13 Giugno 2011
Pietre d`Italia
Formazione e aspetto dei travertini toscani e laziali.
Geode cristallino nella stratigrafia di un deposito travertinoso a Serre di Rapolano (foto Enrico Geminiani).
Se la più datata normativa italiana 1 definiva il travertino come roccia calcarea sedimentaria di deposito chimico, con caratteristica strutturale vacuolare, ed impiego preferenziale per costruzione e decorazione, sono le più aggiornate norme europee e americane a mettere in evidenza la complessità dell’aspetto e delle caratteristiche di tale materiale lapideo.
Secondo la normativa europea 2, il travertino è definito scientificamente come un calcare concrezionale finemente cristallino che si forma per rapida precipitazione di CaCO3 dall’acqua. Estremamente poroso o spugnoso, è conosciuto come tufo calcareo, ma può essere costituito anche da calcite cripto cristallina per precipitazione lenta in ambienti carsici: in quest’ultimo caso il materiale si presenta traslucente, generalmente stratificato e con colori sfumati prevalentemente gialli, bruni e verdi; commercialmente è una pietra naturale che concorda nell’aspetto con la definizione scientifica e che può essere lucidata soprattutto nelle cosiddette varietà “oniciate”, laminate, compatte e costituite da strati colorati e trasparenti di calcite o aragonite.
L’aspetto di un travertino oniciato senese, levigato e lucidato.
Per la normativa americana 3 il travertino consiste in una varietà di calcare cristallino o microcristallino che si contraddistingue per la sua struttura stratificata e dove pori e cavità sono comunemente concentrati in alcuni degli strati producendo una struttura aperta. Il materiale può anche essere definito “marmo travertinoso”, se risponde ad alcuni requisiti tecnici stabiliti dalla norma ASTM C5034 e se costituito da una calcite stratificata porosa o spugnosa, di origine chimica, parzialmente cristallina. In base alla norma americana il travertino si forma per la precipitazione da sorgenti di acqua calda, costituite da soluzioni ricche di carbonato solitamente in prossimità di specchi d’acqua bassa.
Tutte le norme concordano quindi sulla genesi della roccia, sedimentaria e di origine chimico-evaporitica, e sull’aspetto vacuolare; si registra inoltre una piena concordanza anche sulla denominazione di “travertino”, nome internazionalmente accettato, derivante da quello con cui gli antichi romani indicavano la pietra che un tempo cavavano a Tivoli: lapis tiburtinus 5. Con il termine di radice latina si continua ad indicare, da oltre duemila anni, scientificamente ma anche commercialmente, tutti i materiali del mondo che della pietra di Tivoli hanno le medesime caratteristiche estetiche, anche se altre terminologie possono essere localmente utilizzate, quali ad esempio calcareous tufa in inglese, o tuf calcair in francese, Kalktuff in tedesco, o ancora tufa, kalkar, sinter.
Un’ulteriore interessante definizione di base a cui rifarsi per iniziare l’indagine relativa ai travertini di area senese può essere ripresa dal testo magistrale di Allan Pentecost, intitolato non a caso “Travertine” 6: secondo l’autore per travertino si può definire un calcare calcitico o aragonitico di ambiente continentale, formatosi per precipitazione chimica lungo aree di infiltrazione, sorgenti, torrenti, fiumi ed occasionalmente laghi. Di bassa o moderata porosità intercristallina, spesso con elevata concentrazione di porosità di impronta o strutturale, esso ha origine all’interno di ambienti vadosi o, occasionalmente, in ambienti freatici di acqua bassa, e la precipitazione avviene primariamente per il passaggio di CO2 da o verso una fonte d’acqua che comporta la sovrasaturazione del carbonato di calcio, con nucleazione e crescita dei cristalli in ambiente sommerso. Più semplicemente potremmo dire che esso è un calcare concrezionato che si forma grazie al potere incrostante del carbonato di calcio disciolto nelle acque. Ma come, e perché, è possibile trovare carbonato di calcio disciolto nelle acque? E inoltre, tale elemento è presente in tutte le acque?
Dettagli di affioramenti di travertino in una cava di Rapolano Terme (foto Enrico Geminiani).
