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30 Aprile 2008

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I Martinori. Scalpellini, inventori, imprenditori dalla città dei papi a Roma Capitale

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Simonetta Ciranna
I Martinori. Scalpellini, inventori, imprenditori dalla città dei papi a Roma Capitale

Roma 2007, 385 pp., 46 tavv.

Simonetta Ciranna nell’ambito della propria attività di ricerca, ha avuto modo di approfondire alcune tematiche legate all’arte e all’architettura dell’Ottocento romano, pubblicando saggi diversi; quest’ultimo lavoro, in particolare, insieme a contributi di altri autori, focalizza l’attenzione su alcuni personaggi, i Martinori, famiglia di artieri della pietra la cui operosità è sicuramente ancora poco conosciuta. Attraverso l’indagine delle loro vicende di vita e di professione, l’autrice analizza un periodo importante dell’attività e del significato artistico dell’Ottocento, comprese le motivazioni degli obiettivi e dei programmi progettuali che caratterizzano tale contesto cronologico.
La ricerca documentaria, lunga e dettagliata, ha rappresentato, nel lavoro della studiosa, uno strumento immediato e particolarmente efficace che gli ha permesso di delineare un quadro particolareggiato dell’attività imprenditoriale romana di quegli anni; d’individuare e, puntualmente, collegare tra loro presupposti artistici e traguardi sociali dei singoli protagonisti di questo nucleo familiare, interprete di un secolo complesso e testimone della modernità che attraversa tutto l’Ottocento.
Un’indagine dedicata alle maestranze, all’organizzazione dei cantieri, alla lavorazione dei materiali lapidei, all’architettura, all’arte ma, contestualmente, anche al dilagante fenomeno del collezionismo e del ‘recupero’ di marmi antichi, il tutto raccontato con taglio incisivo e in una prospettiva dinamica che mette in relazione mestieri tradizionali, ricerca tecnologica, crescita sociale ed economica con gli eventi politici della nazione.
L’autrice incoraggia il lettore all’approfondimento con un libro di piacevole lettura, ben evidenziando lo stretto nesso esistente tra avvenimenti storici, attività artistica e intraprendenza imprenditoriale. Non si può dimenticare, infatti, che questo secolo ha rappresentato per l’Italia un periodo storico appassionato, vale a dire il momento della conquista della libertà e dell’indipendenza nazionale in cui gli entusiasmi, tra indugi e disillusioni, hanno consegnato un Ottocento più ‘moderno’ e sorprendente.
Il volume, infatti, presenta un caleidoscopio di occasioni, di situazioni, di circostanze, il tutto analizzato attraverso documenti e testimonianze, a supporto delle numerose tappe professionali dei Martinori: un’avvincente e coinvolgente ricostruzione dell’esperienza umana e lavorativa di questa famiglia di ‘scalpellini’ e del substrato che rotea tra le maestranze dell’epoca; attraverso la conoscenza di queste professioni minori, si riesce a far luce nell’intricato tessuto sociale ottocentesco da cui emergono rapporti interpersonali, contesti competitivi e, in particolare, una classe borghese in formazione.

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Luigi MARTINORI, Oratorio del Santissimo Sacramento, particolare della cupola con gli angeli (foto di Gianni Ferrero Merlino).

