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31 Ottobre 2012

Interviste

Intervista a Christian Pongratz

Incontriamo Christian Pongratz a Verona dove da diversi anni coordina il Summer Programs offerto dall’Istituto presso il quale è docente, guidando un gruppo di venti studenti statunitensi alla redazione di un progetto contestualizzato in Italia.
Christian è infatti Direttore e co-Fondatore del Dipartimento di Digital Design and Fabrication, inserito tra le specializzazioni del Master of Science presso il College of Architecture della Texas Tech University.

Veronica Dal Buono: I programmi di insegnamento che tieni negli Stati Uniti intersecano architettura, ingegneria e scienza computazionale. Come ha preso origine questo ambito di ricerca così singolare e quali sono i presupposti che lo hanno reso possibile, soprattutto nel contesto degli States?
Christian Pongratz: L’origine potrebbe essere identificata con il Master che ho conseguito presso il Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles, durante il quale ho studiato nuove metodologie di design digitale e modellazione 3D di prototipi. Sono stato uno dei primi a svolgere una tesi progettuale interamente con l’uso del computer a metà degli anni ’90. Successivamente, ho lavorato alcuni anni presso lo studio Eisenman Architects, prima di insegnare alla University of Texas (UT) in Austin, dove nel 2000 ho preso la posizione di Marcos Novak, già pioniere della “virtual architecture”. Con un studente del Dipartimento di Engineering ho cominciato a scrivere un programma specifico per una macchina a controllo numerico computerizzato (CNC) per poterla utilizzare nei miei corsi di progettazione architettonica. É stata la prima occasione in cui ho messo in relazione i due ambiti di architettura e ingegneria.
Rientrato in Italia, ho collaborato fruttuosamente con industrie in particolare del territorio veronese nell’ambito della lavorazione dei materiali lapidei. Tornando negli States nel 2007, alla luce di queste esperienze professionali e di ricerca, ho avviato un programma nuovo, un Master of Science in Architecture con specializzazione in Digital Design and Fabrication, basato su tre interessi principali: progettazione computazionale, materiali e fabbricazione, metodologie di assemblaggio di componenti per l’architettura. Sono tornato negli Stati Uniti in quanto ho compreso che le aziende italiane non sempre possono sostenere sperimentazioni e insieme avere le occasioni di ricevere finanziamenti per consentire la ricerca; e ciò succede anche per le Università. Negli Stati Uniti mi è invece possibile attuare nuovi studi e sperimentazioni dove il piano professionale si intreccia con quello accademico. Alla Texas Tech University ho avuto l’opportunità di realizzare un laboratorio altamente tecnologico con strumentazione digitalizzata sofisticata per la prototipazione tridimensionale di strutture e componenti in diversi materiali. Il Dipartimento di Digital Design and Fabrication che ho fondato attrae un alto numero di studenti provenienti da varie parti del mondo, desiderosi di confrontarsi con metodi e tecniche avanzate di progettazione e di ricerca.