Indubbiamente tutte le acque dell’idrosfera hanno la caratteristica di agire da solvente in presenza di alcuni sali, e tra tutti i sali che costituiscono le rocce il carbonato di calcio (CaCO3) è sicuramente tra i più solubili. In genere la solubilità del carbonato di calcio è pari a 14 mg/litro, ma ben lungi dall’essere costante, varia al variare della concentrazione di CO2 disciolta nell’acqua, della pressione di scorrimento dei flussi idrici, dalla loro temperatura e dei valori del pH ed eH. L’anidride carbonica una volta disciolta nell’acqua forma un acido (“carbonico”) capace di attaccare il calcare che costituisce gli ammassi rocciosi.
CACO3 +CO3+H2O ? Ca2+ + 2(HCO3 )-
L’acqua quindi si comporta come un vero e proprio solvente, arrivando a disciogliere in maniera più o meno intensa la roccia carbonatica all’interno o sopra la quale essa scorre e, quando a causa di una variazione dei suoi parametri fisici essa si ritrova in sovrasaturazione a causa di una eccessiva concentrazione del carbonato di calcio disciolto, per riequilibrare i suoi parametri, provoca la precipitazione del CaCO3 che incrosta tutto ciò che incontra formando spessori più o meno rilevanti di travertino.
La sovrasaturazione dell’acqua rispetto al CaCO3 può essere ottenuta in vari modi, ad esempio per l’azione indiretta di vegetali presenti nelle acque i quali depauperando di CO3 la soluzione provocano la precipitazione del CaCO3 disciolto (travertini formatisi da acque a temperatura ambiente o “travertini meteogeni”), oppure può essere indotta anche da variazioni della temperatura; un rapido aumento di quest’ultima comporta l’innalzamento della concentrazione del sale CaCO3 presente nell’acqua, mentre un calo improvviso provoca la sovrasaturazione con conseguente precipitazione.
Ma accade anche, e questa è la causa genetica dei travertini del centro Italia, che l’anidride carbonica presente nel flusso idrico che percola nelle masse rocciose carbonatiche venga originata da processi di mineralizzazione legati ad eventi magmatici vulcanici della crosta terrestre che possono provocare un discioglimento del carbonato di calcio fino a dieci volte maggiore di quello ottenuto con anidride carbonica meteorica. È ovvio che questo fenomeno si traduce in depositi travertinosi (“travertini termogeni”) arealmente ampi che possono raggiungere anche spessori di qualche centinaia di metri. La loro formazione va quindi ricollegata ad una attività vulcanica più o meno profonda, più o meno attiva.
Stratigrafia di sedimentazione in un deposito di travertino a Rapolano Terme (foto Enrico Geminiani).
Tipologie dei travertini
I travertini sono quindi rocce di origine chimica che si formano per la precipitazione del sovrabbondante CaCO3 disciolto in masse d’acqua, presente per svariate cause di cui la più importante è legata ad attività magmatiche. L’ambiente prevalentemente continentale e le condizioni in cui tale carbonato precipita – cascate, acque correnti, specchi lacustri o palustri, sorgive, cumuli pendenti, cumuli terrazzati con vasche di differenti dimensioni e dorsali fessurate – unitamente al supporto organico più o meno variabile, può dare origine a differenti tipologie di travertini, ed oltre alla suddivisione tra travertini meteogeni e termogeni, si ha anche la distinzione tra travertini autoctoni e alloctoni. Gli autoctoni si formano per precipitazione e incrostazione in situ del CaCO3 senza il successivo trasporto del materiale concrezionato. L’aspetto del materiale che si forma sarà strettamente condizionato dal supporto vegetale che cattura il carbonato.
A seconda del supporto e dell’aspetto si parla di travertini autoctoni stromatolitici, (per sovrapposizione di lamine millimetriche imputabili ad attività di alghe o batteri); microermali (per incrostazioni su briofite che generano strutture a microtubuli ramificati) e di travertini fitoermali (per incrostazioni su micro e macrofite che formano impalcature rigide, quali possono essere ad esempio muschi e licheni).
I travertini alloctoni o detritici si hanno invece quando l’incrostazione avviene su frammenti – organici o inorganici – che possono successivamente essere trasportati. Essi potranno avere dimensioni granulometriche differenti e, a seconda dell’energia cinetica dell’acqua, potranno essere posizionati a distanze anche rilevanti rispetto alla sorgente di acqua incrostante.
