9 Giugno 2014
Pietre Artificiali
Mattoni quadrati di Roma
Mattoni con solchi diagonali praticati prima della cottura. Foro di Scolacium. (ph. A. Acocella)
Per la produzione romana di età imperiale dei mattoni cotti il modello di origine – più che i formati di tradizione ellenistica dal forte spessore e notevole peso – sarà costituito, come già evidenziato, dalle tegole piatte di ampie superfici. Con pezzi di tegole si realizzeranno le prime cortine murarie che evolveranno più tardi, in forme mature, verso il sistema costruttivo dell’opus testaceum.
Le tegole piane con risvolti laterali, insieme ai coppi, rappresentano – al pari di altre civiltà mediterranee – anche per i romani i più antichi prodotti di argilla cotta usati nelle fabbriche edilizie. Da questi elementi, con una certa originalità di trasferimento applicativo, gli ingegneri e i costruttori di Roma ne derivano il mattone cotto che renderà grandiosa e spettacolare sotto il profilo spaziale l’architettura imperiale.
Abaco dei mattoni quadrati d’epoca imperiale. Da ADAM (1988).
I romani, a partire dal principato di Augusto, usano nelle loro costruzioni mattoni cotti di configurazione quadrata le cui dimensioni sono multipli – o sottomultipli – del piede (il pes, di 29,6 cm) da cui ne scaturiscono le loro stesse denominazioni:
– bipedales: 59,2 x59,2 cm (2 piedi di lato);
– sesquipedales: 44,4 x 44,4 cm (1,5 piedi di lato);
– bessales: 19,7×19,7 cm (2/3 piedi di lato);
– pedales 29,6×29,6 cm (1 piede di lato) più raramente usato.
Lo spessore oscilla, generalmente, fra i 3,5 e i 4,5 cm vista la sua derivazione dalla tegola piana; spessori maggiori contrassegnano, invece, come già evidenziato, le produzioni della Cispalpina.
Generalmente i bessales, e frequentemente i sesquipedales, sono tagliati lungo le diagonali in elementi triangolari per poi essere impiegati nella formazione delle cortine in opus testaceum, mentre i bipedales, di produzione più impegnativa, sono utilizzati interi più raramente nei muri o dimezzati in due rettangoli. L’operazione della riduzione dei mattoni in sottomultipli è effettuata mediante l’uso di arnesi metallici, quali la sega o la martellina, che consentono di ottenere linee e superfici di rottura sostanzialmente regolari.
Mattoni d’epoca imperiale e loro riduzioni in elementi triangolari. Da LUGLI (1957).
La consuetudine di fabbricare mattoni quadrati per poi usarli prevalentemente in sottomultipli, ottenuti “a rottura” con lente operazioni manuali in cantiere, può apparire come un’incongruenza, che – a ben riflettere – è solo apparente. Tale procedimento è giustificato da molteplici vantaggi sia di tipo produttivo (il quadrato, in virtù dell’equivalenza dei lati, comporta minori deformazioni in fase di essiccazione e di cottura dei prodotti laterizi), sia di tipo logistico (legati al più facile trasporto e al più razionale immagazzinamento in fornace e in cantiere), sia di tipo costruttivo (per specifica funzionalità applicativa nell’opus testaceum e maggiore presa con la malta nella fase di posa in opera).
Inoltre gli scarti, i piccoli frammenti, la stessa polvere di laterizio risultanti dalle operazioni di taglio dei mattoni quadrati sono impiegati, con grande genialità, sia nelle realizzazioni pavimentali in cocciopesto (il famoso opus signinum) che nella composizione di intonaci idraulici o anche mescolati come materiale inerte nella calce o nel conglomerato a base di pozzolana.
Confronto fra mattoni segati (i tre in alto) e mattoni trattati con la martellina (i tre in basso). Da LUGLI (1957).
Teatro di Taormina. Gradini realizzati con mattoni solcati diagonalmente. Da LUGLI (1957).
«Lo scopo per cui i romani costruivano soltanto mattoni quadrati – scrive Giuseppe Lugli – era triplice. Primo: procedere alla forma e alla cottura solo di alcuni tipi, in modo da evitare il lavoro minuto di tanti piccoli stampi separati; secondo: avere in fabbrica un materiale di dimensioni uniformi che poteva essere adattato a tutti gli scopi; terzo: il mattone spezzato in modo irregolare nella parte interna, che andava a contatto con l’opera cementizia, forniva una presa molto maggiore con questa, che non il mattone a lati retti e lisci. Per questo motivo il laterizio fratto, con bordi rustici, fu preferito a quello triangolare, con i margini arrotati, nella maggior parte dell’età imperiale».11
L’impiego dei mattoni interi è limitato ad applicazioni particolari; oltre che nei ricorsi di legamento a tutto spessore delle murature viene comunemente adottato nelle architravature delle piattabande, nelle ghiere degli archi, nelle costolature delle volte, nelle pavimentazioni, nelle suspensurae ecc.
Il Palatino visto dal Circo Massimo. (ph. A. Acocella)
In forme fratte il mattone romano è adottato soprattutto nelle cortine dell’opus testaceum.
I sottomultipli più ricorrenti ottenuti dalle operazioni di taglio sono:
– per i bessales, 2 elementi (19,7×19,7×20 cm) o 4 elementi triangolari (14x14x19,7 cm) ;
– per i sesquipedales, 4 elementi quadrati (22,2×22,2 cm) o 8 elementi triangolari (22,2×22,2x 31,4 cm) ;
– per i bipedales, 9 elementi quadrati (19,7×19,7) o 18 elementi triangolari (19,7×19,7×27,8 cm).
