19 Luglio 2005
Pietre dell'identità Ri_editazioni
Stratigrafia parietale (III parte)*
Domus Aurea. Volta della Sala di Achille e Sciro. (foto. A. Acocella)
fg78
Stucco
Il lavoro ornamentale di rifinitura in rilievo (in assenza di partiti decorativi in pietra o marmo policromo) passò, nell’architettura romana, attraverso l’uso dello stucco bianco o colorato.
Sotto il termine di “decorazione a stucco” si iscrivono tutti i trattamenti a rilievo eseguiti sulle superfici (sfruttando la plasmabilità e la duttilità della malta di calce o del gesso) ma anche gli strati sottili di profilatura quali, ad esempio, il lavoro effettuato sulle scanalature delle colonne di tante domus romane, frequentemente erette con materiali di scarsa qualità e di resa estetica al punto da necessitare di una superficie di regolarizzazione e di nobilitazione.
Attraverso la variegata composizione della malta si produssero tipi di stucchi con intonazioni superficiali diversificate:
– stucchi bianchi (destinati a conservare tale aspetto ad imitazione del marmo) ottenuti miscelando la calce con polvere di marmo o di pietre calcaree bianche;
– stucchi colorati con gli stessi pigmenti minerali utilizzati per la pittura ad affresco;
– stucchi smaglianti e risplendenti con sottili ricoprimenti in “foglie d’oro”.
In epoca tardorepubblicana – quando ancora non si erano molto diffusi nè i rivestimenti marmorei in opus sectile nè quelli a mosaico parietale – la tecnica dello stucco rappresentò la forma di decorazione più pregiata, come ancora oggi si può cogliere nelle terme campane le cui superfici voltate degli ambienti principali (quali, ad esempio, il tepidarium delle Terme del Foro di Pompei) erano completamente coperte con composizioni a rilievo.
Non mancano nell’architettura romana esempi di splendide decorazioni a stucco capaci di reggere un confronto con i più sfarzosi rivestimenti marmorei e musivi. Basti citare gli stucchi a rilievo di grandissima intensità figurativa, sia plastica che coloristica, degli ambienti della Domus aurea di Nerone come la volta della Sala di Ettore e Andromaca, quella della Sala di Achille a Skyros e soprattutto la famosissima “Volta dorata” la cui decorazione lussuosa dà conclusione sommitale proprio ad una sala fra le più superbe della reggia neroniana.
Tali volte associano alla intensità coloristica dei campi mediani trattati “in piano” (utilizzando la tecnica dell’affresco, con toni accesi e contrastati di blu, rosso, verde) le riquadrature a rilievo dei cassettoni in stucco “stampato” dalle tinte risplendenti offerte dal loro ricoprimento in “foglie d’oro”.
Opus testaceum “obliterato”. Opus testaceum a vista
“Ciò che colpisce i visitatori di Roma e dell’immediato suburbio è l’immagine di un universo monumentale di mattoni dal quale emerge, qua e là, qualche isolata traccia di travertino o di marmo. Va sottolineato che le più straordinarie realizzazioni dell’architettura imperiale di Roma, specie a partire dall’età neroniana, sono in mattoni.” (3)
La Domus aurea di Nerone, l’interno del Colosseo, il complesso palaziale del Palatino, i Mercati traianei, il Pantheon, il Mausoleo di Adriano, la grande urbanizzazione di Ostia del II secolo, le Terme di Caracalla e di Diocleziano, le mura aureliane ecc. sono solo alcune delle più famose architetture realizzate mediante l’uso estensivo dell’opus testaceum con cortine di mattoni cotti che oggi si impongono allo sguardo della città antica.
Ma questa spettacolare scenografia di rossi mattoni che Roma offre allo spettatore odierno come si sa è, nella maggior parte dei casi, un paesaggio di scheletri, di ossature murarie originariamente rivestite e quindi “obliterate”, sia negli esterni che negli interni delle architetture, mediante crustae marmoree, intonaci, stucchi ecc.
Solo pochi di questi monumentali ruderi, corrosi dal tempo, vennero costruiti espressamente per lasciare a vista i paramenti di laterizio cotto.
La prima grande opera in cui sono state saggiate le potenzialità linguistiche dell’opera laterizia con un uso a vista del materiale è il vasto complesso commerciale dei Mercati traianei, commissionato direttamente dall’imperatore Traiano al grande architetto Apollodoro di Damasco in avvio del II secolo dopo Cristo.
Lungo il secondo ordine dell’emiciclo della grande esedra, che seguiva l’inviluppo esterno del Foro voluto dallo stesso Traiano, è disposta in successione ritmica ed unitaria una lunga teoria di aperture sormontate da archi con partiti architettonici in mattoni rossi messi a contrasto con cornici, portali e capitelli in travertino. La precisione dell’apparecchiatura muraria, insieme all’assenza sia di buche pontaie che di fori per l’alloggiamento di grappe metalliche sorreggenti rivestimenti marmorei, non lascia dubbi circa l’uso consapevole a vista del paramento in mattoni.
A partire dalla metà del II sec. d. C. (e fino alla fase tardoimperiale) si moltiplicano le applicazioni dell’opus testaceum con mattoni in forma di rivestimento decorativo che sfruttano frequentemente il gioco della policromia dei laterizi, dipendenti dal tipo di argilla usata e dalla temperatura di cottura. Inoltre è da questa età che si iniziano a saggiare – più di quanto non fosse avvenuto nei Mercati traianei – le potenzialità di un materiale docile ad essere plasmato nelle più varie configurazioni di modellazione plastica come si legge, ad esempio, nei numerosi portali ostiensi (con colonne, timpani e cornici sagomate) posati in aggetto, fuori dal piano complanare del paramento laterizio.
