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6 Marzo 2009

News

Osservatorio sull’ Architettura: Lo spazio pubblico nella città diffusa

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La School of Architecture della Syracuse University in Florence
e l’Osservatorio sull’Architettura della Fondazione Targetti
in collaborazione l’Istituto degli Innocenti presentano:

Civic Space in Scattered Cities
Lo spazio pubblico nella città diffusa

Simposio internazionale a cura di Pino Brugellis, Lawrence Davis, Richard Ingersoll

Firenze, 25 marzo 2009
Salone Brunelleschi, Istituto degli Innocenti
Piazza Santissima Annunziata, Firenze

La crescita contemporanea dei centri urbani si manifesta essenzialmente attraverso la rapida e disordinata aggregazione di ampie zone a carattere per lo più rurale, dove lo sviluppo dell’edilizia procede a un ritmo proporzionalmente più alto rispetto a quello della popolazione. Lo sprawl (letteralmente “sviluppo tentacolare o disordinato delle periferie”), come il fenomeno è comunemente noto, è stato incoraggiato da un capitalismo senza regole e da politiche rilassate di governo del territorio che hanno favorito la produzione e il consumo di spazi residenziali, commerciali e di intrattenimento. Uno sviluppo così diffuso non corrisponde all’insieme delle relazioni tra centro e periferia a cui siamo stati tradizionalmente abituati a pensare. Al contrario, fa tabula rasa di ogni teoria sullo sviluppo degli stili di vita, che sembra ora indifferente ai confini geografici così come alle identità culturali. I modelli diffusi di urbanistica hanno prodotto un’organizzazione della vita quotidiana, tipicamente basata sul trasporto automobilistico e la comunicazione elettronica, che incoraggia una socialità di tipo insulare tra le persone nel senso che ogni individuo si collega a una serie limitata di luoghi come in un arcipelago e in tal senso l’esempio della California è paradigmatico, ma non solo. Definire lo status di identità collettiva e le forme che ne derivano di spazio pubblico in questa super-città a bassa densità abitativa è essenziale per realizzare interventi realistici e culturalmente significativi nella sfera pubblica. Su questa tesi principale si incentra il prossimo Simposio Syracuse/Targetti.
Il dibattito sullo spazio pubblico nelle città diffuse – o nella Città Generica, come le ha definite Rem Koolhaas – richiede urgente attenzione. La mancanza di spazi culturali adeguati alla complessità dello sprawl è uno degli aspetti più stimolanti e tuttavia meno considerati dell’organizzazione e della progettazione della vita sociale. Una tendenza, questa, comune all’Europa come agli Stati Uniti e a ogni luogo ove vi sia stato un prepotente sviluppo urbano. Tornare alla percezione della realtà pubblica qual era in passato non sempre serve a definire il nuovo significato di convivenza civile così come va formandosi in quest’era di mutevoli strutture sociali, né l’evoluzione della città contemporanea a basso concentramento. Alla base dell’opportunità che abbiamo di creare le nuove forme della realtà pubblica vi è il bisogno di comprendere e di avvicinare i sistemi economici e sociali di tipo globale a forme più intime di identità nell’ambiente costruito.
Il Simposio Syracuse/Targetti “Lo spazio pubblico nelle città diffuse” intende fare il punto sulle vie percorribili perché un’identità pubblica nello sprawl della città contemporanea possa effettivamente generarsi. Tre architetti e urbanisti presenteranno progetti e strategie per lo spazio pubblico, con speciale attenzione a quelle aree dove questo genere di spazio è di fatto assente. Il dibattito su questi interventi e la successiva tavola rotonda riguarderanno in particolare le strategie per affrontare questa sfida con ottimismo, guardando alla città diffusa come a un’opportunità sotto il profilo architettonico, urbano e filosofico.

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Nota biografica

Winy Maas (1959, Schijndel, Olanda) è uno dei co-fondatori di MVRDV, uno degli studi di architettura più noti e più imitati dell’ultimo decennio. Nel 1983 ha conseguito il diploma in Architettura del Paesaggio al RHSTL Boskoop. Nel 1990 si è laureato presso la Technical University of Delft in Architettura e Urbanistica e in seguito, per molti annida lavorato presso lo studio OMA di Rotterdam.
Di recente è stato nominato architetto ufficiale della città di Almere, per occuparsi della strategia di sviluppo della città olandese. Altri progetti in atto riguardano un masterplan per la Grand Paris, uno sviluppo di Tirana a destinazione d’uso mista, il quartier generale di una banca a Oslo, la sede della televisione nazionale Svizzera a Zurigo e un mercato coperto a Rotterdam.
Mass tiene conferenze e lezioni in tutto il mondo ed è chiamato a far parte di giurie internazionali. Attualmente insegna Architectural Design al Massachussetts Institute of Technology e Architettura e Urban Design alla Facoltà di Architettura, Delft University of Technology. È inoltre direttore della Why Factory, un istituto di ricerca per la città futura che ha fondato nel 2008 in collaborazione con la Delft School of Design. Fra le sue pubblicazioni, lette dagli studenti di architettura di tutto il mondo, ricordiamo Farmax, Excursions on Density e Metacity Datatown, pubblicati entrambi per l’editore 010 Publishing di Rotterdam.

Teddy Cruz si è distino sul piano internazionale per la sua collaborazione con organizzazioni no profit come Casa Familiar e per il lavoro e l’attività di ricerca svolta sul problema dell’alloggio, sulle politiche alternative di sfruttamento della risorsa terra e sui processi economici e sociali.
Cruz ha ottenuto il Master in Design Studies dalla Harvard University e il Premio Roma in Architettura dall’American Academy di Roma.
Nel 2004/05 è stato il primo a ricevere il Premio James Stirling Memorial Lecture sulla Città dal Canadian Centre of Architecture e dalla London School of Economics. Attualmente è professore associato in Cultura Pubblica e Urbanistica al Visual Arts Department dell’UCSD di San Diego in California.

Margaret Crawford è professore di Pianificazione Urbana e Teoria del Design alla Graduate School of Design della Harvard University. Ha ricevuto il PhD dall’Urban Planning Program dell’UCLA e un MA da Harvard. Membro dell’Architecural Association di Londra, ha ottenuto un BA da UC Berkeley. Inoltre ha insegnato alla Sci-Arc di Los Angeles ed alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze.
La sua principale area di ricerca interessa la natura e lo stato dello spazio pubblico nella città contemporanea e in particolare sul fenomeno della “urbanistica quotidiana” (Everyday Urbanism) che cerca di utilizzare il potere della creatività e dell’immaginazione già presenti nella vita quotidiana come forza di trasformazione dell’esperienza urbana e della città. I suoi saggi includono articoli importanti e contributi sulla “vita suburbana e lo spazio pubblico”, il lavoro sullo Shopping Mall dell’architetto John Jerde “L’architetto e il Mall” e il noto articolo “Il mondo di uno Shopping Mall”. Ha inoltre curato, insieme con altri, il volume “Everyday Urbanism”, (Monacelli Press 1999).
Ha ottenuto numerose sovvenzioni e premi, tra cui, recentemente, un Guggenhiem Fellowship, un Fulbright Fellowship ed una sovvenzione per la Graham Foundation. Ha tenuto conferenze in tutto il modno, dalla Cina al Berlage Institute in Olanda e, negli Stati Uniti, a Princeton, al MIT e alla UC Berkeley. Margaret Crawford è direttore responsabile della rivista Everyday Urbanism, e ha inoltre contribuito alle seguenti pubblicazioni: AD, Casabella, Perspecta, Bauen Werk and Wohnen, e The Harvard Design Magazine.

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5 Marzo 2009

News

Perchè l’Italia? Pourquoi l’Italie?

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clikka sull’immagine per scaricare il pdf

Perchè l’Italia? Pourquoi l’Italie?
Arti visive e architettura:
il ruolo dell’Italia nel XX secolo

12, 13, 14 marzo 2009

Comitato scientifico

Elisabeth Essaïan
Pensionnaire de l’Académie de France à Rome
Marylène Malbert
Pensionnaire de l’Académie de France à Rome
Marc Bayard
Chargé de mission pour l’histoire de l’art, Académie de France à Rome

Informazioni
Angela Stahl, assistante du Chargé de mission
[+39] 06 6761245 – angela.stahl@villamedici.it
Clémence Gravereaux, stagiaire
[+39] 06 6761221 – stagiaire@villamedici.it

Ingresso libero fino a esaurimento posti.

