8 Ottobre 2012
PostScriptum
Grafton Architects.
Architettura come nuova geografia
Grafton Architects, modello dell’ampliamento dell’Università Bocconi a Milano, 2008.
Per comprendere appieno l’opera dei Grafton Architects, e in particolare il padiglione che hanno realizzato all’ultima edizione della fiera Marmomacc, è necessario riflettere sul rapporto tra costruzione e ambiente, tra creazione dell’uomo e paesaggio, in sintesi tra architettura e natura.
Sono gli stessi architetti dublinesi a sottolineare la ricorrenza nella loro opera di un’idea di costruzione concepita come porzione di un paesaggio naturale, di architettura come nuova geografia. Con loro anche Paulo Mendes Da Rocha, architetto brasiliano con cui hanno stabilito un ideale richiamo all’ultima edizione della Biennale, ha affermato che la geografia è la prima architettura, che il paesaggio è una costruzione primordiale.
La riflessione che si impone può essere condotta attraverso la mediazione critica di Bruno Zevi e Giovanni Michelucci, nel tentativo di allacciare un filo con la storia – e con la natura – che porti a comprendere l’opera contemporanea.
Modello interpretativo della scala della Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze (IUAV, 1964, docente Bruno Zevi, studenti Delponte, Farfoglia, Maddaloni, Monaco, Zagagnoni).
La natura
Nel 1964, in occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di Michelangelo, Bruno Zevi dedica all’artista studi sistematici che vogliono indagare l’attualità dell’opera del maestro.
In questi anni allo IUAV, Zevi tiene corsi monografici incentrati sugli edifici michelangioleschi; il risultato della didattica e dell’attività di ricerca, che procedono parallele, è rappresentato da una cospicua serie di modelli e visioni fotografiche creative, sospese tra espressionismo, surrealismo e arte informale; tali opere restituiscono un’interpretazione inedita e problematica dell’architettura dell’artista, che scaturisce da un approccio analitico e critico ancora oggi spregiudicato e moderno1.
Tra queste opere, un modello interpretativo della scala in pietra della Biblioteca Laurenziana di Firenze attiva un confronto immediato con il padiglione dei Grafton Architects realizzato al Marmomacc 2012, presentando una composizione di blocchi rettificati, che distilla le forme storicizzate di Michelangelo per trattenere la sostanza atemporale della composizione, di una pietra che invade lo spazio come fosse una montagna, di una catasta di monoliti che si fa struttura ascensionale, allo stesso tempo architettonica e naturale.
Grafton Architects, The Burren, padiglione Piabamarmi al Marmomacc 2012, render di progetto.
Naturale – non naturalistica – poiché, come ha affermato Michelucci ancora una volta nel 1964, naturalismo è «chiedere alla natura suggerimenti di una forma architettonica», e la riflessione da condurre sui Grafton Architects non è incentrata su tale tema.
Nel naturalismo Michelucci vede il pericolo di una spettacolarizzazione della natura, di uno sbilanciamento, di uno squilibrio, di una misura umana imposta a quella naturale, o, viceversa, di un uomo che esalta la natura annientandovisi dentro.
«La natura invece – dice l’architetto – non è spettacolo ma ha in sé un mistero che deriva dalla sua struttura particolare, per cui la configurazione di una pietra, certe stratificazioni che si vedono, certi alberi che nascono in un certo modo» variano di continuo. E ancora Michelucci afferma: «ricordo di aver visto in non so quale costruzione di Michelangelo un piccolo particolare nel riquadro delle finestre, un piccolo elemento chiaroscurale, una piccola conchiglia, ecco, in quel chiaroscuro semplicissimo c’era tutta la natura, c’era il mare, c’era l’universo intero»2.
Michelangelo Buonarroti e Bartolomeo Ammannati, scala del ricetto della Biblioteca Laurenziana a Firenze, 1534-59.
È possibile concludere che in quella costruzione c’era l’arcano, il mistero dell’incontro equilibrato tra uomo e natura nel segno della creazione architettonica: ecco è su ciò che la riflessione da condurre deve essere incentrata e, soprattutto, sulla capacità di saper cogliere e fissare l’arcano nell’atto architettonico, di saper scegliere e stilizzare i dispositivi e le tessiture naturali per farle diventare costruzione umana, come è accaduto evidentemente nella scala della Laurenziana o in molte opere di Michelucci stesso – prima tra tutte la chiesa di San Giovanni Battista sull’autostrada con i suoi pilastri ramificati – e come accade, oggi, nell’architettura rocciosa e compatta, eppure agevole e accogliente, dei Grafton Architects.
Gli architetti irlandesi esprimono infatti ad ogni creazione la capacità di costruire questa architettura naturale, a tratti dura come dura può apparire una conformazione geologica, a tratti ciclopica ma mai sovrumana, sempre commisurata all’individuo.
Grafton Architects, Dipartimento delle Finanze a Dublino, 2007.
