19 Novembre 2010
Opere di Architettura
Showroom Bulthaup, Milano
John Pawson
L’esterno ed il piano terra dello showroom.
Il matrimonio fra John Pawson e Bulthaup si materializza in un primo showroom a Londra completato nel 2002. In quel caso lo spazio è caratterizzato dalla presenza come di un tunnel, pure finito con paramenti interni in grande parte lapidei, e con tagli di luce soprattutto dall’alto nei punti di giunzione fra solai e superfici verticali. Lungo l’attraversamento del tunnel accadono eventi espositivi allestiti con gli oggetti prodotti dall’azienda. L’attenzione del progetto non sembra, apparentemente, concentrata tanto sui prodotti, quanto sulla creazione di un sistema emozionale da accompagnare alle ritualità dell’acquisto da parte del cliente Bulthaup. In questo senso l’approccio proposto da Pawson ben incarna e rappresenta quanto già descritto nei testi di Vanni Codeluppi e Marco Turinetto richiamati in contributi precedenti riguardanti le tendenze attuali del retail design.
Anche negli spazi dello showroom milanese ritornano alcune citazioni del tunnel di Londra, in particolare al piano terra con i suoi tagli di luce pur innestati dalle ampie finestrature verticali su strada, ed al piano inferiore con alcune sole porzioni di queste nicchie per le apparecchiature d’illuminazione, come fossero attraversamenti di luce naturale proveniente dall’alto.
Le occasioni progettuali nell’ambito del retail design non sono nuove per John Pawson; ricordiamo particolarmente i punti vendita di Calvin Klein in sedi internazionali (a New York, Parigi, Seoul e Tokyo), poi dei gruppi m&s, b&b Italia, jigsaw, e cannelle cake in locations londinesi. Nei casi degli interventi per Calvin Klein e per Bulthaup pare di riscontrare una speciale empatia fra linguaggio del brand e linguaggio dell’architetto, pur senza essere questa una condizione necessaria ed obbligata per la buona riuscita dell’architettura. Lo è invece in grado maggiore ad esempio la consapevolezza delle parole, per così dire, del proprio linguaggio progettuale, ed in tal senso risulta interessante il libro Minimum, pubblicato nel 1996, in cui Pawson indaga a tutto tondo il concetto di semplicità: particolarmente nell’arte, nell’architettura e nel disegno, in un ventaglio ampio di contesti storici e culturali. Del resto l’esperienza formativa stessa dell’architetto inglese è internazionale e per certi versi non convenzionale: dopo le prime fasi entro l’azienda tessile di famiglia, ha insegnato la lingua inglese per alcuni anni all’Università del Commercio di Nagoya in Giappone, dove ha incontrato più direttamente l’architettura, solo allora infine orientandosi ai corsi londinesi della Architectural Association.
Due scatti fotografici della scala in pietra.
Il minimalismo di John Pawson, per così dire misticamente orientale, entra in showroom Bulthaup di Milano dal suo ingresso principale e da lì s’irradia sulle superfici pavimentali – in arenarie grigie ben squadrate, di grande formato – tramite le sottili linee di fuga tracciate in tonalità più chiara fra le lastre posate a terra. Nel reticolo della base pavimentale primariamente e degli alzati poi, si materializzano i mobili essenziali ed i gradini della scala, quindi i rivestimenti dei servizi. Entro questa logica, il desk antistante l’ingresso è come ottenuto per estrusione dal basso entro i moduli del calpestio. La scala è come un’incisione precisa della materia a determinare scavi lineari perfetti; la scelta della pietra per la caratterizzazione della scala e del suo vano è dunque anche l’allusione ad un intaglio millimetrico, quasi chirurgico, operato nel vero suolo. Più di tutto, forse, la geometria dell’intero collegamento verticale risulta severamente controllata; l’unica variabile pare essere la componente di luce naturale ed artificiale, in grado di esaltare i volumi netti e di arricchire la tavolozza cromatica: ora secondo le tonalità accese delle parti più esposte, ora secondo le tonalità cupe delle parti ombratili, ma attenendosi unicamente alle scale del grigio. Si giunge così ad un ulteriore piano in cui si conferma la continuità materica del calpestio, vero filo conduttore del percorso di visita. Le arenarie sono qui declinate anche in posa verticale, nei servizi e negli interni di un hammam, a testimoniare la convivenza già ovvia in natura fra pietra ed ambienti umidi, come pure ad ingaggiare accostamenti sempre felici con i materiali naturali quali i metalli, l’acqua ed il legno. L’ambiente bagno ricostruito qui è un esercizio monomaterico in cui anche lo specchio gioca a riprodurre il paramento lapideo delle partizioni verticali. Il lavabo scolpito nell’unico blocco perviene a rese superficiali, visive e tattili, come di velluto. La pietra riveste e nasconde gli sportelli necessari alle apparecchiature a corredo, quindi le porte. Riguadagnato il piano d’ingresso, seguendo la luce naturale, ci voltiamo a rimirare lo spazio dall’esterno, dove l’applicazione di lastre a parete offre l’elegante fondale scuro al logo aziendale ed un contrappunto solido alle trasparenze delle vetrine. L’intera installazione è opera di Arc studio. I materiali di pavimenti e rivestimenti lapidei sono de Il Casone, le fotografie di Giovanni De Sandre.
Due scorci di dettaglio degli ambienti per l’igiene del corpo.
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