15 Novembre 2006
Opere di Architettura Pietre dell'identità
Chiesa del Santo Volto di Gesù a Roma
di Sartogo Architetti Associati
Il rosone di Claudia Accardi
Massiva, articolata, la Chiesa del Sacro Volto di Gesù presta alle percorrenze automobilistiche il fianco ed il dorso, raccogliendo i fedeli sul sagrato rialzato adiacente il camminamento pubblico. Su questo quasi si protendono a richiamo le campane e da qui, attraverso una breve e rigorosa diagonale, ci si pone in dirittura della Croce monumentale. Il percorso accelera la percezione d’acquisizione del monumento ravvicinando rapidamente i setti perimetrali del luogo sacro e dei volumi di completamento a fronte, con geometria fortemente convergente in pianta e netta separazione volumetrica di chiesa e costruito antistante, filtro alle preesistenze residenziali oltre lotto. Motivata in modo chiaro dai progettisti come attenzione significativamente volta al senso di percorrenza verso la Croce, alla sagoma convergente è ampiamente riconosciuta, in visuale opposta, la valenza simbolica d’abbraccio alla città, trovando precedenti romani assoluti nel Sant’Ivo borrominiano. All’attiva domanda della comunità di quartiere desiderosa del luogo per il culto risponde la scelta programmatica della progettazione estesa, in certo qual modo partecipata, condotta in èquipe fra gli architetti Sartogo e Grenon e la selezionata cerchia di pittori e scultori convocati a concertare il programma di realizzazione dell’architettura e contestualmente della traduzione artistica della comunicazione liturgica. Esposta alla critica, l’opera guadagna giudizi positivi, pur registrando alcune osservazioni sulla tettonica ritenuta da taluni non pienamente convincente, sulle tonalità decise degli annessi, sugli esiti formali additati come post-modern, sulla tipologia ricondotta alle soluzioni “a capanna” in quanto prassi diffusa scartante l’opzione della gerarchia degli spazi fra aula principale ed ambiti più raccolti. Ma come ben fissato in parole da Calvino, la capacità di alimentare il dibattito dagli umori più vari è attitudine dei gesti artistici significativi.
Presenza e assenza della cupola
Oltre ai talenti d’impianto e di programma, l’opera giunge particolarmente al fruitore per lo spiccare notevole del corpo semisferico centrale, da alcuni ritenuto partecipare alla citazione dell’elemento ‘cupola’ mediante fogge più proprie dell’uso mediorientale piuttosto di quello latino. Il volume si mostra infatti netto, puristicamente vestito di lastre litiche dall’impatto esteriore omogeneo ed è solo lievemente scalfito dalle leggere spigolature del rivestimento in conci di geometria definita precisamente in travertino romano. Nel complesso esso risulta quale elemento ordinatore dell’intorno, pianeta attorno a cui gravita il costruito circostante. Quanto invece al suo rapporto con i pieni e vuoti in cui si articola interiormente il progetto, venendo dunque alla significatività della porzione mancante della sfera ed agli esiti architettonici con cui quest’assenza prende in verità corpo, è stato più volte già scritto da altri. L’analisi di Massimo Locci sul numero 58/05 del Bimestrale dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia ci pare più di tutte entrare in profondità: “I concetti di assenza e virtualità, che Sartogo padroneggia dagli anni Sessanta, grazie anche al rapporto stretto con il mondo dell’arte, sono qui intesi come segni forti e strutturanti, capaci di decostruire la massa edilizia, sezionarla e scomporla in più elementi, come se una faglia orizzontale avesse attraversato il manufatto (“l’architettura è un genere che vuole essere attraversato”) facendo emergere il corpo architettonico che era inglobato nella sagoma, come un calco michelangiolesco dello spazio in negativo. Non a caso “Vitalità del negativo”, una mostra che ha segnato una generazione, è stata allestita nel 1970 al Palazzo delle Esposizioni proprio da Piero Sartogo e Achille Bonito Oliva. Quest’ultimo a tal proposito evidenzia: “Sartogo ha sempre lavorato tra l’interno e l’esterno, tra il pieno e il vuoto, creando una sorta di spazio dell’eco, uno spazio di rimbalzo dello sguardo (…) ha lavorato sul dormiveglia che credo sia l’ossatura, la nozione fondante dell’arte; quel luogo del confine in cui si può delirare ma in cui si può anche riflettere”.
Una veduta da via della Magliana
Travertino romano
Il ricorso esteso al travertino romano ci pare assuma significati molteplici: dall’affidamento alle risorse ed alle parallele suggestioni del genius loci, all’assonanza ed al richiamo fisico alle realizzazioni romane alte dell’antico testimoniato nelle più parti della città, come pure del moderno con riferimento speciale all’Eur. Il tono elevato conferito dalla scelta materica coincide con l’esito della valorizzazione della spazialità sacrale; l’applicazione in interno e parimenti in esterno costituisce legante sottile tra vita pubblica e spirituale. La specificità del tipo romano classico, entro la famiglia comune ai travertini delle rocce sedimentarie calcaree, risiede nella provenienza dalle zone ai margini del vulcano laziale, in particolare da Tivoli. Il lapis tiburtinus, il conseguente nome comune latino, introduce in modo pacato e solenne all’ampio spazio sacro, in cui ambiti definiti sono prescelti per alloggiare tonalità forti spiccanti nella luminosità d’insieme. La cortina vitrea, vicendevolmente occhio verso il cielo e verso l’aula, cela entro rivestimenti leggeri l’arditezza dell’ingegnerizzazione dei suoi sostegni: la cupola si regge infatti senza ausilio di pilastri, a sbalzo rispetto alla struttura circolare in acciaio a mozzo eccentrico del diametro di 20 metri circa a tenuta del rosone in cristallo. Al centro è mancante il viso del Christus Pathius in fusione di ghisa per opera di Jannis Kounellis, mentre la concezione figurativa del rosone si deve a Carla Accardi. L’imponente croce svettante al fulcro visivo di chi accede è di Eliseo Mattiacci, di Giuseppe Uncini il filtro in tondini metallici posto a cancellata. Mimmo Paladino si misura all’interno con le stazioni della Via Crucis sviluppando il tema dei quattro elementi; gli apporti scultorei di Chiara Dynys, le filigrane del volto di Gesù di Pietro Ruffo e le pitture murali di Marco Tirelli completano il programma artistico permanente.
Le fotografie a corredo del testo sono gentilmente messe a disposizione da Giovanni Rinaldi, travel photographer cui è indirizzato lo speciale ringraziamento non solo per la condivisione degli scatti, ma per la documentazione interpretativa dell’architettura.
sartogo_album
di Alberto Ferraresi
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7 Gennaio 2007, 17:41
luigi 38
bellissima!!!!! ma manca una Croce sulla cupola