Il divenire del tempo nelle sculture di Claudio Nardulli
di Caterina Napoleone
Prendendo a prestito una frase di Adolfo Wildt, si può affermare che Claudio Nardulli nelle sue opere sia tutto proteso a “far palpitare la vita nella nobiltà e nella terribilità del sasso”. Una tensione alla quale perviene attraverso una sorta di “ascesi” per immettere “lo spirito” nella natura, stando sempre alle parole di uno fra i suoi scultori prediletti del Novecento1. Non si tratta qui di una mera citazione, ma di un assioma che è sufficiente dimostrare solo osservando con quale sapienza, tenacia e rigore Claudio Nardulli lavori il marmo. Sin dalla scelta del blocco, di cui potrebbe persino a occhi chiusi individuarne le caratteristiche e il portamento alla pressione dei suoi strumenti. Da grande professionista della pietra qual’è, osserva, carezza, misura, scolpisce e leviga le sue sculture per intere giornate senza che del tempo realmente percepisca il trascorrere fin tanto che non abbia raggiunto quella perfezione di cui è il solo a conoscerne il segreto. E non va neppure taciuto che Roma e i suoi monumenti sono di sfondo al suo operare.
β, 2014 .marmo Calacatta cm. 130 x 14 x 6; (ph. Rita Paesani)
A queste suggestioni – non certo accessorie a chi dell’arte si nutre e, per un’innata empatia e cognizione, ne indaga le molteplici espressioni – si aggiunge una simbiosi con la pietra che asseconda una vocazione a familiarizzare con tecniche che gli consentono di dialogare intrinsecamente con il marmo restituendone l’originaria purezza. Nardulli non è interessato alla citazione dell’antico – ne sarebbe capacissimo e ne ha un profondo rispetto – ma se ne affranca perseguendo altre sfide e altri ideali per dare forma alla “sua” memoria. E in questa percezione del suo presente e del suo passato le sue sculture, in un gioco di corrispondenze reciproche, proiettano luci e ombre, moltiplicano all’infinito i pieni e i vuoti, assumendo una dimensione archetipa che si modella autonomamente nel tempo e attraverso il tempo. Viene da pensare che le reminiscenze della paterna Magna Grecia – dove ha trascorso i suoi primi anni – affiorino spontaneamente nell’immaginazione di Claudio Nardulli. Le battigie costellate di ciottoli e le presenze archeologiche dei dintorni di Taranto, le acque limpide del suo golfo e il paesaggio della sua campagna pervaso della più autentica classicità, si materializzano e sublimano nella levità dei suoi marmi. La durezza della pietra, nelle sue mani, si arrende e si lascia plasmare – persino voluttuosa – nella levigatura delle superfici concave e convesse che enfatizzano la dinamicità della forma. Perché Nardulli sa cogliere e restituire i piani dell’intima struttura del marmo, e li trasfigura nella concretezza del suo ideare attraverso un procedere severo e disciplinato di una prassi quotidiana e continua. E l’artista non solo coinvolge lo spettatore con la levità delle sue sculture, ma lo introduce nell’universo atemporale del marmo mostrando come la materia di per sé pesante e statica possa divenire leggera e persino dinamica. Nato a Roma, dove vive e lavora, Claudio Nardulli vanta un tirocinio e un bagaglio di esperienze professionali che poggiano su salde basi di studio, di ricerca e di amicizie sulle quali ci sarebbe molto da scrivere per la dedizione e la curiosità con cui si è dedicato a coltivare i suoi interessi e le sue passioni. Laureatosi in Progettazione Architettonica all’Università La Sapienza di Roma con Paolo Portoghesi, ha sempre affiancato alla sua attività di architetto – si veda, in collaborazione con l’architetto Giorgio Blanco, l’intervento di recupero conservativo dello stabilimento balneare di Castel Fusano La Vecchia Pineta, un esempio fra i più emblematici di Razionalismo italiano degli anni Trenta, sapientemente reintegrato nei suoi ornati e rivestimenti architettonici in marmo – l’impegno nel campo dell’indagine dei materiali lapidei nella loro applicazione sia funzionale sia artistica, e in quello della divulgazione scientifica nelle principali istituzioni accademiche italiane, oltre alla pubblicazione dei suoi contributi su monografie del settore. Un esercizio che si è costantemente corroborato a contatto con gli artigiani del marmo di Pietrasanta e Carrara, e degli scalpellini romani – all’ombra delle cave di Luni e delle vestigia dei palazzi dei Cesari – e con esponenti di spicco della cultura e dell’arte: dalla frequentazione a Roma e a Venezia di Edo Janich, il disegnatore caro a Leonardo Sciascia per l’incisività schietta delle sue linee che evidenziano ciò che il visibile omette, al proficuo contributo critico e assiduo confronto che ha con lo storico dell’arte Giuseppe Appella , a Tito Amodei che, con l’astrazione geometrica delle sue sculture, ha instaurato un rapporto inedito fra segni reiterati e volumi creando strutture architettoniche insieme serrate e libere nello spazio circostante.
