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17 Novembre 2008

English

School Complex at Marguerittes (1998 – 1999)
Gilles Perraudin*

Versione italiana

With a regular layout like the ones that characterise the oldest of southern French towns, this complex is situated in the area of the garrigue nimoise, a land of amber-coloured soil and shrubs with foliage ranging in colour from green to silvery grey. Immersed in an ancient, windswept olive grove, study and everyday areas are organised in independent bodies arranged around internal pathways, courtyards and gardens, covering a vast, square-shaped area.
The buildings, designed as a simple series of volumes in a row, are all on one floor. This architecture is perfectly in keeping with the height of the neighbouring trees, of those olives extending all around and entering into the courtyards, adding a hint of the true Mediterranean patio to the school’s outdoor areas.
These low buildings are composed of just a few courses of cyclopean isodomic masonry consisting of massive ashlars 50 cm. thick, 1 m. high and 2 m. wide. The load-bearing walls see Perraudin once again utilising local limestone, a blond-coloured “shelled Molasse”.
Quarrying of the stone, which is centred around Vers-Pont-du-Gard and is mainly for the production of decorative elements, leads to the declassing of a considerable quantity of stone not put on sale because of the presence of irregularly distributed pockets of clay or shells. A conspicuous quantity of this waste stone is used in an innovative manner by the French architect as building material – both ecological and economical (in terms of extraction, laying and maintenance). The Vars limestone quarried in large monolithic blocks using automatic saws, is easy to transport and is assembled directly on site, with no need for any further dressing. Thus, in a rapid, mechanised constructive process (thanks to the use of a crane), the building is built using these blocks laid dry, with no plastering or painting requiring expensive maintenance cycles. Simple joints, prepared beforehand so as to make them airtight, seal the external and internal facing when the blocks have been laid.

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In the Margeurittes school complex, Perraudin exploits to the full the potential of the massive stone blocks, their static qualities and their image as perennial natural elements, as well as their elevated thermal and acoustic inertia, both important qualities in a place characterised by a considerable temperature range and the vicinity of a fast main road. Only national legislation, oblivious to the superb stone walls of ancient times, prevents the work from being completed with the rightful addition of the envisaged monolithic architraves. The concrete curbs required by the planning department are hidden, however, by white metal roofs and transparent shelters.

Alfonso Acocella

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

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17 Novembre 2008

Opere di Architettura

Centro scolastico a Marguerittes (1998-1999)
di Gilles Perraudin*

English version

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L’ingresso del complesso scolastico

Regolare nell’impianto come le più antiche città fondate della Francia meridionale, il complesso sorge isolato nel paesaggio della garigue nimoise, fatto di terra ambrata e di basse chiome cangianti dal verde al grigio argenteo. Immersi in un antico uliveto battuto dal mistral, spazi per lo studio e per la vita quotidiana sono organizzati in corpi indipendenti, articolati da strade interne, corti e giardini su di una vasta superficie dal perimetro quadrato.
Gli edifici, concepiti per semplici serie divolumi in infilata, si elevano di un solo piano rispetto alla quota del terreno. Si tratta di architetture perfettamente commisurate al profilo degli alberi, di quegli ulivi che si estendono all’intorno ed entrano nelle corti ad aumentarne la suggestione di veri patii mediterranei.
Per realizzare la struttura verticale di questi edifici dall’altezza contenuta sono sufficienti pochi ricorsi di un’opera isodoma ciclopica costituita da blocchi di 50 centimetri di spessore, per 1 metro di altezza, per 2 metri di larghezza. Una muratura portante in cui Perraudin utilizza ancora una volta il calcare locale, una tenera “molassa conchigliata” di colore biondo.
L’attività estrattiva, concentrata nei territori di Vers-Pont-du-Gard, e finalizzata prevalentemente alla realizzazione di elementi decorativi, porta al declassamento di una notevole quantità di materiale litico non commercializzato per la presenza di sacche di argilla o di conchiglie irregolarmente distribuite. Una cospicua produzione di pietra di scarto è utilizzata innovativamente dall’architetto francese come giacimento di materiale da costruzione, ecologico ed economico nei costi di estrazione, di posa in opera e di manutenzione. Il calcare di Vers viene cavato per segagione automatica in grandi monoliti, facilmente trasportabili e direttamente montati in cantiere, senza ulteriori lavorazioni. Così, in un processo costruttivo rapido e meccanizzato, grazie all’utilizzo di gru, l’edificio cresce per blocchi posati a secco e lasciati a vista, senza intonaci e tinteggiature che necessitino di onerosi cicli manutentivi. Un semplice giunto, predisposto ai fini dell’impermeabilizzazione all’aria, sigilla le commessure del paramento esterno e di quello interno a montaggio ultimato.

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Pianta del complesso scolastico

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Nel centro di formazione di Marguerittes Perraudin sfrutta appieno le potenzialità della pietra massiva, le sue qualità statiche di gravità e la sua immagine di elemento naturale perenne, la sua elevata inerzia termica e fonica necessaria in un luogo caratterizzato da alte escursioni di temperatura e dalla vicinanza di una strada a scorrimento veloce. Soltanto la normativa nazionale, dimentica dei magistrali dispositivi murari lapidei dell’antichità, impedisce di sviluppare il sistema costruttivo in maniera congrua, di completarlo cioè con gli architravi monolitici previsti. I cordoli di coronamento in calcestruzzo imposti dalle autorità edilizie sono comunque nascosti da bianche coperture metalliche e da pensiline trasparenti.

Alfonso Acocella

Note
*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

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14 Novembre 2008

Progetti

PALAZZO DELLA PROVINCIA DI AREZZO
progetto vincitore al concorso internazionale per la Nuova Sede della Provincia ad Arezzo

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Le istituzioni richiedono forme che ne trasmettano l’autorevolezza. Ma non dobbiamo scordare che esse appartengono ai cittadini e che il principio di autorità si fonde con il diritto a partecipare, con l’esercizio delle libertà.
In un primo momento è sembrato di poter attribuire all’impianto quadrilatero di un palazzo rinascimentale italiano, quei valori simbolici in grado di esprimere l’esercizio dell’amministrazione civile: ancor più ad Arezzo, che appartiene a quell’area e a quelle comunità orgogliose, dove storicamente sono sorte le libertà e le istituzioni comunali, le stesse comunità che hanno inventato la città, i suoi luoghi e lo spazio pubblico. Tuttavia l’idea della vivacità laboriosa e multiforme dei primi secoli del millennio, con la sua città continuamente variabile e molteplice, risulta distante dalle chiuse codificazioni del pensiero artistico rinascimentale – cui in fondo appartiene il palazzo italiano – come la dinamica dei contrasti democratici differisce dall’ordine aristocratico.

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Così, mi sono trovato a raccontare la storia del palazzo italiano cominciando dal fondo, facendo regredire una figura consolidata e introducendovi delle incertezze, in modo da accogliere una maggior dinamica sociale e ideale. Inoltre, quella stagione di grandi narrazioni e di magnifiche sorti e progressive pare esaurita, e il tempo sembra invece un po’ ripetersi uguale a se stesso, in una sospensione fra passato e futuro, che ci obbliga tutti a vivere un eterno presente, accompagnati dalla banalità semplice e anche un po’ infantile dei simboli quotidiani, e dall’illusione di un’onnipotenza in realtà inefficace.
Per questo il palazzo arretra dal suo basamento e lascia una scalinata a suggerire di una passata monumentalità; il quadrilatero si spezza e si avvolge in una spirale, che contiene gli ambienti dell’amministrazione e delimita gli spazi pubblici. Le sue piazze sono trasformate in un percorso da vedere nel tempo, articolato in più luoghi, ordinati da una regola emisimmetrica, che obbliga i cittadini a percorrere, dall’interno della sua corte, la realtà del palazzo e, con ciò, lo rende vivo. Su un fronte i volumi si spezzano, come resti di una costruzione antica, sull’altro si sollevano, generando un grande, contemporaneo taglio.
Arezzo, invero, è una città di spazi misurati, di presenze discrete e varietà ricomposte e ordinate, come le figure e i colori degli affreschi di Piero; la natura della città rimane incisa nelle piazze del suo centro storico; proprio quel particolare rapporto fra spazio pubblico, volumi e orografia – come nella piazza Grande – ha suggerito la forma del luogo centrale del progetto, ispirando una piazza-scalinata destinata a divenire un centro di informazione e di incontri, un luogo degli sguardi, insomma il vero cuore dell’organismo.

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(Dalla Relazione di progetto)

2005
Progettista Capogruppo:
Prof. Arch. Fabrizio Rossi Prodi
Gruppo di Progettazione: Prof. Ing. Paolo Spinelli, Arch. Marco Zucconi, Arch. Simone Abbado, Arch. Emiliano Romagnoli.
Collaboratori: Arch. Giovanni Zorico, Arch. Jacopo Maria Giagnoni, Arch. Fabiano Micocci, Arch. Nicola Spagni, Arch. Enrico Tomidei, Georgios Kapourniotis, Caterina Ciampi, Francesco Tarentini.
Consulenti: Prof. Ing. Giancarlo Martarelli

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13 Novembre 2008

Eventi

Ipostudio – la concretezza della modernità

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Clikka sull’immagine per ingrandire

PRESENTAZIONE DEL VOLUME

Ipostudio
la concretezza della modernità
di Marco Mulazzani
Electaarchitettura, Milano 2008

Giovedì 20 novembre 2008 alle ore 18:30
Biblioteca delle Oblate in via dell’Oriuolo 26 a Firenze.

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10 Novembre 2008

Scultura

IL GIARDINO DELLE SCULTURE FLUIDE DI GIUSEPPE PENONE
Riflessioni sulla pietra

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Giuseppe Penone

“Il problema del mio lavoro è la scultura, non il giardino. Non mi sono mai preoccupato del giardino ma delle opere che lo fanno vivere e gli danno senso”1.
Giuseppe Penone

Nella Venaria Reale, grandiosa dimora sabauda recentemente aperta al pubblico a seguito di un complesso intervento di restauro, Giuseppe Penone – artista piemontese di fama internazionale – ha realizzato Il giardino delle sculture fluide (2003-2007), un vero e proprio percorso di opere “a cielo aperto”.
L’area destinata a tale progetto è il Parco Basso, una porzione del vasto giardino situata a fianco della Reggia. Si tratta di una fascia stretta e molto lunga (500×60 metri circa), per la quale l’artista ha scelto di mantenere la suddivisione seicentesca del terreno in una decina di riquadrature, al fine di creare un rimando con l’originario disegno, e, parallelamente, conferire alle sculture e alle installazioni da lui realizzate una propria cadenza e spaziatura.
Le quattordici opere ambientali che qui si alternano ritmicamente – dialogando in maniera inedita con l’esterno della reggia – sono realizzate con due tra i materiali più tradizionali dal fare artistico: il bronzo e la pietra.
Il bronzo, che Penone ha iniziato ad adottare nel corso degli anni Settanta, diviene in seguito uno dei suoi materiali prediletti. Infatti fin dagli esordi la riflessione dell’artista è interamente dedicata agli elementi naturali (primo fra tutti l’archetipo dell’albero), ed in questa lega, che acquista col tempo un colore simile alla vegetazione, egli scorge un materiale col quale riprodurre mimeticamente la natura e creare così un inedito confronto tra i processi formativi naturali e quelli del fare artistico.