Simonetta Ciranna (Fortunato, Pietro e Domenico Martinori. Tre artieri della pietra nella Roma dell’Ottocento, pp. 12-136) delinea un accurato ‘profilo’ per ogni protagonista, iniziando dal capostipite Giacomo, scalpellino della romana Confraternita dei Santi Quattro Coronati, impegnato nell’ultima grande impresa della ‘Roma papalina’, vale a dire la riedificazione della basilica di S. Paolo fuori le Mura, successiva all’incendio del 15 luglio 1823; occasione lavorativa questa, peraltro favorita dai rapporti della famiglia con la Curia romana, che segna decisamente l’ascesa economica e sociale del modesto ‘tagliapietre’. L’autrice prosegue approfondendo, in maniera analitica, gli altri personaggi del nucleo familiare: Carolina Pittarelli, vedova di Giacomo, donna volitiva che continua l’attività del marito sostenendo contemporaneamente il peso della bottega e quello del cantiere ostiense; Fortunato, “scultore di ornati e scalpellino” occupato nella continua ricerca di uno ‘status’ specifico, quello di architetto; Pietro, intraprendente e abile artigiano del marmo, impegnato nel ruolo d’impresario emergente nella ricca borghesia imprenditoriale romana; Domenico, dinamico e industrioso personaggio, “il più legato all’aspetto tecnico del suo mestiere” (p. 22); per finire, con il più giovane dei fratelli Martinori, Luigi, pittore e architetto.
Un panorama davvero inedito, lungo un arco di tempo che si snoda dall’inizio alla fine del secolo XIX, che affronta, attraverso le occasioni della famiglia Martinori, anche la situazione culturale e imprenditoriale romana: le peculiarità formative dei protagonisti che frequentano scuole di disegno (San Salvatore in Lauro) e accademie (San Luca) dove agiscono personaggi sintomatici del panorama culturale ottocentesco (Pietro Holl e Gaspare Salvi); le relazioni professionali e le committenze (Virginio Vespignani, Andrea Busiri Vici e Pietro Camporese) che permettono ai fratelli d’operare nei più significativi cantieri ottocenteschi – da S. Paolo f. l. M. (Fortunato, Pietro e Domenico) a villa Torlonia (Fortunato), da S. Maria in Trastevere (Pietro e Domenico) al duomo di Perugia (Pietro e Domenico), dalla colonna dell’Immacolata Concezione in piazza di Spagna a S. Nicola in Carcere (Pietro e Domenico), dai Palazzi Apostolici (Pietro) alla Piramide Cestia (Pietro), dalla piazza del Quirinale (Domenico) alla palazzina Corsini (Domenico) -; l’attività d’inventori di macchinari (tele e lime abrasive, macchine per il taglio e la lavorazione delle pietre) e promotori di nuovi materiali per l’edilizia (pietra di Malta e di Bagnorea) intrapresa da Pietro e Domenico; oltre alla particolare specializzazione di Pietro quale abile conoscitore di materiali lapidei che gli permette di partecipare all’Esposizione Internazionale di Londra, nel 1862, di Dublino, nel 1865, e di Parigi, nel 1867, preziosa occasione quest’ultima in cui riceve stime e consensi per aver ideato un tavolo di marmo istoriato con una raccolta di 120 pietre antiche proveniente dagli scavi nel Palazzo Imperiale sul Palatino.

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Pietro MARTINORI, tavolo composto da una collezione di marmi provenienti dalle “ruine del Palazzo Imperiale sul Palatino”, medaglia d’argento all’Esposizione di Parigi del 1867 (Fontainebleau, castello, appartamento del papa F 3226 C). Al centro lo stemma del pontefice Pio IX.

Viene, così, a delinearsi il ritratto di una particolare ‘categoria professionale’, consolidatasi proprio nell’Ottocento, che, con grande competenza conoscitiva, sagace abilità e ricerca attiva, riesce a esprimere nuove potenzialità sia nell’arte sia nell’architettura.
Un approccio attraente, quindi, per avvicinarsi a mestieri e attività, a volte poco compresi; per conoscere storie ed esperienze umane di artigiani i quali, partendo dalla semplice lavorazione della pietra e dalla sua applicazione nell’arte del costruire, conquistano i più alti livelli della borghesia imprenditoriale ottocentesca. Esecutori in grado di coniugare la tradizione, creativamente rinnovata e contraddistinta da una positiva rivalutazione, con originali forme espressive; la rinascita, quindi, dell’abilità, una volta essenzialmente manuale, degli scalpellini i quali attraverso la fantasia, nelle loro botteghe piene di campioni di travertini e marmi, raggiungono peculiari livelli artistici, come ben delineato nell’attività di pittore e architetto di Luigi Martinori.
Particolarmente interessante appare, sempre attraverso le vicende lavorative della famiglia, il contestuale approfondimento dell’autrice sul diffuso reimpiego dei materiali antichi e delle relative problematiche che ne scaturiscono, legate essenzialmente al rapporto antico-nuovo. A Roma, infatti, sopratutto tra XVIII e XIX secolo, prolifica il fenomeno del collezionismo; curiosità manifestata oltre che dall’amministrazione statale anche da parte di privati facoltosi in continua ricerca di pietre, belle e rare, che possano dare lustro alle loro dimore. Esplicativi di questa ‘affannata’ ricerca sono i ritrovamenti ottocenteschi degli scali marmorari di Roma, come quello del Lungotevere alle pendici dell’Aventino (Statio Marmorum), dove vengono raccolti centinaia e centinaia di marmi – blocchi, fusti di colonna, basi, capitelli, trapezofori, bacini ecc. – non ancora utilizzati e con tutti i segni della lavorazione. Tutto questo suscita grande fermento e, sopratutto, i privati iniziano a commissionare, per le loro abitazioni borghesi, componenti d’arredo di gran pregio con inserti di lastrine di marmi, allo scopo di costituire vere e proprie litoteche. Fra le più famose collezioni viene citata quella di Faustino Corsi ma non deve essere certamente sottovalutata anche quella di Tommaso Belli, entrambi avvocati romani ma anche grandi conoscitori di pietre antiche.
Faustino Corsi, ricordato più volte da Ciranna, è considerato il più autorevole esponente del collezionismo di marmi antichi; insieme a una ricca collezione composta di circa 1.000 campioni, perfettamente squadrati e politi, ha lasciato un ampio trattato sulla materia (Delle pietre antiche), significativo per il tentativo di combinare l’aspetto filologico con le conoscenze scientifiche del momento.
Nel lungo excursus della famiglia Martinori, emerge essenzialmente la figura di Pietro, eclettico personaggio il quale partendo da una semplice condizione di scalpellino presto si afferma quale abile e pragmatico imprenditore “lucidamente mirato a migliorare la sua posizione sociale ed economica” (p. 44); importanti i suoi rapporti con la Curia romana, in particolare con Pio IX, e le relazioni con la Venerabile Arciconfraternita degli Scalpellini dei Quattro Martiri Coronati di cui fa parte sin dal 1843. L’autrice ne ripercorre l’attività illustrandone le varie fasi, le vicende personali, artistiche, politiche e l’ascesa economica derivata, oltre che dalla scaltrezza nell’intessere relazioni e dall’abilità mercantile, soprattutto da una grande conoscenza dei materiali e delle differenti lavorazioni, dalla continua ricerca di alternative soluzioni tecnico-organizzative e di nuovi materiali per l’edilizia.
Pietro, con la sua intraprendenza, ben esemplifica l’evoluzionismo storico peculiare dell’epoca caratterizzato da un eclettico sperimetalismo pluridirezionale, prodotto di un momento di passaggio spinto verso la moderna società industriale e rafforzatosi, nella Capitale, sin dagli anni della Restaurazione ma, più significativamente, dal pontificato di Pio IX, pontefice curioso e attento alle novità.

