3 Luglio 2006
PostScriptum Produzione e cultura di prodotto
Le seduttive pietre liquide dell’architettura digitale
Dettaglio del rivestimento litico Hyperwave Dunes di Pongratz Perbellini Architects.
Caro Davide,
anche io approfitto della vostra ospitalità per lanciare il mio piccolo sassolino nel web-ocean. Spesso, con Christian Pongratz, ci ritroviamo a discutere sulla possibilità di “esserci” in architettura. Abbiamo conosciuto culture, pensieri, linguaggi, luoghi del mondo. Prima di iniziare a comporre, abbiamo studiato la storia della composizione, le sue regole e i suoi canoni.
Non basta. Per esserci, non basta.
Allora osserviamo gli altri, prendendo alla lettera l’insegnamento di Peter Eisenman con il quale abbiamo lavorato, perchè si può arrivare a definire se stessi cercando di capire il discorso altrui (Terragni = Eisenman), non per essere migliori ma differenti. Un discorso proprio avanza la questione dell’identità e della consistenza di una pratica dell’architettura oggi. Vorrei però spingere la riflessione al di là di determinazioni contestuali (operative, materiali) o stilistiche (artistiche, interpretative).
Quali sono i fattori cruciali per un’identità “evolvente” che non è per forza un “brand” e che deve confrontarsi con processi esterni in continuo cambiamento?
Aggiungo un’ulteriore riflessione: la ricerca che stiamo portando avanti ormai da qualche anno su ciò che mi piace definire “latenze litiche” è stata da noi considerata fin dall’inizio come un progetto-processo non finito che si relaziona trasformandosi attraverso percorsi digitali tra loro connessi. La serie “Hyperwave” in qualche modo destabilizza ciò che è già noto e rimanda a potenzialità allusive, immaginifiche, seduttive ed emozionali.
Nel vivace blog si parla di leggerezza della pietra ritrovata, aggiungerei morbidezza, qualità sensoriali che il disegno tridimensionale tira fuori, accentua, risveglia. Ma ci sono anche le nostre intuizioni creative di mezzo, le scelte da fare, le decisioni da prendere, il punto di partenza (che non è l’inizio), il coinvolgimento di altre figure e discipline, la velocità, l’interesse suscitato e le critiche (per alcuni, sono “solo” superfici), insomma un fiume in piena “dentro”, la pietra “fuori”. E la pratica dell’architettura come l’intendiamo noi si pone come l’attivazione di un’architettura sperimentale che coinvolge ambienti fisici adattabili e tattili, che circondano i nostri corpi fisici e concettuali.
Come ho già scritto parlando di Ipersuperfici, “ne risulterà un’integrazione continua di informazione, tecnologia e utenti, che genererà una superficie sensoria senza fine nè limiti. L’architettura – e i suoi elementi coesivi individuati all’interno di involucri sensibili, insieme con un’interiorità interattiva delle parti – imita un sistema malleabile infinitamente privo di limiti”, incompleto, liquefatto.
Maria Rita Perbellini
Restituzione digitale del progetto Grotta di Pongratz Perbellini Architects.
Cara Maria Rita,
ti ringrazio innanzitutto per il contributo che dai, ancora una volta, alla crescita del blog come luogo di incontro e di dibattito sul tema dell’architettura contemporanea, non solo litica. Il tuo intervento consentirebbe di aprire diversi tavoli di confronto, primo fra tutti quello dell’identità e della consistenza di quella pratica architettonica che oggi si inscrive consapevolmente nell’universo ideativo e operativo digitale.
Se, negli ultimi anni, il dibattito pubblico circa le potenzialità generali delle interfaccia informatica e della realtà virtuale è stato relativamente aperto e fertile, la discussione sulle implicazioni di tali strumenti per l’architettura “è stata espressamente smorzata. Mentre alcuni critici schietti, come William Mitchell, si sono coraggiosamente fatti avanti nel tentativo di affrontare questo fenomeno ed analizzarne i possibili risultati, nessun manifesto è apparso al fine di delineare una visione coerente dei drastici cambiamenti della realtà fisica attualmente in corso.
Il grande dibattito epico che ha accompagnato la Rivoluzione Industriale, eloquentemente guidato da John Ruskin, William Morris e Thomas Carlyle ha cambiato la direzione dell’architettura nel secolo successivo, sebbene nessuno di questi grandi vittoriani fosse architetto. […] Nessuna evoluzione simile potrebbe aver luogo nel prossimo secolo (o prima, dato il rapido ritmo di cambiamento) senza una simile analisi, che andrebbe incoraggiata.