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Giuseppe Penone, Biforcazione, 2007

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Lo dimostrano le opere in bronzo presenti in questo giardino (Tra scorza e scorza, Biforcazione, Direzione verso la luce, Direzione verso il centro della terra…), “sculture albero” che se inizialmente stupiscono il visitatore in virtù del loro carattere mimetico – poichè artifici con forme naturali immersi nella natura – in un secondo momento stimolano una lettura più profonda delle motivazioni da esse espresse, ovvero un invito ad una nuova e più consapevole riflessione verso il mondo vegetale ed organico.
Oltre al bronzo, è la pietra l’altro materiale di cui Penone fa ampio uso negli spazi esterni della dimora sabauda. I segni scultorei che l’artista elabora, a partire da questa materia, assumono il significato di metafore della comunione tra corpo umano e natura (Disegno d’acqua, Anatomia, Pelle di marmo) o di immagini dell’affinità tra pensiero ed elemento naturale (Cervello di pietra, Idee di pietra).

Un’impronta nell’acqua
Disegno d’acqua, prima opera costituita da materiale lapideo in cui il visitatore s’imbatte, consiste in una vasca dalle grandi dimensioni collocata su di un piano piastrellato, il quale si innalza – seguendo il naturale dislivello del terreno – sul lato rivolto verso la Reggia. Da tale punto di vista privilegiato è possibile osservare l’intervento nella sua interezza: un grande recipiente di granito nero i cui bordi sono costituiti da diverse lastre, levigate sulla superficie e appena sbozzate ai lati. Tra queste vi sono, solo in alcuni punti, delle sottili incisioni in cui scorre l’acqua della vasca che poi si disperde nel suolo.

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Giuseppe Penone, Disegno d’acqua, 2007

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La motivazione che ha portato l’artista a scegliere il granito nero deriva dalla necessità di trovare un fondo scuro capace di rendere maggiormente visibile l’immagine che si crea sullo specchio d’acqua: una grande impronta digitale formata da bolle d’aria risalenti dal fondo, che appare e scompare ad intervalli regolari.
Scrive Penone:

Un’impronta nell’acqua.
Ogni volta che mi lavo le mani, lascio nell’acqua il calco della loro pelle.
Ogni volta che ne tocco la superficie con un dito propago il disegno della mia impronta
sull’acqua. Sulla superficie dell’acqua ritroviamo la pelle dell’uomo, un uomo che è fatto di acqua
e che ha la coesione di una goccia d’acqua.
La superficie di una goccia d’acqua ha la pelle dell’uomo.
Ho formato il disegno di una impronta digitale con infinite bolle d’aria che increspano
la superficie dell’acqua con la cadenza di un respiro.
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Giuseppe Penone, Disegno d’acqua, 2007

Una riflessione, dunque, sull’acqua, sulla fluidità, non di natura mitica o simbolica – come nelle fontane del passato al cui centro veniva collocata la figura di Nettuno – ma oggettiva, volta ad indagare la forma e le caratteristiche di questo elemento primario. Infatti, secondo Penone, le increspature che si formano sulla superficie dell’acqua presentano un’intima analogia con la traccia che le nostre dita lasciano a contatto con cose. E con Disegno d’acqua egli non vuol far altro che rendere visibile questa segreta risonanza tra l’entità acquatica ed i segni lasciati dal nostro corpo.

La vitalità del marmo
Proseguendo nel percorso di sculture a cielo aperto si incontrano altre due opere dedicate all’elemento della pietra: Anatomia e Pelle di marmo.
Non è un fatto casuale che esse si trovino all’interno della medesima riquadratura del terreno, dal momento che sviluppano due soluzioni plastiche della stessa idea: la vitalità intrinseca del marmo.

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Giuseppe Penone, Pelle di marmo e Anatomia, 2007

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Anatomia ne rappresenta la soluzione di volume, di tuttotondo. Si tratta di un blocco di marmo a scala umana, scolpito soltanto su due facce, da cui l’artista ha fatto emergere forme viscerali, grovigli di nervature in cui sembra scorrere linfa vitale; in tal modo la materia, liberandosi dalla sua rozzezza e grossolanità, può manifestarsi come un corpo carico di energia.
Interessante a questo proposito appare il confronto che Germano Celant fa tra il panneggio berniniano e l’Anatomia di Penone. Se nel panneggio dello scultore seicentesco – afferma il critico – il marmo sembra acquisire vita autonoma al punto tale da nascondere il corpo sottostante, al contrario nell’artista piemontese è il blocco ad annullarsi per rivelare la sua natura di corpo3.
L’opera Pelle di marmo, una grande distesa di lastre di marmo bianco di Carrara, vuole anch’essa alludere alla vitalità insita nella pietra ma attraverso la possibilità scultorea di “bassorilievo”. Tale superficie lapidea è stata scolpita dall’artista mediante un meticoloso intervento di scavo che, portando in rilievo le sue venature, ne ha svelato la somiglianza con la pelle di una mano dalla quale affiorano appena le vene.

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Giuseppe Penone, Anatomia, 2007

Pensieri come pietre
Le sculture e le installazioni litiche che il visitatore del giardino ha incontrato fino a questo momento sono tutte, in un modo o nell’altro, immagini evocative di una stretta comunione tra i due mondi concreti dell’umano (le impronte lasciate dalle mani su ciò che ci circonda, alcuni dettagli del corpo quali pelle, viscere, nervature…) e del naturale (l’acqua, il marmo).
Nelle ultime due opere dedicate alla pietra, l’inaspettato confronto che si crea è quello tra un elemento appartenente alla sfera del reale e qualcosa che, al contrario, si situa in una realtà astratta, contemplativa.

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Giuseppe Penone, Cervello di pietre, 2007

La volontà espressa in Cervello di pietre e Idee di pietra è, infatti, quella di conferire un’immagine, una forma ed una concretezza ad una sostanza immateriale, e dunque priva di tutto questo: il pensiero. E questa immagine, questa forma, questa concretezza che Penone attribuisce all’idea è quella di una pietra di fiume, conformata dal continuo scorrere dell’acqua. Lo scultore rivela con queste parole le suggestioni che lo hanno portato ad associare il soggetto pensato alla solida materia naturale:

Pietre, cervello della terra.
Le circonvoluzioni delle vostre forme sono addolcite dalla continua forza del fiume.
Racchiudete il pensiero, la logica della sfera a cui la vostra forma si avvicina.
Le infinite parti che vi compongono, quei piccoli cristalli di diverso colore che coesistono
pressati da milioni di anni, sono pensieri, idee, immagini.
È pensosa la vostra forma, un pensare grave, calmo, sereno.
Vi siete spogliate nel tempo delle parti che vi toglievano unità e coerenza, per concentrarvi sempre
di più nella sintesi di una forma che vi avvicina alla sfera e alle parti che avete perduto,
come pensieri non chiari, confusi, anche loro col tempo acquistano una forma
sempre più chiara e precisa, sempre più sferica.
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Giuseppe Penone, Idee di pietra, 2007

Nell’universo ricreato da Giuseppe Penone nel verde della dimora sabauda, la pietra, da mera materia costitutiva della scultura, diviene il fulcro inedito della riflessione artistica. Il discorso alla base di queste opere ambientali appare, infine, di natura ontologica: “che cos’è la Pietra?”.
E la risposta che l’artista piemontese sembra suggerirci è quella di considerare la Pietra non come una materia inerte ma al contrario potenzialmente carica di vita, di quel flusso d’energia che investe i corpi così come della stimolante forza che plasma ed affina i pensieri.

di Alessandra Acocella

Per informazioni:
www.lavenaria.it
+39 011 4992333

Note
1 Giuseppe Penone e Germano Celant, “La scultura dal bosco al giardino”, p. 78 in Ida Giannelli (a cura di), Il giardino delle sculture fluide di Giuseppe Penone, Torino, Allemandi, 2007, pp. 203
2 Giuseppe Penone, “Disegno d’acqua” in Ida Giannelli (a cura di), Il giardino delle sculture fluide di Giuseppe Penone, Torino, Allemandi, 2007, pp. 203
3 Germano Celant, “Pelle corteccia” p. 134 in Ida Giannelli (a cura di), Il giardino delle sculture fluide di Giuseppe Penone, Torino, Allemandi, 2007, pp. 203
4 Giuseppe Penone, “Cervello di pietre” in Ida Giannelli (a cura di), Il giardino delle sculture fluide di Giuseppe Penone, Torino, Allemandi, 2007, pp. 203

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8 Novembre 2008

Opere Murarie

Cinte murarie nei siti archeologici

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Cefalù: muratura in opera poligonale.

CEFALÙ
Profilo storico-topografico – Cefalù è ubicata sulla costa settentrionale della Sicilia, tra Himera ed Haelesa. Le notizie riguardanti la sua fondazione sono piuttosto scarse: difatti, le fonti letterarie risalgono all’inizio del sec. IV a.C.; tale periodo è da ritenere notevolmente posteriore rispetto alla nascita del centro antico. Ciò contribuisce ad aumentare i molti dubbi che esistono riguardo al nome originario della città, alla sua data di fondazione e alla stirpe dei suoi primi abitanti. Il primo nucleo di abitanti era forse di origine greca, anche se Tucidide non ricorda K?????????? tra gli stanziamenti greci dell’Isola, per cui sembra abbastanza verosimile ritenere Cefalù un centro indigeno che si sviluppò a contatto delle popolazioni greche e puniche che, a partire dalla fine del sec. V a.C. tennero, alternativamente la supremazia, più economica che politica, della zona. La città è nominata per la prima volta da Diodoro, il quale riferisce che nel 396 a.C. il generale cartaginese Imilcone si alleò con gli abitanti del frourion di K?????????? che poco dopo fu presa a tradimento da Dioniso di Siracusa. Nel 307 a.C. fu conquistata da Agatocle che le assegnò come governatore Leptine, e successivamente se la riservò come proprietà personale insieme a Thermai Himeraiai (Termini Imerese). Nel 254 a.C. fu presa con l’inganno dai Romani e con il nome di Cephaloedium ridotta allo stato di civitas decumana. La città al tempo di Cicerone era sede di un sacerdote massimo e, almeno in età tarda, disponeva di un porto.