Relazioni fra pieni e vuoti, fra edifici e luoghi urbani nei rispettivi contesti storici che Claudio Nardulli ha ulteriormente approfondito nel sodalizio con l’architetto Alessandro Anselmi,nella ricerca della poetica” della forma e nel concetto di minimo strutturale Per quanto riguarda le costruzioni geometriche, nello specifico la geometria ellittica, fondamentale è lo scambio avuto con Felice Ragazzo, mentre con Rodolfo Guzzi, luminare di fama internazionale della fisica, intercorre un proficuo dialogo sui “paradossi della pietra”. Nell’ispirazione di Claudio Nardulli, nei meandri delle sue concezioni, un posto a sé ricopre l’incontro con Fabrizio Clerici, l’architetto pittore che ha popolato gli spazi geometrici dei suoi dipinti – immensi, desolati, claustrofobici – con i miti e i simulacri delle antiche civiltà mediterranee assegnando loro una durata metastorica, come nella raffigurazione del Minotauro nel labirinto di Cnosso che accusa pubblicamente sua madre. Un artista con il quale Nardulli ha condiviso predilezioni da iniziati ai grandi misteri del pensiero e dell’arte. Così anche i suoi viaggi, soprattutto in Egitto e in Grecia, con le sue meticolose investigazioni del Peloponneso e le sue riflessioni sui reperti cicladici, sui templi e i santuari dell’Atene di Pericle, corrispondono a una visione di un ordine superiore che governa le leggi della natura.
Con umiltà e abnegazione, Claudio Nardulli attinge alle sue conoscenze e alla sua manualità per consegnarci, come attestano le sue opere, una dichiarazione di appartenenza. Riemergono ricordi ancestrali e architetture primordiali che nelle loro linee instaurano un’armonia di proporzioni e di equilibri, nella declinazione delle loro costanti e varianti in una metafora di equazioni fra regole gravitazionali e teoremi algebrici, a ritroso nel tempo e nella memoria durevole dell’arte.
Note
1 L’arte del marmo, ed. a cura di Elena Pontiggia, Milano 2002
π 2013 marmo Bardiglio cm. 107 x 26 x 8; (ph. Rita Paesani)
Una materia in continuo divenire di Carmen Andriani
Claudio Nardulli è un architetto che ha concentrato gran parte della sua ricerca formale e spaziale sulla modellazione della pietra, correndo sulla linea di confine, sottile quanto pericolosa, fra architettura e scultura. Lavora da anni sulla modellazione plastica della materia, attorno ad una famiglia di configurazioni che sembrano generarsi dallo stesso nucleo figurativo. Le sue opere evocano ali, eliche, ossi di seppia, foglie, pesci, delfini. Appartengono allo scrigno inesauribile delle forme naturali, ma sono anche il frutto di una rappresentazione mentale passata al vaglio di un’accurata e puntigliosa astrazione geometrica.
“L’osservazione della natura è stata decisiva nella mia vita – afferma Nardulli – grazie ad essa ho arricchito la mia conoscenza di forma e struttura.” Forma e struttura. Non v’è dubbio che nelle sue sculture sia evidente lo stato tensionale e dinamico della materia. Esse ne rappresentano uno stato transitorio, per quanto levigato e alludono a una forma che sembra in continuo divenire. La sensibilità plastica dell’autore si alterna al controllo geometrico, l’intuizione formale si completa con le ragioni strutturali della materia, all’impulso del gesto segue il controllo della ragione. Questo non avviene per via ordinaria, né attraverso gli strumenti codificati dello spazio cartesiano. Bensì con gli strumenti di una geometria non euclidea, che lavora per ellissi, superfici convesse e concave, linee curve che si trasformano per traslazione, rotazione, manipolazione. Siamo vicini, per paradosso, ai modelli digitali ed alle deformazioni condotte simultaneamente ed in tempo reale sulle tre dimensioni spaziali. Vengono in mente le ricerche architettoniche di qualche anno fa, gli anelli di Moebius trasformati in strutture domestiche, gli spazi magmatici e primordiali controllati con algoritmi e rappresentati con sofisticati programmi di progettazione.