Académie de France à Rome – Villa Medici
Viale Trinità dei Monti, 1 – 00187 Roma
info [+39] 06 67 61 1 – www.villamedici.it

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3 Marzo 2009

Principale

Paesaggi Invisibili

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Il paesaggio Invisibile organizza 4 incontri quattro incontri sul futuro del paesaggio abusivo

USI E ABUSI
Scorci di paesaggi invisibili lungo le coste italiane Galleria SESV
Università di Firenze, Facoltà di Architettura, piazza Ghiberti 27, Firenze
Giovedì 5 marzo 2009, ore 16.00

INTERVENGONO
Davide Pagliarini
Vittorio Savi
Carlo Scoccianti
Francesco Ventura Modera
Marco Brizzi Incontro promosso e organizzato da
Galleria SESV

PRATICARE IL PAESAGGIO
Tra esperienza e rappresentazione Consorzio Parco dei Colli di Bergamo
Ex monastero di Valmarina, via Valmarina 25, Bergamo
Mercoledì 18 marzo 2009, ore 16.00

INTERVENGONO
Davide Pagliarini
Elena Turetti Introduce
Paolo Belloni Incontro promosso e organizzato da
Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Ambientale – Laboratorio di Progettazione Architettonica1, prof. Paolo Belloni
Consorzio Parco dei Colli

PROGETTI PER GLI INSEDIAMENTI ABUSIVI IN SICILIA
Tra aree urbanizzate ed ecosistemi vulnerabili Dalla pubblicazione del libro Città latenti. Un progetto per l’Italia abusiva di Federico Zanfi e
Il paesaggio invisibile. Dispositivi minimi di neo-colonizzazione di Davide Pagliarini

Aula Magna della Facoltà di Agraria
Via Santa Sofia 100, Catania
Venerdì 20 marzo 2009
PARTECIPANO
Franco Porto
Ignazio Lutri
Davide Pagliarini
Federico Zanfi
Antonio Failla
Stefano Munarin
Fabrizia Ippolito
Fausto Carmelo Nigrelli
Paolo La Greca
Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Emanuele Tuccio
Giovanni La Varra
Maurizio Carta
Salvatore Gozzo
Cettina Lazzaro
Gesualdo Campo
Soprintendenza BB CC AA Catania
Nuccio Russo
Ordine Architetti P.P.C. Catania
Carmelo Grasso
Ordine Ingegneri Catania
Andrea Vecchio
ANCE Catania
Gaetano Fede
Consulta Ingegneri di Sicilia
Rino La Mendola
Consulta Architetti di Sicilia
Giancarlo Lo Curzio
Panormedil Palermo Incontro promosso e organizzato da
Istituto Nazionale di Architettura – In/Arch Sicilia Con il patrocinio di
Ordine Architetti P. P. e C. di Catania
Ordine Ingegneri di Catania
Consulta Ordini Ingegneri di Sicilia
Consulta Ordine Architetti di Sicilia
ANCE Catania

PAESAGGI INVISIBILI
Un libro è un progetto Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, Laboratorio di Progettazione Architettonica1, Aula B.5.1, via Bonardi 9, Milano
Martedì 14 aprile 2009, ore 14.15
INTERVENGONO
Davide Pagliarini Introduce
Paolo Belloni
Incontro promosso e organizzato da
Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Ambientale – Laboratorio di Progettazione Architettonica1, prof. Paolo Belloni (docenti integratori: Carlo Nozza, Carlos De Carvalho, Davide Pagliarini)

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2 Marzo 2009

PostScriptum

Architetture contemporanee in pietra strutturale

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Edificio in Finsbury Square a Londra di Eric Perry.

Accanto alle tendenze di assottigliamento della materia lapidea in texture atettoniche di puro rivestimento e alle applicazioni dove la pietra viene impiegata in modo collaborante, insieme all’acciaio o al cemento armato, per dar vita alla struttura degli edifici – si pensi in proposito ad alcune tipologie di rivestimenti a spessore – si fa strada oggi una nuova concezione finalizzata ad attualizzare il senso del peso e della gravità di consistenti corpi litici massivi, impiegati con funzione portante. Tale rilettura contemporanea degli antichi magisteri stereotomici (connessi cioè alla scienza del taglio delle pietre per la costruzione di dispositivi strutturali) è una condizione produttiva praticabile anche grazie all’avvento di macchine a controllo numerico, capaci di modellare la materia litica traendo i parametri di lavorazione direttamente dai prototipi digitali dei pezzi da realizzare.
Il ritorno alle applicazioni strutturali della pietra avviene con connotazioni diverse in due distinti ambiti d’intervento: nell’Europa mediterranea – con esiti particolarmente significativi nella Francia meridionale e nella penisola iberica – si assiste ad una riabilitazione di sistemi statici semplici e arcaici, murari o trilitici, posti con ritmi costruttivi regolari a definire spazi elementari e rigorosi dando vita ad architetture ieratiche e a tratti radicali, prive di qualsiasi compiacimento formale; nella cultura architettonica contemporanea di matrice anglosassone si è sviluppata invece da alcuni anni una ricerca originale sulla pietra armata, nata in Gran Bretagna dalle sperimentazioni di un inedito strutturismo tecnologico e sistematizzata, con esiti costruttivi ripetibili e applicabili a grande scala, nella fertile pratica professionale di progettisti quali Michael Hopkins, Eric Perry, e Renzo Piano.
Entrambi gli spazi applicativi meritano una particolare attenzione poichè riportano la pietra strutturale al centro di alcune linee di sviluppo dell’architettura contemporanea ma certo si collocano in un panorama europeo più ampio, in cui la tradizione della pietra portante sopravvive anche alimentando le consuetudini costruttive di ambiti territoriali molto circoscritti e fortemente connotati dal punto di vista della cultura materiale, o in contesti dove è impiegata per restaurare e ricostruire edifici monumentali in una prosecuzione retrospettiva di antichi magisteri.

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Progetto per un ostello a Lodrino di Stefano Zerbi.

Muri e monoliti portanti.
La Birreria a Malta progettata dallo studio di Peake, Short and Partners all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, è interamente realizzata con murature portanti in blocchi di una pietra sedimentaria locale. La forte inerzia termica delle strutture litiche massive, unita ad un particolare sistema costruttivo che ha previsto il raddoppio delle murature perimetrali con interposta intercapedine ventilata, ben si adattano a contrastare gli effetti dell’ampia escursione termica, sia stagionale che giornaliera, caratteristica del clima insulare. Aldilà del suo linguaggio architettonico fortemente ipotecato dalle robuste matrici figurali della tradizione costruttiva autoctona, l’opera rappresenta una delle prime esperienze attuali di rivalutazione dei sistemi costruttivi in pietra portante, particolarmente apprezzati in ambito mediterraneo in contesti in cui la materia lapidea è abbondante per la loro sostenibilità, per le alte prestazioni di raffrescamento passivo degli ambienti ed, infine, per i costi competitivi.
Nel contesto di esperienze di questo tipo – diffusesi negli ultimi 15 anni ma già prefigurate nel secondo dopoguerra in alcune pionieristiche costruzioni dall’architetto francese Fernand Pouillon – accanto alle più recenti realizzazioni di Cesar Portela (Cimitero a Finisterre in Galizia, 2003) e di Mansilla e Tunon (Progetto per il Museo delle Collezioni Reali a Madrid, 2005), si distinguono gli edifici di Gilles Perraudin, localizzati nel sud della Francia e caratterizzati da un originale e conciso purismo arcaista, scevro di sovrastrutture formali e pregnante di significato costruttivo.
La pietra calcarea di Vers, cavata attorno a Pont-du-Gard ai confini tra Linguadoca e Provenza, è per l’architetto un materiale ecologico per eccellenza, abbondante in natura, economico nei costi di estrazione, di posa in opera e di manutenzione. L’attività estrattiva di questo particolare litotipo giallo dorato, da sempre finalizzata alla realizzazione di elementi decorativi, porta al declassamento di una notevole quantità di materiale non commercializzato per la presenza di sacche di argilla o di conchiglie irregolarmente distribuite; Perraudin reimpiega innovativamente tale cospicua produzione di scarti di grande pezzatura come giacimento di materiale da costruzione, cavato per segagione automatica in grandi monoliti, facilmente trasportabili e direttamente montati in cantiere grazie all’ausilio di gru senza ulteriori lavorazioni.
Così, in un processo produttivo e costruttivo rapido, meccanizzato e a basso impatto inquinante, l’edificio cresce per blocchi posati a secco e lasciati a vista, senza intonaci e tinteggiature che necessitino di cicli manutentivi successivi, con semplici giunti di impermeabilizzazione all’aria che sigillano le commessure del paramento murario esterno a montaggio ultimato.
Nella Cantina di Vauvert (1996-99), il primo edificio realizzato in pietra strutturale dall’architetto francese, grandi monoliti calcarei – delle dimensioni di 52x105x210 cm – sono disposti a formare una sequenza di triliti; nel successivo Centro di Formazione di Marguerittes (1998-99) pochi ricorsi di blocchi dello stesso formato sono sufficienti per dar vita ad una ciclopica opera muraria isodoma; nell’ulteriore Cantina Les Aurelles (2000-01) le pesanti murature, incise da poche bucature a feritoia, sono formate da monoliti spessi 65 cm e lunghi circa 150 cm; nel collegio per oltre 1.000 studenti di Vauvert, progettato tra il 1998 e il 2001 e mai costruito, il calcare di Vers, tagliato ancora una volta in grandi parallelepipedi, avrebbe dovuto dar vita a pilastri dell’altezza di circa 8 metri, allineati in lunghe teorie a circoscrivere una vera e propria cittadella scolastica, estesa su quasi 13.000 metri quadrati di superficie.
L’architettura di Perraudin dimostra di saper recuperare con sicurezza la tradizione stereotomica instaurando un legame inscindibile tra materia, spazio e paesaggio; la scelta di ritorno alle radici della pietra massiva non è meramente retrospettiva o nostalgica, ma è tesa a distillare una nuova modernità a partire dai caratteri di semplicità, chiarezza e correttezza costruttiva più propri di quella tradizione architettonica mediterranea che può essere “esportata” anche in altri contesti come dimostra il recente progetto di Stefano Zerbi per un Ostello ed un Centro Sperimentale sulla Pietra a Lodrino nel Canton Ticino. La proposta del giovane architetto mira a dimostrare che un edificio interamente realizzato in triliti di pietra portante è attuale ed efficace nel soddisfare prestazioni di resistenza antisismica e di risparmio energetico; in specifico quest’ultimo aspetto è stato risolto da Zerbi traendo il massimo guadagno dagli apporti energetici della radiazione solare, sfruttando l’inerzia termica della pietra e riducendo considerevolmente il contributo degli impianti di riscaldamento riuscendo alla fine a progettare una struttura a basso consumo energetico secondo i più aggiornati standards internazionali.