Un motivo di silenzio può essere la rapidità con la quale questa trasformazione elettronica è avvenuta; è molto più eccitante e significativo prendere parte a una rivoluzione piuttosto che parlarne solamente, ma i segni di quello che è stato definito “sonnambulismo tecnologico” indicano un fenomeno molto più profondo”1.
Forse, dunque, le responsabilità di tale innegabile carenza di dibattito sono da attribuire in parte all’atteggiamento dei progettisti stessi, di quegli architetti della cosiddetta “rivoluzione digitale” spesso portatori di identità multiple e ibride, caratterizzate da percorsi culturali e professionali di transito e metamorfosi; o forse, in parte, al disimpegno e disinteresse di una critica d’architettura sempre più debole; o, ancora, alcune concause si potrebbero individuare in ordini superiori di problemi, quali ad esempio il conflitto tra la pur forte fascinazione per l’evoluzione tecnica – che ancora viviamo e livello inconscio – e le grandi paure nei confronti della tecnologia che ci sovrastano a livello globale dalla seconda metà del secolo scorso (proliferazione nucleare, surriscaldamento terrestre e degrado ambientale, fine teorica nella fede collettiva dell’idea di progresso); certo è che gli spazi lasciati dalla contemporaneità allo sviluppo di basi di confronto e approfondimento critico sono sempre più ristretti, non è più epoca di forti modelli teorico-programmatici e, specificatamente, la carenza di discussione sull’architettura digitale permane, solo in parte colmata da alcuni importanti, anche se episodici, recenti contributi2.
Cara Maria Rita, il tema dell’identità dei “Nati con il Computer” mi appare più che mai ampio e complesso e mi limito per ora a lasciarlo aperto, a livello di semplice spunto problematico, per un auspicabile dibattito da sviluppare sul blog, confidando nella ormai collaudata vivacità del nostro spazio di confronto; vorrei soffermarmi invece, ancora una volta, sull’osservazione dei progetti in cui tu e Christian Pongratz applicate la modellazione digitale alla materia litica.
Chi definisce sbrigativamente Hyperwave e Grotta come semplici superfici di rivestimento esprime, a mio avviso, un giudizio riduttivo e semplicistico e rischia di non vedere la forte carica concettuale insita in tali esiti progettuali. Mi pare utile quindi riflettere sul vostro lavoro, collocandolo sullo sfondo di quella storia della composizione architettonica a cui tu stessa fai riferimento, osservandolo in un contesto di possibili riferimenti figurali certo lontani nel tempo ma forse molto vicini concettualmente, proprio perchè condivido in pieno l’affermazione secondo la quale “si può arrivare a definire se stessi cercando di capire il discorso altrui” e senza ricadere, spero, negli eccessi stilistico-interpretativi che tu non desideri.
Se in Grotta e nei rivestimenti architettonici della serie Hyperwave la materia litica piegata, ondulata, increspata, si offre ad una stimolante interazione sensoriale visiva e tattile, ecco che per accostamento analogico di immagini è possibile attivare una stretta relazione con le composizioni scultoree ed architettoniche manieriste, barocche e tardo-barocche, con le loro potenzialità allusive ed immaginifiche, sovversive del già noto, con le loro qualità sensoriali ed emozionali amplificate.
Bernardo Buontalenti, Scalinata della tribuna di Santa Trinita a Firenze, oggi
in Santo Stefano al Ponte, 1577. (foto e rielaborazione Davide Turrini)
Le morbide pietre concepite con la modellazione digitale, formate dalle moderne macchine a controllo numerico e spesso, ancora, rifinite grazie al sapiente magistero manuale di artigiani-scultori, si possono riguardare come proiezioni contemporanee della tensione, più volte manifestata nella storia dell’architettura, di esprimere con la pietra qualità sensoriali di “turgida carnosità”, trasferite a membrature decorative, ma anche a veri e propri elementi strutturali e costruttivi, da altri luoghi fisici, materici e mentali, da contaminazioni di volta in volta nate negli “attraversamenti interiori” dei progettisti.
L’interpretazione della pietra come materia malleabile e plasmabile, capace di dar vita a prodotti espressivamente plastici, lucidi e levigati, caratterizzati da superfici tridimensionali sinuose e continue, vede l’atto dello scolpire, del liberare per asportazione la figura dal blocco, come un passaggio meramente strumentale per pervenire ad un risultato concettualmente riconducibile ad un momento creativo di modellazione in positivo. Tale atteggiamento, portato ai massimi esiti espressivi dalla cultura barocca, è stato più volte riattualizzato in stagioni artistiche diverse fino alla contemporaneità, e di volta in volta i gradi di esplicitazione dei riferimenti storici sono stati diversificati.
