like a homogeneous, neutral, vertically developed diaphragm. The architectural motif re-interprets a traditional “wooden palissade” that, coming closer to it, reveals its “petrified” essence linked to the perfectly manufactured marble. The close and tactile observation allows to comprehend the true materiality of the manufacture and its construction technique. The apparent superficial compactness is obtained with the juxtaposition of perforated boards, assembled in parallel on metal tracks to form two different surfaces – external and internal – that sign the spatial limits of the stand.
This intriguing and filtering envelop invites to get into the stand where elegant design elements projected by Hikaru Mori can be discovered, in perfect chromatic and formal harmony with the rest of the environment. The objects, alternated with relax zones furnished with minimal marble seats, delimitate the direction of the visit where the visitors can move in a slow but continuous flux.
Instinctively the sensation perceived is that of a pavilion composed by the compenetration of different identities but fused together in a unitary concept: from the exhibition stand to the bathroom, from the spa environment to the living room, to the meeting place.

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Stand interior

Stone objects of rare elegance, manufactured with the forms of pure geometrical solids matched together in different shapes and colours, are caressed by the continuous flow of the water that, being the liquid and transparent element par excellence as well as a symbol of life, perfectly enters in symbiosis with the toughness and solidity of the stone.
A solidity that is confirmed and at the same time annulled by the ambivalent nature of the envelop, perfectly materic, graphic, chromatic and even metaphorical solution of surface-diaphragm, containing a collection of furnishing elements for bathrooms with a sophisticated taste of refined Oriental culture.

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Elements of marble bath furnishing designed by Hiraku Mori per Pibamarmi

Pibamarmi managed this year too to create a perfect equilibrium between expositional products and exhibition project, renewing the esteem from the members of the judging panel who have once more recognized the quality of a company that decided to base its “productive project” on a continuous projective, cultural and technical research and that showed very talented in innovating and improving its suggestions through an endless temporal process projected into a more encouraging future.

by Sara Benzi

See also: A STONE “PALISSADE”

(Go to Piba Marmi)

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24 Ottobre 2008

Videointerviste

Pibamarmi, protagonista di Marmomacc 2008.
La “palissade” in marmo riceve il premio “Best Communicator Award”

English version

[videointervista]12_marmomacc08.swf[/videointervista]

A qualche settimana dalla chiusura di Marmomacc 2008 proponiamo il primo di una serie di reportage sulla manifestazione veronese.
In seguito alla presentazione dell’evento, delle aziende espositrici e delle loro collaborazioni con designer di nota fama, ci sembra utile presentare un bilancio di “Marmomacc incontra il design” oltre che del premio “Best Communicator Award”, riproposti anche quest’anno dopo la fortunata esperienza del 2007.
L’evento fieristico, tenutosi a Verona fra il 2 e il 5 ottobre, ha confermato il successo della precedente edizione oltre che la professionalità e la qualità produttiva delle aziende leader del settore lapideo. Una qualità produttiva collegata alla cultura del prodotto e al mondo della ricerca progettuale che a partire dalla scorsa edizione ha avuto la possibilità di esprimersi e svilupparsi in maniera nuova, grazie all’avvio di una serie di proficue collaborazioni fra aziende e progettisti.
La progettazione e realizzazione degli stand espositivi dei quindici marchi partecipanti all’evento sono state a loro volta coinvolte nella seconda edizione del premio “Best Communicator Award”.
Le due iniziative si sono confermate preziosi strumenti per l’incentivazione dello sviluppo di una cultura messa al servizio dell’economia e del mondo della produzione che trova nell’attenzione verso la progettazione dello stand espositivo lo strumento ideale per la presentazione al pubblico dell’identità di ciascuna azienda. Uno strumento, quello dello stand fieristico, che diventa esso stesso espressività creativa ricca di un valore comunicativo nuovo dato ad un mezzo nato quale mero strumento commerciale.
Lo stand diventa vera e propria microarchitettura temporanea, capace di mostrare l’arte di creare prodotti di qualità dalla lavorazione della materia litica e nella quale ciascuna azienda accoglie il pubblico presentando la propria identità attraverso nuovi prodotti e percorsi progettuali.
Questa rinnovata attenzione verso la progettazione del padiglione espositivo si colloca in maniera quasi paradossale all’interno di una fiera commerciale che ha come protagonista la lavorazione della pietra. Tuttavia, l’apparente distacco della pietra dal carattere temporaneo proprio dello stand, diventa sfida e allo stesso tempo incentivo per la sperimentazione di lavorazioni e conformazioni nuove che smentiscano l’essenza di simbolo esclusivo di pesantezza e solidità propria del materiale lapideo.
Il marmo viene quindi proposto in forme e lavorazioni inedite dettate dalle tematiche proposte.
Se nella prima edizione di “Marmomacc incontra il design” la leggerezza del marmo era stata assunta a protagonista, quest’anno aziende e designer hanno dovuto interpretare le potenzialità della pietra attraverso il gioco delle sue superfici.
“Pelle, Skin, Texture” è stato infatti il tema proposto per l’edizione 2008; una tematica dal carattere estremamente attuale che ha dato modo di trasformare la materia litica in elemento di sorpresa attraverso la sua metamorfosi in conformazioni dalla natura normalmente estranea alla sua identità o in metafore di elementi dal particolare valore superficiale.
Lastre di pietra dalle superfici lavorate in maniera differenziata grazie al connubio tra produzione meccanizzata e metodi artigianali, hanno dato la possibilità al visitatore di percepirne le caratteristiche attraverso il tatto e la vista. Un carattere comunicativo tangibile e dalla particolare percezione tattile, che ha permesso di dare un valore aggiunto alle fasi progettuale, produttiva e costruttiva, attraverso la sua animazione da parte del pubblico.
La fruizione degli stand ha infatti contribuito a farne percepire a pieno l’essenza.

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Texture superficiale dello stand di Pibamarmi per Marmomacc 2008

La professionalità e l’originalità dimostrate dalle aziende vincitrici della prima edizione del premio “Best Communicator Award” si sono riconfermate anche quest’anno indiscusse protagoniste.
Una rappresentativa giuria formata da Mauro Albano, Brand Manager di Marmomacc, Aldo Bottoli, rappresentante dell’ADI, Associazione per il Disegno Industriale, Oscar Colli, della rivista Il Bagno Oggi e Domani, Vincenzo Pavan, responsabile culturale di Marmomacc per l’Architettura e Livio Salvadori, della rivista Casabella, hanno eletto vincitrici ex aequo l’azienda veneta Pibamarmi e quella toscana Il Casone.
Vincitori anche della scorsa edizione insieme a Grassi Pietre, i due marchi hanno rinnovato i concept guida dei propri stand grazie alla collaborazione con importanti designer del panorama contemporaneo.
Il Casone, vincitore nel 2007 insieme a Kengo Kuma, si è presentato al pubblico con un progetto dell’architetto Claudio Silvestrin basato sulla metamorfosi della pietra serena in buccia di arancia, identificata nel percorso di visita del padiglione, a sviluppo spiraliforme.
Pibamarmi, a sua volta, ha rinnovato lo stimolante rapporto con Michele De Lucchi e Philppe Nigro avviato in occasione della scorsa edizione. Se nel 2007 lo stand progettato da Damiano Steccanella ospitava al suo interno gli oggetti di design realizzati da De Lucchi, quest’anno è il frutto di un progetto di collaborazione fra lo stesso Steccanella e i due designer.