Il sistema difensivo – L’intera area dell’antica città di Cefalù fu difesa, probabilmente, fin dalle origini, da possenti mura di fortificazioni in opera poligonale che, integrando la difesa naturale della Rocca, proteggevano la città dagli altri lati e lungo la costa. Queste mura valsero a Cefalù la denominazione di ????????, ovvero fortezza, ed erano ancora visibili nel sec. IX quando giunsero gli Arabi, tanto che il geografo arabo Edrisi potè descrivere Cefalù come una fortezza […] fabbricata sopra scogli contigui alla riva del mare. La cinta muraria continuò ad essere utilizzata, con opportuni restauri ed integrazioni, fino all’Ottocento, come testimoniano diverse testimonianze grafiche, come la celebre veduta prospettica pubblicata dal Passafiume nel 1645. Le antiche mura seguono la linea della costa, impostandosi direttamente sulla scogliera, per piegare poi verso la Rocca, a cui si saldano in corrispondenza di larghe fenditure naturali. Questo circuito, malgrado i numerosi rifacimenti, non pare aver subito nel tempo deviazione alcuna dal suo originario tracciato. La caratteristica essenziale è una certa linearità dei vari tratti, rinforzati, nelle deviazioni indispensabili, da torrette sporgenti dalla cortina e notevolmente sviluppate nel senso della larghezza, nonchè da veri e propri baluardi presso gli angoli. Almeno fino al Seicento lungo le mura si aprivano quattro porte: due verso Sud, la Porta I, detta porta terra, a piazza Garibaldi, e la Porta II, detta dell’arena o d’Ossuna, a piazza Cristoforo Colombo; un’altra sul mare, verso Ovest, la Porta III, detta della marina o Pescara; infine, verso Est, la Porta IV o della giudecca, presso la chiesetta di S. Antonio. Presumibilmente queste porte, all’epoca della fondazione della città, ne costituivano i quattro accessi. La datazione delle mura di Cefalù ha subito nel tempo notevoli variazioni. Infatti dalle cronologie ottocentesche che le riferivano a periodi precedenti alla colonizzazione greca, si è passati da parte di alcuni studiosi ad una generica datazione intorno ai secc. VI-V a.C., anche se non manca qualche voce isolata riguardo datazioni più basse o più alte. I resti pervenutici sono ben distinguibili secondo differenti tecniche costruttive: una di tipo poligonale; l’altra in opera ciclopica. Le mura sono realizzate mediante un doppio paramento di blocchi di notevoli dimensioni ricavati della Rocca stessa, da dove sono forse stati fatti rotolare e disposti, senza uso di malta, secondo piani di posa per lo più orizzontali, a parte l’integrazione con blocchi più piccoli laddove necessario per livellare la differente altezza dei massi. Essi hanno forma trapezoidale, con i lati a taglio continuo e con la faccia esterna parzialmente sbozzata.

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Cefalù: muratura in opera ciclopica.

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Bibliografia
NATOLI L., La struttura urbana di Cefalù, in “Sicilia“, LXXII (1973).
PURPURA G., Le cave di pietra della Rocca di Cefalù, in “Sicilia Archeologica”, 37 (1978).
TULLIO A., Saggio sulla topografia e sulle antichità di Cefalù, in “Kòkalos”, XX (1974);
“Topografia antica e moderna di Cefalù: rapporti e problemi”, Atti del Convegno per la difesa dei Beni Culturali di Cefalù (Cefalù 7-9 agosto 1976), Cefalù 1977;
Cefalù – Necropoli. Campagne di scavo 1976-1978, in “Sicilia Archeologica”, 40 (1979);
La necropoli ellenistico-romana di Cefalù – scavi 1976-1979, in “Beni Culturali e Ambientali Sicilia”, I (1980);
Scavi e Ricerche a Cefalù (1984-1988), in “Kòkalos”, XXXIV-XXXV, 2 (1988-1989);
La Rocca incantata, in “Kalòs”, 6 (1993);
Scavi e Ricerche a Cefalù (1988-1993), in “Kòkalos”, XXXIX-XL, 2 (1993-1994);
Memoria di Cefalù. Antichità, Kefagrafica, Palermo 1994.

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Eloro: muratura in opera rettangolare pseudo-isodoma.

ELORO
Profilo storico-topografico
– La città di Eloro sorge su una bassa collina, circa m 20 sul livello del mare, lungo la costa a Sud-Est di Noto, a circa m 400 a Nord della foce del fiume Tellaro. Eloro fu occupata da Siracusa verso la fine del sec. VIII a.C. e l’inizio del sec. VII a.C., con la funzione di dominare da un ripido colle la via Elorina e isolare il centro siculo di Finocchito. Sono scarse le notizie delle fonti storiche su Eloro; la menzione più antica è in Pindaro, mentre Erodoto ci dà il primo puntuale riferimento a un fatto storico: nel territorio di Eloro nel 493 a.C., Ippocrate di Gela sconfisse i Siracusani. Nel 263 a.C. in virtù del trattato di pace fra Ierone e Roma rimane annessa a Siracusa e nel 214 a.C. si arrende a Marcello. La colonia di Eloro dimostra un adattamento della pianta urbana alla natura del terreno. La fondazione della città aveva come scopo principale l’occupazione e la coltivazione della ricca pianura che si estende a sud di Siracusa. Si noterà che gli assi di circolazione hanno seguito le curve di livello, e benchè le ricerche siano state ancora limitate, si può supporre che la rete urbana era meno rigida di quanto non lo fosse in altri esempi siciliani. Lo stesso adattamento al terreno si verifica nella disposizione del bellissimo insieme architettonico all’estremità Sud-Ovest della dorsale occupata dalla città; la sua composizione evoca lo spirito ed i metodi degli architetti di Pergamo nella volontà e nell’arte di adattare l’architettura al paesaggio.

Il sistema difensivo – L’abitato, che copre una superficie di appena 10 ettari, è circondato da una fortificazione, lunga m 1400, il cui primo impianto, conservato presso la porta settentrionale, risale al sec. VI a.C. Di questa fase più antica si conserva un tratto costituito da due cortine larghe m 2,80 ad èmplekton, e da una porta collocata sul versante occidentale, chiusa in seguito alla ristrutturazione del sec. IV a.C. A quest’ultima fase risalgono le torri quadrate, aggettanti rispetto alle mura, conservate lungo questo tratto della fortificazione. Sono state riconosciute due porte, una a Nord e l’altra a Sud, la prima in direzione di Siracusa, la seconda, presso la torre Stampaci, verso la foce del fiume Tellaro. Le due porte sono attraversate dalla Via Elorina il cui tracciato, realizzato sul fondo roccioso naturale in cui è ancora possibile vedere il solco lasciato dalle ruote dei carri, presenta un percorso sinuoso che si adatta alla morfologia del terreno. In questi ultimi anni è stato possibile documentare la presenza del circuito murario delle fortificazioni anche sul lato meridionale della città, praticamente fino alla torre Stampaci. Non vi sono ulteriori possibilità di migliorare le conoscenze sul lato Est della città, in quanto fenomeni di frana abbastanza consistenti nel corso dei secoli hanno fatto rovinare in mare non solo le fortificazioni, ma anche una fascia di suolo urbano. Presso la torre Stampaci sono stati ubicati un tratto di strada avente direzione Nord-Sud e una parte del sito di una porta, la meridionale, in parte distrutta da un canale di bonifica costruito nel 1933. Attraverso questa porta era possibile raggiungere la foce del Tellaro Della cinta muraria arcaica di Eloro si conosce solo un tratto identificato lungo il margine Nord-occidentale della città; esso è costruito con conci di calcare messi in opera con tecnica pseudoisodomica e formanti una duplice cortina con sacco interno riempito a pietrame. Lo spessore totale è di m 2,80; la presenza accertata del paramento interno, impostato ad un livello più alto rispetto a quello della cortina esterna e l’assestamento verticale dei blocchi, indicano una struttura muraria diversa da quella di Lentini e di Megara Iblea, e più vicina alla tipologia corrente nel sec. V a.C. Sarebbero auspicabili ulteriori indagini per un controllo dei dati forniti dai primi saggi, molto limitati, i cui materiali sono stati datati al terzo quarto del sec. VI a.C. La cinta muraria fu ricostruita nel sec. IV a.C. riutilizzando le mura arcaiche alle quali fu addossata all’esterno una nuova cinta muraria formata da grandi conci di calcare bianco posti di testa; le dimensioni dei blocchi (in media m 1,00×0,50×0,50) sono inferiori in lunghezza di poco meno di un terzo rispetto a quelle dei blocchi adoperati a Lentini nelle fondazioni della cinta muraria dell’acropoli sul versante orientale del colle San Mauro, ma la tecnica utilizzata è identica, cosicchè, nei tre filari che si conservano, si ha la medesima struttura.

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Eloro: muratura in opera rettangolare irregolare.

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Bibliografia
CERCHIAI L., JANNELLI L., LONGO F., Città greche della Magna Grecia e della Sicilia, Arsenale, Verona 2002.
CORSARO M., “Eloro”, in Nenci G., Vallet G., Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle Isole Tirreniche, VII, Pisa-Roma 1989.
MARTIN R., PELAGATTI P., VALLET G., VOZA G., “Le strutture urbane e il loro rapporto con la storia”, in Gabba E., Vallet G. (a cura di), Storia della Sicilia, I, 2, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.
ORSI P., Eloro, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1965;
Eloro, in “Bollettino d’Arte“, LI (1966).
VOZA G., “Eloro”, in Gabba E., Vallet G. (a cura di), Storia della Sicilia, I, 3, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979;
Eloro, in “Kòkalos”, XXVI-XXVII (1980-1981).

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Gela: muratura in opera rettangolare pseudo-isodoma.

GELA
Profilo storico-topografico
– La città di Gela viene fondata nel 689 a.C. da coloni rodio-cretesi guidati da Antifemo e da Cretesi guidati da Antimo. La fondazione della città non avviene in maniera pacifica, ma in seguito a scontri con le popolazioni indigene. Nel 405 a.C. lo scontro tra Dionigi di Siracusa e i Cartaginesi guidati da Amilcare ha come conseguenza la distruzione della città, rasa al suolo dopo la sconfitta siracusana. Gela ha modo di riprendersi solo nella metà del sec. IV a.C. grazie a Timoleonte che rifonda la città inviando un contingente proveniente da Ceo. Occupata da Agatocle nel 311-310 a.C., viene poi definitivamente distrutta nel 280 a.C. da Finzia, tiranno di Agrigento, che trasferisce gli abitanti nella nuova città di Finziale, presso l’attuale Licata.