Francesco Generini, Fontana dell’acquedotto mediceo di Ferdinando II a Firenze, 1638. (foto e rielaborazione Davide Turrini)
Nel caso specifico di Grotta e Hyperwave a supportare l’analogia delle immagini che si è instaurata sono proprio le parole di Christian Pongratz nel momento in cui dichiara una serie di interessi per alcune specifiche stagioni della storia dell’architettura: “Currently, our research looks back into past èpoques such as the Baroque and Jugendstil architecture in a sort of rereading. We are interested in their expressions, which blur through its plaster decorations the traditional forms of functional inscription of space. This form of decorative non-functional inscription changed the known order of space perception with excess”3.
D’altra parte l’accostamento diretto tra l’esperienza della progettazione digitale ed alcune importanti categorie concettuali barocche – quali l’eccesso, la sorpresa, l’inganno, la successione e i mutamenti repentini di stimoli sensoriali sempre nuovi e diversi, la percezione dinamica dell’architettura, il sovvertire le coordinate consolidate di progettazione e percezione dello spazio euclideo – è stato più volte messo in campo da alcuni teorici dell’era digitale, e principalmente da Derrick De Kerckhove nella sua definizione di “neo-barocco elettronico”: “Il Barocco ha rappresentato l’esplorazione dei sensi […]. Era la traduzione di ogni cosa sensoriale, la trasmissione dal tattile al visivo, ma anche la trasmissione del visivo in tatto. Oggi ci troviamo ad esplorare tutti i sensi, ad ascoltare con tridimensionalità la realtà virtuale, ci troviamo ad esplorare i sensi come la gente del barocco; ma il nostro è un neo-barocco elettronico”4.
Non ci si soprenderà quindi nell’osservare ulteriori sperimentazioni, (puramente virtuali o applicate ad altri materiali oltre alla pietra, quali la carta, il legno, la plastica), che partendo dal mondo ornamentale del barocco sei e settecentesco approdano ai luoghi del barocco digitale in cui “architetture impossibili”, fatte di membrane, di intersezioni multiple di piani inclinati e fasci di luce, rimangono sospese in quel cyberspazio in cui le leggi della statica perdono di senso, sostituite da algoritmi frattali portatori di interazione e vie d’uscita molteplici5.
Le esperienze in tal senso sono numerose; tra le più significative si può ricordare il progetto Rococo Relevance di Luc Merx e Christian Holl incentrato sulla realizzazione con macchine a controllo numerico di forme complesse, bidimensionali e tridimensionali, ottenute rielaborando al computer le fastose ed esuberanti geometrie tardo-barocche dei Dientzenhofer e di Balthasar Neumann6.
Le sinuose membrane del progetto Rococo Relevance di Luc Merx e Christian Holl.
Se l’architettura digitale attualizza l’intero universo creativo barocco in tutte le sue manifestazioni, si dimostra capace di ripartire da esso per sviluppare, grazie ai potenti strumenti informatici, una ricerca assolutamente autonoma ed inedita nei campi della non-linerità e della interattività, conferendo un rinnovato valore semantico al concetto di simulazione, in rapporto al processo di virtualizzazione che caratterizza l’immaginario contemporaneo nella sfera progettuale in generale e in particolare nei campi dell’industrial design e dell’architettura.
Progetti come Grotta ed Hyperwave sono certo intrisi del portato concettuale di quella certa tradizione artistico-culturale che si è cercato di delineare, ma sanno metabolizzarlo inaugurando una concezione rinnovata della forma, dello spazio architettonico e, soprattutto, della produzione del sistema costruttivo.
Per comprendere appieno tale processo non si può prescindere dalle nozioni di leggerezza, mobilità, variabilità associate alle metafore di fluidità e liquidità già fissate concettualmente da Zygmunt Baumann nel settore sociologico7 e già applicate da Livio Sacchi al contesto dell’architettura contemporanea; e per chiarire la più intrinseca carica innovativa di tali esperienze bisogna osservare le mutazioni che esse impongono allo status del fruitore, di chi percepisce e pratica le composizioni dinamiche generate dagli strumenti digitali. Di fronte alla liberazione dalle costrizioni formali, dalla fissità dello spazio architettonico, dalla rigida solidità delle superfici che lo individuano; di fronte, in estrema sintesi, alla negazione delle più usuali “geometrie della pietra” fatte di blocchi e lastre bidimensionali ora soppiantate dalla rivelazione di un universo di avvolgenti forme litiche, il corpo umano “non è più un’astrazione cartesiana, condannato a muoversi su piani orizzontali la cui sfera cinematica è rigidamente separata da quella visiva, mentre quest’ultima continua a misurarsi contro un orizzonte fisso e infinitamente lontano.