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Lo stand di Pibamarmi per Marmomacc 2008, progetto di Michele De Lucchi, Philippe Nigro, Damiano Steccanella

Il padiglione di Pibamarmi si presenta come un armonico oggetto architettonico dal colore neutro e dalle fattezze accoglienti. Un momento di pausa e pacifica osservazione di un manufatto marmoreo dal design ricercato, che invoglia l’osservatore a soffermarsi, avvicinarsi, toccarne la superficie, entrare.
Esternamente l’involucro appare come un diaframma omogeneo, neutro, fortemente ritmato in senso verticale. Il motivo architettonico reinterpreta una “palizzata di legno” che, solo avvicinandosi, rivela la sua reale essenza “pietrificata”, connessa al marmo finemente lavorato. L’osservazione ravvicinata e tattile permette di comprendere la vera matericità del manufatto e la sua tecnica di costruzione. L’apparente compattezza superficiale si manifesta quale risultato dell’accostamento di pannelli traforati, montati parallelamente su binari metallici a formare due superfici – esterna ed interna – che segnano i limiti spaziali dello stand.
L’intrigante e filtrante involucro invita a procedere verso il suo interno dove si scoprono gli eleganti elementi progettati dalla designer Hiraku Mori, in perfetta armonia cromatica e formale con il resto dell’ambiente. Gli oggetti, alternati a spazi di sosta arredati con minimali sedute in marmo, delimitano un percorso di visita lungo il quale gli osservatori si muovono in un flusso lento e continuo.
Istintivamente si riceve la sensazione di un padiglione formato dalla compenetrazione di identità diverse – ma fuse in un concept unitario – che vanno dallo stand espositivo, alla stanza da bagno, all’ambiente termale, al salotto, al luogo d’incontro.

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Interno dello stand

Oggetti litici di rara eleganza realizzati con le fattezze di solidi geometrici puri affiancati in combinazioni diverse di forme e colori, vengono accarezzati dal flusso continuo dell’acqua che, elemento liquido e trasparente per eccellenza oltre che simbolo della vita, entra in perfetta simbiosi con la durezza e la solidità della pietra.
Una solidità confermata e allo stesso tempo smentita dalla natura ambivalente dell’involucro, perfetta soluzione di superficie-diaframma: materica, grafica e cromatica, oltre che metaforica, per contenere al suo interno una collezione di elementi di arredo per l’ambiente bagno dal carattere ricercato e dal gusto finemente orientale.

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Elementi di arredo bagno in marmo, design di Hikaru Mori per Pibamarmi

Pibamarmi è riuscita anche quest’anno a creare un perfetto equilibrio fra i prodotti in esposizione e il progetto di allestimento, rinnovando la stima da parte della giuria del concorso, che ha quindi riconosciuto ancora una volta la qualità di un’azienda che ha deciso di basare il proprio “progetto produttivo” sulla continua ricerca progettuale, culturale e tecnica e che si è dimostrata capace di rinnovare e migliorare la propria proposta attraverso un processo temporale senza soluzione di continuità, proiettato verso un futuro ancora più promettente.

di Sara Benzi

Leggi anche: Una “Palissade” in marmo?

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Porfido del Trentino

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Paesaggio di cava nel distretto estrattivo del Porfido del Trentino.

“Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia, porfido mi parea si fiammeggiante, come sangue che fuor di vena spiccia.
(Dante Alighieri, Purgatorio, Canto IX)

De le diverse pietre che servono a gli architetti per gli ornamenti e per le statue alla scoltura. (…) Et acciocchè più manifestamente apparisca la grandissima difficoltà del lavorar delle pietre, che son durissime e forti, ragioneremo distintamente, ma con brevità, di ciascuna sorte di quelle che maneggiano i nostri artefici, e primieramente del porfido. Questo è una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi (…)
(Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani)

Il Porfido trentino viene cavato in un distretto che si estende nel territorio di sei comuni della provincia di Trento: Albiano, Cembra, Fornace, Lona – Lases, Pinè, Trento. Il materiale, caratterizzato da una grande resistenza all’usura, allo stress, al calore e al gelo, ha un aspetto cromatico che può andare dal rosso violaceo, al rosso cupo, al bruno con sfumature verdastre.
Estratto in piccole pezzature, è da sempre utilizzato nel contesto montano di origine per dar vita a pavimenti, coperture di tetti, murature ma si è diffuso in tutto il mondo principalmente nelle pavimentazioni esterne in forma di cubetti, piastrelle, binderi, smolleri, plinti, soglie, lastrame irregolare di varia pezzatura.

Descrizione macroscopica
Litotipo magmatico effusivo di colore di insieme grigio rossiccio con massa di fondo macroscopicamente non risolvibile di tonalità rosse grigiastre più o meno intense. In questa massa di fondo sono flottanti fenocristalli anche plurimillimetrici di colore grigio, rosa, neri, rossi e localmente sono presenti anche plaghe ad andamento isoorientato di colore rosato di dimensioni fino a centimetriche.
Le fasi mineralogiche più allungate mostrano un vago andamento sub parallelo ad evidenziare una struttura magmatica fluitale. La roccia mostra un aspetto particolarmente compatto, privo di pori superficiali e senza evidenti tracce di alterazione superficiale. Esso non si riga con lame metalliche nè reagisce in presenza di acido cloridrico, lasciando supporre che sia costituito da individui di composizione silicatica e di durezza maggiore a 4 nella scala di Mohs.

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Un campione di Porfido del Trentino fotografato allo stereomicroscopio a 16 ingrandimenti.
In alto a sinistra si nota un cristallo di quarzo trasparente.

