24 Luglio 2014
Pietre Artificiali
Anfore e tubuli fittili per volte
Anfore raccolte nei magazzini di Pompei presso il Foro. (foto Alfonso Acocella)
Le strutture voltate in opus caementicium, com’è noto, costituiscono uno dei tratti distintivi ed originali dell’architettura romana. Alla progressiva ricerca di grandiosità dimensionale e di resistenza strutturale delle volte corrispondono – nei secoli – tentativi, soluzioni ed artifici di alleggerimento delle grandi masse di calcestruzzo impiegate al fine di ridurre le spinte agenti sui piedritti.
Famoso è il caso della grandiosa cupola del Pantheon la cui struttura alterna una composizione di materiali più leggeri man mano che si sale verso l’oculo zenitale. Lo stesso avviene – per fare altri esempi illustri – nelle Terme di Baia o nelle Terme di Caracalla dove, in quest’ultima, è possibile individuare nella semi cupola dell’esedra – dal basso verso l’alto – i diversi materiali utilizzati: mattoni, tufo, pietra vulcanica.
Villa delle Vignacce (130 d. C.) a Roma. Sala Rotonda con volta alleggerita a mezzo di olle. Disegno da LUGLI (1957). (foto Alfonso Acocella)
Un secondo metodo praticato dai romani per alleggerire il peso delle volte – sia pur in modo molto parziale – è quello dell’inserimento di anfore laterizie all’interno del getto in opus caementicium; in genere si è trattato di olle utilizzate per il trasporto di olio o pesce, il cui reimpiego negli scambi commerciali risulta alquanto problematico.
Le anfore, di varia dimensione e morfologia, in genere, sono collocate, singolarmente o innestate l’una nell’altra a configurare file continue, nei rinfianchi superiori delle volte e delle cupole.
Uno dei primi esempi si ritrova nella volta a crociera dei Magazzini traianei (126 d. C. circa) a Ostia; poi è possibile citare la Villa della Vignaccia (130 d. C. circa) e il Mausoleo di Sant’Elena (326-330 d. C. circa) a Roma, meglio conosciuto come Tor Pignattara proprio per l’affiorare a vista delle olle inglobate nella massa cementizia.
Dai casi citati – dove le anfore sono posizionate alle reni, con il conseguente indebolimento della struttura voltata proprio nel settore che necessita di maggiore massa e resistenza – si passa, nel tempio di Minerva Medica a Roma della prima metà del IV sec. d. C, all’impiego più appropriato delle olle laterizie, collocate al di sopra della linea delle aperture ed annegate in una malta di cemento alleggerita, ulteriormente, con pietra pomice.
Mausoleo di Sant’Elena (326-330 d. C.). Ipotesi ricostruttiva dell’alzato della rotonda, vedute dell’edificio recentemente restaurato e disegno delle rovine di Giovanni Battista Piranesi (1756). (foto Alfonso Acocella)
Erroneamente alcuni studiosi hanno assimilato il tentativo di alleggerimento delle volte attraverso le anfore con quello effettuato a mezzo di tubuli fittili.
Se la soluzione che vede l’adozione delle olle è indirizzata unicamente all’alleggerimento del del peso dell’opus caementicium, l’impiego di tubuli fittili – specificatamente prodotti allo scopo – introduce un modo costruttivo inedito e di forte valenza innovativa. Una tecnica che si sviluppa e si diffonde (contemporaneamente alla pratica di alleggerimento delle volte a mezzo delle anfore) a partire dal II sec. d. C. nelle provincie romane dell’Africa settentrionale condizionate dalla forte carenza di legname; materiale – come sappiamo – fondamentale per la realizzazione delle centinature da intendersi quali opere provvisionali ma indispensabili per conferire forma al getto amorfo dell’opus caementicium lungo la sua fase di indurimento.
A fronte dei tentativi e modi costruttivi rilevabili in ambito specificamente romano per la riduzione di legname nelle complesse opere provvisionali di centinatura con un uso integrativo di mattoni e tegole laterizie – com’è attestato, per fare qualche esempio, nelle Grandi terme di Villa Adriana (118-125 d. C.) o nelle Terme di Caracalla (212-217 d. C.) – la tecnica costruttiva dei tubuli fittili punta ad eliminare completamente le centine lignee realizzando direttamente ed ingegnosamente delle superfici voltate laterizie autoportanti.
Centina lignea integrata da mattoni laterizi. Da CHOISY (1873).
Sono le provincie nordafricane a sviluppare, sin dal II sec. d. C., l’uso dei tubuli fittili. Nell’Africa romana, dove scarseggia del tutto il legno, la necessità di coprire gli spazi dell’architettura pubblica e privata fa ricorso unicamente alle risorse del luogo e la costruzione di superfici voltate (che qui diventano sottili, leggere, autoportanti) viene affrontata e risolta a mezzo di elementari artefatti in laterizio, rendendo del tutto superflua ogni tipo di centinatura lignea per il getto dell’opus caementicium.