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Architetture in pietra portante di Gilles Perraudin: in alto, la cantina Les Aurelles; in basso, sezioni costruttive comparate delle principali opere in pietra strutturale realizzate dal progettista francese.

Dispositivi strutturali in pietra armata.
A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la società di ingegneria britannica Ove Arup & Partners è stata protagonista di una serie di sperimentazioni finalizzate in generale ad attivare inedite interazioni tra i diversi saperi del progetto ed in particolare a costituire nuovi nessi tra discipline statico-strutturali e processi di innovazione tecnologica dei materiali da costruzione. Questo intreccio di fattori ha trovato la sua espressione tecnica più compiuta nel lavoro di Peter Rice, ingegnere che, sia per conto della Arup, sia in proprio, ha coordinato la progettazione esecutiva di una consistente serie di importanti realizzazioni sparse in tutto il mondo, dove la forma architettonica è diventata la diretta raffigurazione di figure statico-costruttive, di dispositivi resistenti improntati a profonde innovazioni delle tecnologie tradizionali del vetro, dell’acciaio, del cemento e della pietra. L’inedita poetica strutturale che si è così venuta a delineare è basata su opere concepite come sistemi di componenti assemblabili secondo una chiara gerarchia di funzionamento statico, prestazionale e costruttivo.
In tale contesto Il Padiglione progettato dallo stesso Rice per l’Expo di Siviglia del 1992 ha inaugurato una serie di sperimentazioni specifiche, finalizzate ad indagare le potenzialità della pietra strutturale armata con cavi metallici post-tesi per risolvere le ben nota carenze di resistenza a trazione e a flessione dei materiali litici. Le murature o i sistemi architravati in pietra temono soprattutto le spinte laterali statiche, generate ad esempio dai carichi obliqui delle coperture, o dinamiche, causate dall’azione del vento. Tali problematiche sono state storicamente risolte aumentando lo spessore delle strutture, o grazie a contrafforti, o ancora caricando la parte sommitale degli edifici con pinnacoli ed altri elementi al contempo decorativi e di appesantimento, utili a verticalizzare la risultante dei carichi.
A partire dalla realizzazione pilota del Padiglione e proseguendo con altre realizzazioni tra cui si ricorda la nuova facciata per la Cattedrale di Lille (1999), Rice ha introdotto sistemi di armature post-tese, capaci di integrare le qualità di resistenza a compressione della pietra con le alte prestazioni di resistenza a trazione dell’acciaio, risolvendo del tutto le problematiche strutturali sopra delineate.
La ricerca pioneristica dell’ingegnere inglese, nata dal parallelismo tra le sperimentazioni sul vetro e quelle sulla pietra (entrambi i materiali seppur con alcune variabili, presentano infatti le stesse caratteristiche di resistenza strutturale, cioè buone prestazioni a compressione, scarsa resistenza a flessione e alta fragilità ai carichi accidentali), è stata successivamente sviluppata da diversi rappresentanti dell’architettura contemporanea anglosassone e oggi la costruzione in pietra armata, applicata alla scala monumentale in opere quali l’Aula liturgica di San Giovanni Rotondo di Renzo Piano in cui grandi archi litici armati rappresentano l’anima strutturale e figurale del progetto, può ottenere una riconoscibilità internazionale frutto non di un’esperienza isolata ma di una cultura progettuale ormai trentennale, consolidata anche se non largamente diffusa.

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Dettaglio delle murature della birreria a Malta progettata dallo studio Peake Short and Partners.

La realizzazione di Piano, con il suo elevato valore costruttivo e formale, va infatti inscritta in quella che può essere considerata come una “tradizione attuale” della pietra strutturale armata, che dalle sue origini nelle intuizioni e nelle sperimentazioni di Peter Rice, approda certo alla sua massima espressione con l’Aula liturgica ma passa attraverso l’opera di architetti quali Michael Hopkins ed Eric Perry (Edificio in Finsbury Square a Londra, 2002), in un processo di sedimentazione e sistematizzazione che merita di essere analizzato e di essere portato alla conoscenza allargata dei progettisti contemporanei.
Rispetto alle sperimentazioni precedenti sull’applicazione della pietra armata, tale “tradizione” è connotata da caratteri di assoluta originalità: se infatti in passato le applicazioni della pietra armata, mai presollecitata, hanno sempre previsto una forte integrazione tra dispositivo litico (e/o laterizio) e getto concretizio in sistemi strutturali perlopiù continui – si pensi in proposito ad alcune realizzazioni francesi di Anatole De Baudot alla fine del XIX secolo o alla più recente esperienza di Giovanni Michelucci nella Chiesa dell’Autostrada di Firenze – nel caso della ricerca inaugurata da Rice pietra e armature, spesso presollecitate, collaborano senza mai essere ibridate con il cemento armato in sistemi strutturali quasi sempre discontinui.

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L’Aula liturgica di Padre Pio progetta da Renzo Piano in un plastico di studio.