Le sculture di Claudio Nardulli hanno una forma plastica continua. Attraverso un susseguirsi di concavità e convessità complementari fra loro, esse realizzano un continuum di linee, di superfici, di curvature fluide e smussate. Prevale un principio organico, ancorato alla struttura della materia più che a quella del sogno. Sono sculture biomorfe che esaltano il principio vitale di un inizio senza distinzioni; già dotato di una intelligenza che porta la materia a dilatarsi nello spazio, a crescere senza invadere. La morfologia delle linee curve, ondulate ed avvolgenti, reagisce all’atmosfera che preme attorno ed alla luce. E’ una lettura che rimanda alla poetica di crescita organica di Hans Arp e successivamente di Henri Moore, ad uno stadio della materia che non ha ancora distinto l’uomo dalla natura ma che, organicamente, registra l’inizio di un distacco. L’osso che il tempo ha ripulito o il sasso che la corrente ha levigato sono forme archetipe. Lo erano anche nella mitologia dello scultore inglese.
‘ I sassi e le rocce ci mostrano il modo in cui la natura lavora la pietra – afferma Nardulli – Ho avuto modo di osservarli a lungo, nei lunghi viaggi, in particolare nel Peloponneso..’
I sassi levigati dal mare assumono una forma particolare, asimmetrica, modellata secondo i principi della dinamica dei fluidi. La natura non ha bisogno di legittimazioni geometriche.
Le sculture di Claudio Nardulli assorbono questi principi, ne ripercorrono i processi generativi, simulandoli, legittimandoli con il valore aggiunto della geometria ellittica. Ritornano ossessivamente su quelle linee curve, sulle superfici concavo/convesse esplorando le possibili variazioni sul tema . Sono piccoli spostamenti attorno ad uno stesso nucleo figurativo che è anche il cuore della sua ricerca artistica. In questo modo la sua opera produce una serie di oggetti simili ma allo stesso tempo diversi e perciò unici. Ma la serialità affina il processo di astrazione ed avvicina all’idealizzazione dell’opera. Avvicina al disvelamento del senso ultimo, del messaggio che l’arte vuole dare. L’astrazione toglie anche materialità. E’ su questo piano che si gioca l’avvicinamento all’architettura ma anche ad altre forme di espressione artistica. Ed è sul piano della forma, oltre che del concetto, che possiamo pensare ad una architettura possibile.
Le sculture, si dice solitamente, sono come architetture non abitabili. Si gira attorno ad esse ma non hanno interno. Non è necessariamente così. Il già citato Moore ci ha dimostrato attraverso il continuum delle sue forme plastiche, la complementarietà fra pieni e vuoti, l’importanza del solido ma anche del suo calco nello spazio. D’altra parte la dimensione di ‘spazio fluido’ che l’architettura ha esplorato negli ultimi decenni, ha prodotto strutture dinamiche, in cui interno ed esterno si sono mescolati secondo un moto continuo e senza un apparente punto di inizio o di fine. La luce aggiunge modulazioni infinite su una materia che reagisce per forma. Lo spazio si genera non per linguaggio bensì per sottrazione plastica. In questo passaggio si colloca un altro confronto possibile con l’architettura . Un gesto ‘a togliere’ su di una forma essenziale per dare forma al vuoto ed alla massa informe dello spazio.
Le sculture di Nardulli sono orizzontali, si appoggiano su di un punto o su di una linea, come fosse lo scafo di una barca. La forma cambia a seconda del punto di vista. Non c’è mai un asse di simmetria , o una vista specularmente doppia. Il movimento rotatorio che si imprime ad alcune di esse, accelera il consumo della materia. La scultura diventa un’ala, straordinariamente leggera a ricordarci la continua trasformazione operata dal tempo sulla materia e la provvisorietà della sua forma solo apparentemente compiuta.
δ, 2012 marmo Lasa cm. 101 x 27 x 9; (ph. Rita Paesani)
Liscissime pietre di Felice Ragazzo
Le sculture di Claudio Nardulli sono forma plastica, e perciò stesso geometria, non limitata a rette, triangoli e cerchi, oppure piani, cubi e sfere, ma quella che talvolta è arduo immaginare, poiché fa riferimento allo spazio-tempo e alla quarta dimensione. È il risultato di forme pensate ovunque lisce, prive di asperità e di bordi acuminati. In topologia si dice “prive di singolarità”. Forme che idealmente avvolgono la pietra come le bolle di sapone racchiudono l’aria. In matematica, in geometria, in topologia, la liscezza è argomento cruciale. Tutto ciò fa parte di un filone di studio che permise a Bernard Riemann, a metà del XIX secolo, di approdare alla scoperta di una nuova geometria non euclidea detta geometria ellittica. Siamo al cospetto di opere che non necessitano di piedistallo, pertanto concepite anche per essere fruite in movimento. Basta spingerle toccando l’estremità di quella che, con forme diverse, allude alla forma di un’ala, ed ecco che la massa si mette in movimento ruotando nel punto di contatto a terra sulla verticale del baricentro.