In epoca imperiale i mattoni quadrati più comunemente destinati al taglio lungo le diagonali sono i bessali, meno frequentemente i sesquipedali e ancor più raramente i bipedali; questi ultimi (che risultano, fra tutti, i formati più costosi a causa dell’impegnativa produzione e soprattutto cottura) saranno impiegati interi per la formazione di ricorsi che attraversano tutto lo spessore murario o, in altri casi, ridotti in due rettangoli e utilizzati per la costruzione delle ghiere degli archi e delle volte.
I piccoli elementi di forma triangolare (semilateres), funzionali alla realizzazione delle cortine dell’opus testaceum, sono ottenuti, in genere, attraverso tre diversi sistemi di taglio.
Il Palatino. Visioni dello Stadio di Domiziano in opus testaceum. (ph. A. Acocella)
Il primo procedimento – molto empirico e veloce, eseguito in cantiere tramite l’ausilio di una picozza – implica un’incisione in forma di solco profondo 2-3 millimetri, che congiunge diagonalmente due angoli dell’elemento laterizio; posto, poi, il mattone su un ciglio di pietra in corrispondenza del solco si asseta un colpo secco a mezzo di un utensile pesante in modo da dividerlo, quasi sempre con successo, in due elementi triangolari.
Il lato lungo del triangolo destinato a rimanere in facciata, risultando quasi sempre irregolare a seguito dello spacco, viene in genere rifinito con la martellina tenendo per mano, in verticale, l’elemento stesso.
In alcuni siti (Teatro di Taormina, Teatro di Carsulae, Foro di Scolacium ecc.) sono venuti alla luce grandi mattoni quadrati con solchi diagonali incisi prima della cottura dei laterizi al fine di facilitare le eventuali operazioni di riduzione dimensionale degli elementi stessi.
In alcuni mattoni l’incisione d’invito al taglio non risulta tracciata esattamente secondo la diagonale da spigolo a spigolo (ovvero suddividendo gli angoli retti in due da 45°) bensì registra uno scostamento dai vertici in modo da conferire ad ogni triangolo una configurazione vagamente trapezoidale. Ciò consente, molto realisticamente, di evitare rotture non controllabili negli angoli.
Il Palatino. Disegno assonometrico della Domus Augustana.
Nell’era imperiale che va da Domiziano ad Adriano al metodo del taglio ad urto si affianca quello della segagione, in particolar modo applicato ai mattoni bessali; procedimento sicuramente più oneroso sotto il profilo esecutivo ma più accurato e preciso negli esiti finali.
Giuseppe Lugli descrive accuratamente gli strumenti, la metodica, i tempi di segagione avvalendosi di verifiche, tramite simulazioni al vero, effettuate insieme ad Italo Gismondi:
«Entro un cavalletto ligneo in forma di croce di S. Andrea si collocano per coltello, in diagonale, 20-30 mattoni, stringendoli con la morsa; quindi si segano come se fosse un blocco di marmo, facilitando il taglio con acqua e sabbia. Con questo metodo si riduce al minimo lo strappo angolare, si ottiene una parete di facciata già levigata, che si rifinisce facilmente sfregandola su di una pietra dura con sabbia granulosa; si compie così da una sola operazione, in luogo di 15 o 20 singole. Tale lavoro, però, richiede tempo maggiore, perché un esperimento fatto in Ostia nel dicembre 1953, d’accordo con l’arch. I. Gismondi, ha dimostrato che per segare tre pezzi occorre un tempo quasi doppio di quello necessario per spezzarli e scalpellarli. Va tenuto tuttavia presente che nell’età romana un lavoro fatto in seri e da maestranze attrezzate, risultava assai più celere».12
Una terza modalità per ottenere laterizi utilizzabili nella realizzazione di cortine in opus testaceum ha visto operare empiricamente le maestranze attraverso la riduzione grossolana di qualsiasi laterizio a facce piane (tegole di ogni genere, lastre, mattoni) al fine di pervenire ad elementi, con misure assai differenti fra loro, dalla configurazione vagamente triangolare o trapezia con un solo lato rettificato e complanare, da lasciare nella superficie esterna del muro, e i restanti irregolari destinati a far presa con l’opus caementicium.
Il Palatino. Visioni dello Stadio di Domiziano in opus testaceum. (ph. A. Acocella)
Spesso l’eterogena origine e tipologia dei manufatti di partenza, insieme alla diversità dimensionale, comporta la discontinuità di spessore e colore nei vari ricorsi laterizi delle murature in opus testaceum. È questo il caso di tante cortine murarie, soprattutto dell’edilizia corrente, che è dato ancora rilevare in numerose rovine architettoniche di età imperiale.
Qualsiasi sia il metodo adottato per il taglio dei mattoni al fine di ricondurli al formato triangolare, corrisponde sempre in cantiere la produzione di molti residui (spezzoni, schegge, granuli, polveri di cotto); tale ingente massa di scarti, comunque, non costituirà mai materiale di spreco in quanto sarà sempre utilizzato nel nucleo interno del getto cementizio o nella realizzazione di sottofondi, intonaci, pavimentazioni di cocciopesto.
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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.
11 Giuseppe Lugli, “Tipi e forme di mattoni”, p. 542 in La tecnica edilizia romana, Roma, G. Bardi, Editore, 1957 (1998 ristampa anastatica), pp. 742.
12 Giuseppe Lugli, “Tipi e forme di mattoni”, p. 546 in La tecnica edilizia romana, Roma, G. Bardi, Editore, 1957 (1998 ristampa anastatica), pp. 742.
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