Il sistema difensivo – Le fortificazioni di Gela rappresentano un’opera di architettura militare unica nel suo genere e uno straordinario esempio di struttura muraria a tecnica mista. Il tratto meglio conservato di questa notevole opera di fortificazione è stato messo in luce a Capo Soprano; esso ha uno sviluppo lineare di circa m 360, uno spessore di circa m 3,00 e si è conservato in buone condizioni, per un’altezza media di m 3,20, poichè rimase sepolto da una spessa coltre di sabbia. La cortina muraria messa in luce è costituita inferiormente da due paramenti di blocchi di calcarenite, con riempimento di pietrame e terra; la sopraelevazione è in mattoni crudi, disposti a corsi regolari, perfettamente isodomi, legati da argilla e sabbia di colore scuro, originariamente ricoperti da un’intonacatura di colore rosso. Il lato meridionale del muro era difeso da torri, a pianta rettangolare, distribuite lungo la cortina per rafforzare le difese degli ingressi. Inoltre, furono costruite due torrette insieme alla struttura di fortificazione; altre due furono aggiunte successivamente, forse durante la conquista di Agatocle. A questi avvenimenti sono stati riferiti sia le brecce aperte sul versante meridionale della struttura, sia alcune casermette in mattoni crudi realizzate all’interno della cinta muraria, lungo il lato nord, ed inoltre la costruzione di un tratto di muro a contrafforti, in conci lapidei che si addossa a Sud-Est alla cortina timoleontea. Due ingressi si aprivano nella cortina muraria: il primo è una porta di tipo dritto e stipiti ad ante, coperta da architrave, che fu murata a più riprese con mattoni crudi; la seconda è una postierla con copertura ad arco ogivale, che venne tamponata, per motivi di sicurezza, in un momento successivo alla sua stessa realizzazione. In mancanza di dati di scavo più precisi e di un’indagine approfondita sulle fondazioni della cortina lapidea, gli studiosi avanzano due ipotesi circa la datazione della cinta muraria: da alcuni è stata assegnata ad età timoleontea, sulla base dei materiali ceramici e delle litre d’argento di Gela e di Siracusa circolanti proprio nella seconda metà del sec. IV a.C. e ritrovate nei depositi votivi alla base del muro, attribuendo i successivi rifacimenti e trasformazioni ad Agatocle, sulla base dei reperti ritrovati nello strato di sabbia, che aveva in parte obliterato la struttura lapidea, e su una serie di osservazioni fatte sulla sopraelevazione in mattoni crudi, che subì aggiunte e occlusioni nelle merlature; altri studiosi, invece, datano l’opera muraria al sec. V a.C. ed attribuiscono le trasformazioni agli eventi della guerra punica.

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Gela: muratura in mattoni crudi con basamento in opera rettangolare pseudo-isodoma.

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Bibliografia
CECHIAI L., JANNELLI L., LONGO F., Città greche della Magna Grecia e della Sicilia, Arsenale, Verona 2002.
CORDANO F., Note per la fondazione di Gela, in “Miscellanea greca e romana“, VII (1982).
FIORENTINI G., Gela, la città antica e il suo territorio, Il Museo, Palermo 1985.
GRIFFO P., Gela. Destino di una città greca di Sicilia, Stringa, Genova 1963.
MARTIN R., PELAGATTI P., VALLET G., VOZA G., “Le città greche. Gela”, in Gabba E., Vallet G. (a cura di), Storia della Sicilia, I, 3, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.
NAVARRA G., E Gela e Katagela, in “Mitteilungen des deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung“, LXXXII (1975).
PANVINI R., ?É???, Storia e archeologia dell’antica Gela, SEI, Torino 1996.

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Lentini: Muratura in opera rettangolare pseuo-isodoma.

LENTINI
Profilo storico-topografico –
La fondazione di Leontini, unica colonia primaria greca non costiera, avviene nel 729 a.C., ad opera di coloni calcidesi; infatti, secondo Tucidide, cinque anni dopo la fondazione di Siracusa, i Calcidesi venuti da Naxos e comandati dall’ecista Teocle fondano Leontini, avendo cacciato i Siculi. Per quanto riguarda la storia della città a partire dal sec. VI a.C. fino all’epoca classica, sappiamo poco. Nel sec. V a.C., la città viene assoggettata da Siracusa. Dopo il crollo della tirannia dei Dinomenidi, la città si libera dell’egemonia siracusana e stringe alleanza con altre città calcidesi e soprattutto con Atene. Le grandi tensioni sociali fra l’aristocrazia sostenitrice di Atene e il popolo favorevole a Siracusa, sfociano nella cacciata dell’aristocrazia da Leontini e determinano una nuova spedizione ateniese che si concluderà con la vittoria di Siracusa. Dopo l’incursione cartaginese del 409 a.C., Siracusa trasferisce a Leontini gli abitanti di Agrigento, di Gela e di Camarina sfuggiti alla distruzione delle loro città. La politica imperialista di Dionigi segnerà un’ulteriore momento di decadenza per Leontini: la città cercherà di opporre resistenza al tiranno siracusano, che decide di trapiantarne i cittadini a Siracusa, insediando a Leontini 10.000 mercenari1. Nel sec. IV la città commette l’errore di schierarsi contro Timoleonte, perdendo ancora una volta la libertà e subendo il trasferimento dei suoi abitanti a Siracusa. Dopo il 311 a.C. passò sotto l’egemonia di Cartagine. Sotto Ierone II, dal 263 al 216 a.C., godette di un periodo di pace che terminò durante la seconda guerra punica: essendosi opposta a Roma, Marcello assalì la città, saccheggiandola e massacrandone gli abitanti.

Il sistema difensivo
I resti dell’antica fortificazione di Leontini si conservano nella parte meridionale della valle San Mauro e sul versante sud-orientale del colle San Mauro, e, per un breve tratto, sul versante sud-occidentale del colle Metapiccola, conservandoci, nel complesso, una serie di opere militari che si succedono dalla prima metà del sec. VI a.C. fino all’età ellenistica. A parte le specifiche diversità riscontrabili nelle tecniche costruttive e nell’adattamento alle esigenze dello sviluppo della poliorcetica, esse si differenziano nel loro impianto a seconda che obbediscano a due opposte esigenze: da un lato, la difesa della città nel suo complesso, dall’altro la sua occupazione ed il suo controllo. L’opera a tenaglia di età arcaica e la sua ricostruzione della metà circa del sec. V a.C., riflettono le esigenze di autonomia e di difesa della città che, alleatasi con Atene, diventò punto di riferimento del movimento antisiracusano; l’abbandono del fondo valle e l’arroccamento della fortificazione sul colle San Mauro sono la conseguenza della riconquista dionigiana e della trasformazione di Leontini in phrourion di Siracusa.La cinta muraria di epoca arcaica, che risale ad un periodo compreso tra la fine del sec. VII e la prima metà del sec. VI a.C., seguiva il margine delle due alture che fiancheggiavano la valle San Mauro, dove formava una profonda rientranza nella quale si apriva la porta della città, la cosiddetta Porta Siracusa. Essa si apriva, quindi, nel tratto più arretrato della fortificazione, secondo il modello detto “a tenaglia”, con la porta in posizione centrale, le due ali della fortificazione che, convergendo sulla porta, sbarravano l’accesso alla valle e due piccole torri, una semicircolare ad ovest, l’altra rettangolare ad est, che, a quote diverse, permettevano di avere un controllo quasi totale dell’accesso al fondo valle, quindi alla città.
Agli inizi del sec. V a.C., il muro trasversale che chiudeva l’accesso alla valle collegando l’ala occidentale dell’opera a tenaglia con la porta, fu demolito. Tale demolizione è legata alla conquista della città da parte di Ippocrate, fra il 498 e il 494 a.C. Nella metà del sec. V il muro venne ricostruito a circa m 14,00 più a Sud rispetto al precedente. Questo muro presenta uno spessore di m 2,00 e un doppio paramento perfettamente verticale. Il muro di sec. V non si conserva intatto: a partire dall’incastro con il muro di sec. VI a.C., dopo un tratto di circa m 14,00, presenta una lacuna di m 8,40 ed un successivo tratto di m 16,50.
A Lentini sono presenti i resti di diverse torri, databili fra il sec. VI e il sec. IV, di forma prevalentemente quadrata, anche se esistono i resti una torretta semicircolare. Quest’ultima appartiene alla prima fortificazione di sec. VI; di essa si conserva il filare di fondazione, di fattura piuttosto grezza, con blocchi della dimensione media di m 0,40 – 0,50 e dell’altezza di circa m 0,50 Alla fortificazione del sec. V appartengono le due torri costruite sempre sul lato orientale della porta. Quella più vicina alla porta, delle dimensioni m 9,00×8,50, si suppone faccia parte del tipo con muri interni a croce greca, realizzando così 4 ambienti di circa m 3×3; sono identificabili soltanto due vani sul lato sud-ovest, mentre nel lato nord-est non vi sono tracce di muri divisori: appare forse più probabile che fosse divisa internamente in tre ambienti, secondo la tipologia a T. L’altra torre, delle dimensioni di m 7,00×700, di cui ci è pervenuto molto poco, sembra poco probabile che avesse una ripartizione interna a croce greca, da cui si sarebbero ricavati ambienti di circa m 1,50×1,50; poteva essere o ad unico ambiente o divisa in due parti. I resti delle tre torri che si trovano a sud del colle San Mauro, appartengono alla fortificazione del sec. IV. I materiali e la tecnica costruttiva. I paramenti murari del sec. VI a.C. presentano, fondamentalmente, un paramento a faccia singola con riempimento interno appoggiato al pendio. Infatti, il muro che corre lungo il lato ovest del colle San Mauro, a sud della torretta semicircolare ha un paramento esterno a scarpa, con una inclinazione della faccia esterna di circa 7° rispetto alla verticale, a faccia singola, con riempimento di pietrame tra il muro e il pendio. È realizzato in conci non perfettamente regolari, della lunghezza media di m 0,70-0,80, che formano filari con altezze variabili da m 0,40 a m 0,50, per un’altezza massima di m 3,40 al settimo filare e nella faccia interna hanno profondità diverse, sicuramente per favorire la presa nel terreno di riempimento e rendere più solidale la struttura. I blocchi, in pietra da taglio, presentano un assestamento di tipo pseudo-isodomico, con letti e giunti ben lavorati e perfettamente combacianti.
La tecnica costruttiva impiegata nelle costruzioni della seconda metà del sec. V a.C., presenta delle diversità rispetto a quella impiegata nelle opere di sec. VI. Il nuovo muro di sbarramento della valle San Mauro, costruito a circa m 14 più a sud rispetto al precedente, presenta una struttura a doppio paramento con riempimento di pietrame. Il prospetto sud appare realizzato con blocchi di pezzatura varia che risultano essere molto più grandi o molto più piccoli di quelli di sec. VI. Non si può parlare di un allettamento per filari regolari, visto che i blocchi hanno dimensioni che vanno da m 1,30×0,60 a m 0,50×0,30. In generale, il nuovo muro di sbarramento della valle San Mauro era realizzato con una tecnica che prevedeva l’utilizzo di due facce e di un riempimento nella zona centrale, un vero e proprio muro ad emplekton, in cui alcuni dei blocchi delle facce esterne sono inseriti nello spessore del muro conferendogli una maggiore solidità.