Anche questo aspetto ha un risvolto scientifico peculiare, tutto incentrato sulla locuzione spazio-tempo, ovvero una realtà non più soltanto tridimensionale, ma quadridimensionale. Come intuito nel 1907 da Hermann Minkowsky. Ma poiché quest’aspetto mette in causa un’altra questione di capitale importanza in campo scientifico, ovvero i “gruppi di trasformazione”, ecco che lo scenario si arricchisce di altre eminenti figure, come per esempio Eulero, Lagrange, Cauchy, Klein … Inoltre, così come le pietre-sculture si arricchiscono fruitivamente quando ruotano, la non fissità dovuta all’assenza di basamento implica un’accentuazione percettiva quand’anche chi le osserva ci gira intorno. Qualsiasi opera è sempre frutto di gestualità, per lo più sussidiata da utensili ed attrezzi. Con la pietra il processo è “a togliere” e all’inizio si staccano ruvide scaglie, le quali, via via che il processo evolve, si fanno sempre più piccole. Da frastagliate e spigolose, le forme si fanno sempre più continue e raccordate. È la logica profonda delle curve, ma soprattutto delle superfici, di Bezier. Talvolta, richiamando i canonici utensili ed attrezzi, il gioco geometrico delle tangenze mette in causa le cosiddette curve policentriche. Un tipo di curve composte soltanto di archi e rette. La natura non ha bisogno di tutti questi orpelli cognitivi. Da milioni di anni le rocce erose che si staccano dai versanti montuosi e che, trascinate dai corsi d’acqua, scendono a valle, durante il percorso vengono lentamente “lavorate” o, per meglio dire, abrase, fino ad assumere, pressappoco, la forma di ellissoidi a tre assi. David Hilbert e Stefan Cohn-Vossen di questo argomento ne hanno fatto un punto saliente del loro libro “Geometria Intuiva”. Le sculture di Claudio Nardulli sviluppano un senso di leggero pur essendo di pesante pietra, sviluppano un senso di aerodinamico, pur non potendo volare, sviluppano un senso di acquatico, pur non potendo nuotare. Sono pietre. Sono artefatti. Sono sculture. Sono oggetti da vedere e da toccare. Sono opere d’arte. È un bene che esistano.
φ, 2013 marmo Afyon cm. 125 x 28 x 9; (ph. Rita Paesani)
Forme fluide e levigate di Giorgio Blanco
Osservando, ma ancor più toccando e manipolando le instabili, mobili sculture marmoree dalle forme fluide e levigate di Claudio Nardulli, vengono evocate primordiali sensazioni che sono alla base del nostro remoto rapporto con la “Pietra”. Ciò non solo con la Pietra intesa nella sua condizione di “materiale” (ovvero di artificio), quanto in rapporto alla sua primordialità. ovvero alla “materia” costitutiva dell’universo.
Nell’immaginario collettivo dei nostri lontani antenati la genesi visibile della Pietra non poteva che essere duplice: ctonia (dai vulcani) e celeste (dalle meteoriti).
Dunque, la Pietra veniva chiaramente assimilata ad arcane provenienze poste oltre l’orizzonte dei luoghi umani. Queste osservazioni e i conseguenti convincimenti e deduzioni empiriche molto hanno influenzato l’origine di credenze, miti, religioni.
Su queste considerazioni si è basata la remota convinzione che la Pietra, generata e proveniente da ambiti extraumani, non poteva che essere connotata da una misteriosa, quanto terribile e veloce mobilità.
Solo attraverso questi processi la Pietra veniva posta a disposizione degli umani per essere, eventualmente, trasformata in materiale.
Queste sculture, con il loro singolo punto di contatto con il suolo, difficilmente possono essere considerate come statiche. Perché sono state concepite e realizzate in forme che, per la loro natura, postulano sollecitazioni che le imprimono movimenti inaspettati: sussulti, beccheggi, rotazioni e contro rotazioni che si attivano secondo precise leggi della fisica.
In altre parole, la loro stessa conformazione induce lo spettatore-fruitore ad un loro uso dinamico. Proprio come quando, percorrendo una riva, andiamo selezionando quei ciottoli che, per la loro forma, più si adattano alla nostra mano e ad essere lanciati radenti lo specchio d’acqua in modo da rimbalzare in sequenza.
