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8 Febbraio 2005

PostScriptum

Alfonso Acocella Post Scriptum

Dalle “pietre della natura” alle ” pietre dell’arte”
Per capire la pietra nel suo millenario rapporto con l’architettura dobbiamo innanzitutto chiederci cos’è la pietra in quanto materia della natura e cos’è la pietra che diventa materiale per l’architettura.
Ubiquitaria e pressochè onnipresente è la roccia intorno a noi in quanto crosta terrestre ed ossatura del mondo intero. Emergendo a formare rilievi montuosi, stabilizzandosi sotto le pianure, inabissandosi a creare scoscendimenti e faglie tiene insieme ogni cosa e conferisce alla terra il suo profilo generale.
Attraverso l’onnipresenza delle rocce coagulate in grandi rilievi, in quella liticità maestosa e sublime di scala paesaggistica che spesso s’impone rispetto alla figura umana, è possibile rileggere anche la nostra storia architettonica evolutasi a ridosso del Mediterraneo, quel meraviglioso spazio acqueo all’intorno del quale si sviluppa la nostra civiltà occidentale. Magistrale l’immagine che ci consegna Fernand Braudel, assunta come ideale “luogo” di partenza del nostro viaggio:
“Che cosa importa se il mare Interno è fantasticamente più vecchio della più vecchia delle storie umane che ha ospitato! Eppure, il mare non si può comprendere a fondo se non nella lunga prospettiva della sua storia geologica, cui deve la forma, l’architettura, le realtà di base della sua vita, quella di ieri come quella di oggi, o di domani. Allora, apriamo la questione!
A partire dall’era primaria, milioni e milioni di anni fa, a una distanza cronologica che sfida l’immaginazione, un largo anello marino (la Teti dei geologi) si estende dalle Antille al Pacifico e taglia in due, nel senso dei paralleli, quella che sarà, assai più tardi, la massa del Mondo Antico. Il Mediterraneo attuale è la massa residua delle acque della Teti, che risale alle origini del globo.
è a spese di questo Mediterraneo molto antico, assai più esteso di quello attuale, che si sono formati i corrugamenti violenti e ripetuti dell’era terziaria. Tutte queste montagne, dalla cordigliera Betica al Rif, all’Atlante, alle Alpi, agli Appennini, ai Balcani, al Tauro, al Caucaso, sono uscite dall’antico mare. Hanno eroso il suo spazio, hanno utilizzato a loro vantaggio i sedimenti depositati nell’immenso incavo del mare – le sue sabbie, argille, arenarie, i suoi calcari spesso prodigiosamente spessi, e anche le sue rocce profonde, primitive. Le montagne che racchiudono, soffocano, barricano, suddividono i lungo litorale marino, sono la carne e le ossa della Teti ancestrale.
L’acqua di mare ha lasciato ovunque la traccia del suo lento lavoro: vicino al Cairo, i calcari sedimentari di grana così fine e di un bianco lattiginoso, che permetteranno al cesello dello scultore di dare la sensazione del volume giocando su incisioni profonde solo qualche millimetro, le grandi placche di calcare corallino dei templi megalitici di Malta, la pietra di Segovia che si bagna per lavorarla più facilmente, i calcari delle Latomie (le enormi cave di Siracusa), le pietre d’Istria portate a Venezia, e tante rocce della Grecia, della Sicilia o d’Italia, sono tutte nate dal mare.”
(“Memorie del Mediterraneo”, 1998, manoscritto originale1969)

