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25 Ottobre 2010

Opere Murarie

Maschere di pietra*


Pantheon. Scorci della Rotonda con la cupola cassettonata e l’oculus sommitale aperto verso il cielo.

«L’architettura occidentale – citando una sintetica e personale visione interpretativa di Tadao Ando – ha impiegato massicce murature in pietra per separare gli spazi interni dagli esterni; le finestre ritagliate in muratura così spesse da apparire come veri gesti di rifiuto del mondo esterno, erano di piccole dimensioni e possedevano forme severe. Queste aperture ancora più che consentire alla luce di entrare brillavano intensamente sostituendosi così alla luce stessa; esprimevano, probabilmente l’aspirazione alla luce di uomini condannati a vivere nell’oscurità. Un brillante raggio di luce attraversando quella oscurità poteva suonare come una invocazione e le finestre erano concepite non per il piacere di vedere, ma semplicemente per consentire l’ingresso alla luce nella forma più diretta. Una luce, questa, che perforando l’interno dell’architettura produceva spazi di solida e risoluta configurazione. Le aperture realizzate con simile severità segmentavano il movimento della luce con precisione e lo spazio era modellato, quasi in maniera scultorea, da linee luminose che spezzavano l’oscurità e la cui configurazione mutava in ogni momento.»1
Ci siamo più volte interrogati sulla natura di queste “massicce murature di pietra” dell’architettura occidentale evocate dal maestro giapponese.
L’essere massiccio delle murature, secondo noi, non ha voluto dire sempre evidenza (affermazione) strutturale, nè impiego di un solo tipo di materiale litico.
Dell’ambivalenza d’uso della pietra in architettura sospesa fra stuttura e rivestimento, fra modi costruttivi e “maschere” architettoniche vorremo mettere a fuoco il momento delle origini connesso all’esperienza romana in cui, per la prima volta, si afferma in forma matura la concezione dell’ordine murario.


Roma. Foro di Traiano: ricostruzione dei portici affacciati sulla piazza.

La massima espressione di una tecnica muraria di tipo stratigrafico, con un’esaltazione dei valori di superficie e di rivestimento parietale, è legata proprio all’esperienza romana sulla quale hanno dato contributi interpretativi fondamentali (fra Otto e Novecento) personaggi di primo piano della cultura artistica ed architettonica europea quali Semper, Bötticher, Riegl, Choisy, Meurer, Bettini ed altri.
Nell’architettura romana, salvo alcuni manufatti architettonici particolari (quali gli edifici di culto più importanti, i “templi”), non esiste una corrispondenza diretta, esplicita, fra la struttura portante e la facies parietale, interna o esterna, a vista.
La verità strutturale per cui un edificio romano sta in piedi, assolvendo al suo ruolo statico, è molto diversa da quella che, in genere, appare a prima vista; dando questa particolare risoluzione al problema della costruzione gli architetti romani si allontanarono da quanto aveva espresso sin allora l’architettura greca.
Anticipazioni si registrano nel mondo ellenistico.
La maggiore carica innovativa della tecnica costruttiva ellenistica fa sì che — sia pur a fronte dell’abitudine prevalente alla struttura muraria massiva ed omogenea secondo la “maniera greca” — già prima delle esperienze romane la concezione di una costruzione muraria “composita”, “stratigrafica”, con uso contestuale di materiali diversi, trovi i suoi primi, anche se limitati, esperimenti applicativi.
Recependo tali innovazioni, in ambito romano il muro — ovvero quella parte della costruzione compresa fra il piano di spiccato e il piano di appoggio delle coperture — è riguardabile come struttura composita e specializzata fatta di molteplici materiali, di strati a funzioni diversificate, organizzati e gerarchizzati dall’interno verso l’esterno.
In genere è dato un nucleo murario portante centrale a cui si sovrappone una serie di strati che “ingrossano” lo spessore dell’ossatura muraria (sia verso l’interno che l’esterno) utilizzando cocciopesti, intonaci di calce, intonaci colorati con pitture ad affresco, encausti, stucchi, rivestimenti lapidei a spessore e, dall’epoca imperiale, anche lastre sottili di marmi policromi, mosaici in pasta vitrea, laterizi a vista.