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La Roma d’inizio secolo si presenta, ancora, come un “centro urbano arretrato e scarsamente produttivo” con uno stato delle industrie deplorevole, essendo ancora assente “una tecnica progredita, una classe … addestrata e disposta ad offrirsi, e soprattutto mancano i capitali indispensabili ad ogni progresso” (A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma 1993IV, p. 30); la città, caratterizzata essenzialmente da “piccoli opifici urbani e rurali”, vive al momento “al margine dell’evoluzione del capitalismo europeo” (ibidem, p. 33).
Solo successivamente, proprio da quell’ambiente, “agitato da accesi interessi materiali e ideali” (ibidem, p. 97), di cui Pietro Martinori rappresenta un valido esponente, prendono le mosse lo sviluppo economico e urbano della Capitale, contraddistinto dalle grandi trasformazioni urbanistiche.
L’autrice riesce a evidenziare il forte intreccio esistente, in questo periodo, fra eventi storici, architettura e arti figurative e come quest’ultime rappresentino una sorta di mezzo ‘promozionale’, di diffusione della conoscenza dell’industria che si va affermando. Ciranna individua e chiarisce, altresì, problemi di datazione e attribuzione, di committenze e di fruizione, ricreando, con grande lucidità e chiarezza, un vero e proprio spaccato dell’intensa vitalità della Roma ottocentesca.
Una ricostruzione ragionata e dinamica che prosegue anche grazie al lavoro degli altri autori.
Monica Capalbi (I Martinori da Scalpellini a imprenditori, da popolo a borghesia, pp. 169-224) riprende a ricostruire, con ulteriori approfondimenti, l’esperienza professionale e umana dei Martinori per inserire – come scrive l’autrice – “un tassello nel capitolo della storia dell’arte e dell’architettura, del cantiere e delle maestranze della Roma pre e post unitaria” e, contestualmente, per “illuminare ed arricchire la storia dell’economia e dell’impresa della Roma ottocentesca” (p. 171). Oltre a tracciare i profili di Giacomo, il capostipite, di Fortunato, di Domenico e di Pietro delinea anche la personalità di Luigi, l’unico dei fratelli che non abbia mai svolto attività di scalpellino, essendosi dedicato, attraverso i suoi studi accademici, inizialmente alla pittura (quadriportico del cimitero del Verano, S. Nicola in Carcere, S. Maria del Suffragio in via Giulia, chiesa degli Agonizzanti, oratorio di S. Maria in via) e, quindi, all’architettura (palazzo del Ministero delle Finanze, edifici d’abitazione in via XX Settembre, via Palestro) con un atteggiamento che non si allontana dall'”accademismo neocinqucentesco” (p. 215). L’autrice affronta, altresì, la figura di Edoardo Martinori, figlio di Pietro, laureatosi nella facoltà di Ingegneria di S. Pietro in Vincoli, espressione di “raffinato intellettuale, viaggiatore, sportivo e conoscitore di lontani mondi” (p. 170).
Marina Docci (I Martinori a San Paolo Fuori le Mura, pp. 225-254) si è già occupata più volte, nell’ambito dei suoi studi e pubblicazioni, di tematiche relative alla basilica di S. Paolo fuori le Mura; in particolare, in questo suo ultimo contributo, prende in esame il ruolo assunto nel cantiere ostiense dai Martinori; incarico questo, ottenuto grazie all’appoggio del cardinale Pier Francesco Galeffi, che “costituirà per Giacomo una sorta di trampolino di lancio, dal quale dimostrare le proprie capacità” (p. 240).
L’autrice rivisita le vicende della basilica paolina dopo l’incendio, le motivazioni che ne determinano la riedificazione oltre che le scelte di cantiere. In particolare, viene analizzato il ruolo assunto da Giacomo nell’esecuzione di alcune basi e dei primi dieci archi in marmo di Carrara della navata centrale; argomento questo analizzato puntualmente anche attraverso un grafico impostato sulla base di un ricco repertorio documentario estremamente importante ai fini della comprensione di un cantiere storico vissuto all’epoca con tanto entusiasmo e risvolti appassionati.
Similmente vengono accuratamente individuati: i problemi pratici che caratterizzano il cantiere; il ruolo svolto da Carolina Pittarelli la quale, anche dopo la morte del marito, continua a “mantenere i contatti con la Commissione, cercando, nei momenti di riduzione del lavoro, di assicurarsi nuovi incarichi per “continuare a mantenere la numerosa sua famiglia”” (p. 250); l’impegno di Fortunato, che continua i lavori del padre, e di Pietro, il quale conclude il rapporto professionale con l’allestimento del pavimento nelle navate laterali. Sicuramente il lavoro intrapreso dai due fratelli in S. Paolo ha rappresentato “il primo approccio alla professione, ma … probabilmente anche un’ottima palestra della quale dovettero fare tesoro, sfruttando poi le ottime referenze ricevute, nei successivi e importanti lavori che entrambi intrapresero sia a Roma sia a Perugia” (p. 253).
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Il ridisegno della piazza del Quirinale, con i nuovi edifici su via della Dataria e la sistemazione della salita di Montecavallo alla cui realizzazione parteciparono entrambi i fratelli Pietro e Domenico Martinori (foto di Gianni Ferrero Merlino).