Dato il suo processo di genesi è possibile affermare che il travertino è forse l’unico materiale che si forma a velocità elevata rispetto ai tempi geologici: il continuo apporto di acque soprassature permette la formazione di qualche millimetro di roccia all’anno, ed in qualche decennio l’uomo ne può apprezzare “crescite” anche centimetriche contemporaneamente condizionate anche da fattori climatici, in quanto le stagioni calde, ma parossisticamente anche l’alternanza del giorno e della notte, favoriscono la deposizione del CaCO3, mentre i periodi freddi, con l’arresto dello sviluppo vegetativo ed una minor produzione di CO2, provocano un calo della mineralizzazione dell’acqua e quindi della precipitazione dei carbonati. Un altro aspetto alquanto caratteristico del materiale deriva dal fatto che da quando si forma esso inizia immediatamente ad evolvere: la sua formazione per incrostazione di materiale organico è accompagnata dalla quasi contemporanea decomposizione del medesimo con la genesi di una diffusa porosità. La presenza nell’ammasso di sali più solubili del carbonato di calcio può comportare il loro discioglimento, con la formazione di porosità secondarie e la percolazione di acque soprassature, che provocano la ricristallizzazione totale o parziale delle porosità primarie. A questo va collegato un aspetto generalmente spugnoso degli strati sovrastanti mentre quelli alla base delle unità formative sono solitamente molto più compatti e poco porosi.
Tra i fattori maggiormente variabili nell’aspetto dei travertini va annoverato il colore: la calcite di precipitazione è bianca ed i travertini hanno tendenzialmente questa sfumatura che la presenza di pigmenti colorati può modificare. Ecco quindi travertini gialli per la presenza di ossidi limonitici, rossi, per la presenza di ematite, neri quando la colorazione può essere imputabile a magnetite o a materiale organico che precipita assieme al CaCO3 o, ancora, travertini laminati per strutture e tonalità cromatiche differenti.
L’aspetto di un travertino viterbese, levigato e lucidato.
Geologia
I travertini toscani e laziali possono essere perlopiù definiti termogeni. Essi infatti, pur provenendo da aree differenti e presentando spessori variabili sono strettamente connessi ad eventi magmatici che ben si inseriscono nel contesto geologico genetico della formazione della catena appenninica, che ha provocato in tutte le aree in analisi una attività vulcanica cenozoica più o meno attiva.
L’Appennino è una catena orogenetica strutturalmente articolata che inizia a formarsi nel Cretaceo superiore, e la cui genesi continua ancora ai giorni nostri. La sua evoluzione7 può essere suddivisa in fasi differenti che traggono origine dalla migrazione della placca africana contro quella europea, con una situazione iniziale molto complessa anche per la presenza di una serie di minuscole placche posizionate tra le due principali. Due di queste microplacche, l’Iberia e l’Adria, saranno quelle che condizioneranno in maniera più eclatante la genesi appenninica.
Carte dei movimenti di rotazione e traslazione dei blocchi tettonici del Mediterraneo occidentale che hanno consentito la formazione del bacino ligure-provenzale e di quello tirrenico.
Nel Giurassico medio superiore, l’apertura dell’Atlantico centrale provoca una prima fase di deriva verso est della placca africana, deviata verso nord a partire dal Cretaceo superiore quando si apre anche l’Atlantico settentrionale. Tra le due placche si trovava inizialmente un bacino oceanico denominato Oceano ligure-piemontese che separava l’Europa e l’Iberia, allora solidali, dall’Adria, promontorio dell’Africa. Circa novanta milioni di anni fa, una serie di disgiunzioni e rotazioni separano le placche Iberia e Adria, provocando la consunzione dell’Oceano ligure-piemontese mentre l’Africa converge direttamente contro l’Europa. In quella che sarà l’area occupata dai futuri Appennini inizia l’impilamento di unità tettoniche che tendono ad innalzarsi sempre più.