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Descrizione microscopica
Dallo studio della sezione sottile si osserva che il materiale è di origine magmatica effusiva. Strutturalmente esso è apparentemente olocristallino, anche se le minutissime dimensioni dei cristalli della massa di fondo non ne consentono il riconoscimento. È inoltre un materiale porfirico per la presenza di macro cristalli, individui cristallini di dimensioni generalmente minori di 5 mm, immersi in una massa di fondo cripto/microcristallina.
Sia i cristalli porfirici e sia quelli costituenti la massa di fondo hanno dimensioni inequigranulare. Le forme dei cristalli sono principalmente subedrali/anedrali e per questo motivo la tessitura può essere definita allotriomorfa, localmente ipidiomorfa. Anche se non in maniera parossistica, si nota un allineamento dei blasti più allungati lungo le direzioni di andamento del fluido magmatico. Localmente la roccia mostra tessiture radiali sferulitiche, e tessiture pilotassitiche con disposizioni sub parallele di microliti allungati di feldspati. Si notano tessiture di pseudomorfosi dovute a fasi cristalline prevalentemente di alterazione sovrimpostesi su fasi cristalline prismatiche completamente irriconoscibili. I costituenti fondamentali della roccia sono:
Quarzo: (circa il 30% dei costituenti la sezione sottile secondo stima visiva). Durezza 7 della scala di Mohs. Ha dimensioni massime pari a 2 mm. Esso è di seconda generazione rispetto gli altri minerali costituenti il materiale, è infatti limpido, con locali microinclusioni e con seni di riassorbimento. I vari individui si possono presentare sia spigolosi e sia arrotondati. Alcuni hanno inclusi bollosi, sono deformati e con estinzione ondulata;
Feldspati: (circa il 30% dei costituenti la sezione sottile secondo stima visiva). Durezza 6÷6,5 della scala di Mohs. Si presentano tendenzialmente fratturati e deformati ed in fase di alterazione (saussuritizzazione e locali condizioni di calcitizzazioni), con inclusi non definibili a causa delle loro esigue dimensioni;
Clorite: (circa il 10% dei costituenti la sezione sottile secondo stima visiva). Durezza 2÷3 della scala di Mohs. Esclusivamente di neoformazione, in pseudomorfosi su cristalli allungati prismatici;
Minerali Opachi: (circa il 10% dei costituenti la sezione sottile secondo stima visiva). Durezza 5÷6 della scala di Mohs. Anche essi prevalentemente di neoformazione in quanto generalmente associati alla clorite quali prodotti di alterazione di precedenti fasi mineralogiche. Possono essere presenti sia come microgranulazioni diffuse e sia in plaghe, privi però di abito idiomorfo. Sono prevalentemente costituiti da ematiti che macroscopicamente sono la causa della colorazione rossastra del materiale.
In quantità accessorie, minore cioè dell’1% si hanno Zirconi, Apatiti e Calcite di alterazione.
Massa di fondo: (circa il 20% dei costituenti la sezione sottile secondo stima visiva). È costituita da individui con dimensioni tali da non consentire alcun tipo di determinazione ottica. Sono presenti individui sia aciculari e sia in masserelle che comunque per le loro esigue dimensioni non possono essere determinati, anche se è verosimile supporre che essi siano prevalentemente costituite dalle stesse fasi mineralogiche che costituiscono i blasti di maggiori dimensioni.
Discontinuità: si osservano tracce di discontinuità legate alla presenza di minerali alterati per parte sostituiti da fasi di neoformazione i quali possono localmente generare porosità beanti.
Alterazione: alcune delle fasi mineralogiche preesistenti hanno subito un processo di alterazione tale per cui esse non sono più riconoscibili essendo state sostituite da clorite, ossidi di tipo ematitici e, localmente, da calcite. Anche i feldspati presenti mostrano generalmente una più o meno spinta sausurritizzazione o calcitizzazione. Talora si presentano fratturati, aspetto questo in comune con alcuni individui di quarzo che possono essere anche deformati.

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In alto, aspetto del Porfido del Trentino al microscopio a luce polarizzata, sezione sottile, 2 I, N//.
I cristalli bianchi sono costituiti da quarzo, quelli dall’aspetto più indistinto sono invece costituiti da feldspati intorbiditi da minerali opachi, ematite, che conferiscono loro una colorazione macroscopica rosata. In basso, a NX., si notano i colori di interferenza grigi più o meno scuri delle varie fasi cristalline costituite da quarzo e da feldspati.

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Definizione petrografica* (secondo EN12670): RIOLITE (Magmatic Rocks Classification Charts)

Porfido del Trentino. Geologia
Il Porfido è un materiale che proviene dalla piattaforma porfirica atesina.
Se vogliamo inquadrare geologicamente la zona, dobbiamo pensare ad una area strutturalmente differente rispetto quelle circostanti, e tettonicamente delimitata da una serie di faglie che l’hanno di fatto isolata dalle aree di origine sedimentaria che la circondano. Se noi guardiamo infatti alla carta geologica di Trento, possiamo vedere come tutta l’area orientale si presenti cromaticamente diversa rispetto le aree circostanti (di colore rosso, rispetto i verdi e i blu ad occidente o a sud che indicano il sedimentario del mesozoico). Essa è formata dal piastrone di vulcaniti atesine, che risulta essere svincolato dalle zone circostanti attraverso una serie di faglie tra le quali la più importante e con rigetto maggiore, è quella di Trodena, faglia inversa che mette a contatto le vulcaniti da dove proviene anche il nostro Porfido, con i terreni mesozoici della parte occidentale. La linea della Valsugana, invece separa la piattaforma dall’area sud orientale anche essa a composizione prevalentemente sedimentaria. Una serie di faglie minori, che hanno andamento grossomodo NW-SE, finiscono per svincolare completamente tutta l’area della piattaforma, dove i materiali hanno giacitura pressochè costante con giacitura complessiva verso nord ovest. Tutta questa area ha quindi funzionato nelle varie ere come catino contenitivo delle masse magmatiche che fuoriuscivano dalla crosta terrestre e, per il fatto di non trovare vulcaniti a sud della linea della Valsugana, si ipotizza che fosse anche abbassata, proprio grazie alla presenza delle faglie, sia prima e sia durante l’emissione magmatica sì da non consentire il trabocco delle lave nelle parti esterne confinanti.
Altre faglie comunque interne al plateau hanno movimentato questa zona. Tra esse, ad esempio, la linea di Pinè e di Fersina ad andamento verticale (che hanno prodotto cioè innalzamento di una delle due parti o abbassamento relativo dell’altra) che in alcuni punti hanno raggiunto i 700 / 800 metri di rigetto.
Le vulcaniti costituiscono comunque un complesso molto potente. Esso è dato da successioni di masse magmatiche chimicamente differenti tra loro, talora con diffusione areale molto ampia, talora invece sono espressione di emissioni locali realmente poco diffuse. Le vulcaniti Atesine vengono suddivise in due grandi gruppi di formazioni, e la loro età viene fatta risalire al permiano (250/270 milioni di anni fa).
Il materiale cavato fa parte di quello che viene definito Gruppo Superiore costituito da lave dacitiche, riolitiche e riodacitiche talora alternate ad ignimbriti riodacitiche. Le note illustrative della carta geologica d’Italia, foglio 21, Trento, definisce questi materiali porfirici da cui viene estratto il nostro materiale, come ignimbriti riolitiche e quarzolatitiche grigie o rossastre in ampi, ripetuti e potenti espandimenti; compatte, a fessurazione sub verticale (porfidi da cubetti), a colore grigio o rossastro con locali alterazioni idrotermali, dall’aspetto marcatamente porfirico, omogeneo, comunque costituito da più unità ignimbritiche sovrapposte, con spessori di materiale che possono localmente superare i 600 metri.

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Carta geologica d’Italia. Foglio 21 Trento.