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Lentini: Muratura in opera rettangolare pseuo-isodoma.

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Bibliografia
ADAM J.P., L’architecture militaire greque, Picard, Paris 1982.
MARITN R., PELAGATTI P., VALLET G., VOZA G., “Le città greche. Lentini”, in Gabba E., Vallet G., Storia della Sicilia, I, 3, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.
RIZZA G., “Osservazioni sull’architettura e sull’impianto urbano di Leontini in età arcaica”, in Rizza G. (a cura di) Architettura e urbanistica nella Sicilia greca arcaica, Atti della 3a Riunione Scientifica della Scuola di Perfezionamento in Archeologia Classica dell’Università di Catania (Siracusa, 11–14 dicembre 1980),
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RIZZA S., Studi sulle fortificazioni greche di Leontini, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Catania 2000.
TRÈZINY H., “L’architettura militare greca in occidente”, in (a cura di) Pugliese Carratelli G., I Greci in Occidente, Bompiani, Milano 1996.

Nota
1 Diod., XIV, 58, 1.

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Megara Iblea: muratura in opera rettangolare pseudo-isodoma di epoca arcaica.

MEGARA IBLEA
Profilo storico-topografico
– Secondo quanto ci tramanda Tucidide, la città sarebbe stata fondata da coloni provenienti da Megara Nisea,, cinque anni dopo la fondazione di Siracusa, quindi nel 728 a.C. La città di Megara Iblea cento anni dopo la sua fondazione, fonderà la città di Selinunte. Da un passo di Polieno sappiamo che vi fu una guerra contro Lentini verso il sec. VII a.C., sotto il tiranno Panaitios. Non sappiamo più nulla fino alla distruzione della città ad opera di Gelone, tiranno di Siracusa. Secondo Erodono, dopo il sacco della città, Gelone portò con sè tutti i Megaresi. Ad eccezione di un fortino costruito dai Siracusani al tempo della spedizione ateniese in Sicilia, il sito rimase deserto fino alla fondazione di una nuova colonia ad opera di Timoleonte. Il nome di Megara Iblea appare raramente nei testi antichi per tutto il periodo ellenistico. Il primo a farne menzione è Diodoro, quando riferisce degli attacchi dei Cartaginesi contro Siracusa, dicendo che vi fu una battaglia navale al largo delle coste di Megara. Nel sec. III a.C. faceva parte del regno di Ierone II e all’epoca dell’assedio dei Romani contro Siracusa Marcello la prese d’assalto e la distrusse completamente.

Il sistema difensivo
– La città conserva due cinte murarie: una di epoca arcaica ed una di epoca ellenistica. La cinta muraria risalente al sec. VI a.C. presenta un paramento costituito da blocchi di taglio regolare con una inclinazione a scarpa. Se ne conserva un lungo tratto a Nord della porta. Si tratta di una cortina muraria costituita da un muro a doppio paramento e riempimento a sacco, della larghezza di m 2,80. La cortina muraria presenta cinque torri circolari che presentano un diametro che oscilla fra m 5,79 e m 7,70 e sono costruite ad intervalli compresi tra m 37,00 e m 50,00. Le distanze, ritenute compatibili per un lancio incrociato di frecce, sembrano pertanto calcolate in rapporto alla difesa del tratto di cortina fra due torri. Da questo punto di vista la fortificazione di Megara appare più moderna, più solida e più studiata di quella di Lentini. L’altezza delle mura doveva essere di m 5,00 circa. L’accesso alla città si praticava attraverso una porta lunga circa m 11,00. La cinta muraria di età ellenistica presentano un paramento con due o tre assise di blocchi, di cui un certo numero sono di reimpiego: si tratta di blocchi di pietra bianca che appartenevano all’elevato di edifici arcaici. Le fondazioni sono incastrate nella roccia, tagliata in modo molto irregolare e le due pareti delle mura sono solidamente unite tra di loro da muri trasversali fatti di grossi blocchi di lunghezza irregolare, variabili da m 2,50 a m 4,00 circa. Il riempimento interno di queste divisioni è composto da pietre, da frammenti di reimpiego e da terra ben calcata . Sono presenti sette torri quadrangolari costruiti in grossi blocchi e divise in quattro scomparti da muri interni.

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Megara Iblea: muratura in opera rettangolare pseudo-isodoma di epoca ellenistica.

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Bibliografia
ADAMESTEANU D., “Quadro storico delle fortificazioni greche della Sicilia e della Magna Grecia”, in Leriche P., Treziny H., La fortification dans l’histoire du monde grec, CNRS, Napoli 1984.
CERCHIAI L., JANNELLI L., LONGO F., Città greche della Magna Grecia e della Sicilia, Arsenale, Verona 2002.
GRAS M., TRÉZINY H., “Megara Hyblaea”, in Greco E. (a cura di), La città greca antica. Istituzioni, società, forme urbane, Donzelli, Roma 1999.
MANNI E., Da Megara a Selinunte, in “Kòkalos”, XXI (1975).
TRÉZINY H., “Les tecniques grecques de fortification et leur diffusion a la pèriphèrie du monde grec d’occident”, in Leriche P., Treziny H., La fortification dans l’histoire du monde grec, CNRS, Napoli, 1984.
VALLET G., “Le città greche. Megara Iblea”, in Gabba E., Vallet G. (a cura di), Storia della Sicilia, I, 3, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.
VALLET G., VILLARD F., AUBERSON P., Mègara Hyblaea I. Le quartier de l’Agora archaïque, Roma 1977;
Megara Iblea. Guida degli scavi, Roma, 1983.

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Morgantina: muratura in opera rettangolare irregolare.

MORGANTINA
Profilo storico-topografico
– A Morgantina sono individuabili due aree ben distinte, che corrispondono alle due fasi principali della Città: l’insediamento antico sulla “la Cittadella” e quello ellenistico-romano a Sella Orlando. L’insediamento più antico ha le sue origini nella tarda età del bronzo, quando alcune popolazioni provenienti dall’Italia meridionale si insediarono in questo territorio. Costoro ben presto dovettero venire in contatto con le popolazioni greche presenti sulle coste siciliane, con enormi ripercussioni sullo sviluppo economico e culturale del centro. Intorno alla metà del sec. VI a.C. è documentata l’esistenza di un primo insediamento greco all’interno del villaggio indigeno. In questo periodo sorgono sull’acropoli piccoli tempietti decorati da terrecotte architettoniche e modeste case a cortile. Un piccolo santuario arcaico con edifici dislocati in un’area terrazzata è invece collocato in contrada San Francesco. L’insediamento subisce una prima distruzione alla fine del sec. VI a .C., probabilmente ad opera di Ippocrate di Gela. Alla metà del sec. V a.C. Morgantina viene conquistata da Ducezio, re indigeno che riesce a riunire i Siculi in una confederazione. Gli scavi archeologici indicano che l’insediamento sulla Cittadella viene abbandonato proprio in questo periodo, con la ragionevole conclusione che, dietro l’abbandono della Cittadella, c’era la volontà di Ducezio. Gli scavi sul pianoro di Sella Orlando hanno portato alla luce edifici e materiale archeologico databile allo stesso periodo, in quantità sufficiente per indicare che la seconda città di Morgantina, sul nuovo sito, è stata fondata nello stesso periodo in cui fu abbandonata la Cittadella, cioè verso la metà del sec. V a.C. L’avventura di Ducezio non dura a lungo; sconfitto da Agrigentini e Siracusani nel 451 a.C. è costretto ad abbandonare l’isola e a lasciare Morgantina nelle mani dei Siracusani. Dopo la pace di Gela, Siracusa cede la città a Camarina. Nel 396 a.C. Morgantina è conquistata da Dionigi I di Siracusa, ma appena quattro anni più tardi, nel 392 a.C, la città si allea con il generale cartaginese Magone, proprio contro Siracusa. Nel corso della seconda guerra punica Morgantina viene occupata dai Romani, ai quali dopo si ribella. Conquistata nuovamente è consegnata a un gruppo di soldati spagnoli. La città riduce in questa fase la sua estensione e molti quartieri vengono completamente abbandonati.

Il sistema difensivo – Nel sec. IV a.C. tutto il pianoro fu circondato da un muro difensivo, più volte riparato e potenziato nel secolo successivo. Numerosi tratti delle mura sono ben conservati, in particolare sul lato meridionale dove un rudere raggiunge l’altezza di più di quattro metri o sul lato settentrionale in corrispondenza della contrada S. Francesco, in cui lo spessore raggiunge i due metri e in altri punti lo spessore di m 3,75: prive di torri, ma fornite di bastioni, le mura erano realizzate a sacco, con una doppia cortina muraria e con un riempimento interno. Alla città si accedeva da quattro porte principali: dalla Porta Nord, di cui si è persa ogni traccia, che conduceva ai campi; dalla Porta Sud, la più munita per una migliore difesa dell’agorà, che conduceva alle sorgenti e ai campi; la Porta Est, che conduceva alla Cittadella e alle Necropoli; la Porta Ovest, che sicuramente consentiva un agevole accesso carrabile, di cui esiste un resto della muratura a sacco spessa circa due metri.

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Morgantina:. muratura in opera rettangolare irregolare.

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Bibliografia
BELL M., Recenti scavi nell’agorà di Morgantina, in “Kòkalos”, XXX-XXI (1984-1985).
D’ANNEO G., Morgantina: guida storico-critica, Herbita, Palermo 1988.
RAFFIOTTA S., C’era una volta Morgantina, Papiro, Enna 1991.
SJÖQVIST E., STILLWELL R., Excavations at Serra Orlando, Preliminary Report I, in “American Journal of Archaeology“, 62 (1957);
I Greci a Morgantina, in “Kòkalos”, VIII (1962).
SPOSITO A. & AA.VV., Morgantina. Architettura e città ellenistiche, Palermo 1995.
SPOSITO A., Morgantina e Solunto. Analisi e problemi conservativi, Priulla, Palermo 2001.

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Naxos: muratura in opera poligonale.

