20 Settembre 2007
Elementi di Pietra
Le pietre incise
Mi chiamo Raffaello Galiotto, sono un designer e trovo molto interessante questo spazio di discussione sulla pietra.
Recentemente ho sviluppato un progetto in collaborazione con un’azienda per la lavorazione del marmo che ha dato origine ad un nuovo prodotto ed a una nuova realtà: “Le pietre incise” di Lithos Design.
Il progetto consiste nella realizzazione di lastre modulari di pietra a motivi decorativi. La lavorazione è ottenuta tramite un processo automatico industriale di asportazione con macchine a controllo numerico.
Tralasciando l’antico dilemma, ornamento si – ornamento no, e prendendo spunto da questo lavoro vorrei stimolare il dibattito intorno al disegno industriale della pietra.
Provenedo da una consolidata esperienza nel campo delle materie plastiche trovo questo “mondo” un po’ in ritardo nell’utilizzo della tecnologia. A parte alcuni brillanti esempi, noto che i potenti macchinari a disposizione vengono adoperati, nella maggior parte dei casi, per la realizzazione di opere artigianali, più per sostituirsi alla manualità non più competitiva e di difficile reperibilità piuttosto che per la realizzazione di progetti specifici.
Personalmente sono affascinato dall’estrema precisione di queste macchine, con esse infatti si possono ottenere forme mai viste prima, perchè non immaginabili o manualmente non realizzabili.
Per altri versi, trovo il design della pietra, un design di valore più alto, nel senso che ci si rova a lavorare un materiale unico, non ripetibile, che porta con se la storia del pianeta, i luoghi, i colori, del territorio. E’ profondamente diverso lavorare una pietra egizia rispetto ad una romana, è mai possibile che nell’uso comune le pietre siano riconducibili solamente al colore?
Inoltre, ritengo che il design della pietra possa contenere in parte il concetto di originalità, riacquistando un po’ l’aura persa nella riproducibilità tecnica dell’opera.
Distinti saluti
Raffaello Galiotto
Chiampo, 11 settembre 2007
Altre immagini delle pietre incise sono visibili sul sito: www.lithosdesign.com
“Il pudore della pietra”
È fuorviante parlare di design industriale in un settore che conosce solamente piccole-medie realtà produttive.
Il design dei grandi numeri, della riproducibilità su larga scala, non può attingere da una materia prima scarsamente disponibile e di mutevole comportamento.
Il prodotto poi, quand’anche di profonda innovazione e rispondente a bisogni inevasi, non trova sbocchi commerciali attraverso le deboli reti distributive del settore lapideo.
Intendiamoci, trovo comunque molto interessante la ricerca di Galiotto, tecnologicamente rimarcabile, ma non certo esaustiva delle potenzialità ed espressività della pietra.
Le forme sinuose e fluide che proseguono la ricerca già avviata da Perbellini e Pongratz sono l’ennesimo tentativo di decostruire la materia, di forgiarla alla pari di una ceramica o materia plastica, senza però l’evidente economicità di processo.
Dove sta quindi l’innovazione? È forse lo stupore di geometrie escheriane a sedurre?
Quando si parla di valorizzazioni delle diverse essenze litiche, al di là del semplice colore, siamo con le formelle di Galiotto-Lithos Design sulla strada giusta?
Questo blog ha molti sostenitori dell’interazione macchina-creatività e certamente plauderà il lavoro illustratoci, ma la pietra ci chiede di più, ce lo chiede con pacatezza e pudore.