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Le cave del Porfido trentino
Come si è visto, grazie alle sue caratteristiche strutturali e fisiche il Porfido viene estratto prevalentemente nel gruppo superiore delle unità riolitiche, nelle unità e quindi nel materiale posizionato nella parte più alta della successione ignimbritica. La sua omogeneità compositiva, fanno sì che le cave da cui esso viene estratto siano abbastanza diffuse nella provincia di Trento dove tra l’altro, la vicinanza con le linee nevralgiche del trasporto ha favorito l’implementazione delle strutture afferenti alla attività estrattiva.
Le cave sono generalmente sviluppate a gradoni di altezza variabile tra i 10 e i 30 m, e in virtù della situazione strutturale del materiale, cioè della sua spiccata fessurazione (i Lassi dai cavatori), il Porfido viene prevalentemente cavato facendo brillare un una serie di mine piane realizzate perpendicolarmente al fronte di cava, il quale, tagliato alla sua base, ne provoca la caduta direttamente sul piazzale dove verrà selezionato e suddiviso in funzione degli spessori.
Dalle lastre più sottili (2-6 cm) vengono generalmente ricavati piastrelle e lastrami, da quelle di spessore di 5-10 cm si ricavano piastrelle e cubetti e per spessori ancor maggiori si ottengono binderi, cordoli, ed altri lavorati.
Recenti progetti di ricerca finanziati dalla Provincia Autonoma di Trento e dall’Ente Sviluppo Porfido hanno focalizzato l’attenzione anche su nuovi sistemi estrattivi come l’uso de filo diamantato in cava, ma tale approccio va però affinato ed ulteriormente definito.

Composizione chimica del Porfido (% in peso)

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Le caratteristiche fisico-meccaniche del Porfido
Nella tabella si riportano i dati tecnici forniti da ESPO in riferimento alla Normativa Europea UNI EN dei prodotti (Marchio CE).

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Uno sguardo ai dati tecnici del materiale, tra l’altro ottenuti per mezzo di Norme Europee, ci permette di notare come il Porfido sia un materiale particolarmente valido sotto tutti i punti di vista: ottime caratteristiche fisico-meccaniche. ottimo per ambienti esterni anche con clima rigido, dove mantiene elevati valori di resistenza, tanto da aumentare in alcuni casi la sua resistenza alla flessione dopo i 48 cicli di gelo disgelo previsti dalla selettiva norma europea di resistenza al gelo UNI EN 12371; ottima la sua resistenza alla abrasione tanto che il suo granulato è considerato tra i materiali migliori nella realizzazione dei manti stradali che garantiscano buona tessitura, aderenza e regolarità per i mezzi in movimento e bassa usura del manto stradale stesso. Ottima la sua resistenza agli acidi, in quanto la sua composizione prevalentemente silicatica lo rende resistente ai prodotti che sono invece aggressivi per i materiali a composizione carbonatica.

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Porfido del Trentino levigato e lucidato.

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Usi e trattamenti del materiale
Il Porfido risponde in modo ottimale ad alte sollecitazioni fisico-meccaniche e mantiene pressochè inalterato il suo aspetto nel tempo. Non viene corroso dagli acidi e quindi anche la sua gestione in fase di pulizia non è problematica.
Grazie alla sua ecletticità d’impiego il materiale è rapidamente passato dal Trentino al Veneto, al Friuli, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, alla Liguria, all’Umbria, alla Campania, per raggiungere l’Australia, le Americhe, l’Africa, passando dal Montenegro, dall’Austria, dal Giappone, dalle Isole Canarie, dall’Argentina, dalla Spagna…
E se vogliamo parlare di architetti che hanno mostrato un occhio di riguardo per il materiale, dobbiamo scomodare persone del calibro di Antoni Gaudí, Renzo Piano, Mario Botta, che hanno portato la fama del Porfido trentino ben oltre i nostri confini. Questo anche in virtù del fatto che se anni fa il materiale veniva generalmente proposto a spacco o con poche tipologie di finiture, ora i sempre più sofisticati metodi di lavorazione dei lapidei, anche di quelli più duri, ha consentito di arrivare fino alla sua lucidatura, trasformandolo dal classico materiale montano, ad un materiale altamente sofisticato e contemporaneo.

di Anna Maria Ferrari
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I campioni di Porfido del Trentino utilizzati per l’analisi petrografica sono stati gentilmente forniti da ESPO – Ente Sviluppo Porfido.
Vai a: www.porfido.it

L’ESPO organizza il Premio Architettura Orizzontale. Il porfido del Trentino per la riqualificazione dello spazio pubblico contemporaneo che sviluppa il confronto tra professionisti, pubbliche amministrazioni e università. Presentare la domanda di partecipazione entro il 15 Dicembre 2008.

Note
* Numero accettazione campioni 253.
1 Metodo d’analisi: EN 12407:2007 Natural stone test methods – Petrographic examination. Strumento: Stereo microscopio Olympus SZX-FOF 4J02049). Analisi effettuata su lastrine differenti di materiale tal quale. Operatore: Dr. Anna Maria Ferrari.
2 Metodo d’analisi: EN 12407:2007 Natural stone test methods – Petrographic examination. Strumento. Microscopio a luce polarizzata Olympus BX51TRF 4M23804. Analisi effettuata su 2 sezioni sottili di dimensione standard. Operatore: Dr. Anna Maria Ferrari.