Pietre informi
Immersi mentalmente in questo scenario geografico dilatato – caratterizzato dalla onnipresenza di monti, rocce, liticità molteplici e memorie mitiche che affondano nella notte dei tempi – ci siamo chiesti più volte come abbia preso avvio l’utilizzazione della pietra per le esigenze della costruzione, quando – soprattutto – le rocce staccate dal banco di cava e sagomate secondo precise e predefinite configurazioni geometriche, sono passate dall’informalità della natura agli artifici dell’Arte e dell’Architettura.
L’uomo, indubbiamente, ha iniziato a confrontarsi con l’universo litico sin dal suo primordiale essere sulla terra, per proseguire attraverso manifestazioni più coscienti, mirate ed intenzionalizzate, intravedendo in questa materia le condizioni propizie per farne arma, monile, strumento di lavoro, ricovero, recinto, monumento.
In molti sono a sostenere che le origini dell’uso della pietra nelle costruzioni sono da collegare con la semplice ed intuitiva pratica della raccolta in superficie dei frammenti litici staccati dalle masse rocciose dei monti per effetto di fenomeni naturali (fratture della crosta terrestre, frane, alluvioni, depositi morenici, erosioni ecc.). Selezione ed accumulazione, quindi, di pietre erratiche: macigni, massi, pietre stratificate, schegge informi ma anche grandi e piccoli ciottoli fluviali e marini dalle superfici morbide e levigate sia pur più difficili da “stabilizzare” – nell’opera muraria – su di un piano orizzontare a causa della loro “rotondità” che ne impedisce la messa in opera a secco.
è la primitiva valorizzazione delle pietre come si trovano in natura; non “raffinate”, “brutali”, non “configurate” geometricamente dall’uomo sia pur già inscritte all’interno di un progetto, di una logica costruttiva.
Tali elementi litici, di dimensione e forma eterogenea, permettono, in avvio della civiltà dei primordi la creazione di opere rudimentali a secco (muri, sostruzioni, argini di campo, tombe ecc.) la cui stabilità è assicurata da strutture resistenti a forte spessore, con i massi più grandi che fungono da paramento esterno rispetto al riempimento interno di pietrame più minuto.
Siamo di fronte all’archetipo del tumulo la cui massa litica è spesso “erosa” al suo interno con grande difficoltà per la creazione di uno spazio esistenziale oppositivo a quello della capanna lignea, più volte evocata dalla trattatistica nella disputa dei tipi primitivi dell’architettura. La logica concettuale che stà a monte della costruzione a secco con elementi informi è molto istruttiva in quanto ci consente di svolgere una riflessione sul modo di impiego della pietra che viene trasferita direttamente dal mondo della natura a quello dell’architettura.
Con l’opera a secco delle origini si afferamno manufatti dove il livello tecnologico (e la stessa concezione architettonica) si presenta come fattore fortemente limitativo, incapace di superare la “criticità” statica insita nel sistema costruttivo di per sè rudimentale, per certi versi primitivo. Eppure, per quanto “rozze” ed elementari, le opere in pietra informe – con le loro murature che richiedono corposità, spessore e consistenza rilevanti – assumono, all’interno dell’evoluzione dei artefatti dell’uomo, un significato particolare.
Rispetto alla fragilità delle installazioni lignee il semplice accatastamento di pietre pone le condizioni originarie di consacrazione monumentale della costruzione architettonica trasferendo su un piano simbolico la qualità visiva e durativa della materia litica.

Alle origini del monumento
Il processo costitutivo e conformativo delle opere murarie a secco offre – a partire dalle necessità di “sovrabbondanza” di materia litica e dall’enfasi volumetrica degli artefatti che ne scaturisce – una testimonianza di forte presenza ridefinendo le caratteristiche del luogo in cui si insediano. Il permanere della pietra nella lunga durata temporale indurrà ben presto l’uomo a compiere delle valutazioni non attinenti unicamente alla sfera del funzionale e dell’utilitario.
Se ogni manufatto in materiale vegetale, o in argilla cruda, si caratterizzerà sempre come opera effimera dando vita ad una sorta di sovrastruttura rispetto al terrreno su cui sorge, la costruzione in pietra incarnerà sin dalle origini l’idea della permanenza in stretta continuità con il suolo che l’accoglie saldandola ad esso, facendosi apprezzare per una serie di caratteri peculiari ed unici del materiale stesso (massa, volume, solidità, durata) che diventeranno qualità “simbolo” della stessa idea di monumentalità in architettura.
Legno ed argilla cruda quali materie molto diverse dalla pietra esprimono alla fine – anche nel mondo primitivo delle origini – un antitetico investimento rispetto al fattore tempo: un’azione contingente legata ad una prospettiva temporale limitata, contrapposta ad un progetto architettonico proiettato coscientemente nella lunga durata che impegna simbolicamente un clan familiare o addirittura fa convergere le aspettative di autorappresentazione di una fondazione dinastica, di uno Stato intero, così come avverrà nell’esperienza dell’Egitto, già a partire dal III millennio a. C., quando la pietra d’un colpo emerge – dalle sabbie di Saqqara – squadrata, levigata, modanata passando dalla Natura all’Architettura e all’Arte.


Complesso funerario di Zoser a Saqqara (foto di Giulio De Cesaris)

Affinchè questo meccanismo si metta in moto sarà necessario creare – come afferma Hegel in un passaggio contenuto in “Estetica” – “opere di architettura che quasi siano sculture, se ne stiano per sè autonome e portino il loro significato non in un fine e bisogno diverso, ma in loro stesse.”
La pietra sarà, allora, chiamata a dare uno dei contributi più alti e sublimi all’architettura, mai più eguagliato da nessun altro stile tecnologico di costruzione.
Eccoci, così, giunti al capitolo degli INIZI de “L’architettura di pietra”. Il tema è legato alla domanda fondativa che ci siamo posti in avvio del nostro lavoro di studio (e poi di scrittura) connesso al volontà di cogliere e sottolineare il passaggio epocale in cui le pietre perdono la loro “informe naturalità” per diventare “pietre configurate”, sagomate e pronte a seguire le aspirazioni dell’uomo che si rivolge alla costruzione chiedendole di diventare Architettura, Simbolo, Meraviglia.

di Alfonso Acocella

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