“I materiali, infinitamente manipolabili e componibili, perdono la loro identità culturale profonda. La loro unica immagine possibile, la immagine “sincera” è l’insieme delle infinite immagini che possono essere progettate e proiettate sulla loro superficie. […] Il sistema degli oggetti tende a un continuum di superfici comunicative, la cui identità è quella del messaggio che su di esse viene proiettato o della prestazione che esse producono. Ci si può chiedere se questo appiattirsi degli oggetti sulla loro superficie non costituisca la condanna a un’inevitabile superficialità. […] Oggi che i materiali non hanno più immagini profonde da esibire, che le funzioni più diverse possono essere svolte da componenti elettronici fisicamente uguali (alla scala macroscopica), dietro la superficie non c’è più veramente nulla da vedere. Il nuovo protagonismo delle superfici risponde così alla constatazione oggettiva che su di esse si consuma larga parte dello scambio comunicativo con l’oggetto. D’altra parte, se la profondità della materia sembra scomparire, vi è forse un’altra profondità che può essere ricercata. Una profondità che potrebbe essere paragonata alla profondità di un testo letterario: un libro, in fondo, è un oggetto bidimensionale, e le pagine stampate sono una particolare forma di trattamento superficiale capace di comunicare al lettore sensazioni di grande intensità” (Ezio Manzini, Artefatti, Milano, Domus Academy, 1990, pp. 16/95).
L’adesione incondizionata ai codici della comunicazione visiva che sembra imporsi per questo mondo fatto di pure textures rischia di subordinare le esigenze dell’architettura a quelle delle business consumistico a svuotare di significato la forma architettonica per assegnarle l’unico valore strumentale di contenitore-schermo mediatico: il rischio è rappresentato dall’eccesso di comunicazione, dall’inessenzialità della costruzione, dall’incapacità di trovare una sintassi che sappia veramente comunicare interagendo con le nostre capacità e che non rimanga invece confinata allo stato di mero compiacimento calligrafico di segni ermetici. Forse, tuttavia – come preconizza lo stesso Manzini citato in apertura – proprio attraverso l’accettazione e la valorizzazione di tale processo ambiguo e polivalente, a patto che esso riesca a comunicare in superficie messaggi profondi, passa la concezione di un’architettura sensoriale, capace di parlare alla contemporaneità, di dare una risposta decodificabile e comprensibile alle istanze di un pubblico allargato non rinunciando ad educarne il gusto collettivo.
Le architetture di superfici del terzo millennio, e quindi queste nuove superfici architettoniche di Galiotto, richiedono di modificare i nostri modi di osservare ed interpretare la materia e lo spazio, spostando le caratteristiche del nostro bagaglio di strumenti di lettura e di critica della realtà costruita dal vecchio approccio fondato sull’antinomia natura/artificio, sul legame inscindibile tra forma e funzione, sulla ricerca di una “verità” e di una “liceità” materica e strutturale, ad un versante tutto concettuale e sensoriale, che fa suo un universo creativo sincretico e privo di pregiudizi, andando a toccare gli strati più profondi della nostra reattività intellettuale ed emotiva.
Forse il problema è che non si vuole accettare la pietra per quella che è, con tutte le sue caratteristiche.
Mi spiego, la maggior parte della gente che decide di usare la pietra pretende di avere un materiale naturale con le caratteristiche di uno artificiale. Senza variazioni di colore, senza vene, senza fossili, senza quarzo… senza pietra! Vorrebbe avere magari centinaia di metri quadri di superficie lapidea assolutamente monocroma e omogenea.
E molte volte le aziende tentano di venire incontro a queste richieste contro natura proponendo prodotti che somigliano sempre più alla ceramica o alla plastica, magari con tipi di pietre che si modellano più facilmente e che hanno un aspetto quanto più possibile uniforme. Salvo poi essere poco adatte tecnicamente all’uso a cui sono destinate.
Forse bisognerebbe “educare” il gusto. Far capire che la pietra, il marmo, l’onice è un linguaggio della natura, che si esprime con ricami, disomogeneità, variazioni cromatiche…
La presenza di quarzo su una superficie, ad esempio, determina un’interessante traslucenza del materiale.
Si può modellare, incidere, scavare la pietra, l’importante è conoscerla e rispettarla. Ad esempio si può modellare una superficie nela senso della venature facendo in modo che esse risaltino.
E ci sono lastre a cui non serve fare altro che posizionarle così come sono tanto sono naturalmente espressive.
Io credo bisognerebbe partire dall’abc: conoscere e far conoscere.