Bibliografia
AA.VV. – Carta Geologica d’Italia Foglio 21 TRENTO;
AA.VV. – Note illustrative della Carta Geologica d’Italia Foglio 21 TRENTO;
AA.VV. – Guida Generale Marmi Graniti Pietre – Editoriale Globo s.r.l.. Milano;
AA.VV. per I.C.E. (1982)– Marmi Italiani – F.lli Vallardi ed., Milano;
AA.VV. (1982) – Natural Stones – Studio Marmo s.r.l. Querceta, Lucca;
AA.VV.(1989) – Manuale dei Marmi, pietre, graniti -3° Voll.- F.lli Vallardi ed., Milano;
Angheben M. (2006) (a cura di) – capitolato speciale tipo per pavimentazioni in porfido eseguite con materiali prodotti da aziende aderenti al marchio volontario collettivo “porfido Trentino Controllato” – E.S.PO. Ente Sviluppo Porfido;
Braga Gp, G.O. Gatto, P. Gatto, A. Gregnanin, F. Massari, F. Medizza, M. Nardin, G. Perna, D. Rossi, M. Sacerdoti, E. Semenza, E. Sommavilla, G. Zirpoli, T. Zurlian – Carta Geologica d’Italia Foglio 21 Trento. Note Illustrative Serv. Geol. It., 150 pp., 1971, Roma;
Blanco G. (1991) – Pavimenti e rivestimenti lapidei – 295 pp. La Nuova Italia Scientifica, Roma;
Blanco G. (1999) – DAP Dizionario dell’Architettura di Pietra – Carocci ed., Roma;
Baroni G., Zecchin F. – Le pietre nelle architetture minori del Veneto – SGEditoriali, Padova;
Castelli E. – Le pietre naturali dell’Alto Adige – Assessorato all’Industria (a cura di), Provincia Autonoma di Bolzano Alto Adige;
Castelli E. (2000) – Sviluppi tecnologici nella coltivazione del porfido – sta in GEAM Associazione Georisorse e Ambiente, Dipartimento Georisorese e Territorio Politecnico di Torino – le cave di pietre ornamentali – 28-29 novembre 2000, atti del convegno;
Castelli E. (2000) – Nuove tecniche di cernita e prima lavorazione del porfido – sta in GEAM Associazione Georisorse e Ambiente, Dipartimento Georisorese e Territorio Politecnico di Torino – le cave di pietre ornamentali – 28-29 novembre 2000, atti del convegno;
Cattani E., Fedrizzi F., Fliz C., Zampedri G. (2005) – Atlante della Pietra Trentina. C.C.I.A.A. di Trento in collaborazione con Provincia Autonoma di Trento;
E.S.PO. Ente Sviluppo Porfido (a cura di) – premio Città Architettura e Porfido;
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E.S.PO. Ente Sviluppo Porfido (a cura di) (2004) – PORFIDO TRENTINO CONTROLLATO – Publistampa Arti Grafiche, Pergine Valsugana (Trento);
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Filippi F., Tomio P. (1994) – Il manuale del Porfido – e.s.Po. Trento;
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Pieri M. (1966) – Marmologia. Dizionario di marmi e graniti italiani ed esteri – Hoepli ed., Milano;
Primavori P. (1997) – I materiali lapidei ornamentali: marmi graniti e pietre – pp 224, ETS Pisa;
Primavori P. (2004) – Il Primavori. Lessico del Settore Lapideo – 416 Zusi Editori, Verona;
Rodolico F.(1965) – Le pietre delle città d’Italia – Le Monnier, Firenze.

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21 Ottobre 2008

Principale

Il paesaggio della memoria

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Sabato 25 ottobre – ore 10.00
Sala dei convegni – UNione parmense degli industriali (sala g. c.) Parma
Prenotazione obbligatoria
info@festivalarchitettura.it
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20 Ottobre 2008

Eventi

LA PUGLIA al MARMOMACC 2008

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Foto della conferenza “Le pietre di Puglia: i materiali e le applicazioni nell’architettura contemporanea” 4-ottobre-2008
Da sinistra a destra: arch. Vincenzo Pavan, prof. Alfonso Acocella, ing. Francesco Sciannameo, arch. Domenico Potenza

Tradizione e Innovazione, Architettura e Design. Sono state queste le parole chiave del Marmomacc 2008, mostra internazionale di marmi, pietre, design e tecnologia alla sua 43ª edizione. All’appuntamento annuale di riferimento del settore lapideo, ancora una volta era presente la Regione Puglia, promotrice del vasto campionario di pietre Pugliesi. Il comparto lapideo è uno dei più importanti dell’economia della Regione per la vitalità e l’eccellenza raggiunta in ogni fase della produzione, dall’estrazione alla commercializzazione, come spiega Sandro Frisullo, vice presidente della Regione e Assessore allo Sviluppo economico e innovazione tecnologica, nell’introduzione dell’Atlante contemporaneo dei marmi e delle pietre di Puglia a cura dell’architetto Domenico Potenza, una guida per i progettisti e allo stesso tempo uno strumento di conoscenza per un utilizzo sempre migliore dei marmi pugliesi, presentato in occasione del Marmomacc. La Regione, per l’avvenimento, ha organizzato un workshop dal titolo: “Le pietre di Puglia: i materiali e le applicazioni nell’architettura contemporanea”. Sono intervenuti al seminario l’ingegnere Francesco Sciannameo, dirigente del Settore Attività Estrattive, Regione Puglia, l’architetto Domenico Potenza, docente incaricato della facoltà di Architettura, Università di Pescara, il professore Alfonso Acocella, docente nella facoltà di Architettura, Università di Ferrara e l’architetto Vincenzo Pavan professore nella facoltà di Architettura, Università di Ferrara.
L’ingegnere Francesco Sciannameo, ha presentato il marchio di qualità “Pietre di Puglia”, riferito ai prodotti del settore estrattivo della Regione Puglia, con composizione, caratteristiche, forme, strutture e metodi produttivi e di lavorazione diversi e ne ha illustrato il regolamento d’uso. Inoltre ha messo in risalto la grande attenzione della Regione al settore lapideo, che in questi anni, sta facendo esplicito riferimento alle istituzioni dei Distretti Produttivi (di cui quello lapideo è tra i più importanti).
L’architetto Domenico Potenza ha presentato “l’Atlante contemporaneo dei marmi e delle pietre di Puglia” nato dalla necessità di rinnovare la catalogazione dei materiali lapidei pugliesi, in quanto, come spiega l’architetto, l’ultima opera in uso dai progettisti e studiosi del settore risale al 1982. Nei ventisei anni trascorsi sono mutate le risorse del territorio, in quanto alcune cave non hanno più disponibilità di materiale, e nuove varietà di pietre si sono offerte al mercato. Gli stessi mercati con la ribalta dei paesi asiatici e la proposta di nuovi materiali, la modificazione di sistemi costruttivi e la progressiva sperimentazione, hanno del tutto mutato la richiesta di prodotti lapidei, costringendo aziende, artigiani, operatori commerciali, tecnici e progettisti ad adeguare la propria offerta. L’architetto, inoltre, ha illustrato l’itinerario della pietra che da cava estrattiva si trasforma in materiale lapideo lavorato e diventa Architettura e oggetto di Design. L’Atlante al suo interno raccoglie e descrive le quattro aree estrattive della Regione, trenta schede di materiali lapidei, e sessanta opere di architettura e di design realizzate con le pietre Pugliesi.

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Copertina “Atlante Contemporaneo dei Marmi e delle Pietre di Puglia”

Dalla cava alla rete, è il progetto di promozione per le pietre d’Italia, promosso dal professor Alfonso Acocella, che a partire dai materiali introdotti dall’architetto Potenza, ha indicato le potenzialità offerte dal programma-progetto di comunicazione in rete del blog, con riferimento al portale pietre di Italia (architetturapietra2.sviluppo.lunet.it). Portale che in pochi anni ha visto un alto numero di visitatori nel proprio sito, dove purtroppo oggi è presente solo la Regione Toscana, ma è in corso l’inserimento della Regione Puglia e delle regioni che percepiscono l’importanza della loro presenza nel web.
L’architetto Vincenzo Pavan, ha infine spiegato l’importanza e la necessità di porre attenzione alla formazione dei progettisti già nelle scuole, da attuare in collaborazione tra le università, le aziende e le istituzioni pubbliche (ad esempio: Regione Puglia, Veronafiere, ecc.) riprendendo indicazioni dalla tavola rotonda dal titolo “Imparare dalla Pietra” tenutasi il giorno precedente.
In sala un pubblico attento composto da imprenditori, operatori del settore e progettisti, tra i quali i neo-laureati pugliesi, che esponevano le proprie tesi sperimentali sul tema dei materiali lapidei all’interno della fiera del Marmomacc.
Per il futuro, il governo regionale, come espone Sandro Frisullo nell’introduzione dell’Atlante, sta attuando una serie di azioni promozionali che, anche dopo il Marmomacc, puntano a rafforzare le relazioni con gli ingegneri e architetti italiani e stranieri, perchè sono proprio i progettisti i primi promotori nell’utilizzo dei materiali lapidei.