Tale tecnica esecutiva si diffonde, poi, in Italia – e, più in generale, in Europa – nel corso del III sec. d. C. attraverso i trasferimenti e i commerci marittimi; numerosi sono i relitti navali provenienti dall’Africa romana rinvenuti grazie alla ricerca archeologica subacquea vicino alle coste italiane, francesi, spagnole che hanno restituito varie serie di tubi fittili appartenenti al loro carico commerciale trasportato.
Le Grandi terme di Villa Adriana (118-138 d. C.) a Tivoli. Vedute della volta centrale con mattoni sia annegati nella massa del calcestruzzo, sia posti a costituire l’intradosso per il getto dell’opus caementicium. (foto Alfonso Acocella)
Alla base della nuova tecnica esecutiva vi è l’invenzione di un elemento modulare cavo in terracotta di piccole dimensioni, estremamente maneggevole, la cui forma – rimasta pressoché invariata nei secoli – è assimilabile a quella di un piccola bottiglia priva di fondo. Un artefatto non molto dissimile, nella concezione, dagli elementi in laterizio già in uso da secoli nella civiltà ellenistica-romana impiegati sia per la formazione di condutture idriche, sia per la realizzazione dei sistemi di riscaldamento nelle terme, sia per la costruzione delle volte di forni.
I tubuli fittili utilizzati in Africa variano di poco – in forma e dimensioni – nei diversi contesti geografici di diffusione come pure lungo tutta l’evoluzione storica che si prolunga fino all’epoca tardo antica e paleocristiana (IV-VI sec. d. C) quando volte, cupole e semi cupole, saranno realizzate unicamente in tubi fittili senza più impiego dell’opus caementicium come avviene – ad esempio – negli edifici di culto di Ravenna.
Ipotesi ricostruttiva della volta composita del Santo Stefano Rotondo a Roma. Da STORZ (1997).
Variazioni morfologiche minime dei tubuli attengono alla forma e alla lunghezza della terminazione a punta. Il diametro del cilindro di base oscilla – nelle attestazioni africane rinvenute e classificate – fra i 5 e gli 8 cm, mentre la lunghezza complessiva dei tubuli è compresa fra i 13 e i 22 cm.
Se il diametro del cilindro fittile è collegato alla prensibilità e alla manegevolezza degli elementi per le operazioni di posa in opera, la lunghezza (sempre contenuta) è legata alle implicazioni delle curvature degli archi.
Chiusura in chiave di un arco in tubi fittili.Da STORZ (1997).
La configurazione cava dei tubuli con terminazione a collo di bottiglia consente loro di innestarsi l’uno nell’altro; la connessione, che funziona come una cerniera, permette di assecondare e realizzare qualsiasi curva di arco (e, conseguentemente, di volta). La malta di gesso a rapida presa, comunemente utilizzata in questa tecnica costruttiva, assicura – efficacemente – il fissaggio, in posizione stabile e definitiva, sia dei vari tubuli all’interno di un singolo filare arcuato, sia degli archi contigui mediante l’applicazione di uno strato di malta sulle superfici d’estradosso.
A Sebastian Storz e Albéric Oliver si devono recenti e puntuali apporti conoscitivi sulla tecnica d’impiego dei tubi fittili nelle architetture dell’Africa romana. Le ricerche teorico-speculative degli studiosi sono state integrate da sperimentazioni pratico-applicative che hanno consentito sia di simulare al vero il processo produttivo dei tubuli, sia di realizzare prototipi di volte nelle varie tipologie e configurazioni morfologiche, al fine di validare le ipotesi della costruzione senza centine di queste particolarissime e innovative strutture arcuate.
Tubuli cilindrici a siringa (V-VI sec. d. C.) per la costruzione di volte di forni rinvenuti nella Lottizzazione Spina. Museo storico archeologico di Santarcangelo. Disegni da STOPPIONI (1993). (foto Alfonso Acocella)
Nella costruzione dei singoli archi si procede, con una partenza simultanea, dai due estremi dell’arco, proseguendo poi verso l’alto fino al segmento di chiave che è risolto a mezzo di un elemento cilindrico (privo, cioè, di beccuccio) capace di accogliere gli ultimi due tubuli a punta – provenienti, rispettivamente, da sinistra e da destra – e di chiudere, così, definitivamente l’arco.
La malta di gesso, nei nodi fra tubulo e tubulo, fissa gli elementi di laterizio nella posizione di curvatura loro assegnata fino all’elemento di chiave, rendendo superflui ogni centinatura lignea, ogni tipo di sostegno. Durante le fasi realizzative la malta è posata anche sull’estradosso degli archi contigui al fine di assicurare la stabilità laterale della struttura.
Per consentire un’efficace adesione con la malta i tubuli, esternamente, sono modellati mediante incavi circolari ottenuti attraverso la pressione del pollice della mano durante la loro stessa formatura o, in altri casi, mediante incisioni in forma di piccoli solchi praticati con la stecca del vasaio.