Se la pietra è stata per secoli supporto di espressione artistico-culturale, dai basso-rilievi alle statue, dalle incisioni rupestri alle tavolette romane incise, non vedo per quale motivo l’espressività della contemporaneità, guidata dal design, dall’informatica, dall’estetica effimera, non possa impremersi sullo storico materiale lapideo, lasciando un segno del suo passaggio, come avvenne con le passate civiltà.
Detto ciò non significa che io sia d’accordo o meno con un suo utilizzo ma solo che la sperimentazione di “Lithos Design” ci rappresenta. Rappresenta la società della superficialità. Dove la forma è tutto e soprattutto è lucro.
D’altro canto però questa sperimentazione illustra le potenzialità della tecnologia, lasciandoci il complicato compito di deciderne del suo utilizzo: se a supporto di uno scopo costruttivo ed un senso architettonico atto a comunicare un “gesto” o un determinato pensiero, o se sia solamente pretesto per creare semplici geometrie superficiali fini a se stesse.
intanto, consiglerei a Raffaello di provare a rintracciare alcune esperienze simili già fatte a Verona da Pongraz e Pierbellini, ancorchè in una direzione leggermente diversa e poi lo inviterei a fare una visita a Verona per il prossimo Marmomacc dove incontrarci ed, in particolare, incontrare aziende con le quali discutere di eventuali ipotesi di sperimentazioni possibili.
Le tessiture che vedo seguono una tendenza già tracciata dalla lavorazione di pannellature in MDF ed anche da alcune ceramiche alle quali senz’altro sono più proprie, ma l’idea mi sembra di grande interesse, soptrattutto se si riesce a individuare una più forte relazione tra disegno, modalità di incisione e natura dei diversi materiali. Ho quasi la sensazione che ad ogni pietra si possa consegnare una propria tessitura in ragione della propria consistenza e delle proprie caratteristiche, diverse per ogni materiale.
ci vediamo a Verona, un appuntamento potrebbe essere giovedì pomeriggio per l’incontro con le Pietre di Puglia.
Domenico Potenza
Vorrei partecipare alla discussione scaturita dal contributo di Raffaello Galiotto con alcuni spunti riflessivi sui quali ciclicamente ritorno. Il primo è una frase di John Ruskin tratta dalla sua opera “Le Pietre di Venezia” e che è alla base del progetto “La Via della Pietra”. Vorrei riproporla perchè condivido l’idea che ci si debba interrogare sul significato e su ciò che la pietra stessa vuole, o è in grado, di comunicare. Questa riflessione è, a mio modo di vedere, la base per ogni ulteriore sviluppo dei materiali lapidei e del loro utilizzo.
“Dalla maniera con cui sono disposti in ogni blocco di marmo essi [i colori] ci mostrano come questo marmo si è formato e i necessari mutamenti per cui è passato. Ed in tutte le sue vene e le sue macchie sono scritte innumerevoli leggende, tutte vere, sull’antica costituzione del regno delle montagne a cui il blocco appartiene, su tutte le debolezze e forze, convulsioni e consolidamenti dal principio del tempo. E non sarebbe più possibile rimanere fermi davanti alla cornice di una porta senza ricordarsi o domandarsi qualche dettaglio degno di essere tenuto a mente, sulle montagne d’Italia o di Grecia, d’Africa o di Spagna, e così si andrebbe avanti di cognizione in cognizione, fino a che i muri delle nostre case diventerebbero per noi volumi così preziosi come i libri della nostra biblioteca.” (John Ruskin, “Le pietre di Venezia”, Milano, Rizzoli, 1987, p.360).
Inoltre penso che non si dovrebbe dimenticare un’affermazione fatta da Henry Focillon nel suo “Vie des formes”, testo che è stato più volte citato anche all’interno di questo blog, secondo la quale “i materiali comportano un certo destino o, se si vuole, una certa vocazione formale” (Henry Focillon, “Vie des Formes”, Paris, Presses Universitaires Françaises, 2000, p.52). Senza voler scadere nel purismo e ben conscio del fatto che storicamente vi è sempre stata una migrazione di forme nate dalla lavorazione di un certo materiale verso altri materiali, penso che sarebbe comunque necessario, anche nel campo del design, partire dallo studio delle caratteristiche proprie del materiale lapideo al fine di esaltarle attraverso le tecniche di lavorazione, siano esse tradizionali o tecnologicamente avanzate.
