5 Settembre 2005
Recensioni
La recensione di Modulo
Continuità e innovazione
Antonietta Pirovano. Oggi le architetture in pietra naturale sembrano avere un certo riscontro in grandi architetture rappresentative oppure nel molto piccolo, la villa, il cimitero etc.; manca, generalmente parlando, quella dimensione intermedia, il condominio, il centro commerciale, il palazzo uffici, che “fanno” l’ambiente urbano. È vero? Perchè?
Alfonso Acocella. La sua interpretazione mi sembra colga nel segno le tendenze in atto nell’odierna riabilitazione della pietra nell’architettura.
Per tentare di fornire una risposta, pur parziale, all’evidente e specifico indirizzo applicativo della pietra nella costruzione (dove con il termine pietra intendiamo l’insieme delle diverse categorie litologiche: pietre in senso comune, marmi, travertini, brecce, graniti, porfidi ecc.) forse bisogna partire da una riflessione di fondo che investe l’essenza stessa della materia con le sue variegate caratteristiche costitutive, di aspetto, di reperimento, di potenzialità applicative e i valori riconosciuti da una tradizione plurimillenaria all’interno del progetto di architettura.
Nella riproposizione della pietra sembra assistersi alla dualità che a volte oppone, ma a volte integra, “logiche locali” con “logiche globali”. Tale dualità, in qualche modo, è simmetrica alla distanza di scala che separa le “piccole” dalle “grandi” architetture.
L’ancoramento all’uso delle risorse litiche locali (soprattutto dei litotipi più poveri: materiali informi o appena lavorati, arenarie, tufi, ecc.) alimenta frequentemente programmi di edilizia civile (o domestica) di ambiti territoriali specifici (leggi “locali”) i quali, a fronte di una cultura di progetto più attenta e sensibile alle preesistenze e alle caratteristiche ambientali dove si opera con la trasformazione, ritornano alle risorse dei luoghi, ai magisteri costruttivi dell’architettura storica, spesso alla ri-considerazione della costruzione muraria con la sua inclusività, la sua massa che esprime valori di domesticità, di durata, se non di permanenza secolare.
Riaffermano, invece, l’antica prassi alla movimentazione geografica, al traffico commerciale e alla utilizzazione dei litotipi più pregiati e compatti (riducibili in formati significativi sfruttando anche spessori esigui: marmi graniti, travertini ecc.) i programmi realizzativi delle “grandi” architetture pubbliche e civili o legate ad importanti gruppi economici privati che nella pietra riscoprono un valore di rappresentatività, di aulicità, di prestigio, spesso attraverso “vesti” (leggi “involucri sottili”) monomaterici e monocromatici, oppure dotati di varietas colorica e disegnativa che nessun altro materiale – meglio della pietra – nella storia è riuscito mai ad offrire all’ architettura. La “Berlino di pietra” di fine millennio nè è lo scrigno più emblematico di tale tendenza d’uso delle pietre.
A.P. Autori importanti hanno legato quasi in maniera permanente e significativa il loro lavoro a certe tecnologie, citiamo Calatrava per le strutture in acciaio “a scheletro”, Ghery alle forme complesse in titanio, Piano, tra l’altro, ai doppi involucri in laterizio. Lo stesso non si può dire per la pietra naturale. Non c’è nessun grosso autore che abbia legato in maniera continuativa il proprio linguaggio alla pietra naturale. Perchè è un approccio difficile, esiti non graditi ?
A.A. È difficile che un architetto (soprattutto se si è di fronte a grandi architetti, dotati di talento creativo) leghi, per un lungo periodo, la propria ricerca alle valenze tecnologiche e al linguaggio di un unico materiale. Gli stessi progettisti che Lei cita hanno sperimentato le potenzialità di diversi materiali (il calcestruzzo modellato come “sculture osteologiche” per Calatrava; la pietra declinata in grandi monoliti, memori di Stonehenge, nel caso della D G Bank di Ghery a Berlino; l’acciaio, il vetro e il legno strutturale per Piano).