Le astratte forme ellissoidi di queste sculture con le loro levigate superfici alludono, ma non in via diretta, ad esseri idro-aerodinamici (cetacei, pesci, uccelli), o a manufatti creati a loro similitudine (scafi, aeromobili, veicoli, armi da lancio). Sono anche forme che rispondono perfettamente a funzioni misteriose, delle quali sembrerebbe smarrito il senso e che attendono una riscoperta da parte di attenti, curiosi ricercatori.
Nel concepimento e negli stessi procedimenti esecutivi di queste opere si rivela una sintesi di esperienze arcaiche e moderne.
Non è azzardato il riferimento alle antiche sculture cicladiche dove, probabilmente, elementi marmorei già naturalmente modellati e levigati dalla forza dell’acqua, venivano fatti oggetto di ulteriori raffinate lavorazioni per abrasione. In qualche modo si è trattato di una sovrapposizione di due azioni: una naturale (epifanica?) ed una artificiale. Nella trasformazione da materia a materiale l’azione artificiale ha fatto tesoro della foggia preesistente e su questa si è inserita fornendole un senso.
Un significativo contributo alla formazione di Nardulli e, quindi, alla concezione delle sue sculture, è stato fornito dalla elaborazione di esperienze artistiche del recente passato fondate sul movimento e sulla velocità (dunque sul rapporto spazio-tempo). Elaborazione avvenuta anche attraverso un’attenta meditazione sui motivi del declino di tali esperienze, nonché sulla loro trasformazione e concreta capacità di rinnovarsi nella contemporaneità.
Tra le due guerre, come mai in passato, negli USA e in Europa si sono andati progressivamente radicando correnti artistiche e di pensiero fondate sulla velocità che si andava ad identificare sempre più nella modernità. Ciò anche per gli enormi e repentini progressi tecnologici nel settore dei trasporti e dell’industria in generale.
E’ da tenere presente che molte delle avanguardie del Movimento Moderno (nelle loro molteplici declinazioni) erano consapevoli di sferrare l’attacco alle desuete accademie proprio nel loro campo, attraverso un nuovo modo d’impiego dei materiali della tradizione. Prima di tutto la Pietra che, dell’architettura e della scultura, è stato (ed è) il materiale primordiale e simbolico.
Il design aerodinamico (Streamline) si è andato ad affermare negli USA negli anni Trenta e, applicato inizialmente al settore dei trasporti, molto ha influenzato l’architettura, la scultura, la pittura, ma anche l’arredamento. Stilemi tipici dei mezzi di trasporto (ad esempio dei prestigiosi transatlantici e dei convogli ferroviari) come le decorazioni a strisce orizzontali (speed whiskers) concepite per accentuare l’idea di velocità, sono stati successivamente traslati e applicati perfino sugli oggetti più minuti e consueti.
Altro contributo alla formazione dell’autore deriva dallo studio e dall’assimilazione dell’esperienza futurista soprattutto nella sua declinazione di “aeropittura”. Nelle sue eliche in rotazione, nei suoi vortici che si sollevano in galassie di oggetti aerodinamici. Certo, un contributo più concettuale che di genere se si paragona l’algida acromaticità di queste sculture marmoree con lo sfolgorante cromatismo dell’ “aeropittura” (ad esempio nelle opere di: Balla, Boccioni, Depero, Tato, Dottori, Crali).
σ, 2012 marmo Bardiglio cm. 107 x 25 x 8; (ph. Rita Paesani)
Nell’autore è anche da considerare la sua ormai ampia esperienza di architetto che si è divisa tra l’analisi delle forme dei mezzi di trasporto (aeromobili, imbarcazioni, veicoli terrestri soprattutto a partire tra le due guerre) e lo studio, unito alla pratica, applicati ai materiali da costruzione, in particolare alle pietre e ai marmi. A ciò si è sempre accompagnato un’attenta analisi dell’architettura nei suoi dettagli tecnici ed estetici specialmente nelle trasposizioni avvenute da altri ambiti studiati (aeronautici, navali, ferroviari ecc.). Trasferimenti di esperienze che hanno arricchito con il loro senso di movimento le sue opere architettoniche e di arredo.
Analogamente, nella circostanza di questa esposizione, si può apprezzare il difficile, quanto riuscito, tentativo di rendere non solo leggero il marmo, ma addirittura di renderlo dinamico e veloce attraverso un’attenta scelta delle forme nelle quali alla quarta dimensione, il tempo, è affidato il ruolo di protagonista.