Non sono invece d’accordo con l’affermazione iniziale di Raffaello Galiotto sull’inutilità di interrogarsi sul problema dell’ornamento. Inviterei ad accostarsi a questo tema rileggendo il capitolo che porta questo medesimo nome del libro “Hausbau und dergleichen” di Heinrich Tessenow, nel quale l’architetto tedesco ci dà questo semplice consiglio: “Potremo creare l’ornamento soltanto se terremo conto degli elementi necessari e progressivi della vita collettiva o dei fondamenti di ogni buon lavoro artigianale [da intendersi in senso lato quale lavoro di progettazione e realizzazione, quindi anche per l’architettura o il design]” (Heinrich Tessenow, “Osservazioni elementari sul costruire”, Milano, Franco Angeli, 1998, p.122). Dunque se le nuove macchine a controllo numerico sono diventate parte integrante della realtà “artigianale” del settore lapideo, penso che sia giusto e necessario pensare al modo con il quale esse vadano utilizzate e sulla natura formale degli elementi da esse prodotti.
Le soluzioni formali e tecniche potranno sempre essere discusse, ma una questione di fondo riamane, come sottolineato dalla citazione fatta da Davide Turrini, ovvero che sempre più si discute di superfici, più o meno complesse, ma ciò è lecito nel caso della pietra?
“La fenomenologia – afferma Steven Holl, intervistato da Stefano Casciani – è una disciplina che trasferisce l’essenza nell’esperienza. L’architettura è una disciplina fenomenologica, nel senso che l’unica conoscenza effettiva dell’architettura si ha quando il proprio corpo si muove nello spazio. Nel farlo si percepisce il sovrapporsi delle prospettive. Voltando la testa o strizzando un occhio, oppure girando su se stessi, è possibile vedere uno spazio diverso che si rivela, percepire una consistenza differente, una materialità nuova. Ed è davvero questo il modo giusto di percepire l’architettura: non la si può solo vedere illustrata su un libro, si perderebbe la percezione dell’acustica, della luce o dei materiali. La consistenza di un panno di seta, gli angoli affilati dell’acciaio, il gioco di luci e ombre sulla superficie finita con gesso a spruzzo o il rumore di un cucchiaio contro una ciotola di legno: in tutti questi elementi è presente qualcosa di essenziale, che è in grado di stimolare i nostri sensi. L’aspetto haptic (tattile) dell’architettura è definito attraverso il senso del tatto. Quando la materialità degli elementi che formano uno spazio architettonico diventa evidente, allora il “dominio tattile” si rivela. La percezione dei nostri sensi si intensifica: entrano in gioco dimensioni immaginarie. La percezione dell’architettura nella sua interezza dipende dai materiali e dagli elementi dell’Haptic Realm: esattamente nello stesso modo in cui il sapore di un pasto dipende dal gusto dei suoi ingredienti.” (Steven Holl in “Dentro la materia e oltre” allegato di Domus 902, 2007)
Ri-sottolineata – dopo quanto già espresso da Henry Focillon in “Oltre le superfici” – la particolarità e unicità dell’architettura quale arte indirizzata alla creazione di corpi e di spazi cavi resta da non sottovalutare l’orizzonte vasto, il “dominio tattile” ed esperienziale di cui parla Steven Holl legato al mondo delle superfici materiche, alla loro modellazione, al trattamento e sensibilizzazione tattile-visiva.
Questo strato ultimo, non necessariamente epidermico o eterogeneo rispetto alla stratigrafia architettonica, che si pone intorno e di fronte a noi definisce il mondo dell’apparenza o, se si vuole, delle superfici_forme.