NAXOS
Profilo storico-topografico
– La città di Naxos è indicata come la più antica colonia greca di Sicilia, fondata intorno al 734-33 a.C. Ippocrate di Gela, nei primi anni del sec. V a.C., nel suo programma di espansione che coinvolge tutta la costa orientale e in special modo le città calcidesi, attacca Naxos e Callipolis distruggendo probabilmente quest’ultima. Nel 476 il fratello di Gelone, Ierone, preleva i cittadini di Catania e di Naxos e li concentra a Leontinoi. Nel 460 a.C. con la caduta dei Dinomenidi e con il ritorno dei regimi democratici, gli antichi abitanti rientrano nella città e ha inizio un periodo di pace che durerà per circa 30 anni. Con l’inizio della spedizione ateniese in Sicilia, Naxos, alleata di Atene, subisce nel 425 a.C. un primo attacco da parte dell’esercito di Messana alleata di Siracusa, ma i Siculi accorrono in suo aiuto. Nel 415 a.C. gli Ateniesi guidati da Nicia vi trovano assistenza e vi pongono gli accampamenti, ma Naxos subirà la vendetta di Dionisio che riesce a prendere la città. Nel 403 a.C. Dionisio fece abbattere le mura, le torri e gli edifici affinchè non rimanesse nulla. La vita riprese tuttavia dopo qualche tempo. Non mancano resti databili ai primi secoli dell’Impero, da ricollegarsi alla mansio Naxos. indicata nell’Itinerario di Antonino, mentre l’attività di nuclei di vasai è stata documentata da scavi recenti, fino al sec. V-VI d. C., epoca in cui si perdono le tracce della frequentazione del sito.

Il sistema difensivo – Il perimetro delle mura recinge la penisola seguendo la costa, a Nord-Est e a Sud, e il corso del Santa Venera, a Ovest. Il tratto delle mura meglio conservato è quello occidentale che segue il basso corso del Santa Venera per circa m 300, mentre il tratto a monte, per circa m 200, sembra sia stato trascinato via dal corso del fiume che qui si accosta al perimetro dell’abitato e deve averne invaso i quartieri Nord-occidentali. È un’opera imponente che, oltre ad avere avuto la funzione di muro di difesa, doveva costituire un argine non sempre sufficiente contro le piene del fiume, ancora oggi molto frequenti. È costruita in pietra lavica ed ha una larghezza variabile intorno a m 4,60; presenta due paramenti dello spessore di m 1,80 ciascuno con riempimento a sacco. I massi in faccia vista, rozzamente sbozzati, sono di dimensioni considerevoli: alcuni raggiungono i m 2,00. All’estremità Sud-Occidentale il muro non fu costruito perchè inglobò i preesistenti muri di recinzione del santuario impiantandosi fin da sec. VII a.C. all’estrema periferia Sud-Occidentale della città presso la foce del Santa Venera. L’opera fu costruita infatti sul finire del sec. IV a.C. in previsione dell’attacco di Ippocrate di Gela, e dovette essere in uso per tutto il sec. V a.C. I Naxi vi si rinchiusero al momento dell’attacco dei Messeni nel 425 a.C. Delle porte siamo in grado di indicarne almeno tre sul lato occidentale e due in quello meridionale, mentre vi sono sicuri indizi di un ingresso a Nord-Est del tratto che costeggia la baia, quasi al centro. Le porte presentano in genere un’apertura di m 2,50 e sono in corrispondenza sia della rete viaria di età arcaica sta di quella di età classica che dovette tener conto di tali punti obbligati. Solo presso la porta occidentale N. 7 sono stati accertati elementi, purtroppo assai mal conservati, di una torre rettangolare sul lato sinistro per chi usciva dalla città.

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Naxos: muratura in opera lesbia.

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Bibliografia
BELVEDERE O., Himera, Naxos, Camarina, tre casi di urbanistica coloniale, in “Xenia”, 14 (1987).
CONSOLO LANGHER S.N., Naxos di Sicilia. Profilo Storico, L’Erma di Bretschneider, Roma 1979.
LENTINI M.C., Giardini-Naxos. Storia e Archeologia della prima colonia greca in Sicilia, in “Archeologia Viva”, 17 (1991).
SCIBONA G., “Le città greche. Naxos”, in Gabba E., Vallet G. (a cura di), Storia della Sicilia, I, 3, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.

di Alberto Sposito* e Francesca Scalisi**
* Professore Ordinario, Facoltà di Architettura di Palermo
** Titolare di Assegno di Ricerca, Università di Palermo, D.P.C.E.

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6 Novembre 2008

PostScriptum

Imparare dalla Pietra.
Il progetto lapideo nelle università

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Progetto per un nuovo show-room Testi Fratelli in Valpolicella realizzato durante le esperienze didattiche alla Facoltà di Architettura di Ferrara. Dettaglio della grande facciata traforata in elementi lapidei. Studente Giampiero Corallo.

Dieci anni fa l’American Institute of Architects – l’ordine degli architetti statunitense – ha riconosciuto a Veronafiere-Marmomacc, come unica organizzazione fieristica mondiale, il ruolo di provider autorizzato a offrire formazione agli architetti americani sui temi della produzione e della costruzione litica. Da quel momento la fiera ha gestito in proprio programmi formativi complessi che si sono tenuti durante lo svolgimento delle giornate fieristiche veronesi o in occasione dei principali saloni americani del settore, mettendo in contatto diretto professionisti della progettazione e delle lavorazioni lapidee, per sollecitare il mercato edilizio all’utilizzo dei marmi e delle pietre. Qualche anno dopo, anche le associazioni degli architetti inglesi RIBA e di quelli canadesi RAIC, hanno conferito un’analoga qualifica a Veronafiere.
Oltre alla formazione permanente destinata ai professionisti esteri, da alcuni anni Marmomacc patrocina e sostiene attività didattiche finalizzate all’uso consapevole dei materiali litici anche nelle università italiane e straniere. Tali corsi sono collocati negli ambiti disciplinari della progettazione e della tecnologia dell’architettura e si sviluppano nella parte finale dei curricula di studio poichè mirano a sensibilizzare all’uso della pietra gli studenti che saranno architetti e ingegneri nell’immediato futuro.
La formazione specialistica attivata da Veronafiere in collaborazione con importanti realtà universitarie ad Lubbock (Texas), a Bari, Ferrara, Milano, Parigi, Pescara e a Trento ha aperto nuove problematiche nell’approccio didattico al tema lapideo: dalla connessione tra progettazione architettonica e tecniche costruttive, alla conoscenza diretta dei processi di estrazione e lavorazione dei materiali litici. L’introduzione di questi contenuti ha portato ad un confronto diretto tra studenti, docenti e mondo produttivo, fornendo nuovi stimoli e suggerendo inedite strategie di insegnamento.
Per fare il punto su tali processi lo scorso 3 ottobre, in occasione della 43a Marmomacc, si è tenuta una tavola rotonda a cui hanno partecipato Alfonso Acocella (Univ. di Ferrara), Massimiliano Caviasca (Polit. di Milano), Giorgio Cacciaguerra (Univ. di Trento), Giuseppe Fallacara (Polit. di Bari), Vincenzo Pavan (Univ. di Ferrara), Christian Pongratz (Texas Tech Univ.), Domenico Potanza (Univ. di Chieti-Pescara), Luc Tamborero (Ecole Arch. Paris Malaquais).
Inoltre, sempre durante le giornate di svolgimento della fiera veronese, è stata allestita una mostra, curata da Vincenzo Pavan, intitolata “Imparare dalla Pietra”, e costituita da una selezione degli elaborati progettuali realizzati dagli studenti che nelle diverse università hanno partecipato ai corsi sulla costruzione in pietra.
Il dibattito e l’evento espositivo hanno restituito al pubblico i risultati originali e di alta qualità di una didattica specialistica integrata, pensata per fondere in un approccio unitario la concezione formale dell’opera d’architettura con lo studio dei suoi aspetti materici, strutturali e costruttivi, in un confronto diretto con il mondo produttivo dei lapidei.

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Verona, Marmomacc 2008: la tavola rotonda e la mostra inerenti la formazione universitaria sull’architettura di pietra. (foto Enrico Geminiani)

LE SEDI DELLA FORMAZIONE

Mantova
Il primo corso di Alta Specializzazione aperto a studenti e professionisti riguardante l’architettura di pietra è curato da Massimiliano Caviasca presso il Polo Regionale di Mantova del Politecnico di Milano ed è attivo dal 2006. Il programma didattico guida gli studenti attraverso un percorso di analisi delle tecniche costruttive storiche, sino alla visita presso cave e aziende. L’obiettivo è prendere coscienza diretta dei processi tecnologici che vengono tradotti in un tema di progetto – un piccolo museo per la pietra – affrontato in un’ottica rovesciata, dal dettaglio costruttivo all’impianto generale.
È sempre Caviasca a coordinare per Il Politecnico il programma di ricerca “Studi per la Valorizzazione dell’Utilizzo Contemporaneo della Pietra” che mira a sviluppare i potenziali usi contemporanei dei lapidei, dal restauro, al progetto del paesaggio, al recupero delle cave dismesse.
Per il prossimo anno accademico il Politecnico milanese attiverà anche un master post-laurea che vedrà coinvolte le province direttamente interessate all’estrazione e alla lavorazione della pietra.

Ferrara
A Ferrara, nella prima Facoltà di Architettura d’Italia secondo le statistiche Censis – La Repubblica, Alfonso Acocella e Vincenzo Pavan propongono agli studenti del quinto anno un laboratorio che affronta il progetto di un padiglione espositivo: “Uno Spazio per Comunicare la Pietra”.
Scopo del corso, attivato nell’anno accademico 2007-08, è identificare e interpretare criticamente i linguaggi dell’architettura litica, analizzando la connessione tra progettazione architettonica e tecniche costruttive legate alle nuove frontiere di trasformazione e trattamento dei materiali lapidei.
Integrato da una intensa attività di conferenze e revisioni dei lavori da parte di visiting teachers italiani e stranieri, e sostenuto dal confronto diretto con le aziende destinatarie finali delle esercitazioni progettuali, il corso intende porre le basi per una cultura d’impiego dei lapidei consapevole e mirata a saldare in un processo unitario concezione progettuale, costruzione e materiali.

Trento
Nel 2008, all’interno del Corso di laurea in Ingegneria Edile – Architettura dell’ateneo di Trento, ha avuto inizio il corso di Progettazione con la Pietra, destinato agli studenti che seguono il laboratorio propedeutico alla tesi di laurea. Coordinato da Massimiliano Caviasca, tale corso si propone di sviluppare capacità professionali adeguate a una progettazione litica culturalmente adeguata e tecnicamente avanzata relativa a interventi nuovi o conservativi.

Pescara
“Involucri Lapidei per l’Abitare Contemporaneo” è il titolo di un seminario che raccoglie quattro fra corsi e laboratori tenuti presso la Facoltà di Architettura di Pescara da Francesco Girasante e Domenico Potenza. I corsi affrontano il progetto di elementi costruttivi multifunzionali e l’applicazione delle tecnologie per l’utilizzazione mirata della pietra nella progettazione residenziale, focalizzando in particolare il tema degli edifici destinati alle comunità di pendolari e ai cittadini diversamente abili.