Emblematiche in proposito sono le architetture di Hopkins, affermatosi tra gli anni ’70 e gli anni ’80 come uno dei maggiori rappresentanti dell’high-tech anglosassone più radicale e, a partire dagli anni ’90, del secolo scorso fautore di una personalissima ricerca tesa a coniugare innovazione tecnologica e confronto con la storia, in un costante lavoro di attualizzazione dei materiali e dei linguaggi espressivi della tradizione. Il laterizio e la pietra, impiegati perlopiù in dispositivi costruttivi portanti, sono al centro di tale processo di aggiornamento che si esplica attraverso la prefabbricazione parziale di unità tecnologiche assemblate successivamente in cantieri altamente razionalizzati e in opere uniformate ai più moderni criteri di sostenibilità ambientale.
In tale contesto il progettista inglese sviluppa un particolare tipo di sistema strutturale verticale, concentrato sulle facciate dei corpi di fabbrica e rappresentato da teorie di pilastri rastremati ad ogni livello in corrispondenza degli orizzontamenti; tali elementi portanti, parzialmente prefabbricati, diventano al contempo “sistema costruttivo” e cifra stilistica riconoscibile che si ripete, come applicazione del laterizio nel Teatro dell’Opera di Glyndebourne (1989-94 ) e negli Edifici del Fisco di Nottingham (1992-95), e, in veste litica con armatura metallica nella Portcullis House per il parlamento londinese (1992-2001) e nel Queen’s Building di Cambridge (1993-95).
Per stare alle ultime due opere eseguite con la pietra, la serie dei piedritti è realizzata grazie all’impilamento di conci all’interno dei quali è fatta passare un’armatura in acciaio post-tesa a tensione modificabile: nel grande edificio londinese i pilastri compartecipano poi ad un sistema statico complesso che fa della contaminazione tecnologica e della ibridazione materica il suo punto di forza; la più piccola realizzazione di Cambridge è invece l’enunciazione chiara e lineare di un magistrale meccanismo statico in pura pietra armata. L’edificio di tre piani, che contiene un auditorium da 170 posti e alcuni spazi collettivi del prestigioso Emmanuel College, si presenta come un volume autonomo, un corpo dall’aspetto monolitico interamente realizzato in pietra. Inserita in un contesto edificato di forte identità storica, l’architettura di Hopkins propone ancora una volta una decisa innovazione tecnologica a partire dalla memoria e dalla tradizione: i blocchi litici che compongono la struttura dell’edificio, e che rimangono a vista sulle facciate, sono infatti di calcare di Ketton, lo stesso materiale impiegato da Christopher Wren per costruire la cappella seicentesca del college, ma questa volta la pietra è declinata in forme e prassi esecutive inedite.
La volontà di impiegare la muratura litica isodoma come dato linguistico e costruttivo accomunante che legasse la nuova realizzazione alle preesistenze circostanti, unitamente alla necessità di liberare da orizzontamenti il grande volume interno dell’auditorium, nonchè di aprire ampie luci finestrate nella parte sommitale delle cortine murarie, ha portato l’architetto ad optare ancora una volta per il sistema costruttivo dei pilastri ad armatura post-tesa, già collaudato nel cantiere londinese di più lunga gestazione.

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Vista e sezione del Queen’s building a Cambridge di Michael Hopkins.

La facciata litica continua del Queen’s Building spessa 40 cm, ad un’attenta analisi, risulta infatti costituita da una reticolo portante di pilastri e piattabande di collegamento; le maglie quadrate individuate dall’intelaiatura sono lasciate vuote al piano terreno per dar vita ad un portico che corre intorno all’intero perimetro dell’edificio, al primo livello sono tamponate da pannelli prefabbricati con rivestimento lapideo esterno, e all’ultimo piano sono chiuse da grandi vetrate trasparenti. Se la facciata è dominata dalla presenza omogenea e totalizzante del litotipo dorato di Ketton, è pur vero che il reticolo strutturale è leggibile in filigrana attraverso la differenziazione dimensionale dei conci tra i pilastri e le superfici di tamponamento, e grazie ad una sottile scanalatura che contorna i pannelli prefabbricati di chiusura.
Le opere sin qui descritte sono i risultati di una cultura sperimentale e progettuale determinante nel panorama dell’architettura litica attuale, capace di dare risposte appropriate alle istanze della contemporaneità rinnovando la sfida dell’innovazione tecnologica a partire dalla semplicità archetipica di muri, triliti e archi. Sono ancora una volta i concetti di ibridazione e contaminazione tecnologica a rendere possibile la riabilitazione di questi dispositivi costruttivi, oggi rimodellati nella loro configurazione e nelle loro proporzioni dai nuovi equilibri statici creati dalle armature interne; anche nel campo delle sue applicazioni strutturali la pietra sembra non presentare più limiti, i vincoli dimensionali e di sollecitazione che essa poneva in passato appaiono risolti, e si è inaugurata una nuova stagione in cui la materia lapidea ha dimostrato di poter diventare un’alternativa praticabile anche nel compimento di grandi opere, aprendo ad inedite soluzioni di interazione tra le qualità delle forme e degli spazi architettonici e il disegno dei sistemi statico-costruttivi con cui essi sono realizzati.

di Davide Turrini

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Alfonso Acocella, L’architettura di pietra. Antichi e nuovi magisteri costruttivi, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp.624.
Andrè Brown, Peter Rice, Londra, Thomas Telford, 2001, pp. 187.
Claudia Conforti, Roberto Dulio, Marzia Marandola, Giovanni Michelucci : 1891-1990, Milano, Electa, 2006, pp. 407.
Claudio D’Amato, Giuseppe Fallacara (a cura di), L’arte della stereotomia, Parigi, Les Compagnons du Devoir, 2005, pp. 123.
Claudio D’Amato Guerrieri (a cura di), Città di Pietra. L’altra modernità. Architetture stereotomiche, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 341.
Colin Davis, Hopkins 2. The work of Michael Hopkins and Partners, Londra, Phaidon, 2001, pp. 240.
David Dernie, New stone architecture, Londra, Laurence King, 2003, pp. 240.
Cristina Donati, Michael Hopkins, Milano, Skira, 2006, pp. 288.
Giuseppe Fallacara, Verso una progettazione stereotomica. Nozioni di stereotomia, stereotomia digitale e trasformazioni topologiche, Roma, Aracne, 2007, pp. 186.
Mario Pisani (a cura di), Gilles Perraudin, Melfi, Libria, 2002, pp. 111
Domenico Potenza (a cura di), La pietra armata. Concezione e costruzione della Chiesa di Padre Pio, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2005, pp. 55.

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27 Febbraio 2009

Design litico

La pietra è terra

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Terra Kitchen (le fotografie sono fornite da Claudio Silvestrin architects)

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Completiamo solo momentaneamente l’itinerario lapideo dei progetti di Claudio Silvestrin portando a compimento i pensieri introdotti nelle occasioni de Il Casone a Marmomacc; siamo guidati dall’architetto, che afferma: la pietra è terra.
In che senso, però, terra? La terra forse su cui camminiamo, capace del suono sotto le nostre suole, o forse la terra su cui appoggiano i polpastrelli le fondamenta delle nostre case; la terra che ci prende il palato coi suoi frutti, che imprime l’aria con le fragranze a seconda della pioggia e del tempo atmosferico, mentre agli occhi mostra la chimica dei suoi componenti. La chiave di lettura sensibile, fosse questa la giusta via interpretativa, è profondamente connaturata alla condizione umana. E’ dunque legata strettamente al senso ed alla percezione del tempo di ciascuno.
La terra allora ci precede e pure sopravvive a noi, come alle nostre quotidiane sensazioni. Il suo è un tempo di durata, disteso ben oltre l’attimo, e questo ai nostri sensi si traduce in termini di solidità, sicurezza, stabilità.
La ricercata a-temporalità espressiva dei volumi di questa cucina include comunque entro propria sagoma anche elementi tecnici d’ultima generazione, introducendo così il tema di progetto dei sottili accostamenti antitetici.
Per Minotti cucine nel 2005 Claudio Silvestrin disegna la linea Terra. Riportiamo liberamente all’italiano la descrizione offertaci dall’architetto in lingua inglese.

La terra – le sue acque, foreste e montagne – è straordinariamente bella in se stessa, nella sua semplice, sola presenza.In contrasto con gli artefatti d’ogni giorno, in cui sono predominanti l’uso e la funzione, la terra è ciò che è, indipendente da ciò che noi siamo, da ciò che facciamo e dal senso che vi attribuiamo.
Concependo la cucina Terra, ho immaginato un oggetto che fosse utile, funzionale e che fosse presente con la stessa forza della natura: solida, senza tempo ed astratta.
Ho espresso l’immenso valore della terra con una forma geometrica rigorosa e materiali naturali – pietra e cedro.Cucinare su di un piano di lavoro in porfido che ha ventotto milioni di anni, mi fa sentire allo stesso tempo riverente e felice.
La cucina Terra è disponibile in differenti materiali e combinazioni: porfido chiaro o scuro, legno di cedro, e la più recente pietra Labradorite.

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Un tavolo della collezione H_O (le fotografie sono fornite da Claudio Silvestrin architects)

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Un anno dopo Terra Kitchen Claudio Silvestrin disegna la collezione per ufficio direzionale H_O per Poltrona Frau.
La solidità di Terra Kitchen non viene meno in questi arredi in cui, per vero, la solidità lapidea è ammorbidita dalle fasciature in pellame di lavorazione tipicamente artigianale di poltrona Frau. La solidità è mitizzata al punto, in alcuni pezzi della collezione, da far prevalere dimensionalmente il sostegno in porfido sulla superficie orizzontale del piano di lavoro in legno, sopravanzandola. Quest’ultimo – il piano – completa il mix d’ingredienti naturali del progetto e fa da ponte fra litica durezza e più soffice, epidermica consistenza dei sostegni al lato opposto. Gli spessori, comunque generosi, s’accoppiano ai materiali in modo personalizzato: il sostegno in porfido più massiccio, il piano di una consistenza capace di confortare con la propria altezza la presa ravvicinata del palmo d’una mano, le gambe sottili rivestite Frau.