Ritengo che ha sempre rappresentato e rappresenterà uno degli elementi fondamentali dell’architettura su cui la disciplina progettuale incessantemente continua ad applicarsi replicando e ri-editando, aggiornando, evolvendo ed innovando come ci testimonia la stessa ricerca di Raffaello Galiotto. Mi sentirei, allora, all’interno della discussione in corso di non assumere atteggiamenti ideologici (pro o contro la superficie, pro o contro l’ornamento) o di veicolare interpretazioni unilaterali rispetto all’essere della pietra che ha alimentato nei secoli sia i modi e le forme della massività strutturale litica (omogenea e non) che quelli delle “superfici ricoprenti” in forme di partiti architettonici sovrapposti a strutture altre.
Riproponendomi di tornare, più avanti, a discutere del tema specifico della “superficie in architettura” e della ricerca di Galiotto in termini di “sensibilizzazione” o se si vuole di “incisione” su lastre litiche (sottili ? quanto sottili ? non è precisato nel suo post) vorrei invece slargare l’orizzonte di interlocuzione rispetto a quanti vorranno ancora intervenire (o ri-intervenire) poichè ritengo che il senso di discussione posto in origine dall’autore del post “Le pietre incise” attraverso il suo testo elettronico (più che delle immagini a documentazione del suo specifico apporto creativo) fosse di natura più generale (o generalizzabile), legandosi all’approfondimento-discussione delle opportunità che offre oggi – alle “nuove forme tecniche” e al “design della pietra” – l’avanzamento tecnologico delle macchine a controllo numerico.
I testi e le immagini elettroniche stanno rivoluzionando la produzione e la ri-distribuzione del sapere; le macchine a controllo numerico che silenziosamente stanno rifluendo verso le sia “pur piccole e medie imprese del settore della pietra ” a cui fa riferimento Damiano Steccanella potranno essere portatrici (se non di una rivoluzione) quantomeno di un forte aggiornamento dello Stile litico così come sedimentatosi e stratificatosi fino ad oggi ?
Ci piacerebbe che esperti e utilizzatori di queste nuove macchine (e pensiamo al già chiamato in causa Christian Pongratz, a Piero Primavori, e quanti altri ancora hanno conoscenze in tale settore) intervenissero nella discussione per affrontare e approfondire l’orizzonte nuovo che sembra orami dischiudersi al “design della pietra” in senso lato.
Un gran merito di queste macchine è di aver riportato l’uso della geometria nei laboratori.
Abbiamo avuto decenni di lavorazioni bidimensionali della pietra: la stereotomia come una disciplina completamente dimenticata dagli opifici e accantonata dagli architetti.
E come la storia ci insegna stiamo assistendo ad una innovazione tecnologica che produce una nuova architettura, in questo caso di pietra.
Non avremmo goduto delle grandi opere di Piano, Kuma o Snohetta senza l’ausilio nei nuovi marchingegni.
Siamo nel caso in cui la macchina ha sostituito la fatica dell’uomo e, nel contempo, ne ha stimolato l’ingegno.
Quando entri oggi nelle marmerie non trovi solamente polvere e rumore, pezzi d’uomo nerboruti e un po’ incazzati; sempre più spesso trovi tecnici competenti e pronti ad assecondare nuove sperimentazioni, che siano di superficie o di forma.
Aziende “giovani” come Lithos design, Marmart e molte altre, che cercano di qualificare e distinguere la propria attività, che imprendono in nuovi campi applicativi della pietra, diventano i testimoni e fautori del generale accrescimento culturale ed economico del settore.
Judit Bellostes : Lithos Design - piedra tallada
[…] + Le piedre incise – lithos design (web del fabricante) + Le piedre incise – architettura di pietra (post comentado por el diseñador Raffaello Galiotto) […]
Le pietre sono un materiale che è possibile lavorare e far diventare qualcosa di unico.
Ovviamente la qualità è la cosa piu ricercata.
20 Settembre 2007, 18:02
Alfonso Acocella
A Raffaello Galiotto il ringraziamento di aver posto con il suo contributo sia problemi di confronto e di discussione che una precisa ed articolata proposta ideativa di “disegno della pietra” giocato fra superficie e profondità, fra “complanarità” e “incisione”.
Mi auguro che i tematismi e le problematicità evidenziate promuovano un confronto di idee e di posizioni fra i membri del Network di Architetturadipietra.