Con l’Eocene superiore termina la convergenza oceanica accompagnata dalla sutura e chiusura dell’Oceano ligure-piemontese, dalla subduzione della placca Adria verso ovest-sud ovest, al di sotto di quella dell’Iberia, e l’impostazione di una serie di processi tettonici ad andamento est-nord est associati all’orogenesi. Dall’Eocene superiore all’attuale, quindi, in questa che viene definita la zona di convergenza ensialica si ha, con l’evoluzione e l’impostazione dei tratti tipici della catena appenninica, la formazione del sistema catena-avanfossa deformata e avampaese indeformato prospiciente all’odierno mare Adriatico. Per quanto riguarda l’attuale mare Tirreno, esso viene interpretato come un bacino geologicamente definito di retro-arco in fase estensiva caratterizzato in affioramento da deboli strutture affiancate sollevate e depresse che richiamano, anche se in condizione ridotta, lo stile ad Horst e Graben allineate in sistemi a direzione appenninica, interrotte da faglie. È lungo queste strutture che si sarebbero poi impostati i più importanti sistemi vulcanici dell’Italia centrale. Uno studio dell’assetto profondo dell’Appennino centrale, conferma proprio in queste aree un ridotto spessore della crosta terrestre, la presenza della discontinuità di Moho ad una ventina di chilometri di profondità, ed elevati valori del flusso termico che possono comportare localmente, ad esempio a nord est di Roma, temperature anomale che già a 3 chilometri di profondità sono comprese tra 150 e 300°C, cioè fino a cinque volte più alte rispetto alle altre regioni.
La genesi dei travertini dell’Italia centrale si inserisce quindi in un contesto geologico molto complesso e vulcanicamente attivo, con aree in fase di distensione accompagnate da una serie di fenomeni vulcanici non necessariamente in condizione effusiva e non necessariamente quiescenti, la cui interazione con acque di infiltrazione che provengono dalla superficie consente processi di mineralizzazione, d’interazione con i sedimenti carbonatici presenti e poi di genesi finale dei travertini termali*.
Note
1 UNI 8458 – Edilizia prodotti lapidei. Terminologia e classificazione.
2 EN 12670 – Terminology of natural stone.
3 ASTM C 119 – Standard definitions of terms relating to natural building stone.
4 ASTM C 503 – Standard specification for marble dimension stone (exterior). I requisiti fisici richiesti nella tabella 1 della norma per poter definire un travertino “marmo travertinoso”, sono relativi all’assorbimento d’acqua (valore massimo 0,20%), alla densità (valore minimo 2305 kg/m3), alla resistenza alla compressione (valore minimo 52 MPa), al modulo di rottura (valore minimo 7 MPa), alla resistenza all’abrasione (valore minimo 10) e alla resistenza alla flessione (valore minimo 7 MPa).
5 Giorgio Blanco, Dizionario dell’Architettura di Pietra, Roma, Carocci, 1999, pp. 299; Faustino Corsi, Delle Pietre Antiche, Verona, Zusi, 1991, pp. 224 (I ed. 1845); Enrico Dolci (a cura di), Il marmo nella civiltà romana. La produzione e il commercio, atti del convegno, Carrara, IMM, 1984, pp. 185; Patrizio Pensabene (a cura di), Marmi antichi. Problemi di impiego, di restauro e d’identificazione, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1993, pp. 255; Mario Pieri, I marmi d’Italia, Milano, Hoepli, 1964, pp. 435; Mario Pieri, Marmologia. Dizionario di marmi e graniti italiani ed esteri, Milano, Hoepli, 1966, pp. 693; Francesco Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 500.
6 Allan Pentecost, Travertine, Berlino, Springer, 2005, p. 16.
7 AA.VV, Guide Geologiche Regionali. Lazio, Società Geologica Italiana (a cura di), Milano, Bema, 1998, pp. 377; AA.VV, Guide Geologiche Regionali. Appennino umbro marchigiano, Società Geologica Italiana (a cura di), Milano, Bema, 2001, 2 voll.; AA.VV, Guide Geologiche Regionali. Appennino tosco emiliano, Società Geologica Italiana (a cura di), Milano, Bema, 2004, pp. 331.
* Il post riedita una parte del capitolo “Dalla materia al materiale. Formazione, aspetto e caratterizzazione dei travertini” pubblicato in Alfonso Acocella, Davide Turrini (a cura di), Travertino di Siena, Firenze, Alinea, 2010, pp. 303.