È piuttosto un corpo per il quale l’esperienza motoria e quella sensoria sono una cosa sola, per il quale non c’è visione senza movimento e non c’è movimento senza visione: percezione e azione si articolano come modalità della de-formazione strutturale, la cui sintesi è costituita dal processo costruttivo. Un corpo che trova nell’architettura una pervasiva e avvolgente protesi spaziale in grado di amplificarne a dismisura le capacità d’interazione con l’ambiente, fino al punto in cui non è facile dire dove il corpo stesso termini […].
In termini geometrici, l’attacco al sistema cartesiano si traduce in un parziale superamento dello spazio euclideo in favore di un’adesione ai più ampi margini di libertà consentiti dalla topologia. Le parole chiave sono fluidità, viscosità, connessione, all’interno di logiche compositive legate all’universo delle curve e alle rotazioni e piegature delle superfici, a trasformazioni elastiche continue più o meno metaforicamente derivate dall’idea di complessità sviluppata da Gilles Deleuze; complessità al cui interno, non casualmente, compare l’etimo plesso, come intreccio o piegatura fisica quanto concettuale, come processo dinamico conformativo. La griglia della tradizione prospettica occidentale si evolve in una rete, nell’ossimoro di una “superficie tridimensionale”, in una griglia morbida o “bagnata”, qualcosa che, ancora una volta, riconduce agli stati liquidi della materia, incoerenti, instabili, variabili, suscettibili di continue trasformazioni”8.
Città della cultura della Galizia a Santiago di Compostela di Peter Eisenman.
Le “liquefazioni” della forma e dello spazio architettonico appaiono ancora più dirompenti se applicate al disegno della città e del territorio: progetti come Grotta, di Christian e Maria Rita, o come la Città della Cultura galiziana di Peter Eisenman, maestro dell’architettura digitale, permettono di osservare tale salto di scala ancora una volta nel segno unificante dell’utilizzo della pietra, consentendo inoltre di continuare ad accostare, in modo spericolato ma forse fecondo, esperienze creative lontane nel tempo e nel contesto in cui hanno avuto origine, per scoprire probabilmente che non sono poi concettualmente così distanti e che ci aiutano a comprendere meglio il presente.
In Grotta la pietra dà vita ad una superficie continua e morbida che segue le forme sinuose del paesaggio collinare cercando un’organica integrazione con l’ambiente naturale. L’imponente città di Eisenman a Santiago de Compostela rappresenta l’applicazione della geometria topologica alla scala del paesaggio: l’opera, iniziata nel 1999 e ancora in corso di completamento, con i sei grandi edifici dai “liquidi” manti di copertura ondulati rivestiti di lastre litiche, è concepita secondo una nuova idea di urbanismo in cui architettura e topografia si fondono per diventare figura9.
Giovanni Michelucci, schizzi per un centro sperimentale del marmo dedicato a Michelangelo a Foce di Pianza (MS), 1972. (Fiesole, Fondazione Michelucci)
L’insediamento, inciso nel terreno, completamente nascosto sotto la scorza corticale esterna, sembra generato da un sommovimento pulsante di zolle, da un moto tellurico di placche tettoniche e si configura come una formazione orografica di gradoni, platee, creste e crinali, rigonfiamenti e sprofondamenti carsici della crosta terrestre che richiama alla mente alcune immagini legate al fertile mondo ideativo di Giovanni Michelucci ed in specifico alle prefigurazioni sviluppate dall’architetto all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per un centro sperimentale del marmo dedicato a Michelangelo.
Franco Miozzo, Il Mare, 1977. Pietrasanta, Banca di Credito Cooperativo della Versilia. (foto Davide Turrini)
L’applicazione digitale, alle diverse scale, evolve tensioni creative da sempre presenti nel disciplinare artistico e architettonico fornendo inedite chiavi di accesso e sviluppo al processo progettuale e produttivo, non replicando semplicemente il già visto con un maggior grado di accuratezza e di sofisticazione, ma stimolando e generando nuovi comportamenti ideativi, percettivi e fruitivi.
In questo contesto Grotta e Hyperwave rappresentano i primi tentativi di condurre, nella sua interezza, il percorso che va dalla progettazione spaziale, passando per i vari momenti di modellazione e simulazione, fino alla costruzione di una realtà architettonica fisica e non solo virtuale, attraverso la concezione e la produzione industriale dei sistemi costruttivi e dei componenti tecnologici necessari per dar forma a tale realtà. Sono esperienze che pongono una sfida ai nostri occhi ancor più interessante, proprio perchè coinvolge la materia litica naturale, rendendola protagonista di un radicale processo di innovazione.