Elegante ed intenzionalmente al di sopra dell’idea di moda, H_O è una collezione di raffinato arredo di gusto esclusivo, che Claudio Silvestrin ha disegnato in risposta al bisogno di un prestigioso e lussuoso home office. Incentrato sulla naturale bellezza dei materiali utilizzati nelle più consolidate tradizioni d’artigianato – pelle, porfido e legno – e su di un design attento alla proporzione di tutte le parti, la collezione H_O segue la rinnovata tendenza ad apprezzare e trarre piacere dall’unicità dell’arredo esclusivo.
Sviluppato come insieme d’elementi che possono esser posti uno accanto all’altro, il progetto si caratterizza per i montanti di tavoli e scrivanie in porfido naturale, che rispondono ai toni caldi del legno e del pellame lavorato a mano, per produrre una tavolozza tono su tono.Una combinazione inusuale per una collezione prestigiosa, progettata per durare oltre il tempo.

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Oriente/Occidente (le fotografie sono fornite da Claudio Silvestrin architects)

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Oriente/Occidente è un tavolo da pranzo per Glas, del 2006. Anche in questo caso non troviamo gambe puntuali, ma piani della consistenza minima in spessore, quasi superfici.
I due mondi s’incontrano con preciso incollaggio a 45 gradi, l’uno portatore di sincere trasparenze, l’altro d’opacità sfumate nelle vene grigie del Carrara.
Visibile ed invisibile, duro e morbido, senza tempo e contemporaneo: nel design in particolare, Silvestrin è sensualmente ossimorico e sempre trae da questi accostamenti diretti il contenuto ulteriore alla semplice somma degli elementi costituenti.

I piani grigio-venati sono in marmo Statuario di Carrara e vetro trasparente ultra-sottile, di 19 mm di spessore. Il top vetrato è formato incollando i bordi rifilati a 45° di un cristallo centrale, ai bordi di due lastre marmoree laterali. I supporti, fissati al piano vetrato mediante piatti d’acciaio, sono costituiti da due lastre di vetro incollate assieme.

di Alberto Ferraresi

(Vai al sito Casone)
(Vai al sito di Marmomacc)
(Vai al post precedente sul design litico di Claudio Silvestrin)
(Vai al sito di Claudio Silvestrin)
(Vai al sito di Minotti cucine)
(Vai al sito di Poltrona Frau)
(Vai al sito di Glas)

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24 Febbraio 2009

News

PROGETTARE IN PIETRA
L’architettura di pietra fra tradizione ed innovazione

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FACOLTA’ DI ARCHITETTURA DI FERRARA AA. 2008-2009
CORSO “COSTRUZIONI IN PIETRA”
In collaborazione con MARMOMACC-VERONAFIERE

Prof. Alfonso Acocella
Prof. Vincenzo Pavan
Arch: Veronica Cupioli
Arch. Veronica Dal Buono
Arch, Davide Turrini

Durata del Corso – 100 ore (CFU)
Inizio delle lezioni 25 Febbraio 2009-02-21

Obiettivi del Corso:
Il corso è finalizzato a consolidare negli studenti del quinto anno della Facoltà di Architettura di Ferrara una consapevolezza critica sull’impiego dei materiali lapidei all’interno del progetto contemporaneo d’architettura, d’allestimento d’interni e di design. Temi portanti dell’offerta formativa sono: l’identificazione e l’interpretazione critica dei codici e dei linguaggi con cui la pietra si presenta nell’architettura contemporanea; l’analisi della connessione tra progettazione architettonica e tecniche costruttive legate alle nuove frontiere di trasformazione e trattamento dei materiali lapidei; il trasferimento di tali processi analitico-critici nell’esperienza progettuale dell’Atelier di progettazione..

Contenuti didattici:
L’offerta didattica del corso si svilupperà per sezioni tematiche articolate su linguaggi e tecniche dell’architettura litica con particolare attenzione alle esperienze contemporanee. Attraverso una lettura sincronica delle fasi che concorrono alla realizzazione dell’opera architettonica saranno indagati i legami tra concezione formale, aspetti costruttivi e qualità tecnico espressive dei materiali litici, secondo una visione unitaria dei saperi.

Argomenti delle lezioni
Lo Stile litico
La rinascita della pietra strutturale
I rivestimenti a spessore e l’opera muraria composita
I rivestimenti sottili contemporanei
L’epidermide di pietra
Light stone. Leggerezza e trasparenza della pietra
Liquid stone. Pietre fluide e architettura digitale
Lo spazio pubblico di pietra
Il design litico contemporaneo

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Lectures (Inviti):

GILLES PERRAUDIN
Perraudin Architectes, Lione (Francia)

FERNANDO MENIS
Menis arquitectos, Santa Cruz de Tenerife (Spagna)

MANUEL AIRES MATEUS
Aires Mateus & associados LDA, Lisbona (Portogallo)

RAFFAELLO GALIOTTO
Galiotto design, Vicenza, Italia

DAVIDE TURRINI
Università di Ferrara

GIUSEPPE FALLACARA
Politecnico di Bari

VERONICA DAL BUONO
Università di Ferrara

VERONICA CUPIOLI
Università di Ferrara

CHRISTIAN PONGRATZ
Texas Tech University, Lubbock, USA

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Atelier di progettazione. Osservatori di pietra per il paesaggio
Scopo fondamentale del corso è la formazione di una specifica “cultura della pietra” nei suoi aspetti tecnico-costruttivi, nelle potenzialità estetiche e nello sviluppo di appropriati e innovativi linguaggi.
Centrale rispetto a tali obiettivi è l’Atelier di progettazione incentrato su un tema che lega la costruzione lapidea al paesaggio.
Il luogo scelto è un percorso pedonale di circa 10 km che si snoda lungo la linea d’acqua sulla riva orientale del Lago di Garda, compreso tra i centri di Lazise e Garda, intensamente frequentato dal turismo stagionale e di fine settimana. Il tema è costituito da un sistema di piccoli edifici di accoglienza, informazione e ristoro distribuiti in zone di sosta individuate lungo il percorso. Il progetto, mirato a sviluppare una di queste unità di accoglienza, oltre ad approfondire gli aspetti costruttivi, intende stimolare attraverso l’uso dei materiali lapidei uno specifico legame con il paesaggio: l’acqua e le rocce, la vegetazione di terra e il canneto, l’orizzontalità della superficie del lago e la verticalità dei monti.
La semplicità del programma funzionale potrà favorire, attraverso la sperimentazione di linguaggi costruttivi innovativi, la ricerca di una nuova percezione dei materiali lapidei come componenti fondamentali della qualità dello spazio architettonico nei suoi aspetti di fisicità, materialità e sensorialità. Le unità di accoglienza saranno in questo senso pensate come “macchine di osservazione del paesaggio” e contemporaneamente come “accumulatori” di esperienze percettive.
La scelta dei materiali lapidei, le loro possibilità tecnico-costruttive e le potenzialità espressive saranno verificate attraverso il confronto diretto con aziende produttrici impegnate nella sperimentazione sia architettonica che di design, integrando la progettazione in studio con visite dirette ai laboratori.
Parte essenziale in tale processo sarà inoltre la ricerca dei fattori di sostenibilità energetica, di cui la pietra è naturalmente dotata, oggi imprescindibile per una consapevole metodologia progettuale.
Gli elaborati finali d’esame saranno formati da tre tavole di cm. 70×100 contenenti studi planimetrici, piante, prospetti, sezioni, particolari architettonici e rappresentazioni tridimensionali. Saranno inoltre elaborati plastici di studio in materiali diversi.
Le attività di progettazione saranno svolte con l’assistenza del gruppo docente e di alcuni visiting teachers.
Durante la 43ª Marmomacc, Mostra Internazionale di Marmi Design e Tecnologie, di Veronafiere i progetti del corso saranno esposti in una apposita mostra dedicata alla didattica e formazione.