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Inquadramento geografico dei Bacini Pugliesi

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I prossimi appuntamenti saranno allo Stone Tek di Las Vegas, e al Big Five di Dubai dove, la Regione, continuerà l’attività di promozione dei materiali lapidei con l’illustrazione delle opere esposte a Verona nella scorsa edizione di Marmomacc e la presentazione da parte dell’arch. Domenico Potenza dell’Atlante Contemporaneo dei Marmi e delle Pietre.

di Natalia Risola

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18 Ottobre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte II)

ARTEFATTI DISORIENTANTI NEGLI SPAZI ESPOSITIVI

Disorientamento critico: da Passageway al Philadelphia Labyrinth
La riflessione di Robert Morris sul tema del labirinto – nell’accezione di dispositivo illusivo e d’inganno indirizzato ad un coinvolgimento attivo del fruitore – ha inizio con Passageway, un’opera che, nonostante non venga espressamente definita dedalo, ne assume le medesime caratteristiche strutturali e finalità disorientative.

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Robert Morris, Passageway, 1961

Tale “Environment” viene concepito e presentato dall’artista nell’estate del 1961 all’interno di una serie di concerti e performance organizzati dal compositore La Monte Young nel loft di Yoko Ono a New York. Gli spettatori sono invitati ad attraversare – accompagnati dal suono registrato del ticchettio di un orologio e di battiti del cuore – un corridoio semicircolare, realizzato in legno compensato dipinto di grigio, lungo circa quindici metri.
Una volta varcata la porta d’ingresso dello studio, dalla quale ha inizio l’installazione in grande scala, gli invitati vengono introdotti e proiettati in uno spazio angusto e non rivelato; non viene offerta loro altra alternativa che quella di compiere un passaggio tra stretti muri che mano a mano si restringono fino a convergere ad angolo acuto in un punto morto.
Solo al raggiungimento del cul de sac gli spettatori comprendono, con stupore, che il corridoio nel quale si sono incamminati non ha la funzione di condurli da alcuna parte. Al di là di quel limitato spazio non li attende nessuna performance, nessun concerto da ascoltare: non rimane nient’altro da fare che tornare sui propri passi.
Il tema dell’intero evento risiede, dunque, esclusivamente nell’attraversamento fisico e psicologico del passaggio, nel tentativo “to make palpable the body’s physical limits experienced as a reciprocal pressure between itself and the space around it”1.
L’esperienza vissuta tra i muri dell’installazione viene recepita dalla maggior parte del pubblico come frustrante e costrittiva; l’artista ricorda come alla fine di ogni giornata doveva ripulire i muri da tutta una serie di graffiti ed insulti. Tale “pressione” esercitata sui corpi degli spettatori e sulle loro aspettative richiama il medesimo desiderio di manipolare l’audience ed istigare all’aggressività proprio degli happenings organizzati a partire dal 1959 a New York.
Ma nonostante tale somiglianza, Passageway si distanza notevolmente dalla concezione spaziale tanto degli happenings quanto degli environmental works realizzati dai medesimi artisti, primo fra tutti Allan Kaprow. Morris definisce negativamente il caos di oggetti che segna spazialmente questi lavori come “a kind of architectural decor”, tale da rendere minima “the field force of the space”2; al contrario l’installazione in grande scala da lui realizzata si contrappone a questi deboli interventi spaziali per la sua estrema semplicità.
Il rigore strutturale è funzionale a trasferire e concentrare l’impatto dell’intero environment su di un singolo movimento – l’atto del passaggio – che ogni spettatore è indotto a compiere una volta varcata la soglia dell’appartamento; il “dispositivo d’inganno” creato dall’artista assume così i connotati di una forma tridimensionale interattiva, atta a far svolgere al pubblico un determinato compito (task).
L’idea di passaggio – dalla quale “la scultura contemporanea sembra veramente ossessionata”3 – viene parallelamente sviluppata da Bruce Nauman nella serie dei Corridors del 1960-1970.

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Bruce Nauman, Corridor, 1970

Tra questi ambienti fisicamente costrittivi, il più celebre è quello realizzato alla Wilder Gallery di Los Angeles nel 1970, strutturato su una serie di angusti corridoi, di cui alcuni percorribili. In uno di questi, una telecamera posizionata zenitalmente in alto, riprende il transito dei visitatori, trasmettendone l’immagine in un monitor posto a conclusione del percorso. Al fruitore che avanza nello spazio è dato osservare, con disorientamento, la sua figura di schiena che progressivamente si allontana e diviene sempre più piccola.
L’ambiente della Wilder Gallery manifesta evidenti analogie con Passageway di Morris. Entrambi sono realizzazioni di veri e propri corridoi, sia pur con una differenza di assetto – rettilineo quello di Nauman, curvilineare quello di Morris – motivata dalla diversa “strategia d’inganno” adottata. Il passaggio rettilineo di Nauman è funzionale ad indirizzare l’attenzione del pubblico sullo schermo posto alla sua conclusione, centro da cui si propaga l’esperienza disorientante; all’opposto le pareti curve dell’environment di Morris sono atte a negare all’osservatore la possibilità di leggerne il traguardo della struttura, un vero e proprio cul de sac. Nonostante la diversità delle strategie adottate, entrambe le installazioni tendono in modo convergente a confondere, a decentrare – così come ha sottolineato la Krauss – “l’idea che lo spettatore ha di se stesso come “assiomanticamente coordinato”, stabile e costante in e per se stesso”4. Tale disorientamento non va però inteso come atto meramente distruttivo o provocatorio, così come lo hanno recepito gli invitati all’environment di Morris; al contrario questi ambienti di passaggio vogliono offrire a chi li esperisce la possibilità di abbandonare le loro solide – ma al contempo limitate – posizioni per abbandonarsi ad un campo aperto di “piccole opportunità dove si rompe la conformità”5.