Tubuli ovoidali d’età imperiale per la costruzione di volte di forni emersi dallo scavo della Fornace di S. Ermete. Museo storico archeologico di Santarcangelo. (foto Alfonso Acocella)
Nelle provincie romane dell’Africa settentrionale la materia prima – ovvero l’argilla – necessaria a sviluppare tale tecnica è largamente disponibile per una produzione in serie, economica e veloce, dei tubuli effettuata da artigiani con il solo aiuto di un tornio rotante, strumento comune della bottega di ogni vasaio.
Interessante la riattivazione, da parte di Sebastian Storz, del processo produttivo dei tubuli all’interno dei cantieri sperimentali che ha permesso di dimostrare come la loro modellazione sia potuta avvenire, realisticamente, attraverso un’unica ed unitaria fase di lavorazione, differentemente da quanto sostenuto sino a qualche decennio fa da Ermanno A. Arslan che ha avanzato, nei suoi pur meritori contributi filologici ed antiquari, la tesi di una fabbricazione separata del corpo cilindrico rispetto alla terminazione a “collo di bottiglia” con una unione effettuata in un secondo momento.13
Terme ellenistiche di Morgantina (III sec. a. C.). Sezione costruttiva e assonometria schematica degli spazi voltati realizzati con tubuli fittili.
«In realtà – afferma Sebastian Storz – il tubo fittile rappresenta una delle forme più facili da realizzare per un ceramista. Si tratta di un semplice cilindro da fornire di un beccuccio (gola). Il ceramista comincia la produzione mettendo una porzione di argilla nel centro del tornio in movimento. Grazie alla sua esperienza, il cilindro, che è la forma più semplice, nasce fra le sue mani in un attimo. Quando il cilindro è arrivato all’altezza voluta, il ceramista preme la parte superiore con le dita creando, con questa leggera pressione, il beccuccio. Il tubo fittile è pronto: non c’è nessuna necessità di produrre il cilindro e la gola separatamente. Il tubo, successivamente, viene tolto dal tornio e messo in uno scaffale in posizione orizzontale per permettere l’evaporazione dell’umidità e giungere alla consistenza giusta dell’argilla per la cottura. Quando arriva nello scaffale, il tubo è ancora molto umido ed essendo ancora morbido, può cedere, con il risultato che il suo diametro, originariamente circolare, subisce una deformazione leggermente ellittica e la gola s’inclina un po’ verso il basso rispetto all’asse principale del cilindro. La cottura avviene a una temperatura da 800 a 900 gradi circa».14
Simulazione del procedimento di fabbricazione dei tubuli fittili a punta. Da STORZ (1997).
Una riflessione finale s’impone. Se la grande diffusione delle volte sottili con tubuli fittili nelle province dell’Africa è ampiamente accertata lungo il II sec. d. C., non ancora del tutto chiarito è il problema delle origini.
A Morgantina, in Sicilia, già verso la metà del III sec. a. C. – con un’anticipazione, quindi, di almeno tre secoli rispetto all’esperienza africana – in un edificio termale ellenistico le volte a botte di due vasti ambienti a pianta rettangolare e la stessa cupola di un ambiente circolare sono realizzate con tubuli cavi a terminazione conica di apprezzabili dimensioni (66-72 cm di lunghezza, 16-17 cm di diametro, 4,5-12, 99 kg di peso).
Un ulteriore contesto edilizio in cui è stata rinvenuta un’anticipazione (o, quantomeno, una contestualità cronologica) d’impiego di piccole olle e tubi fittili è quello inerente la costruzione di volte – sia pur di più modeste dimensioni – all’interno dei forni di ceramisti e di panifici d’età imperiale in Cisalpina.
Stretta dipendenza dagli esempi africani sono, invece, una serie di ritrovamenti siciliani – a Marsala, Piazza Armerina, a Riuzzo di Priolo, a Siracusa – citati da Ermanno A. Arslan ed attestati cronologicamente fra il III e il VII sec. d. C.; così come tutta più tarda sarà la diffusione nell’area padana – e in particolare a Ravenna – di volte sottili in tubuli fittili senza impiego, in questi casi, di opus caementicium per il completamento delle volte.15
Battistero Neoniano. Visione del mosaico della cupola, rilievi-reperti di fasi storiche di restauro e sezione della cupola a doppio filare in tubi fittili. (foto Alfonso Acocella)
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Note
13 Ermanno A. Arslan, “Osservazioni sull’impiego e la diffusione delle volte sottili in tubi fittili”, Bollettino d’Arte, 1965, I-II, pp. 45-52; Ermanno A. Arslan, “Il significato spaziale delle volte sottili romane e paleocristiane”, pp. 185-193 in Mesopotamia II, Torino, Giappichelli Editore, 1967.
14 Sebastian Storz, “La tecnica edilizia romana e paleocristiana delle volte e cupole a tubi fittili”, p. 28 (il saggio alle pp. 23-41) in Claudia Conforti (a cura di), Lo specchio del cielo, Milano, Electa, 1997, pp. 309.
15 Ermanno A. Arslan, “Osservazioni sull’impiego e la diffusione delle volte sottili in tubi fittili”, Bollettino d’Arte, 1965, I-II, pp. 45-52.
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