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BRAND PARTNERS. I progetti produttivi

ANTOLINI LUIGI | Sega di Cavaion, Verona

CASONE | Firenzuola, Firenze

LABORATORIO MORSELETTO | Vicenza

LA PERLA | Chiampo, Vicenza

LITHOS DESIGN | Chiampo, Vicenza

PIBA MARMI | Chiampo, Vicenza

PIETRA DELLA LESSINIA
| S.Anna d’Alfaedo, Verona

SANTA MARGHERITA | Volargne, Verona

TESTI FRATELLI | S. Ambrogio di Valpolicella, Verona

TRAVERTINO SANT’ANDREA | Serre di Rapolano, Siena

VASELLI MARMI | Serre di Rapolano, Siena

Canale comunicativo del Corso: architetturadipietra.it
Fungerà da agenda e da spazio di social networking il web site tematico Architetturadipietra.it in cui sarà annunciata e documentata l’attività in svolgimento, le lectures, le visite e, allo stesso tempo, sperimentata un’attività di produzione e di condivisione dei contenuti promossa dal gruppo docente e dai frequentanti del Corso.

Biografie scientifiche dei docenti
Alfonso Acocella, architetto è Professore ordinario di Tecnologia dell’architettura presso la Facoltà di Architettura di Ferrara. Attualmente svolge i Corsi di “Cultura tecnologica della progettazione” e di “Costruzioni in pietra”. Ha scritto numerosi volumi sugli “stili tecnologici” dell’architettura in laterizio e in pietra; in particolare L’architettura di pietra (Firenze 2004), Stone Architecture (Milano 2006)

Vincenzo Pavan, architetto e studioso dei linguaggi dei materiali costruttivi. E’ curatore, dalla sua istituzione, dell’International Award Architecture in Stone di Veronafiere. Organizza per pubbliche istituzioni mostre e convegni internazionali di architettura e urbanistica nell’ambito dei quali ha pubblicato numerosi cataloghi. Ha esposto i propri progetti in mostre e musei internazionali tra i quali la Biennale di Venezia, il Deutsches Architekturmuseum di Francoforte e la Graham Foundation di Chicago. Dal 1994 è co-direttore dell’USA Institute (Urban Studies and Architecture Institute) di New York per il quale cura seminari di progettazione e convegni.

Veronica Cupioli, laureatasi presso la Facoltà di Architettura di Ferrara svolge attualmente il Dottorato di Ricerca presso la stessa Facoltà in Tecnologia dell’Architettura. Ai fini della ricerca si sta occupando dei temi relativi al design litico, con particolare attenzione al mondo degli interni e dei rivestimenti lapidee. Svolge attività di grafica e design per aziende private. Collabora dal 2006 con il blog architetturadipietra.it occupandosi di critica e recensioni. Nel giugno 2008 ha pubblicato per Alinea un saggio sulla riqualificazione dell’edificio UniqaHaus, a Klagenfurt (AU), ad opera dello Studio Frediani-Gasser.

Veronica Dal Buono, laureata presso L’Istituto Universitario di Venezia, consegue presso la Facoltà di architettura di Ferrara il titolo di Dottore di Ricerca in Tecnologia dell’Architettura. Coniugando l’interesse per il progetto contemporaneo, le tecnologie applicative dei materiali, la comunicazione e rappresentazione dell’architettura, la sua attività di ricerca si sviluppa in particolare intorno al rapporto tra uomo e materia con particolare interesse verso i laterizi, la pietra ed i prodotti d’artificio realizzati in analogia ai lapidei naturali. Autrice per riviste di settore pubblica interventi indagando tecnica e cultura del progetto contemporaneo.

Davide Turrini, laureato in architettura presso l’Università degli Studi di Firenze, ha conseguito nello stesso ateneo la specializzazione in Storia Analisi e Valutazione dei Beni Architettonici e Ambientali e successivamente, presso l’Università di Ferrara, il titolo di Dottore di Ricerca in Tecnologia dell’Architettura. Svolge attività di ricerca sulle tecnologie costruttive del laterizio e della pietra naturale tra tradizione e contemporaneità e pubblica con continuità contributi autonomi e articoli su riviste specializzate.

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In collaborazione con
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23 Febbraio 2009

Citazioni

Manufatto

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Uno scalpellino al lavoro in un laboratorio di Serre di Rapolano. (foto Davide Turrini)

“Manufatto: fatto a mano o anche a macchina?
La disquisizione oggi non ha più molto senso, visto che tutte le figure di artigiano, da quello tecnico a quello artistico, dispongono già o sono avvicinate dalle tecnologie evolute e lavorano un prodotto creato con il contributo sostanziale della tecnica e delle macchine, non una ma tante, al contrario della fabbrica dove agli addetti corrispondono singole mansioni e macchine.
[…] La mano, simbolo universale di prima applicazione al lavoro dell’uomo, che secondo Henry Focillon nel suo saggio del 1934 Elogio della Mano: “… è azione; ella afferra, crea perfino, si potrebbe dire che ella pensa”, è il paradigma su cui si gioca l’importanza dell’artigianato oggi: declinazione e diversificazione, di segno opposto alla standardizzazione della produzione seriale.
Da sempre l’uso dell’attrezzo, poi diventato macchina, inteso come sostanziale contributo alla riduzione della fatica dell’uomo, non rappresenta una discriminante nei confronti di ciò che può essere considerato fatto a mano.
[…] L’uomo moderno cerca valori nella manualità e nella creatività del pezzo unico e non potrà fare a meno, anche in un futuro tecnologico, di oggetti della tradizione. L’artigianato, in particolare quello “tipico e artistico” […], conserva un ruolo importante nella società, è parte di un processo di recupero dei valori tradizionali, affettivi, di appartenenza al territorio che dimostrano l’importanza della centralità dell’uomo e della cultura materiale”.

Claudia De Giorgi, Claudio Germak, “Artigianato comunità design” p. 11-12, in Manufatto, Cinisello Balsamo, Silvana, 2008, pp. 159.

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20 Febbraio 2009

Letture

VERTICALITÀ
I grattacieli: linguaggi, strategie, tecnologie dell’immagine urbana contemporanea
E. Faroldi, L. C. Gramigna, M. Trapani, M. Pilar Vettori

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Le condizioni che in epoca contemporanea influenzano e orientano il governo del sistema-territorio, hanno indotto al rafforzamento dell’identità territoriale attraverso nuove trasformazioni ed episodi di “rigenerazione urbana”, competitive rispetto al contesto
metropolitano, regionale o nazionale, e nei confronti di scale diffuse di matrice internazionale. Nel processo di assimilazione dei luoghi a “prodotti”, principio fondativo delle politiche di sviluppo locale, la progettazione architettonica costituisce una delle strategie dirette alla competitività, attribuendo ai nuovi tipi edilizi compiti e ruoli sempre più connotati da finalità di marketing urbano: tra questi il grattacielo contemporaneo rappresenta uno strategico tipo architettonico in grado di rivestire grande importanza per il futuro della città. Condensatore dei fattori più influenti nell’ambito disciplinare del progetto architettonico, dell’economia, della tecnologia e della comunicazione, coinvolge indistintamente sia i processi di riqualificazione degli spazi pubblici e, più in generale, dell’intero ambito urbano, sia i fattori interagenti di trasformazione e riconversione delle aree dismesse della città. Nonostante gli aspetti di incertezza che tali fenomeni inevitabilmente innescano, lo scenario contemporaneo afferma la vitalità del tema progettuale: la sorprendente accelerazione della progettazione e costruzione di grattacieli degli anni recenti esibisce, pur nella diffusa tendenza all’auto-referenzialità, ricerche e percorsi che confermano, nella continuità con le sue radici culturali, economiche e simboliche, il ruolo sociale dell’edificio alto all’interno delle complesse dinamiche di trasformazione. La crescente attenzione nei confronti dell’ambiente e del territorio relaziona i progetti di architetture a sviluppo verticale con il grado di sostenibilità e di socialità delle soluzioni urbanistiche e architettoniche, nel tentativo di confermare che la verticalità, accanto ad un movente economico, si fonda ancora su presupposti culturali e sociali. Riflettere attorno al ruolo che il grattacielo, non solo come icona della modernità, riveste nello scenario dell’architettura contemporanea e delle sue contaminazioni, significa interrogarsi sulle accezioni, variegate e profondamente colte, che il tema del moderno ha assunto nel contesto
culturale del progetto di architettura, in relazione ad un concetto di costruzione che da sempre rappresenta la cifra caratterizzante dei processi di conformazione della città. Ne emerge un quadro a scala internazionale in cui la sperimentazione vuole fornire risposte concrete al superamento di problematiche intrinseche a tale tipologia, proponendo ipotesi e progetti che tentano di interpretare le variabili di natura sociale, insediativa, economica ed energetica, all’interno di un’evidente criticità di relazione con i tessuti urbani esistenti.In questo contesto, l’osservatorio italiano intende costituire, per nella difficoltà di esprimere in forma esaustiva esperienze compiute e concrete, uno scenario decodificatore del dibattito architettonico in atto, ribadendo il suo ruolo di ambito privilegiato interno al quale riflessioni
teoriche e ragioni di sostanza fondano le radici in un solido retroterra culturale da rileggere e rivisitare profondamente. La forma verticale, tra storia e ragioni del moderno, tra istanze urbane e semantica, tra immaginario e tecnologia, costituisce l’oggetto di una contemporanea narrazione tesa a mettere in evidenza luci e ombre di fenomeni architettonici destinati a definire i codici di nuovi paesaggi urbani.