Roma. Foro di Traiano: ricostruzione dell’interno della biblioteca

L’ossatura muraria, in forma di solido resistente e di sostegno alla copertura, è, in genere, obliterata; gli strati superficiali di rivestimento in continuità materica e coloristica, delimitano e definiscono lo spazio “azzerando” ogni evidenza della struttura portante.
La struttura muraria portante risulta, generalmente, tripartita, ovvero composta da tre strati materici: due cortine all’esterno e un nucleo interno, di più rilevante spessore, in calcestruzzo.
Nella composizione del nucleo centrale fa da protagonista l’opus caementicium, un materiale destinato a rivoluzionare i sistemi di costruzione dell’architettura antica e a promuovere una grandiosa “architettura spaziale” in cui un ruolo essenziale è svolto dalla malta di calce (materia) quale elemento aggregante rispetto ai “rottami” (caementa) di pietra o di laterizio cotto che costituiscono l’ossatura del calcestruzzo stesso allettati a mano nella malta molto fluida da maestranze non necessariamente qualificate (come quelle preposte alla realizzazione dei paramenti murari).
Privo di cortine, l’opus caementicium è comunemente impiegato unicamente in fondazione; in spiccato, invece, è utilizzato sempre come nucleo interno, in abbinamento con casseforme-cortine molte variegate per tipologia, morfologia e dimensioni dei materiali costitutivi. Tali cortine risultano generalmente formate da elementi — sia nel caso di utilizzo di pietre naturali che di prodotti “artificiali”, quali i laterizi cotti — con una morfologica a “cuneo” (rigorosa nell‘opus reticolatum e nell’opus testaceum, meno definita ma sempre presente nell’opus incertum e nell‘opus vittatum). Questa particolare morfologia a “bietta” è finalizzata ad ottenere — verso l’interno — la compenetrazione degli eterogenei materiali costitutivi (nucleo-paramenti) e — verso l’esterno — una parete completamente pareggiata e complanare idonea ad accogliere qualsiasi altro strato di rivestimento superficiale da lasciare a vista.
Fra le fonti antiche Vitruvio, nel secondo capitolo del De Architectura, precisa con una certa cura le caratteristiche delle diverse tipologie di opus romani esplicitando la peculiarità della nuova concezione costruttiva romana a base essenzialmente concretizia e confrontandola con la tradizione greca e il tardo aggiornamento ellenistico che introduce — come già accennato — murature miste ad emplecton, preludio degli sviluppi romani delle murature composite.
Rimane da esplicitare il motivo per cui i romani dissimularono a tal punto l’ossatura muraria portante (rifiutando ogni apporto estetico dell’elemento strutturale), eleggendo, invece, il rivestimento a vero protagonista dell’immagine architettonica.
Siamo di fronte, indubbiamente, alla maturazione di una sensibilità alla forma architettonica diversa da quella derivante dalla concezione trilitica greca o peristilia ellenistica. L’obliterazione delle membrature costruttive si accompagna, in genere, nell’architettura romana, a un occultamento della loro tettonicità, della loro gerarchizzazione e differenziazione strutturale, sfruttando soluzioni di “ricoprimento” delle murature verticali e delle ampie ed avvolgenti volte, veri dispositivi innovativi della concezione architettonica romana.


Ricostruzione assonometrica di un edificio termale romano tratto dal Voyage d’Italie di Eugéne Viollet-Le-Duc

«Nell’arte romana — evidenzia con grande acutezza Sergio Bettini — le volte e le cupole hanno la funzione figurativa fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere quell’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate anche tutte le forme particolari. È questa totalità spaziale, appunto che determina il significato propriamente architettonico degli edifici romani, e costituisce il punto di partenza per l’esatta comprensione delle forme particolari che in essa vengono assorbite; non sono le forme singolarmente prese o un accostamento di forme singole. Già dagli inizi, dalla stessa adozione della tecnica cementizia, l’accento dell’architettura romana è posta, non sull’elemento, alla maniera greca, ma sul legamento, cioè sull’unità complessiva della fabbrica.» 2

Gli esempi dell’illusionismo strutturale rintracciabili nell’architettura romana sono molteplici (anche in complessi dove sicuramente non esistevano limitazioni economiche o di competenze tecniche); fra tutti possiamo citare il caso particolarmente significativo delle piattabande in mattoni foderate con lastre di marmo a simulazione di grandi architravi monolitici sia nel Cortile dei pilastri dorici che nel Teatro marittimo della “Villa tiburtina” a Tivoli dell’imperatore Adriano.
In fondo le “finte architetture” da rivestimento, con pitture dipinte, placcature marmoree, mosaici, stucchi ecc., perseguono tutte la medesima finalità; gettare sulla parete una “veste” che trasmetta una qualità estetica superiore a quanto sarebbe stato possibile per altra via.
Non dissimilmente riteniamo che nella maggior parte delle architetture contemporanee in pietra si continua ad operare attraverso la tecnica (e i linguaggi architettonici conseguenti) del ricoprimento, del rivestimento, della “maschera litica” simulacro ed evocazione, allo stesso tempo, della mitica struttura monolitica delle civiltà costruttive mediterranee preromane.

Alfonso Acocella

Note
* L’articolo è apparso in forma originaria nella rivista And n. 18, 2010, pp. 43-48. Si ringrazia il direttore Paolo Di Nardo per la concessione alla rieditazione.
1 Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1990 (ed or. 1978), pp. 147
2 Tadao Ando, “Luce” (1993) in Tadao Ando, Milano, Electa, 1994, pp. 521.

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