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24 Marzo 2014

Opere di Architettura

Riqualificare innovando la tradizione.
Il progetto di recupero urbano dell’orto dei Minori Conventuali a Sora (FR)


Il sistema integrato muro–percorso–edificio come nuovo limite dell’ambito urbano

Il progetto di recupero dell’orto dell’ex Convento dei Minori a Sora, opera del gruppo MCM (Mario Morganti, Gianfranco Cautilli e Renato Morganti), intende riqualificare uno spazio urbano reinterpretando il significato di un luogo ed i mezzi della sua rivelazione: l’intervento restituisce alla città uno spazio pubblico, ricucendo il contesto urbano al paesaggio naturale, attraverso la rilettura di un materiale antico come la pietra, che si rigenera per mezzo del dettaglio costruttivo, rinnovandosi e rinnovando.
Collocato ai piedi del colle San Casto e Cassio, l’orto si concludeva con terrazzamenti delimitati da muri in pietra a secco, antefatto antropico dei numerosi sentieri che salgono verso la Rocca: un colle la cui morfologia ha condizionato il margine alto dell’edificato storico, almeno tanto quanto il fiume che scorre a poca distanza, di cui sembra voglia deviarne percorso. Le antiche case si snodano intorno alle sue pendici interrotte bruscamente dal taglio infertogli negli anni Trenta del Novecento per dare attuazione al Piano Regolatore, cui era immediatamente seguita la sistemazione dell’antico orto a spazio pubblico murato privo di qualsiasi connotazione architettonica. Alla fine degli anni Cinquanta interviene l’ultima significativa trasformazione: viene realizzato un cinema-teatro di ben 16700 mc che comporta un ulteriore taglio del fianco del colle, prossimo al precedente, necessario per consentire l’inserimento della torre scenica. Decisamente sovradimensionato, questo ingombrante oggetto rimarrà in uso per oltre venti anni per poi essere definitivamente chiuso, inglobando parzialmente l’antico muro a sostegno del primo terrazzamento a monte, rivestito in pietra locale apparecchiata a quinconce.
Il piano di recupero del centro storico elaborato e approvato nella seconda metà degli anni Novanta crea i presupposti favorevoli alla riqualificazione di questa sua porzione: “liberare il sito” voleva dire ripartire da uno “spazio vuoto” e farne altro, ma voleva anche dire “mettere a nudo” i danni inferti al colle dai processi di antropizzazione precedenti e, al tempo stesso, interiorizzarli ovvero metterli in evidenza solo “da dentro”. Il progetto propone un limite nuovo, in grado di ristabilire la connessione perduta: un segno netto, nitido ed equilibrato definisce un sistema integrato muro – percorso – edificio, capace di svolgere la funzione di mediazione tra città e colle, tra passato e presente, tra memoria e innovazione.
Un muro dalle linee spezzate con giaciture divergenti, tagli ed aggiunte, definisce il limite fisico intorno a cui si struttura il progetto. L’irregolarità del suo impianto pare trarre ispirazione da quella dei muretti a secco che si snodano sul colle delimitando sentieri e terrazzamenti, come pure dalla geometria di alcuni elementi architettonici della rocca posta sulla sommità: sul tratto più occidentale del percorso infatti, è possibile rileggere la forma stilizzata dei bastioni poligonali del castello sia in pianta che in elevato, dove gioca un ruolo centrale l’accentuazione del profilo a scarpa.
Nell’insieme, i setti murari formano un sistema complesso di superfici sovrapposte e sfalsate, rappresentando un elemento di cucitura e chiusura per lo spazio antistante, come fosse una quinta di fondo. Il minimalismo del segno architettonico esalta il portato tettonico dell’opera, reso evidente nella sua sostenibilità dall’uso di materiali locali: in particolare la pietra, evocata dai muretti dei sentieri e dei terrazzamenti e dalla nuda roccia del colle reciso, diviene materia del progetto, affidando al dettaglio costruttivo il compito di esaltare l’essenzialità del linguaggio figurativo. Il muro realizzato con setti in calcestruzzo armato, è interamente rivestito in spesse lastre di pietra locale, cavata a poche decine di chilometri dal cantiere e lavorata in città, disposte a quinconce e prive di malta sui giunti; una posta in orizzontale corona la parete con continuità rispetto alla linea verticale, così da far apparire il muro come una sequenza successiva di diversi monoliti.
La successione dei muri rivestiti in pietra costituisce un elemento di integrazione tra l’artificio e la natura, non solo formale ma anche funzionale, accogliendo i percorsi di risalita, che alternano gradinate a cordonate, assicurando l’ascesa al colle.