Tale nuovo uso del materiale porterà ben presto a comporre intere facciate in cui i colori caldi e terrosi dei laterizi si accompagneranno all’uso di modanature ottenute dallo stesso materiale evitando il ricorso al rivestimento con intonaco, con stucco, con marmi ecc. ed aggiungendo, altresì, una ulteriore tipologia al già ampio repertorio disponibile di rivestimenti.
A Roma fra le opere superstiti possiamo citare le piccole terme di Villa Adriana, il Sepolcro di Annia Regilla e numerose altre edicole funerarie fuori delle porte urbiche; ad Ostia l’Insula del Larario, l’Horrea Epagathiana e, anche qui, numerose tombe nell’Isola Sacra.
La particolarità dell’opus testaceum non obliterato è nel dar vita ad un rivestimento che lascia a vista – così come era già avvenuto per l’opus incertum (Santuario della Fortuna primigenia di Palestrina, Tempio di Giove Anxur a Terracina) o per l’opus reticulatum – la cortina muraria di contenimento dell’opus caementicium; quindi uno strato di finitura a forte spessore, autoportante, strettamente partecipe della costituzione dell’ossatura muraria. Tale condizione ha fatto si che – rispetto alle sottili crustae divelte e riutilizzate nei secoli successivi alla decadenza dell’impero romano, agli stucchi mangiati dal tempo, alle pitture conservate solo se protette da fenomeni di interramento delle strutture architettoniche – tale rivestimento risultasse eterno come ci rammentano le parole poetiche fatte proferire da Adriano, imperatore ed architetto “dilettante”, da Marguerite Yourcenar:
“A Roma, ho adottato, di preferenza, il mattone eterno, che assai lentamente torna alla terra donde deriva, e il cui cedimento impercettibile avviene in tal guisa che l’edificio resta una mole, anche quando ha cessato d’essere una fortezza, un circo, una tomba.” (4)
Villa Adriana a Tivoli. Le grandi terme. (foto. A. Acocella)
Attualità dell’Antico
Rispetto all’antico e ai suoi archetipi vorremmo intrattenere – come i grandi architetti di ogni epoca ci hanno sempre insegnato – una relazione attiva e critica che, spingendosi oltre il puro atto contemplativo, permetta di coglierne la sua sempre latente attualità.
Acquista valore, in questa riflessione teorica, ritrovare le anticipazioni significative, interrogarsi e confrontarsi con la qualità e la raffinatezza espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto, delineare la “profondità” del presente attraverso ciò che lo ha reso possibile.
D’altronde l’archetipo assume un’importanza evocativa, richiama l’essenza originaria della costruzione, della forma.
In questa direzione di lavoro l’archeologia più che disciplina gnoseologica o letteraria può diventare una fonte inesauribile di insegnamenti per il progetto contemporaneo, aiutandoci a “trovare al di là di ogni nascita, il determinarsi di una “fondazione originaria”, il delinearsi di un orizzonte che non si esaurisce, nè si compie mai.” (5)
Il principio del rivestimento dei corpi architettonici, dove il sistema strutturale, retrocede in secondo piano rispetto alla forma di un involucro indipendente fatto avanzare in “prima linea”, è oggigiorno di nuovo al centro del progetto architettonico.
Il lavoro progettuale dei contemporanei ci appare come un lavoro sempre più di tipo “stratigrafico” in forte analogia concettuale con il quadro dei modi sinora da noi delineato, dove comunque alle strutture continue di tipo murario si sono aggiunte le strutture a telaio in acciaio o in calcestruzzo armato con i loro aggiornati dispositivi di ancoraggio “a secco” fra la discontinuità strutturale del sistema portante e la continuità dello strato involucrante esterno.
Il tema del rivestimento lapideo o marmoreo, quello ancora più recente ed attualissimo della parete ventilata e degli involucri in cotto discostati dal supporto murario sottostante, la riproposizione del processo di “smaterializzazione tettonica” (con forti analogie rispetto a quanto si è illustrato in apertura di questo saggio), gli stessi sistemi di ancoraggio a mezzo di elementi metallici ci appaiono, più che invenzioni peculiari del nostro tempo, reinterpretazioni di temi antichi.
In questo senso si spiega il nostro atteggiamento, in nostro interesse, per i “cominciamenti” che tendono a saldare, a dare una profondità ma anche un argine al dilagante “spaccio di cose nuove”, di “presunte innovazioni”.
Louis Kahn, circa mezzo secolo fa, dopo tre mesi di visite e riflessioni teoriche sul corpo antico di Roma, che tra l’altro segneranno tutta la sua fase architettonica matura nel segno di una “modernizzazione” del paesaggio dei ruderi, ci ha lasciato parole degne di riflessione per tutti noi architetti:
“Ho capito che l’architettura italiana continuerà ad essere la fonte d’ispirazione per il futuro. Chi la pensa diversamente dovrebbe riflettere ancora. L’esito dei nostri lavori sembra insignificante se comparato a questa città dove sono state sperimentate tutte le possibili combinazioni di forme pure.
Ciò che si rende necessario è capire come l’architettura italiana si relazioni al nostro sapere costruttivo e ai nostri bisogni.” (6)
Alfonso Acocella
*Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(3) Jean Pierre Adam, L’arte di costruire presso i romani, Milano, Longanesi, 1988 (1° 1984)
(4) Marguerite Jourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988 (1° 1951)
(5) Carlo Truppi, Continuità e mutamento, Milano, Fanco Angeli, 1994.
(6) Louis Kahn in Vincent Scully, “Una lezione su Louis I. Kahn” (a cura di Isotta Cortesi), Area n. 39, 1988.