Gli altri saggi, in cui si articola il volume, approfondiscono ulteriori argomenti: la figura dei Martinori all’interno dell’Università romana degli scalpellini e della Compagnia dei Santi Quattro Coronati e in particolare la posizione di Pietro prima come scalpellino, poi come amministratore finanziario e patrimoniale e, infine, quale protagonista nelle dispute e nel controllo dell’attività professionale delle maestranze (Alessia Pompei, La famiglia Martinori e l’Università degli Scalpellini e Marmorai di Roma, pp. 255-266); la partecipazione di Pietro nell’esecuzione del pavimento nella cattedrale di S. Lorenzo a Perugia, le relative controversie per la selezione del materiale lapideo e l’individuazione delle cave di estrazione dei vari tipi di marmo (Elena Piselli, Le pietre della cattedrale di San Lorenzo a Perugia e le cave da cui furono estratte, pp. 267-274); l’acquisto da parte di Pietro di palazzo Antinori, oggi Gallenga-Stuart, a Perugia legato alla permanenza in città per esigenze di lavoro e alla sua ascesa economica e sociale nel contesto competitivo cittadino (Simona Salvo, Pietro Martinori e palazzo Antinori a Perugia, pp. 275-286); i legami familiari di Domenico con l’architetto Pietro Camporese, presidente della municipale Commissione di architetti e ingegneri, e i suoi rapporti con il Comune di Roma per le opere di manutenzione dei lastricati pavimentali, le relative proposte e creazioni (Patrizia Gori, Domenico Martinori e le strade di Roma capitale: ascesa e declino di un imprenditore, pp. 287-314); per finire con un accurato e puntuale approfondimento sulla figura di Luigi, pittore e architetto (Nicoletta Cardano, Luigi Martinori pittore, pp. 315-324).
A supportare il testo è presente un ricco apparato di disegni e fotografie, sia distribuito lungo il percorso narrativo sia raccolto in tavole a colori.
Si tratta, quindi, di un itinerario selezionato e significativo che ripercorre la storia artistica e architettonica romana dell’Ottocento, di una Roma, forse ancora poco conosciuta, ma vivace, pulsante e produttiva.Maria Grazia Turco

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