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Robert Morris, Philadelphia Labyrinth, 1974

A circa dieci anni di distanza da Passageway, Morris torna ad indagare l’esperienza fenomenica del passaggio attraverso la realizzazione di un vero e proprio labirinto circolare, esposto alla mostra “Robert Morris Projects” tenutasi all’Institute of Contemporary Art di Philadelphia nel 1974.
Una fotografia dell’epoca, posta ad inquadrare l’installazione in grande scala dall’alto, ne svela la complessa strutturazione spaziale caratterizzata da una sinuosa articolazione di muri e da un percorso complesso ma unico. La tridimensionalità del “dispositivo d’inganno” viene così ridotta dalla riproduzione fotografica ad una elegante immagine chiaramente comprensibile, che ne rivela l’esplicita fonte d’ispirazione dell’opera: il tracciato pavimentale labirintico situato nella navata centrale della cattedrale di Chartres, associato all’idea di pellegrinaggio e redenzione cristiana. Tale modello, riproposto dall’artista esclusivamente nella sua accezione formale, viene rielaborato attraverso la riduzione dei sentieri e la trasposizione dalla dimensione bidimensionale a quella tridimensionale attraverso la creazione di una struttura di legno compensato dipinto di grigio tale da permetterne l’attraversamento.
Per il fruitore che s’imbatte nell’opera fisica dall’imponente mole architettonica, ciò che dall’alto della rappresentazione veniva inteso come un sentiero da percorrere mentalmente con un solo colpo d’occhio, adesso viene percepito come uno spazio angusto e claustrofobico, da esplorare attraverso una fruizione attiva e ricettiva, così come è avvenuto in Passageway e nei vari Corridors di Nauman.
Al pari di queste installazioni in grande scala, il dedalo di Morris non si prefigge come fine ultimo quello di attrarre e sospendere lo spettatore in uno stato di confusione e smarrimento fine a se stesso. La sua composizione architettonica non è quella tipica di un intrico di vie che confonde e smarrisce, ma quella di un labirinto vero e proprio che, con la sua spazialità complessa e accuratamente orientata, condurrà lo spettatore – dopo averne messo in crisi le sue solide coordinate – inevitabilmente al raggiungimento del centro, nel quale ciascuno non troverà nient’altro che se stesso. Nella ricerca del centro rigenerante – sfida lanciata dall’artista nel territorio isolato rispetto a quello pubblico in cui viene esposto – va ricercata la ragion d’essere dell’esperienza labirintica quale metafora di un’iniziazione intrapresa alla ricerca di un nucleo spirituale che conduce il più delle volte alla riscoperta di noi stessi. Citando le parole dell’artista: “the labyrinth form is perhaps a metonym of the search for the self, for it demands a continuous wandering, a relinquishing of the knowledge of where one is”. 6

Schermi illusivi: Mirrors Installations
L’uso di specchi – adottati a partire dai primi anni Sessanta – concede a Morris la possibilità di realizzare ulteriori e caratterizzati “dispositivi d’inganno” tali da variare ed ampliare la ricerca inerente alla vertigine labirintica.
Queste installazioni si differenziano notevolmente dalle prime strutture dedaliche realizzate dall’artista all’interno degli spazi espositivi; se Passageway e il Philadelphia Labyrinth proiettano lo spettatore in uno spazio “introverso” imprigionandolo nei limiti della geometria del luogo, al contrario le installazioni di specchi, espandendo in maniera illimitata le superfici – pareti, soffitto, pavimento – degli ambienti nei quali sono allestiti, confondono il fruitore offrendogli troppo da vedere.

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Robert Morris, Untitled (Mirrored Cubes), 1971 (1965)

Tra i numerosi dispositivi realizzati dall’artista che mettono in atto tale strategia dell’esasperazione della visibilità, il più celebre è senz’altro Untitled (Mirrored Cubes) esposto per la prima volta alla Green Gallery di New York nel febbraio del 1965, consistente in quattro cubi di modeste dimensioni rivestiti da plexiglas riflettente e posizionati a reticolo sul pavimento. Al pari delle altre opere della stagione minimalista – quali Untitled (Battered Cubes) e Untitled (Three L-Beams) – tali cubi, grazie alla loro superficie agitata da riflessi variabili, mettono in atto la medesima strategia della negazione di un punto privilegiato di osservazione ed invitano a camminare tra di essi innescando una serie di complesse, mutevoli, ed in qualche modo “labirintiche” interazioni.
Nel corso degli anni Settanta le potenzialità illusionistiche degli specchi vengono ulteriormente sfruttate da Morris nella creazione di installazioni in grande scala tali da modificare ancora più sostanzialmente la percezione dello spazio architettonico nel quale vengono esposte.

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Robert Morris, Untitled (Walk Around), 1975

Il primo in ordine di tempo tra questi dispositivi illusivi è del 1973 ma viene realizzato solo due anni dopo nella galleria D’Alessandro Ferranti a Roma. Sulle due pareti di fondo del doppio volume a forma di elle della galleria viene collocata una lastra metallica quadrata, dalla quale si dipartono tanti riquadri di grandezza crescente appesi al soffitto atti ad incorniciarla progressivamente. Uno specchio disposto obliquamente nell’angolo di congiunzione delle due sale riflette e raddoppia le due scansioni prospettiche espandendo virtualmente lo spazio della galleria. Tale installazione – denominata Untitled (Walk Around) – assume i connotati di un sistema dedalico materialmente strutturato e visivamente verificabile: le cornici (sia quelle concrete in acciaio che quelle virtuali rimandate dallo specchio) scandiscono, al pari dei muri di delimitazione di un vero e proprio labirinto, un “percorso” che si articola dalla lastra quadrata appesa al muro fino a quella riflessa, punto di partenza e punto d’arrivo di questo spazio al contempo reale e illusorio.
L’uso degli specchi come schermi replicativi e slargativi atti a realizzare nuove configurazioni spaziali, è comune ad un altra complessa opera realizzata presso il Portland Center for the Visual Arts nel 1977. Untitled (Portland Mirrors) è un’installazione in grande scala composta da quattro specchi, reciprocamente opposti, e da una struttura romboidale di assi di legno che si estende in lunghezza ed in larghezza sul pavimento. I vertici di quest’ultima, incontrando i pannelli riflettenti nella loro metà, creano l’atmosfera di uno spazio illimitato nel quale le travi trovano un’infinita propagazione.
Al pari dell’installazione presso il Portland Center, Untitled (Williams Mirrors) attrae gli spettatori in un intrico di dubbi e sovrapposizioni tra ciò che è reale/fisico e ciò che è reale/virtuale, in un sistema dedalico “in which the body wanders, finding and losing itself and others in reflected, virtual spaces”.7 Tale intervento spaziale viene realizzato nel 1977 dall’artista nel cortile interno del Sterling & Francine Clark Art Institute di Williamstown: quattro coppie di superfici specchiate disposte tra loro ad angolo retto delimitano una vasta area al centro della quale sono collocati, l’uno di fronte all’altro, due pannelli riflettenti da ambo i lati.
Intorno a tale opera Robert Morris, a venti anni di distanza dalla sua originaria realizzazione, allestisce un vasto spazio su invito del Musèe d’Art contemporain di Lione. All’artista viene infatti offerta l’opportunità di esporre per tre anni consecutivi (1998, 1999, 2000) un’insieme di lavori in un’area continua e priva di ripartizioni interne di circa 800 m² al secondo piano del museo francese in modo tale da “mettre à l’èpreuve non les oeuvres (…) mais leur association, c’est-à-dire la fabrication et le langage du site”.8