V.D.B.: La suddivisione didattica in tre campi già suggerisce come si svolga il processo di integrazione del design digitale, “computazionale”, con i sistemi di fabbricazione digitale degli elementi costruttivi. Puoi illustrarci in sintesi come si sviluppa?
C.P.: Ho fondato il programma di Digital Design and Fabrication (DDF) coinvolgendo fin dall’inizio Maria-Rita Perbellini, mia partner anche nell’attività professionale, e tre altri docenti si sono aggiunti subito dopo, ciascuno con un proprio personale percorso. Ho inoltre incluso un docente proveniente dalla Corea, con un forte background nei sistemi informatici. Siamo principalmente un team di sei ricercatori. Ognuno di noi insegna in uno o due corsi, a seconda della propria esperienza, relazionandosi con una delle tre tematiche enunciate prima. Tali corsi informano la programmazione didattica con diversi linguaggi di programmazione computerizzata e introducono all’uso dei software più avanzati, incoraggiando la sperimentazione su materiali intelligenti e innovativi. Gli studenti, attraverso l’uso di macchine specializzate, sono coinvolti in un percorso rivolto a tipi di fabbricazione digitale. Le logiche della modellazione digitale vengono sempre testate da modelli e proto-strutture reali.
Uno dei docenti nel programma di DDF si occupa di Design Build, in particolare di assemblaggio di componenti, procedendo dal modello fisico dell’elemento fino alla realizzazione di un piccolo edificio in scala reale. Due anni fa gli studenti hanno progettato e poi edificato autonomamente una prima abitazione per artisti, un nucleo abitativo ecosostenibile realizzato in ogni dettaglio costruttivo e relazionato ad un sito nella periferia di Lubbock, in Texas.
Lo studente, attraverso progetti costruiti, trova così un iter completo che si svolge in quattro semestri, impara i linguaggi della programmazione digitale, le diverse tecnologie di fabbricazione, conosce materiali nuovi e si spinge fino alla sperimentazione all’insegna del trinomio “modellazione, prototipazione e assemblaggio”. Il programma si conclude con una tesi finale che può essere teorica o pratica. Attuando una strategia di “cross-fertilization” con altre discipline, i nostri studenti possono scegliere di seguire corsi in altri Dipartimenti di discipline diverse che vanno dal bio-medical design, alle scienze dei materiali, fino all’ingegneria meccanica e civile, coinvolgendo nello specifico ricerche individuali all’interno di altre facoltà. Nel mio caso, il materiale di lavoro preferenziale è la pietra ma gli studi che svolgo con i miei studenti vengono realizzati coinvolgendo anche materiali plastici, compositi, conglomerati e smart materials .


Hyperwave Series, 2006, Azul Aquamarine

V.D.B.: Christian ha una formazione internazionale e la possibilità di verificare in parallelo le evoluzioni, lo status dei diversi paesi che ha la possibilità di frequentare.
Come leggi al presente il panorama scolastico rispetto allo studio ed uso di tali tecnologie innovative?
C.P.: Vi sono diverse scuole all’avanguardia. Negli Stati Uniti penso allo Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles; il Taubman College con il Digital Fab Lab presso la University of Michigan, senza dubbio il MIT Massachusetts Institute of Technology a Boston. In Europa, la fabbricazione digitale si studia presso il noto dipartimento di Architecture and Digital Fabrication dell’ETH Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, ma è anche importante il lavoro svolto alla University of Applied Arts e la Technical University in Vienna, o a Londra presso il Digital Prototyping Lab dell’Architectural Association, e in Germania presso l’Institute of Computational Design alla University of Stuttgart.
Sono le scuole che investono di più sia sulle tecnologie della computazione sia sulla prototipazione e fabbricazione industriale digitalizzata, tutto finalizzato a una ricerca applicata alle fasi di progettazione.


Fluxus, 2005

V.D.B.: Ritieni ci siano ancora margini di innovazione e ricerca sul tema delle superfici da rivestimento, sottili e a spessore, attraverso il disegno e la fabbricazione digitale?
C.P.: Nell’ambito dei materiali lapidei ho avviato, intorno al 2003, la ricerca sulle superfici lapidee nell’ambito della progettazione digitale. Sulla mia strada si sono ora collocati diversi designers e il campo di sperimentazione si è allargato.
Oggi guardo alle Nanotecnolgie e all’inizio di un percorso di ricerca molto stimolante che si muove dalle proprietà intrinseche e composizionali della materia. Il futuro è legato alla integrazione di queste scienze nello studio e nell’uso dei materiali. Il vero problema è che noi architetti abbiamo una conoscenza poco approfondita sulle caratteristiche e sulle performance dei materiali emergenti. Sicuramente l’ambito dei compositi e degli “smart materials”, ossia dei materiali interattivi, reattivi e rispondenti a stimoli esterni è quello che anche nei programmi delle scuole richiederebbe maggiori approfondimenti.