Si tratta certo di applicazioni di frontiera e per questo lasciano aperti numerosi interrogativi inerenti al perfezionamento del sistema costruttivo e agli aspetti economici del processo produttivo.
Davide Turrini
Note
1James Steele, Architettura e computer. Azione e reazione nella rivoluzione digitale, Roma, Gangemi, 2004, (I ed. inglese 2001), p. 16.
2In proposito oltre al già citato volume di James Steele si ricordano: Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer. Giovani architetti americani, Torino, Testo & Immagine, 2000, pp. 93; Livio Sacchi, Maurizio Unali (a cura di), Architettura e cultura digitale, Milano, Skira, 2003, pp. 245.
3Christian Pongratz, Tactile vision – experience architecture, saggio inedito tratto dalla lecture del 2003 al Busan Korea International Architectural Design Seminar.
4Derrick De Kerckhove, Il neo-barocco digitale, http://www.mediamente.rai.it/home/biblioteca/interviste, 31-05-1996.
5Un interessante sguardo critico sul rapporto tra cultura digitale e architettura barocca si trova in Paolo Portoghesi, “Architettura di superfici” pp. 201-211, in Geoarchitettura, Milano, Skira, 2005, pp. 215.
6Per un approfondimento sulle esperienze neo-barocche di Merx e Holl si veda Luc Merx, Christian Holl, “Rococo Relevance”, pp. 44-57, in AA.VV, Verb Conditioning. The design of new atmospheres effects and experiences, Barcellona, Actar, 2005, pp. 261.
7Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2002, (I ed. inglese 2000), pp. 272.
8Livio Sacchi, “Liquid Room” p. 214, in Livio Sacchi, Maurizio Unali (a cura di), op. cit.
9Si vedano: Isotta Cortesi, “City of culture, Santiago de Compostela. Peter Eisenman”, Area n.66, 2002, pp. 36-47; Robert Ivy, “Challenging norms: Eisenman’s obsession”, Architectural Record n. 10, 2003, pp. 82-86; Silvio Cassarà (a cura di), Peter Eisenman. Contropiede, Milano, Skira, 2005, pp. 208.
4 Luglio 2006, 10:39
damiano.s
Seduzione della pietra liquida?
È come dire il fascino dell’acqua asciutta…
Perchè mai usare la materia, la solidità della pietra, per poi negarla?
L’esercizio di smaterializzazione dei solidi e di materializzazione dell’effimero crea un spreco energetico ed intellettivo che non ha contropartita, non porta a niente se non alla autoreferenzialità.
Non discuto il lavoro di Pongratz e Perbellini sullo studio delle forme e dei nuovi percorsi digitali che ne contaminano le direzioni, ma se esiste, e ne sono convinto, una "latenza litica", questa deve essere colmata nella direzione che la pietra reclama (giusto per fare una citazione cara a Louis Kahn).
Quando la modellazione della pietra è funzionale al costruito, la stereotomia insegna, insegue forme e geometrie che hanno precise ragioni strutturali, sempre secondo un gusto e un decoro del tempo, ma mai prescindendo dalla funzione.
Quando oggi sentiamo parlare delle innovazioni nel campo della pietra, della affannosa difesa delle roccaforti italiane dall’invasioni dei cinesi, e ci viene proposto il granito ultrasottile, il marmo alleggerito, la pietra resinata oleo-idro-occhio repellente, andiamo verso direzioni che, anche se sicuramente valide, non sono sufficienti a colmare le "latenze litiche" sopra citate.
La pietra è materia, è solidità, è texture, è colore, è disegno e venatura, è stratificazione e sedimentazione. La pietra poi dialoga con la luce in maniera sempre diversa, attraverso la propria compattezza o porosità od attraverso la miriade di lavorazioni superficiale che l’esperienza architettonica e il magistero costruttivo ci hanno consegnato.
Non possiamo quindi trascurare nessuno degli aspetti che il panorama litico ci offre, percorrere strade unidirezionali diventa rischioso e, soprattutto, riduttivo.
Un atteggiamento comune ad ogni incontro con una superficie litica è il tatto, non possiamo completare la nostra osservazione di una qualsivoglia pietra in maniera disgiunta al tatto.
Il tatto è un riflesso incondizionato, che accompagna anche l’osservatore disinteressato.
Trovo il tatto più seduttivo della liquefazione della pietra….