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Rendering di spazio voltato in pietra progettato da Giuseppe
Fallacara nell’ambito delle ricerche svolte presso il Politecnico di Bari.

Bari e Parigi
Giuseppe Fallacara e Luc Tamborero, allievi e ricercatori rispettivamente di Claudio D’Amato Guerrieri e di Jöel Sakarovitch, da alcuni anni alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari e alla Ecole d’Architecture Paris-Malaquais, conducono ricerche ed esperienze didattiche inerenti l’aggiornamento morfologico e costruttivo della stereotomia.
Il lavoro congiunto dei due giovani studiosi si è sostanziato nella realizzazione di opere dimostrative e sperimentali in pietra da taglio, eseguite con gli attuali procedimenti costruttivi CAD/CAM. La riflessione teorica sull’aggiornamento in chiave contemporanea dello spazio voltato litico si traduce in attività produttiva e costruttiva grazie alla collaborazione con aziende specializzate del comparto lapideo.

Lubbock (Texas)
A seguito di un forte interesse per i materiali lapidei manifestato negli ultimi anni dalla cultura architettonica statunitense, la Texas Tech University di Lubbock ha promosso a Verona, nei mesi di maggio e giugno 2008 il Summer Design Studio dal titolo “Lithic Latencies”. In tale iniziativa Christian Pongratz e Vincenzo Pavan hanno guidato studenti americani e italiani in una serie di visite alle testimonianze architettoniche e alle aziende estrattive della Lessinia; i partecipanti hanno poi avuto la possibilità di esplorare le potenzialità applicative in architettura delle pietre di questo territorio attraverso un’esperienza di modellazione 3D finalizzata alla produzione con l’utilizzo di macchine a controllo numerico.

di Davide Turrini

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Politecnico di Milano – Polo regionale di Mantova
Facoltà di Architettura di Ferrara
Corso di laurea in Ingegneria Edile – Architettura di Trento
Facoltà di Architettura di Pescara
Politecnico di Bari – Facoltà di Architettura
Ecole d’Architecture Paris-Malaquais
Texas Tech University
Marmomacc

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3 Novembre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte IV)

ASTRAZIONI DEDALICHE: TRE SERIE GRAFICHE

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Robert Morris, Labyrinths: Untitled (Section of a Circular Labirinth), 1973

Inquadrature parziali ed “oscuri” tracciati: Labyrinths e Blind Time Drawings
Gli spazi dedalici ideati e realizzati da Robert Morris nell’arco della sua carriera artistica non sono solo oggetti fisici in grande scala collocati in ambienti interni o esterni grazie ai quali il fruitore mantiene in vita, in maniera attiva e ricettiva, lo spettacolo del visibile tridimensionale.
Alla dimensione materiale e fenomenica, dalla quale prendono vita tali dispositivi volumetrizzati, se ne aggiunge una ulteriore, anch’essa ampiamente “praticata” dall’artista: quella dell’astrazione.
La superficie bianca del foglio da disegno – argomenta Morris – dà vita ad uno spazio sia fisico che mentale: materialmente tracciato su un supporto cartaceo e al contempo idealmente situato “al di là” della realtà concreta costituita da oggetti1. In questo movimento di distanziamento dal mondo reale, nel quale siamo inevitabilmente immersi, va dunque rintracciata l’intenzione significante dell’astrazione, che permette “di afferrare le cose dell’ambiente da una certa distanza, di “concepirle”, di “informarsi” delle cose”2.
La realtà ideale alla quale fanno riferimento i numerosi disegni dedicati al tema del labirinto e a spazi fortemente enucleati, sembra essere sottolineata univocamente da Morris attraverso la scelta di un punto di vista di restituzione dall’alto, che accomuna tali artefatti grafici e li contraddistingue nettamente dai tridimensionali “dispositivi d’inganno” realizzati dall’artista, esperibili esclusivamente attraverso una loro ricezione dal suolo (e in qualche modo dal basso).
Le prime elaborazioni bidimensionali dedicate al soggetto dedalico risalgono al 1973, anno in cui Morris realizza una serie raffigurazioni ad inchiostro su carta riunite sotto il titolo Labyrinths.
Tali disegni, dal tratto contrastato e definito, si differenziano l’uno dall’altro per i vari andamenti delle composizioni e trame adottate (circolari, ellittiche, triangolari, quadrangolari) ma sono al contempo accomunati dall’uso oggettivante della proiezione assonometrica. Questo metodo di rappresentazione, frequentemente adottato nella progettazione tecnica, viene sperimentato per la prima volta da Morris nella metà degli anni Sessanta al fine di delineare graficamente con precisione ed esattezza gli elementari artefatti minimalisti.
I vari Labyrinths disegnati da Morris non vanno – però – interpretati come anticipazioni di studio di future elaborazioni tridimensionali, ma al contrario come artefatti artistici autonomi e peculiari.
A rafforzare questo concetto interviene uno “artificio” adottato dall’artista, del tutto estraneo alle finalità tecniche ed oggettualizzanti, in quanto volto a minare – in maniera decisa – l’integrità della forma rappresentata.
È lo stesso Morris ad esplicitarlo: “I would begin in mid-page and extend the drawing to the edges, knowing that the image was too large to fit completely on the page”3. Inevitabilmente, prosegue l’artista, questo metodo d’esecuzione conduce a “casuali tagli” (random cuts) nelle forme labirintiche. Queste ultime non vengono svelate nella loro totalità – come nel caso dei progetti minimalisti – ma al contrario si palesano come inquadrature parziali, inconcluse.
Se questo è il processo di restituzione grafica impiegato nella serie dei Labyrinths, risulta importante soffermarsi sulle motivazioni che hanno spinto l’artista a “tagliare” – interrompendone continuità e conclusione –questi spazi dedalici rappresentati.
Ancora una volta sono le parole di Morris a fornirci un’autoriale chiave interpretativa. L’artista sottolinea come queste forme interrotte e non concluse, minando l’interezza della gestalt, rievocano l’esperienza fruitiva vissuta all’interno del labirinto. Infatti per colui si avventura negli spazi claustrofobici, l’intricato spazio dedalico non si palesa nella sua totalità, ma al contrario si mostra per ambiti enucleati, per inquadrature parziali che si aprono ai suoi occhi progressivamente nell’incedere.
Nello stesso anno dei vari Labyrinths, Robert Morris intraprende la produzione del primo gruppo di un vasto corpus di disegni – suddiviso in sei sottoinsiemi – dal titolo complessivo Blind Time Drawings, non privo di legami col tema del disorientamento dedalico.

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Robert Morris, Blind Time I, 1973

Per realizzarli l’artista ha lavorato ad occhi chiusi, riproponendo un metodo sperimentato prima di lui da numerosi artisti del Novecento: da Mirò, a Matisse, a Twombly, a de Kooning, solo per citarne alcuni. La novità introdotta da Morris a questo modus operandi – sottolinea Jean Pierre Criqui, tra i maggiori conoscitori dei Blind Time – sta nell’averlo collegato al genere della task performance, di cui già in precedenza ne aveva trasferito i principi in numerose sue opere.
L’elaborazione grafica ad occhi bendati viene preceduta dalla definizione di un semplice compito da svolgere – connesso ad alcune condizioni come pressione, posizione, prossimità, distanza e forma – trascritta in seguito in fondo al foglio. Insieme alla descrizione dell’azione proposta, Morris annota contestualmente il tempo previsto per l’esecuzione e la differenza temporale intercorsa tra quanto previsto e l’effettiva durata.
Citando l’artista: “Con gli occhi chiusi, la grafite sulle mani e calcolando un intervallo di tempo di tre minuti, entrambe le mani cercano di discendere la pagina con movimenti identici nello sforzo di mantenersi ad una precisa colonna verticale di toccate. Errore di tempo stimato: + 8 secondi”.
Al di là dell’importanza assunta dallo svolgimento di una prefissata task, risulta significativo – per riconnettersi alla riflessione sul tema del labirinto – soffermarsi sul concetto di erranza, di smarrimento sondato da questa serie grafica.
Similmente a colui che, addentrandosi in una struttura dedalica, è all’oscuro dello spazio da percorrere (a causa dell’intricatezza spaziale e dello sbarramento della vista generato dagli alti muri di delimitazione), Morris, lavorando “ad occhi bendati” non può percepire e controllare visivamente la superficie bidimensionale sulla quale orientare la propria azione disegnativa. Alla perdita delle coordinate spaziali si unisce, inoltre, l’allontanamento da una piena consapevolezza del fattore temporale. Nel territorio labirintico, al pari del regno delle tenebre in cui l’artista si è momentaneamente calato, si viene privati della coscienza temporale necessaria per portare razionalmente a termine l’azione intrapresa.
L’esperienza istintuale vissuta da Morris “andando alla cieca” viene inoltre sottolineata dalla componente testuale presente in ciascun disegno. Annotando in ogni pagina la descrizione della drawing task da compiere insieme all’errore di tempo stimato per la sua realizzazione, l’artista rende esplicito come tutte le decisioni stabilite a priori siano state in seguito messe in scacco dalla perdita – causata dall’azzeramento della funzione ottica – delle coordinate sia spaziali che temporali.
Ed è proprio la tematica dello smarrimento a fare da filo conduttore alla doppia mostra (intitolata “Labyrinths-Voice-Blind Time“) in occasione della quale fanno la loro prima apparizione pubblica i disegni “ad occhi bendati”.
Nell’aprile del 1974 la galleria Sonnabend di New York espone un cospicuo numero dei Blind Time Drawing; questi vengono affiancati da grandi inchiostri su carta relativi a tracciati dedalici realizzati l’anno precedente (Labyrinths), ribadendo così lo stretto legame tra le tematiche della cecità e del labirinto, sondate rispettivamente in queste due serie di disegni.

Intricati spazi di reclusione: In the Realm of the Carceral
A cinque anni di distanza dalla realizzazione dei Labyrinths drawings, Robert Morris porta a compimento un’ulteriore serie grafica, includente venti immagini di prigioni labirintiche e altri spazi “confinati” dal titolo complessivo In the Realm of the Carceral.

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Robert Morris, In the Realm of the Carceral: Stockade, 1978

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Numerosi appaiono i punti di convergenza tra questi due insiemi di disegni, elaborati negli anni Settanta, a partire dal soggetto rappresentato (intricati luoghi di isolamento), sino al metodo d’esecuzione e di rappresentazione (tecnica dell’inchiostro su carta, uso della proiezione assonometrica con tagli casuali ai bordi della pagina).
Per l’ideazione dei Carcerals l’artista si avvale però di due fonti d’ispirazione estranee alla precedente serie dedalica: la prima – di ambito saggistico – è il testo Sorvegliare e Punire (1975) del filosofo francese Michel Foucault, mentre la seconda – interna alla storia dell’arte e al mondo delle immagini – riguarda le Carceri d’invenzione (1745-1765) di Giovanni Battista Piranesi, che Morris ha avuto modo di osservare in una mostra alla National Gallery di Washington nella primavera del 1978.