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New York City USA, William van Alen, inaugurato il 27 maggio 1930, 319 metri.

Riflettere sul ruolo che il grattacielo, in qualità di icona della modernità, ha ricoperto nello scenario dell’architettura italiana del Novecento, significa interrogarsi sulle accezioni, variegate e profondamente colte, che il tema del moderno ha assunto nel contesto culturale europeo, in relazione ad un concetto di costruzione che da sempre rappresenta la cifra caratterizzante dei processi di trasformazione della città e del territorio.
Se per il grattacielo originario, quello americano, è ipotizzabile l’individuazione di una ragione precisa delle sue evoluzioni formali, indipendenti dalla struttura e dalla funzione, “una ragione che può essere compresa soltanto se si considera il sistema socio-economiche a cui interamente appartiene il grattacielo”, il paradigma italiano evidenzia come il concetto di verticalità possieda radici profonde che obbligano ad una lettura del fenomeno non limitata alle vicende che caratterizzarono le trasformazioni economiche intercorse dalla fine dell’Ottocento sino al XXI secolo.
La possibile soluzione all’enigma dicotomico esistente tra concentrazione urbana e distribuzione sul territorio, e la risposta alle esigenze di rappresentatività della nuova architettura aziendale, individua nel tema della costruzione verticale in Italia un’occasione importante per alimentare il dibattito sulla costruzione della città: nei primi decenni del Novecento, lo scenario architettonico e culturale italiano, al pari di quello europeo, focalizza l’attenzione sugli sviluppi delle costruzioni in altezza in America, divenendo luogo critico di osservazione, mai passivo seguace di meccaniche emulazioni.
Nonostante il fascino esercitato dall’innovazione tecnica e tecnologica della tipologia edilizia verticale, e l’elevato livello di pensiero espresso dalla scuola ingegneristico-strutturale italiana, il dibattito sul tema degli edifici alti si articola prevalentemente in ambito teorico. Le rare occasioni di progettualità in Europa si configurano come provocatorie sperimentazioni progettuali, quali il progetto del 1908 di Antoni Gaudì per un hotel di 360 metri a New York, o come traduzione di teorie urbanistiche, quali i piani di Le Corbusier o gli schizzi di Auguste Perret, oppure come apprezzamento del valore simbolico prima ancora che tentativo di applicazione pratica, come nel caso del costruttivismo russo che elegge il grattacielo a simbolo della Rivoluzione.
Non a caso la questione della verticalità in Italia prende il via proprio in concomitanza della crisi del grattacielo americano come “evento”: una crisi che Manfredo Tafuri fa risalire all’inizio degli anni Venti, generata da “l’equilibrio instabile fra l’indipendenza della singola corporation e l’organizzazione del Capitale collettivo” e sfociata nella scissione tra organismo architettonico e innovazione tecnica, tradottosi nell’incapacità di inserirsi nel processo di sviluppo della città in modo integrato, con il conseguente trionfo dell’eclettismo. “Accompagnata dal discredito critico di quanti avevano finito col riconoscervi l’immagine più stereotipata e negativa dell’antico ideale di modernità, la discussione sul grattacielo aveva assunto ormai i toni della querelle sociologica, facendo rinascere l’asprezza di quella diffidenza urbanistica che nel supercolosso scorgeva giustamente il pericolo di una progressiva erosione del concetto stesso di ordinamento urbano”.
Il pensiero critico europeo, diviso sulla questione americana tra interesse per gli aspetti tecnologici e pressioni della tradizione architettonica, orienta la propria ricerca verso la codifica di modelli tipologici capaci di interpretare i bisogni della società piuttosto che tendere alla definizione di forme atte a rappresentare una “macchina per fare soldi”. L’interesse è concentrato, oltre che sugli aspetti tecnologici e formali, su quelli distributivi, urbanistici e sociali, lasciando più sfumate le logiche imprenditoriali e di strategia aziendale che hanno generato il grattacielo americano.

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Trump Tower, New York City USA, Der Scutt su commissione di Donald Trump e della AXA Equitable Life Insurance Company, terminata nel 1983, 202 metri.

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In Europa il significato del grattacielo ruota attorno al dibattito sulla risoluzione delle questioni insediative della nuova città: i grandi temi delle modificazioni di scala generate dai fenomeni di crescita urbana, della logica di localizzazione degli insediamenti industriali, abitativi, dei servizi, dello sviluppo dei sistemi infrastrutturali, intravedono nello sviluppo verticale possibili strade da percorrere e alle quali consegnare il testimone di un parziale sviluppo.
Paradigmatiche, le sperimentazioni di Le Corbusier elaborate a valle di ricerche teoriche per la “città contemporanea per tre milioni di abitanti”: diciotto grattacieli a pianta cruciforme alti sessanta piani, disposti su una maglia ortogonale, costituiscono la matrice di un impianto volto a ridisegnare provocatoriamente il centro storico di Parigi, e inserito nel piano presentato all’Esposizione di Arti Decorative del 1925, promosso dal costruttore di aerei e di automobili Gustave Voisin.
A partire dagli anni Venti, in linea con le nuove tendenze espresse dalla società, la visione della città moderna coincide con quella di un organismo sviluppato in altezza, pur rimanendo radicata all’interno del dibattito sulla misura, scala e strumenti dell’intervento urbano: il tessuto delle città europee, radicalmente diverso dal modello americano ma non per questo estraneo alla verticalità storicamente presente sin dai tempi medievali, mostra una tenace resistenza ad incorporare le innovative tipologie dell’edificio alto, specchio della diffusa difficoltà ad interpretare il grattacielo come occasione di rinnovamento architettonico.
L’assimilazione dell’edifi cio verticale anche in Italia raggiunge la propria maturazione tramite l’interpretazione e l’assunzione di responsabilità intrapresa dal pensiero razionalista, grazie al supporto teorico delle posizioni generate dal taylorismo, dal fordismo e dall’organizzazione scientifica del lavoro. Il ruolo di Hilberseimer, Mies, Gropius, Mendelsohn, Le Corbusier, e successivamente della cultura urbanistica sovietica, diventa determinante nel riconoscere l’edificio alto quale elemento morfologico e funzionale della nuova città, non tanto in relazione al rapporto dialettico tra la tradizione architettonica europea e quella americana, quanto nella definizione di una
vera e propria categoria tecno-tipologica, anticipando le risposte necessarie a contrastare il prevalere di un’omologazione “internazionale”, dominata dall’assimilazione del modello statunitense.
La rimodellazione dello skyscraper non rimane circoscritta all’interno di repertori concettuali e formali: se, parallelamente, negli Stati Uniti le forme delle torri si ispirano a modelli gotici e rinascimentali, in ambito europeo, la medesima tematica si inserisce all’interno di una concezione urbanistica di “città verticale” in contrapposizione alle teorizzazioni sulla città giardino e sul decentramento urbano.
L’approccio non coincide con un’azione di sola critica, bensì affonda le sue radici in un’indagine teorica e scientifica: i primi studi di rilievo sui comportamenti delle strutture alte rispetto alle dinamiche del suolo si collocano agli inizi degli anni Trenta in Germania, in anticipo sugli Stati Uniti, grazie al contributo transdisciplinare della progettazione aeronautica, sviluppatasi dopo il primo conflitto mondiale, e alla valenza che alcuni maestri avevano attribuito alla dialettica tra architettura e innovazione tecnica. Risalgono al 1919-20 i progetti di grattacielo di Mies van der Rohe nella Friedrichstrasse a Berlino, prototipi di edificio multipiano in cemento armato, acciaio
e cristallo.
Confrontarsi con il tema del grattacielo significa rischiare di scivolare in narrazioni idealizzate o romantiche, che da Babele, attraverso le torri della città medioevale, per giungere agli scenari cinematografici, raccontano dello stretto rapporto tra tecnologia e immaginario che è all’origine di questo tipo edilizio. In realtà, riflettere attorno al ruolo che il grattacielo, non solo come icona della modernità, riveste nello scenario dell’architettura contemporanea, significa interrogarsi sulle accezioni, variegate e profondamente colte, che il tema del moderno ha assunto nel contesto culturale del progetto di architettura, in relazione ad un concetto di costruzione che da sempre rappresenta la cifra caratterizzante dei processi di trasformazione della città e del territorio.
In questo contesto, l’osservatorio italiano intende costituire, per nella difficoltà di esprimere in forma esaustiva esperienze compiute e concrete, uno scenario decodificatore del dibattito architettonico in atto, ribadendo il suo ruolo di ambito privilegiato interno al quale riflessioni teoriche e ragioni di sostanza fondano la radici in un solido retroterra culturale da rileggere e rivisitare profondamente. La forma verticale, tra storia e ragioni del moderno, tra istanze urbane e semantica, tra immaginario e tecnologia, costituisce l’oggetto di una contemporanea narrazione tesa a mettere in evidenza luci a ombre di fenomeni architettonici destinati a definire i codici di nuovi paesaggi urbani.