I connettivi integrati con le pareti verticali ma da essi distaccati

I percorsi, contenuti all’interno dello spesso sistema murato, presentano un distacco dai setti murari che li accolgono: i gradini hanno una larghezza più contenuta del percorso sicché è possibile leggerne la geometria. La pietra è la stessa utilizzata per il rivestimento dei muri, ma diversa per dimensioni, lavorazione e posa in opera in modo tale che, estesa anche allo spazio antistante, faccia percepire i percorsi come un naturale sviluppo della piazza verso il colle. Su questa, il sistema murato si raccorda al suolo con lo stesso dettaglio di impercettibile distacco che enfatizza la forza dell’elemento verticale, mentre le sedute, assecondando l’andamento planimetrico delle pareti, sono messe in evidenza dalle lunghe aiuole verdi retrostanti.
Il segno continuo del muro viene interrotto da tagli netti e decisi, segnalati da lastre in acciaio cor-Ten che lasciano intendere che, al di là il sistema murato, c’è dell’altro. Questi inserti annunciano la permeabilità del muro, un dentro, oltre che un fuori, che ne suggella la sua tridimensionalità: all’interno, il sistema integrato muro -percorso – edificio accoglie una sala polivalente confinata verso la parete rocciosa, ma da essa distaccata. Una luce zenitale filtra nell’intercapedine creata, illuminando la roccia ed esaltandone la stereotomia.
La sala presenta una geometria irregolare, che in relazione al colle si adegua alla giacitura ortogonale del taglio, ricordando, nella innaturale regolarità, la ulteriore e, forse, ancor più drastica, recisione della propaggine del colle.
La pietra rappresenta anche all’interno il materiale per eccellenza con cui definire il rapporto con il suolo: il pavimento in lastre delle stesse dimensioni di quelle esterne piega e asseconda l’andamento irregolare di una sorta di suolo artificiale che fa da basamento continuo ai cavalletti in acciaio a sostegno della copertura finita a verde e si fa rivestimento. Sul suolo artificiale la parete d’improvviso si smaterializza e diventa courtain wall, involucro trasparente aperto sulla ferita inferta al colle, le cui colmature altro non sono che i resti del muro di contenimento in calcestruzzo aderente la roccia con, in primo piano, il groviglio inestricabile delle armature.
La fluidità della sala polifunzionale viene apparentemente messa in crisi dalla presenza di due oggetti diversi, entrambi affidati all’acciaio cor-Ten. Il primo, solo in parte interno, oltrepassa la parete e interrompe la continuità del rivestimento in pietra del muro esterno; il secondo è tutto contenuto all’interno. Entrambi chiudono parzialmente la vista della grande vetrata e concorrono decisamente all’articolazione dello spazio affidando la loro coerenza alla complessità delle geometrie; la diversa disposizione rispetto al suolo è resa possibile dall’introduzione della tecnica della sospensione diretta chiamata in causa per sostenere il soppalco in aggetto dal muro di quinta, nascondendone la scala di accesso. Le coppie di tiranti rigidi diversamente inclinati accentuano la tensione dello spazio in verticale.
All’antico orto è stato conferito un limite nuovo, che allo stesso modo di quello esistente prima degli interventi del Novecento, separa avvicinando, distingue gli ambiti integrandoli l’uno con l’altro: un unico segno per definire le vicissitudini del più recente processo di antropizzazione; un unico materiale che fa dell’eccezione ferrigna un mezzo con cui confermare le potenzialità espressive della pietra. In tal modo il progetto recupera non solo uno spazio fisico ma anche temporale, evocando tradizioni locali nel tentativo di rigenerare innovando un materiale così antico e familiare per la città.


Il suolo artificiale della sala polivalente

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Di Laura Ciammitti

Vai a: www.mcm-ai.com

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