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Giovanni Battista Piranesi, Carceri d’invenzione, ca. 1761-1765

Se la via d’uscita stenta a ritrovarsi nei luoghi di reclusione immaginati da Piranesi – costituiti da architetture “ipogee” ritmate da luci ed ombre scenografiche, macchine, cordami, foreste di pilastri, scale sospese nel vuoto – più volte accostati all’immagine di un terrificante labirinto, al contempo sembra difficile “emergere” dall’intricato sistema carcerario dei grandi inchiostri su carta di Morris .
Alla profusione di gravi masse architettoniche e strumenti di tortura propria delle Carceri d’invenzione, l’artista americano sostituisce però un’estrema economia di mezzi, realizzando – attraverso uno stile ben lontano dal chiaroscuro piranesiano – elementari spazi di recinzione, quali muri di sicurezza, quadrangolari recinti, labirinti in rovina, torri d’avvistamento.
Ciò che Morris vuole rappresentare e denunciare in questa serie grafica è tutt’altra cosa rispetto alle inquietanti prigioni dell’incisore settecentesco. L’artista, fortemente influenzato dallo studio di Michel Foucault sulla trasformazione del sistema punitivo avvenuta alle soglie dell’epoca contemporanea, dà vita ad “architetture rappresentate” in grado di rispecchiare alcuni concetti del filosofo francese.
Centrale nel discorso di Foucault, è la relazione che lega l’individuo allo spazio sociale, nei termini di una vera e propria sottomissione. Per costruire “corpi docili” – sottostanti a norme prefissate e funzionali nei vari ambiti della macchina statale – le istituzioni moderne si sono avvalse di dispositivi “che obbediscono ad inconfessabili economie o perseguono coercizioni senza grandezza”4.
Gli apparati disciplinari – argomenta il filosofo francese – procedono prima di tutto alla distribuzione spaziale degli individui secondo il “principio della localizzazione elementare”, che prevede l’assegnazione di un unico posto a ciascun individuo, in modo tale da monitorarne, puntualmente e continuativamente nel tempo, la condotta.
Ed è proprio questo incasellamento repressivo dei corpi nello spazio che Morris mette in visualizzazione nel disegno intitolato Stockade. Il ricordo di quel “vasto e sconcertante labirinto”5 di recinti, in cui suo padre rinchiudeva i buoi, si tramuta qui in un’inquietante metafora della società contemporanea, in cui gli individui vengono confinati in un intricato sistema di barriere, per evitare la loro dispersione caotica e pericolosa.
A differenza delle staccionate di legno impiegate dagli allevatori, le barriere costruite dalle gerarchie di potere – denunciate da Foucault e tracciate da Morris – sono ideali ed invisibili. La repressione che si esercita in queste “celle immaginarie” risulta dunque sottile e difficilmente percepibile dal singolo, che vi aderisce senza rendersi conto di esserne prigioniero.
La ripartizione degli individui in unità efficienti rappresenta – secondo Maurice Berger – una riflessione affrontata da Morris a partire anni Sessanta. Lo dimostra un’opera poco conosciuta – Untitled del 1967 – composta da nove cubicoli d’acciaio posti a simboleggiare i claustrifobici divisori degli uffici d’affari, “gabbie invisibili” atte a facilitare il controllo dei supervisori sui loro impiegati6.

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Robert Morris, Untitled, 1967

Alla riflessione sulla distribuzione “cellulare” dei corpi nello spazio si intreccia, dunque, quella di una costante sorveglianza gerarchica, sondata in più di una occasione nella serie dei Carcerals. Ne sono due esempi significativi Separate Waywards e Tower of Silence, entrambi evidenzianti la netta dicotomia tra le posizioni vantaggiose dei detentori del potere e quelle subalterne dei “reclusi”.
Tali luoghi di controllo non sono privi di associazioni con il massimo esempio – individuato da Foucault – di spazio disciplinante, atto a recludere e a sorvegliare “dall’alto”: il Panopticon, ideale complesso carcerario progettato nel 1781 da Jeremy Bentham.
In virtù della forma radiocentrica della struttura – formata da un osservatorio baricentrico intorno al quale sono disposte le celle di reclusione – unitamente a specifiche condizioni di illuminazione, il detenuto non sa mai quando ed in che modo è effettivamente sorvegliato. I soggetti, consci di essere potenzialmente sotto lo sguardo di qualcuno, sono indotti ad attenersi alle norme, ad auto-disciplinarsi.
Il dispositivo panoptico, decisamente lontano dalle “prigioni fatiscenti, brulicanti e popolate da supplizi che Piranesi incideva”7, non va inteso solo come un’utopia della perfetta detenzione ma come un modello disciplinante di inserimento dei corpi nello spazio che può essere messo in opera in ospedali, uffici, fabbriche e scuole.
Attraverso questo passaggio esplicito del testo foucaultiano, è possibile comprendere l’intima ragione del distanziamento di Morris – sia stilistico che compositivo – dai “capricci” piranesiani. Nonostante il tema della prigionia sia il medesimo, nella serie dell’artista americano le carceri non sono più luoghi oscuri specificatamente destinati a punire il male, ma spazi di reclusione – altrettanto inquietanti – destinati a riordinare silenziosamente ed efficacemente i vari ambiti politici, economici e sociali.

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Robert Morris, In the Realm of the Carceral: Inmate Work Project-Perpetual Construction and Dismantling of the Labyrinth, 1978

Tra i numerosi luoghi di isolamento delineati in questa serie – Security Wall, Places For the Solitary, Gardens of Compulsory Exercise, Observation Yards – ve n’è uno esplicitamente dedicato al soggetto dedalico, dall’enigmatico titolo Inmate Work Project: Perpetual Construction and Dismantling of the Labyrinth. In esso è raffigurato un labirinto in rovina – leggibile come parzialmente costruito o parzialmente distrutto – i cui frammenti restano sparsi nello spazio antistante all’entrata.
Un’ipotetica chiave per interpretare questo enigmatico sito di “archeologia contemporanea” può essere fornita dal confronto con un’opera realizzata otto anni prima da Claudio Parmiggiani8: un dedalo di lastre di vetro, grandi e spesse, frantumate dall’artista con un grande martello9.

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Claudio Parmiggiani, Labirinto, 2006 (1970)

Al di là dello spettacolo di grandiosa bellezza e rovina “specchiante” generato dai cristalli infranti, è interessante sottolineare il fatto che i taglienti vetri rotti, ricoprendo l’intero pavimento del labirinto ed una vasta porzione di spazio intorno ad esso, ne rendono impossibile l’accesso e la fruizione interna.
Alla luce di questa negazione di praticabilità operata da Parmiggiani, è possibile rileggere l’enclosure dalle infrante simmetrie di Morris come una “costruzione d’inganno” che ha oramai perso la sua funzione significante, ovvero quella di offrire un percorso inedito e rigenerante al suo interno.
Nei luoghi disciplinari propri dell’epoca contemporanea denunciati da Foucault, l’esperienza di accrescimento individuale vissuta nelle strutture dedaliche sembra infatti essere negata. Il rapporto di scambio reciproco tra soggetto e spazio percepito proprio del labirinto, viene qui sostituito da una vera e propria incarcerazione, dalla quale sembra impossibile trovare una via d’uscita.

di Alessandra Acocella

Leggi anche
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte I)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte II)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte III)

Note
1 Robert Morris, “Labyrinth II. Interview with Robert Morris by Anne Bertrand” in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Milano, Skira, 2000, p. 202
2 Vilèm Flusser, La cultura dei media, Milano, Mondadori, 2004, p. 201
3 Robert Morris, “Labyrinth II. Interview with Robert Morris by Anne Bertrand” in Thierry Prat (a cura di), Robert Morris. From Mnemosyne to Clio: The Mirror to the Labyrinth, (catalogo della mostra, Lione, Musèe d’art contemporain, 1998-1999-2000), Milano, Skira, 2000, p. 79
4 Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Torino, Einaudi, 1993, p. 151
5 Robert Morris, “Cinque Labirinti” (1995) in Bruno Corà, Robert Morris, Robert Morris: un percorso verso il centro del nodo (con una testimonianza dell’artista), Santomato di Pistoia, Fattoria di Celle, 1995, p. 67
6 Maurice Berger, Labyrinths: Robert Morris and the 1960s (1989), New York, Harper & Row, 1993, p. 133
7 Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Torino, Einaudi, 1993, p. 223
8 Robert Morris ha collaborato con Parmiggiani nel 2002, realizzando nel parco della Fattoria di Celle Melancholia II.
9 L’opera, esposta in diverse occasioni, è stata riproposta nel 2006 all’interno del Teatro Farnese di Parma.

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3 Novembre 2008

Principale

La porta degli Dei – La porta degli Uomini

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Nella pietra alberga una materia vivente e sensibile che cela il segreto del tempo e della saggezza. Statue e stele di pietra scolpite in ere antiche per resistere a Kronos e sfidarlo dormono il lungo sonno attraverso i secoli custodendo enigmi arcani che ammoniscono e stimolano la conoscenza interiore. Ovunque si alzi verso il cielo un monumento, sia esso un menhir o un obelisco, un archetipo di marmo o di legno, si verifica una rivelazione, è atteso un evento iniziatico che tesse le sue trame fra coloro che lo hanno eretto e il contesto che lo accoglie, sia esso la cima di una collina come la piazza di un paese.
Giuseppe Lorenzi, scultore ma si potrebbe meglio definire scultore-calligrafo, è oggi insieme erede e protagonista del perenne dialogo che anima i simboli e il loro disvelamento a chi li osserva. Esemplare interlocutore fra noi e la pietra grezza a cui da vita e che riscatta attraverso nobili segni e ghirigori elaborati in miriadi di forme, formulando e inventando nuovi linguaggi. Il risultato delle sue opere, ottenuto attraverso un lavoro faticoso ma altrettanto ricercato e purificato dall’ inutile per raggiungere l’essenziale, viene indirizzato a chi è in ascolto, a chi vede oltre il visibile e a chi si attende da un messaggio creativo la forza e lo slancio per continuare a credere in qualche cosa di grande e rassicurante.

Paolo Tesi

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La porta degli Dei – La porta degli Uomini

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3 Novembre 2008

Principale

Riqualificare gli spazi tra gli edifici

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RIQUALIFICARE GLI SPAZI TRA GLI EDIFICI
Segni, percorsi e memorie nel paesaggio della Bassa Reggiana

20-24 novembre 2008
Istituto Alcide Cervi, Museo Cervi, Biblioteca-Archivio Emilio Sereni
Via F.lli Cervi, 9 Gattatico (RE)

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