Emilio Faroldi, Laura Chiara Gramigna, Mauro Trapani, Maria Pilar Vettori
VERTICALITA’.
I grattacieli: linguaggi, strategie, tecnologie dell’immagine urbana contemporanea
Collana Biblioteca di architettura, Sezione Tecnologia,
Maggioli Editore,
Rimini 2008
pp. 233
44 euro

(Vai a Maggioli Editori)

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18 Febbraio 2009

Interviste

Liticità contemporanee. Intervista a Luigi Alini

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La pubblicazione del libro “Liticità contemporanee. Da Stone Museum a Stone Pavilion” ci ha offerto l’occasione per riflettere sul rapporto tra materia, ricerca della bellezza e dimensione tecnologica del progetto. In questa intervista, Luigi Alini ci spiega come è approdato all’opera di Kengo Kuma, maestro-sognatore che riesce a far “mormorare” la pietra, rivelandone le innate potenzialità espressive, come nel caso dello stand progettato nel 2007 per IL CASONE.

Laura Della Badia. Quello scritto per IL CASONE non è il primo libro che dedica a Kengo Kuma. Come è approdato a questa ricerca?
Luigi Alini. I miei interessi disciplinari sono interni alla dimensione tecnologica del progetto. Le connessioni tra tecnica, tecnologia e progetto sono al centro delle mie attività da molti anni. Mi sono avvicinato all’opera di Kengo Kuma circa 8 anni fa, percepivo nel suo lavoro una dimensione del fare, una ricerca figurativa in cui la materia si rivela. Da quel momento in poi ho cominciato a guardare l’architettura da un altro punto di vista, è stata una rivelazione. La ricerca che ne è seguita è stato un approfondimento progressivo: ho cercato di non rimanere in “superficie”, mi sono spinto in “profondità” per trovare conferma a quelle intuizioni iniziali. E’ un cammino lungo, che non si è ancora esaurito. Continuo ad indirizzare le mie attività, con l’ostinazione e la convinzione che Kuma, parafrasando Bachelard, è “un sognatore che ascolta con attenzione le intime confidenze mormorate dalla materia“. Io cerco solo carpire questo sogno.

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L.D.B. Liticità contemporanee…Da Stone Museum a Stone Pavilion. Questo percorso tracciato nella monografia che cosa ci porta ad esplorare?
L.A. Sono convinto che Kuma abbia la capacità di rivelarci l’infinita bellezza della materia. In questo volume, insieme al prof. Alfonso Acocella, abbiamo proposto un’interpretazione dell’opera di Kuma in relazione all’uso della materia litica, alla capacità con cui Kuma la con-forma, la rivela. Le opere che abbiamo proposto, in realtà, sono un’unica opera. La tensione creativa è sempre la stessa, cambiano solo le condizioni al contorno. Le relazioni tra tradizione ed innovazione, tra il “già stato” e il “non ancora” sono in Kuma una verità che ci viene rivelata solo se guardiamo con ostinazione, solo se entriamo in sintonia con l’opera.

L.D.B. Le potenzialità espressive della pietra vengono indagate attraverso l’opera esemplare di un maestro della contemporaneità. Quali i punti salienti della sua ricerca su questo materiale?
L.A. Devo molto ad Alfonso Acocella. Ho trovato in lui un amico ed un riferimento per molte delle riflessioni che ho sviluppato su questo tema. Sono state oggetto di lunghe conversazioni. Del resto, Acocella, negli ultimi dieci anni, ha svolto un lavoro immane, di avvicinamento, di diffusione, sistematizzazione e promozione. Questo libro dà conto di un’opera che non ci sarebbe stata senza l’intuizione di Acocella e di Alini che lo ha seguito. Devo poi dire che Il Casone ha svolto un lavoro straordinario. Hanno aderito con entusiasmo ad una sfida che il progetto poneva. E’ stato meraviglioso vedere quest’opera nascere e progressivamente vivere di luce propria. Non dimenticherò mai la faccia dei molti amici che hanno visto l’opera il giorno della sua inaugurazione a Marmomacc, il loro viso esprimeva un senso di meraviglia di cui abbiamo tutti gioito.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è difficile indicare delle strade lungo le quali orientare la ricerca in questo settore. Tuttavia, quello che mi sento di dire è che questo materiale ci propone una sfida continua, una sfida che è tutta interna all’opera di architettura, a quei nuclei di significato permanenti che si evolvono in forma di “continuità imperfetta”. E’ la materia che si fa elemento generatore delle forme.

(Vai al sito Casone)

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16 Febbraio 2009

Ri_editazioni

RACCONTI DI PIETRA*
Madre, Abbraccio, Casa, Forza, Silenzio, Rispetto, Bellezza, Architettura, Unicità, Patrimonio non rinnovabile

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Foto Palmalisa Zantedeschi

Unicità
Nel mondo litologico l’Unicità è fattore Assoluto.
Lo è soprattutto per il colore delle pietre, che non si trova nè sopra nè sotto la superficie; il colore ha preso posto nella “cosa” litica, rappresentandone l’Essenza.
Per quanto concerne la pietra non si tratta di rintracciare pasta colorata su una superficie, come avviene invece nella pittura dove il colore partecipa all’astuto inganno della rappresentazione con il ruolo di strato pellicolare ricoprente. Non si ricorre al trucco del colore, quel colore “cosmetico” o “chimico” a cui la civiltà industriale, con il suo ridondante spettacolo delle merci, ci ha abituato; il colore delle pietre è naturale, stabile, profondo, portatore di caratteri, di varietas e di inclusioni; naturale anche nel senso di non sofisticato, di non alterato (e, probabilmente, inalterabile) dalla tecnologia, dalle teorie scientifiche, filosofiche, estetiche e dal linguaggio del progetto.
Jean-Baptiste Colbert, nella seconda metà del Seicento, si impegnò a ricercare – operazione, questa, connessa alle politiche del protezionismo di Stato, che egli fervidamente promuoveva – livelli di qualità di colore nel settore della produzione della tintoria dei tessuti. Il ministro parla esplicitamente di colori che, oltre a essere “belli”, devono risultare “duraturi”:
“Tutte le cose visibili si distinguono e si rendono desiderabili attraverso il colore; non è solo necessario che i colori siano belli… ma bisogna anche che siano buoni, al fine che la loro durata sia uguale alle merci sulle quali sono applicati; la natura ci fa vedere la differenza e deve servirci d’esempio; perchè se essa dà ai fiori che passano in poco tempo un debole colore, non usa lo stesso per le erbe, i metalli e le pietre… dove fornisce la tinta più forte e il colore proporzionato alla durata”.1

Alfonso Acocella

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Note
* Racconti di pietra, testi di Alfonso Acocella e Nicoletta Gemignani, foto di Palmalisa Zantedeschi

1 Jean-Baptiste Colbert, Instruction gènèrale pour la teinture des laines et manufactures de la laine de toutes couleur, et pour la culture des drogues ou ingrediens qu’on y employe, Paris, Muguey, 1671 citato in Manlio Brusantin, Storia dei colore, Torino, Einaudi, 1983, p. 90.

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