All’interno di questo dialettico e sempre mutevole rapporto alimentato dalla continuità-discontinuità applicativa di materiali e di tecnologie da parte dei grandi protagonisti dell’architettura contemporanea non è difficile rintracciare figure che hanno affidato, con continuità, la loro ricerca architettonica alla pietra una serie significativa di opere indicando – al contempo – anche modi d’uso assai diversi.
A partire da Peter Rice – il grande ingegnere, prematuramente scomparso, che per primo ha riproposto un uso strutturale, fortemente innovativo, della pietra definendo il sistema della “pietra armata” con influenze sulle opere litiche di Michael Hopkins in Gran Bretagna e di Renzo Piano in Italia – vari progettisti di fama hanno riscoperto nella pietra un ruolo significativo che traspare dalla loro ricerca architettonica.
Possiamo citare, per fare qualche esempio, Gilles Perraudin in Francia, quale sperimentatore di una visione di tipo strutturale del materiale all’interno una concezione trilitico-muraria a grandi blocchi montati a secco perfezionata attraverso una serie numerosa di opere, oppure Hans Kollhoff in Germania, il cui approfondimento – lungo un arco di oltre un decennio – si è, invece, indirizzato alla definizione di una personale visione dell’involucro sottile in pietra che superi i limiti della “bidimensionalità” del rivestimento, così tipica nelle realizzazioni in parete ventilata degli ultimi decenni sullo scenario dell’architettura internazionale, soprattutto di influenza americana.
A. P. Lei ha appena terminato un poderoso lavoro sull’architettura in pietra evidenziato in una recente pubblicazione Alla luce di questa fatica, quale futuro per queste architetture di pietra.?
A.A. Un futuro di testimonianza, di monito per i progettisti – soprattutto pensando alle figure in formazione come gli studenti delle scuole di ingegneria e di architettura, i giovani architetti impegnati nella ricerca di una via personale al progetto – invitati, attraverso l’amplissimo repertorio delle immagini fotografiche originali e il corpus di disegni tecnici de L’architettura di pietra, a guardare i materiali, le tecnologie storiche in disponibilità nel nostro Paese come fonte viva di risorsa applicativa e di aggiornamento linguistico per l’architettura dell’oggi.
Attraverso L’architettura di pietra si è materializzata la possibilità di ricostruire il tessuto disperso di frammenti visivi e suggestioni interiori, dando sintesi e racconto ad un viaggio iniziato trent’anni fa. Un viaggio nel cuore della disciplina architettonica sulle orme dello “stile litico”. Un itinerario lungo e discontinuo, fatto di tante tappe, di letture illuminanti, di molteplici visite ad opere e luoghi custodi di atmosfere sublimi mai più dimenticate. Ma solo con il lavoro di scrittura che è arrivata, anche a noi stessi, la visione d’insieme del mondo “specchiato” del nostro intimo strato interiore.
Con la scrittura siamo riusciti a traguardare, a richiamare in superficie le immagini, ricercando le associazioni, i concatenamenti, a volte le opposizioni, capaci di alimentare una struttura narrativa continua e circolare, ma anche fatta di cesure, di momenti salienti, di figure protagoniste, di “picchi” linguistici. Forse restare seduti a scrivere, per lunghi periodi di tempo, davanti alle pagine bianche che “attendono la storia”, è l’unico modo per andare da qualche parte, per dare una direzione ai ricordi, ai valori connessi alla propria esperienza.
E ora, dopo la scrittura dell’opera, mi sembra che il viaggio continui verso il futuro.
Il volume, chiuso in cinque anni di lavoro, continua la sua vita attraverso la condivisione e la discussione dei suoi contenuti. Alle parole e alle immagini di “carta” si sovrappongono quelle del “web”, grazie ad internet e alle sue nuove forme di produzione della comunicazione on line. A questa discussione tutti sono invitati a partecipare.
“Modulo” n. 312, 2005
(Vai a Modulo)