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Robert Morris, Untitled (Williams Mirrors), 1998 (1977)

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Il primo sito realizzato nel 1998 a Lione prende dunque avvio da Untitled (Williams Mirrors), il quale intesse con le ulteriori opere esposte in tale occasione delle connessioni per assonanza o opposizione: Untitled (Portland Mirrors), Threadwaste (1968) e Mirror Film (1969) sono i tre lavori legati all’installazione di partenza da una concezione dello spazio in continua espansione data dalle mutevoli prospettive offerte dagli specchi. Alla dimensione “estroversa” di questi quattro mirror works si contrappone quella costrittiva di Passageway, installazione labirintica collocata dall’artista al centro della vasta sala espositiva.
L’esposizione del 1998 si presenta, dunque, nella sua complessità come una sorta di sistema dedalico atto a disorientare gli spettatori grazie ad una serie di “artefatti ambigui” fondati sull’esasperazione replicativa del visibile, attraverso l’uso degli specchi, o sullo sbarramento visivo, nel caso dell’angusto corridoio.
Così come l’esperienza vissuta dal fruitore all’interno del labirinto viene considerata da Morris come “revitalizzante”, allo stesso modo tutte queste opere – ricomposte in un unico sito – sono da interpretare come occasioni spaziali finalizzate a “contrastare il comune esercizio dello sguardo” e a rinviare, attraverso strategie “centrate sulla privazione o sulla profusione”, percezioni visive alternative e mai cristallizzate.9

Echi visivi e sonori nel dedalo di Lione
Nel secondo sito realizzato nell’estate del 1999 nel Musèe d’Art contemporain di Lione, Robert Morris sviluppa ed approfondisce la concezione di uno spazio espositivo tale da innescare complesse e variate opportunità di fruizione.

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Robert Morris, Lyon Labyrinth, 1998

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Per questa occasione l’artista crea un vero e proprio dedalo costituito da muri di legno compensato dalla grana uniforme; una struttura aperta che si estende, in lunghezza e larghezza, abbracciando tutta la vasta area messa a disposizione dal museo.
L’articolata ed espansa installazione si presenta come un’unicum rispetto ai precedenti labirinti realizzati dall’artista: il singolo sentiero che non offre possibilità alternative nel suo svolgimento continuo si scompagina qui in uno sconfinato intrico di vie e cul de sac. I numerosi ambiti spaziali nei quali si articola la complessa costruzione – delimitati da pareti sia curve che diritte – non sono semplici luoghi atti a disorientare e a dilatare l’esperienza fruitiva, ma spazi isolati nei quali sostare e concentrarsi nella visione di proiezioni multimediali protagoniste all’interno di essi.
I video delle quattro performance, che si ripetono simultaneamente e continuativamente nei meandri labirintici, sono state ideate ed eseguite da Morris nel biennio 1963-1965 e rappresentano, nel loro insieme – come afferma lo stesso artista – una sorta di “elegiac summation of a lifetime of my art concerns: desire (Waterman Switch), work (Site), the pathos and the solipsistic doubt about human communication (21.3), memory (Arizona)10.
Il processo che ha condotto l’artista ad includervi i cinque video delle performance è caratterizzato da un’inedita riflessione sul tempo, sullo spazio e sulla memoria.
“I thought the simultaneity and repetition of the performances might fix them in some kind of stopped timespace and give each a kind of protected place where it might hover”11 afferma Morris nella lunga intervista rilasciata ad Anne Bertrand. La reiterazione all’infinito delle proiezioni ne infrange e spezza la linearità d’esecuzione; la durata delle videoregistrazioni, da prefissata e temporalmente limitata diviene estesa e continua al punto tale da annullare il significato di inizio e di fine.
Le identiche caratteristiche di dilatazione e di pervasività sono presenti nella composizione architettonica del sistema dedalico di Lione atto a valorizzare le quattro performance: uno spazio espanso e non orientato, tale da permettere una fruizione pluridirezionale lenta e riflessiva.
Immerse in questa atmosfera di sospensione, le quattro performance – che rappresentano da sempre per Morris una calma e rischiarata parentesi creativa – diventano metafore di ciò che l’artista chiama “repetitive memory moments”, ricordi che affiorano e riaffiorano nella mente, reminiscenze adagiate e protette in fessure immuni dagli assalti del tempo.
Se nella retrospettiva del Guggenheim di New York (1994) le performance videoregistrate – disposte su pannelli inclinati e presentate come oggetti tra gli oggetti – sono apparse a Morris prive della giusta dimensione spaziale, al contrario, nelle nicchie appartate del dedalo di Lione, trovano la loro collocazione appropriata. “At the Guggenheim – ribadisce l’artista – I would say the performances lost their way, while in the Labyrinth of Lyon they found their way. So within the “labyrinth” a paradox is allowed: we lose ourselves to find ourselves”.12

di Alessandra Acocella

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SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte I)

SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte III)

Note
1Rosalind Krauss, “The mind/body problem: Robert Morris in series” in Rosalind Krauss, Thomas Krens (a cura di), Robert Morris. The mind/body problem (catalogo della mostra, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, gennaio-aprile 1994), New York, Solomon R. Guggenheim Publications, 1994, p. 10
2Robert Morris, “The Present Tense of Space”, Art in America, LXVI (1978), n.1, p.76
3Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Milano, Mondadori, 2000, p. 285
4Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Mondadori, Milano, Mondadori, 2000, p. 242
5Janet Kraynac, “Depended Partecipation: Bruce Nauman’s Environments”, Grey Room, (2003), n. 20 cit. in Laurence Sillars (a cura di), Bruce Nauman (catalogo della mostra, Napoli, MADRE, ottobre-gennaio 2007), Napoli, Electa, 2006, p. 90
6Robert Morris, “Aligned with Nazca”, Artforum, XIV (1975), n. 2, p. 36
7Robert Morris, “Robert Morris Around Mind/Body Problem” intervistato da Rosalind Krauss, Art Press, (1994), n. 193
8hierry Raspail, “Robert Morris, 1998, 1999, 2000” in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Skira, Milano, 2000, p. 6
9Jean Pierre Criqui, “Disegnare dalla tenebra: I Blind Time di Robert Morris” in Jean Pierre Criqui (a cura di), Robert Morris: Blind Time Drawings 1973-2000, (catalogo della mostra, Prato, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, febbraio-maggio 2005), Gottingen, Steidl, 2005, p. 14
10Robert Morris, “Labyrinth II. Interview with Robert Morris by Anne Bertrand” p. 165 in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Milano, Skira, 2000, p. 165
11Robert Morris, “Labyrinth II. Interview with Robert Morris by Anne Bertrand” in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Skira, Milano, 2000, p. 181-183
12Robert Morris, “Labyrinth II. Interview with Robert Morris by Anne Bertrand” in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Milano, Skira, 2000, p. 185

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