V.D.B.: Come si coniugano le ricerche che conducete con la direzione della “sostenibilità”?
C.P.: La sostenibilità affronta proprio i temi dei materiali di riuso, degli elementi riciclabili; non è distante dal tema dell’uso di materiali compositi ibridi e dall’inclusione delle nanotecnologie nella progettazione e concezione di materiali nuovi. In questo senso negli Stati Uniti si stanno muovendo importanti ricerche, anche a livello federale, che hanno investito la collaborazione di architettura e ingegneria. Sono anch’io attivamente impegnato in proposte di finanziamenti con progetti di ricerca legati a materiali intelligenti che coinvolgono più discipline.


HI-lo, 2006, Pietra di Vicenza

V.D.B.: Tra tutti i materiali possibili nella contemporaneità, le vostre ricerche, sia con lo studio professionale Pongratz e Perbellini che negli atelier universitari, si concentrano spesso e in particolare sul materiali lapideo, naturale o ricostruito. Quali sono le motivazioni? Quali le qualità che ne consentono la elaborazione “digitalizzata”?
C.P.: Ritornando con regolarità da Austin a Verona ho cominciato a realizzare progetti che coinvolgessero il materiale lapideo proprio perché geo-localizzati in uno dei contesti che tra i più in Italia sviluppa tale settore. I miei primi contatti li ho avviati almeno un decennio fa e mi sono subito interessato all’eterogeneità interna, alle molteplici risonanze legate alla pietra stessa che è in sè molti materiali differenti, per la sua lavorabilità, per come reagisce. È nato un amore per questo materiale e una sfida a capire come impegnarlo in modo innovativo, attuale, nell’architettura. Al momento ho progetti di ricerca in atto nel campo della pietra strutturale e sto studiando sistemi di “strutture superficiali” e “superfici strutturali”. Anche nei concorsi ai quali partecipiamo, cerchiamo di proporre sempre il materiale lapideo, spesso coniugato con altri materiali della contemporaneità. Mi piace ripensare la solidità familiare, nota, rassicurante della materia litica e investigarne l’espressività e le risposte legate alla leggerezza da sfiorare, alla translucenza, alle qualità sensoriali capaci di stimolare un effetto e un coinvolgimento emotivo, pur mantenendone vive le valenze tettoniche. La sfida è rappresentata dalla ricerca di nuovi percorsi immaginativi, trasformativi e ancora latenti, di quei caratteri del materiale ancora sfuggenti e insospettati.

V.D.B.: Conosci il territorio produttivo italiano e le realtà di produzione artigianali. Il sistema di progettazione digitale e quindi quello di fabbricazione computerizzata, che relazione tessono al presente con il contesto artigianale? Vi è una integrazione o i due campi si escludono vicendevolmente?
C.P.: Si tratta di contaminazione delle rispettive conoscenze. Mi piace parlare di artigianalità digitale, di digital craft, quando mi riferisco alla generazione che lavora con la programmazione digitale, composta anch’essa da artigiani che giocano con numeri, dati e parametri, in un processo di organizzazione, revisione, reiterazione con continue differenziazioni.
L’artigiano tradizionale si misura direttamente con la materia. Anche l’artigiano informatico apprende studiando il mestiere tradizionale che ha secoli di esperienza alle spalle. Vi è un continuo rimando tra i due mondi. È molto importante capire i parametri e le fasi della lavorazione, come si lavora il materiale per poterlo programmare bene. La generazione del design fabrication non vuole eliminare l’artigiano tradizionale, figura che è sempre utile. Anzi, si vuole supportare la qualità di questo know-how generato nei secoli ed avere entrambe le esperienze vive nel presente. Ciò ci riconduce al Deutscher Werkbund, al Bauhaus, alla Wiener Werkstätte, quando in Europa all’inizio del XX secolo prese avvio il rapporto tra artigianato e industria. Un percorso oggi quasi dimenticato, la cui relazione si può rinnovare proprio grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie.