Ciò è evidente nella scalea espositiva del padiglione che ripropone il Burren – il cretto pietrificato del Clare irlandese – , o nella plasticità ipogea dell’Università Bocconi o nei monoliti erosi degli edifici universitari e istituzionali di Limerick e Dublino, o, infine, nello sviluppo verticale della scogliera nel campus universitario di Lima in corso di realizzazione3.
Così, l’architettura naturale, mai naturalistica, dei Grafton Architects registra la topografia, ne seleziona e ne coglie il suggerimento, ne sviluppa i tratti con atto quasi demiurgico, modellando appunto una “nuova geografia”; essa ci è vicina per la sua semplice nudità, per la sua forza tellurica che ci riconnette a una dimensione pregnante e originaria.
Grafton Architects, The Burren, padiglione Pibamarmi all’edizione Marmomacc 2012.
La natura del Burren
«Una settimana di grandi nebbie è trascorsa e mi ha lasciato uno strano senso d’esilio e di desolazione. Quasi ogni giorno percorro l’isola in tutto il suo contorno, ancorché nulla possa discernere se non una massa di rocce nude, una striscia di lido e l’arruffio tumultuoso delle onde. Le lastre di calcare si son fatte nere per l’acqua che vi piove su e dovunque io mi volga è la stessa grigia ossessione che striscia e si diffonde di tra i piccoli campi di roccia, è lo stesso lagno del vento che stride e fischia sul lento pietrame delle pareti rocciose.
[…] S’è schiarito e il sole risplendendo di lucente tepore fa scintillare tutta l’isola come una finissima gemma riempiendo mare e cielo di una radiosità azzurra. Sono uscito per andarmi a sdraiare sulle scogliere, […] alla mia destra la baia di Galway, quasi troppo azzurra per poterla fissare, l’Atlantico alla mia sinistra e le verticali rupi marine sotto i miei piedi. Sopra la mia testa innumerevoli gabbiani si danno la caccia in un candido tripudio d’ali»4.
La forza mutevole e imprevedibile del Burren, del paesaggio roccioso del Clare irlandese, emerge chiara nel racconto di John Millington Synge dalle isole Aran. Tra le scogliere di Moher e la baia di Galway, si estende questo vasto tavolato carsico calcareo che riemerge appunto nell’oceano, in corrispondenza dell’arcipelago, ed è segnato da fessure lineari come un grande cretto solidificato.
Uno scorcio del Burren, tavolato calcareo del Clare irlandese.
Spoglio e deserto in apparenza, il Burren è in realtà ospitale nei confronti di un mondo animato che prolifera stagionalmente, grazie a piccoli stagni alimentati dalle piogge e custoditi dalla roccia. Come detto, questa suggestiva metafora ambientale è stata utilizzata dai Grafton Architects per il padiglione Pibamarmi al Marmomacc 2012.
Dal paesaggio all’exhibition design, The Burren diventa così il sinonimo di una pietra che si porge al visitatore nuda e primordiale, con la forma stilizzata di un pavimento tridimensionale, di una scogliera-scalinata espositiva destinata a crescere in verticale per dar spazio al suo interno, a vuoti inattesi, quasi ipogei.
Grafton Architects, The Burren, padiglione Pibamarmi all’edizione Marmomacc 2012.
Questa volta, la nuova geografia architettonica disegnata dai Grafton Architects, lo spezzone di paesaggio modellato all’interno di un contesto interamente costruito dall’uomo, attinge alle forme aspre dell’ambiente nordico, delle rocce nere e salate delle Aran che si stagliano discoste nell’Atlantico, tangibili e vicine ma appena visibili e sempre intatte nella loro solitudine; di questi siti enigmatici i Grafton distillano le dorsali cupe ammantate di nebbie e bagliori, restituendo al visitatore una composizione di grigi plumbei difformi, di monoliti che accolgono specchi d’acqua e candidi pezzi di design marmoreo incastonati nelle fessurazioni.
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Note
Note:
1 Le interpretazioni di Zevi e degli studenti dello IUAV relative alle architetture michelangiolesche sono documentate in Bruno Zevi, Michelangiolo architetto, Milano, ETAS, 1964, pp. 66, (ristampa de L’architettura. Cronache e storia, n. 99, 1964);
2 Giovanni Michelucci, “La città degli uomini. Colloquio con Pietro Bellasi”, Studi cattolici, n. 43, 1964, p. 18;
3 Sull’opera dei Grafton Architects si rimanda a Ettore Vadini (a cura di), 4×4. Sedici opere di architettura contemporanea, Pescara, Sala, 2011, pp. 54-77; in particolare sull’edificio della Bocconi a Milano si veda Francesco Cellini, “Sull’ampliamento dell’Università Bocconi”, pp. 76-79, in Vincenzo Pavan (a cura di), Litico etico estetico, Milano, Motta, 2009, pp. 157;
4 John Millington Synge, Le isole Aran, Palermo, Sellerio, 1980, (tit. or. The Aran Islands, I ed. 1907), pp. 43-45.