Seoul Performing Arts Center, 2005, Azul Bahia Granite

V.D.B.: Proprio in questi giorni, in occasione del centenario dalla nascita, si è rinnovato il ricordo di Alan Turing, riabilitandone, fortunatamente, la figura. Turing andò ben oltre il modello matematico dal quale è nato il moderno computer verso formulazioni di “morfogenesi”, teorie matematiche per comprendere la formazione delle molecole viventi.
Riesci a prevedere fino a che punto ci si potrà spingere nel settore del design, del progetto, all’integrazione tra scienze matematiche, le intelligenze artificiali e le tecnologie applicate?
C.P.: Se parliamo di “morfogenetica” negli ultimi anni abbiamo visto ricerche che provano di nuovo ad avvicinare il campo dell’architettura alla natura. Questi studi cercano di capire come sono strutturati gli organismi viventi, i vegetali in particolare, come evolvono, come si adattano all’ambiente. Ciò si lega al “parametric design” che sfida i materiali sintetici in un percorso molto simile. Penso all’avanzamento della tecnologia cui assistiamo oggi, all’utilizzo delle piattaforme di software quali Building Information Modelling (BIM) e al design parametrico che vediamo applicato da grandi protagonisti dell’architettura quali Zaha Hadid e Patrik Schumacher. Quando questi approcci si coniugheranno alla nanotecnologia, sicuramente sarà possibile pensare di creare un “genetic design” – come dice Karl Chu proprio parlando di architettura, genetica e computazione – ovvero parametri matematici strettamente collegati alle informazioni derivanti dai materiali che possono rispondere in modo “incorporato”, assimilato alle leggi della natura. Osserviamo il modello presente in natura ove le piante, quando cambia il contesto, si adattano oppure si ibridano con altri esseri viventi, in relazione con diversi stimoli. Ecco, questo settore è molto interessante perché presenta regole che oggi sono studiate anche nel campo dell’economia e del business. Il digital design permette di coniugare campi molto lontani in un unico processo, svolgendo inter-operanti salti di scala con un software che noi stessi possiamo generare e che consente un controllo, una visione molto completa di come inizia, si sviluppa, e finisce il progetto. Questo è infatti ancora il problema odierno, dove i progetti di architettura sono condizionati da elementi e componenti che non sono del tutto digitalizzabili, sono ancora analogici, hanno difficoltà a comunicare tra loro e nella realtà fisica del settore delle costruzioni siamo ancora legati al passato.
Il digitale c’è ed è disponibile ma la “digital fabrication” dove è applicata? Solo in campi limitati dell’architettura come per esempio gli allestimenti temporanei, le istallazioni, realizzazioni di civic art, oppure, attraverso il processo BIM, in grandi progetti come quelli di Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Ben van Berkel, ma alla fine non abbiamo ancora soluzioni che siano capaci di coniugare al massimo e facilmente tutti i livelli di scala, i sistemi meccanici, i diversi materiali. Le pelli degli edifici sono ancora compresi come sistemi multistrati. È necessario anche investire nello studio dei materiali stessi. Gli elementi industrializzati oggi disponibili non sono sempre disegnati per noi architetti, da noi architetti. Sono disegnati dall’industria e noi dobbiamo investigare sul come e perché usare tali componenti, se siano realmente giusti e forniscano le migliori performance per il nostro progetto, se possono essere ottimizzati.
Il futuro prossimo dovrebbe prevedere proprio studi di integrazione tra materia, funzionalizzazione e macchine programmabili, studi che fino ad ora non sono entrati tout-court nell’ambito della progettazione architettonica. Ora come architetti abbiamo la possibilità di lavorare in team dove le diverse figure sviluppano con specifica competenza una parte di un sapere vasto e non affrontabile da un solo operatore, innestando un modo di lavoro “organico”, auspicando al miglior dialogo tra le competenze professionali.

di Veronica Dal Buono


Visita allo stabilimento di Laboratorio Morseletto, 2010, Summer Study abroad Verona

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